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Posts written by Alaricus Rex

view post Posted: 18/4/2014, 11:20 Falliti e usurpatori - Scritti di altri autori
Da «Rudé právo», 12 gennaio 1977:


Falliti e usurpatori


Per quanto alcuni esponenti del mondo borghese parlino della necessità di una pacificazione ideologica, non c’è nulla che comprovi un simile disarmo ideologico da parte dello stesso imperialismo; così ha dichiarato al XV congresso del nostro partito il segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco, il compagno Gustav Husák. Egli ha sottolineato come invece l’imperialismo cerchi forme e metodi nuovi per sviluppare un’offensiva anticomunista e scuotere l’unità dei paesi socialisti, e intensifichi gli attacchi contro la Repubblica socialista cecoslovacca e gli altri paesi socialisti, specialmente contro l’Unione Sovietica.
“Ci attaccano”, ha poi ricordato il compagno G. Husák, “perché stiamo costruendo il socialismo sui principi leniniani, un socialismo che, nella nostra prassi, incarna tutto ciò che e nobile, progressista e umano. Ci attaccano perché stiamo realizzando quegli ideali per i quali hanno combattuto, patito e sono morti i figli e le figlie migliori dei nostri popoli, e per i quali ancora combattono i veri rivoluzionari in tutto il mondo”.
Ogni giorno abbiamo modo di convincerci di quanto siano vere queste parole.
La borghesia odia il socialismo già solo per il fatto che esso ha distrutto il mito del carattere eterno del dominio capitalista, ha posto fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e ha reso accessibile a tutto il popolo ciò che una fascia privilegiata di ricchi vuole tenere solo per sé.
Guidata da un disperato istinto di autoconservazione la borghesia colpisce tutt’intorno all’impazzata, fa tutto il possibile e non si fa alcuno scrupolo pur di arrestare il processo rivoluzionario.
Nel suo tentativo di frenare l’irreversibile processo della sua fine la reazione borghese ricorre ai metodi più svariati, con i quali vorrebbe evitare o allontanare la propria scomparsa. Alle forme brutali dell’anticomunismo ne sostituisce altre meno vistose. Uno di questi nuovi metodi è il “miglioramento” del socialismo, espressione con la quale la borghesia intende la deformazione del socialismo e la sua graduale liquidazione.
In questa “santa alleanza” per dare la caccia alle idee del comunismo, di cui parlavano già gli autori del Manifesto del partito comunista, oggi le classi dirigenti della borghesia impegnano tutto il proprio esteso apparato statale e propagandistico. Con il loro polverone non vogliono soltanto distogliere l’attenzione dalle piaghe e dai mali del capitalismo contemporaneo.
La missione principale di questa moderna crociata è di dissuadere le masse popolari dei paesi capitalisti dai tentativi di ottenere dei cambiamenti, tanto più se cambiamenti rivoluzionari. La sua missione e il suo compito è di acquietare il movimento popolare anticapitalista, minare moralmente e frantumare qualsiasi movimento di sinistra, immunizzare i lavoratori contro le idee del socialismo scientifico, consolidare nella coscienza del popolo l’idea che il capitalismo sia l’unico sistema sociale possibile, duraturo ed eterno.
La gamma dei mezzi con i quali la reazione giustifica questo fine parla da sola: si va dalle leggi discriminatorie contro coloro che hanno idee di sinistra, come succede nella Repubblica federale tedesca, al divieto per i partiti operai di svolgere attività negli stabilimenti industriali, come succede in Francia, ai più svariati metodi di spionaggio e persecuzione ai danni delle persone di orientamento progressista, ciò per cui è ben nota la storia moderna degli Usa, fino alle più sanguinose rappresaglie, nelle quali si “segnala” la marionetta filoamericana Pinochet.
Alla reazione internazionale fa comodo qualsiasi mezzo e qualsiasi alleato. Essa corrompe chiunque si lasci corrompere, comprando sottobanco o in blocco, e fa affidamento anche su transfughi e disertori del campo nemico. Recluta gli emigrati, ma anche i vari falliti che vivono nei paesi socialisti, i quali per vari motivi legati ai propri interessi reazionari di classe, per vanità, mania di grandezza, perché sono dei rinnegati o per inguaribile mancanza di spina dorsale, sono pronti anche a vendere la propria dignità al diavolo.
Nella sua accanita lotta contro il progresso la reazione internazionale cerca di dare l’impressione che esista una sorta di ampio fronte anticomunista, nel quale si sforza di trascinare, accanto ai traditori dichiarati, anche i singoli e i gruppi indecisi o disorientati, e lo fa mascherandosi a volte da “sinistra” o da “comunisti”. Spesso prova a fare l’impossibile: resuscitare anche degli individui politicamente morti, sia nelle file degli emigrati dai paesi socialisti, sia in quelle dei rimasugli dei nemici di classe all’interno di questi paesi, dei rinnegati, fino ad arrivare a vari elementi criminali e asociali. Una delle forme di questa “commovente” collaborazione è la fabbricazione di ogni sorta di pamphlet, lettere, proteste e altre calunnie dozzinali, che sono spacciate per espressione di questi o quegli individui o gruppetti dell’“opposizione”, e poi diffuse nel mondo capitalista con gran chiasso e in modo ben coordinato.
In questa categoria rientra anche l’ultimissimo pamphlet, la cosiddetta Charta 77, che un gruppetto di persone provenienti dalle file della fallita borghesia reazionaria cecoslovacca, nonché da quelle degli organizzatori falliti della controrivoluzione del 1968, ha passato, su commissione delle centrali anticomuniste e sioniste, ad alcune agenzie occidentali.
Si tratta di un libello demagogico, antistatale, antisociale e antipopolare che diffama con grossolane menzogne la Repubblica socialista cecoslovacca e le conquiste rivoluzionarie del popolo. I suoi autori accusano la nostra società perché in essa la vita non è organizzata secondo i loro principi borghesi ed elitari.
Questi usurpatori, che disprezzano il popolo, i suoi interessi e gli organi rappresentativi da esso eletti, si arrogano il diritto di rappresentarlo, chiedono “un dialogo con il potere politico e statale” e vorrebbero ad- dirittura svolgere il ruolo di “intermediario in eventuali situazioni conflittuali”. Questo pamphlet si accorge dell’esistenza del socialismo nel nostro paese solo in un unico caso: nella denominazione della repubblica. Esso muove da posizioni cosmopolite, dalle posizioni di classe della borghesia reazionaria sconfitta, e rifiuta il socialismo come sistema sociale.
Quasi fossero fuori dal tempo e dallo spazio, gli autori del pamphlet si appellano demagogicamente a “importanti valori di civiltà, su cui nel corso della storia si sono concentrati gli sforzi di tanti progressisti”, quali sono le libertà e i diritti dell’uomo. Ebbene, il nostro stato socialista nei documenti internazionali e nelle leggi del paese ha proclamato e garantito, applicandoli nella prassi, i diritti e le libertà più ampie a favore del popolo dei lavoratori, che è l’amministratore di questo paese. Gli ispiratori del pamphlet però, pur usando le stesse parole, hanno in mente qualcosa di completamente diverso: spasimano per “diritti e libertà” a favore dei rimasugli della sconfitta reazione borghese. Essi pensano a quei “diritti e libertà” che permetterebbero loro di poter di nuovo organizzare liberamente un’attività diretta contro lo stato e il partito, di predicare l’antisovietismo e di tentare nuovamente di abbattere il potere statale socialista.
Dopo le disfatte subite nel nostro paese dalla reazione nel 1948 e poi ancora venti anni dopo, questi donchisciotte vogliono gettare i semi di una nuova avventura controrivoluzionaria e precipitare la nostra società socialista nel caos e nell’incertezza.
L’impegno di molte forze progressiste, con alla testa i comunisti, avanguardia del progresso umano, ha davvero portato alla conquista di molti importanti “valori di civiltà”, li ha conquistati però non per la borghesia, bensì a discapito della borghesia. Li ha conquistati a discapito dell’imperialismo, del colonialismo e dei regimi fascisti. E così è stato anche nella nostra storia.
Il nostro popolo, fedele all’insegnamento ricevuto negli anni della crisi, non intende concedere e non concederà a nessuno alcun diritto ad avere una nuova chance controrivoluzionaria. Come ha più volte ricordato il compagno G. Husák, nel nostro paese le rose della controrivoluzione non fioriranno.
Il contenuto del pamphlet per il suo carattere calunnioso non è del resto né nuovo né interessante. La storia dell’anticomunismo ne conosce alcuni ancora più reazionari. Ma queste bolle di sapone sono poi sempre regolarmente scoppiate in breve tempo, sia che avessero dei propri autori o che fossero dei falsi, sia che alla loro creazione fossero legati nomi oscuri oppure noti.
Per loro va bene tutto ciò che è contro il socialismo. Come esempio si può ricordare l’imbroglio imbastito nel 1967 dalla stampa borghese attorno al cosiddetto manifesto degli scrittori cecoslovacchi. Si disse che quel pamphlet era stato firmato da alcune centinaia di nostri scrittori e artisti. Il giornale britannico Sunday Times scrisse persino “l’originale è in mani sicure in occidente” e “per il momento non pubblichiamo l’elenco dei firmatari per evitare rappresaglie da parte del regime”. Il parigino Le Monde si coprì di ridicolo quando escluse categoricamente ogni dubbio sulle singole firme. Si coprì di ridicolo anche l’emittente radiofonica e televisiva britannica BBC che organizzò una tavola rotonda di mezz’ora per dimostrare l’autenticità del pamphlet, e ci cascarono anche dei notissimi scrittori della Germania ovest come Grass, Böll e altri. Furono molti allora gli individui e le istituzioni che caddero nel ridicolo. Qualche anno dopo molto semplicemente confessò la paternità del “manifesto” un certo Pfaff, che ad alcuni compagni dell’emigrazione rivelò di esserselo inventato di sana pianta. Naturalmente di questa brutta figura sul Sunday Times, su Le Monde o altrove non si parlò affatto. Lo scopo era stato però raggiunto: denigrare un paese socialista, calunniare il socialismo. E a questo riguardo anche la peggiore infamia otterrà dalla borghesia una giustificazione morale. E una mancia competente.
Nel caso di quest’ultimo pamphlet non si tratta in realtà di un falso, si e tuttavia registrata una chiara concordanza programmatica degli ispiratori e un’evidente coordinazione dell’iniziativa. Il pamphlet “è stato consegnato ad alcuni giornali occidentali accuratamente scelti”, dichiara il britannico The Guardian. “Nella Repubblica federale tedesca e stato distribuito agli esponenti dei principali giornali occidentali”, ha scritto il corrispondente da Bonn del Times, aggiungendo che “la fonte che lo ha messo a disposizione (si intende: il pamphlet) non desidera essere menzionata”. Lo capiamo bene, in quanto sarebbe chiaro a tutti che gli autori del pamphlet sono agenti delle centrali dell’anticomunismo.
Il pamphlet, secondo un piano accuratamente concordato, e stato pubblicato contemporaneamente in diversi luoghi del mondo capitalista. Un ruolo decisivo lo hanno svolto le centrali dell’anticomunismo. Non è chiaro, del resto, chi può celarsi dietro questa iniziativa? Quelli che si dichiarano autori del pamphlet non hanno certo un’influenza del genere. Danno a credere di combattere per il progresso, ma intanto sono impantanati fino al collo al servizio della più nera reazione imperialistica.
Come per un ordine prestabilito il pamphlet è caduto nel pieno di una campagna diffamatoria contro i paesi socialisti che già da mesi le centrali dell’anticomunismo stavano rinfocolando. Già il modo stesso con cui è stato reso pubblico non lascia dubbi sul fatto che si è trattato davvero di un ordine proveniente dall’esterno, e si può persino supporre da quale centro anticomunista sia stato ispirato.
Questa volta le agenzie borghesi non sono più così reticenti e citano vari nomi legati al pamphlet. Da un punto di vista politico si tratta di un’eterogenea accozzaglia di individui falliti sul piano politico e umano. Ne fanno parte V. Havel, membro di una famiglia milionaria, antisocialista incallito, P. Kohout, servo fedele dell’imperialismo e suo agente dichiarato, J. H ájek, un politico fallito che in nome della neutralità voleva separare il nostro stato dalla collettività dei paesi socialisti, L. Vaculík, autore del controrivoluzionario Manifesto delle 2000 parole, V. Silhán, fantoccio del blocco delle forze controrivoluzionarie, J. Patočka, professore reazionario che si e messo al servizio dell’anticomunismo, P. Drtina, esponente della reazione prima del febbraio ’48 e ministro borghese della Giustizia, V. Cerný, noto reazionario, famoso per la sua dichiarazione sui “lampioni” ai quali nel sessantotto dovevano essere appesi i seguaci del socialismo, individui anarchici e trockisti del genere di Uhl, gli organizzatori dei tristemente noti K 231 e Kan, ancora coloro che vorrebbero sfruttare la religione per scopi politici reazionari e altri che in passato sono stati condannati secondo la legge per specifiche attività antistatali.
In uno stesso mucchio assieme alla più nera reazione anticomunista si sono uniti anche certi esponenti del revisionismo di destra, l’avventuriero internazionale F. Kriegel e altri.
Un originale museo delle cere politico i cui manichini non sono più noti o interessanti per il pubblico di casa.
Ma per le centrali anticomuniste questo museo delle cere ha tuttavia ancora un suo “valore”. Negli stati maggiori della guerra fredda sanno bene che non si può più confondere la gente con le frottole sui “bolscevichi che mangiano i bambini”. Gran parte dell’anticaglia anticomunista è ormai logora, e gran parte dei “mangia-comunisti” borghesi e ormai fuori moda. E così si arruolano nuovi “combattenti” fra le file degli emigrati e dei rinnegati, fra gli avanzi della borghesia sconfitta, traditori di vario tipo, elementi declassati e senza morale, per tutti i quali è stata trovata anche una nuova parola alla moda: “dissidenti”.
Nella sua storia il movimento rivoluzionario ha conosciuto diversi elementi come Mrva che per trenta denari sono diventati leccapiedi, delatori e lacché traditori degli interessi del popolo. È su gente come questa che la reazione internazionale anche oggi fa affidamento nel suo tentativo di difendere il proprio posto nella storia.
Neanche i metodi del “sabotaggio letterario” sono nuovi. Qualche anno fa li ha descritti in modo piuttosto diretto l’ex capo dello spionaggio americano Allen Dulles. Egli disse: “dobbiamo intensificare la lotta ideologica contro i sovietici, se volete un lavoro di sabotaggio ideologico”. E poi: “a suo tempo il dott. Goebbels, a mio parere un falsificatore e un demagogo di talento, ha dichiarato che nelle camere a gas si possono avvelenare d’un sol colpo alcune centinaia di persone, ma con una bugia ben studiata se ne avvelenano milioni... Come si fa? In un modo molto semplice: un po’ di inchiostro, un bel po’ di vecchi archivi, un gruppetto di intrepidi scribacchini e una certa somma di dollari”.
E così oggi per tirar fuori dagli impicci la reazione mondiale non c’è solo il ricatto atomico con il quale gli imperialisti hanno cominciato la guerra fredda contro il socialismo, ma anche il sabotaggio ideologico, per il quale essi usano anche “gruppetti di intrepidi scribacchini” e naturalmente “una certa somma di dollari”. Il socialismo però non si è spaventato neanche di fronte al ricatto atomico e tanto meno può aver paura degli scribacchini di pamphlet reazionari.
I paesi socialisti hanno lottato e continuano a lottare con determinazione affinché nel mondo si instaurino un clima nuovo e nuovi rapporti fra i vari paesi, a dispetto di tutti i sostenitori della guerra fredda. Il loro impegno costruttivo ha avuto i suoi risultati positivi alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. L’atto finale in essa sottoscritto stabilisce i principi della politica di coesistenza pacifica fra gli stati appartenenti a diversi sistemi sociali, il rispetto delle leggi e la non ingerenza, stabilisce l’inviolabilità degli attuali confini in Europa e vincola i firmatari a risolvere tutti i problemi internazionali solo ed esclusivamente per vie pacifiche.
La decisa politica di pace dei paesi socialisti gode del favore generale di moltissimi non comunisti, socialisti e cattolici, perché è una politica che vuole che la pace, che regna già da più di trent’anni, diventi duratura.
È evidente che questa politica si è scontrata naturalmente con l’ostilità dei circoli imperialisti più reazionari, che per diversi motivi vorrebbero rimettere indietro le lancette della storia. E in questo ben coordinato complotto reazionario contro la distensione mondiale ha il suo zampino e il suo tornaconto anche la nostra emigrazione reazionaria e il gruppetto rimasto in patria, il cui compito è di servire l’imperialismo dall’interno del nostro stato.
Il tempo non gioca a loro favore. Sono rimasti bloccati come nei torrenti di montagna quei sassi coperti di muschio che tentano inutilmente di opporsi alla forza delle acque. Il tempo vi scorre sopra ed essi sono coperti dal muschio della dimenticanza.
Come metterebbero volentieri al tempo la marcia indietro, d’accordo in ciò con tutti quelli che nel mondo sono seriamente preoccupati dal processo di distensione internazionale e sarebbero contentissimi di vedere l’Europa e il mondo di nuovo nella trappola della guerra fredda. Due anni fa queste forze hanno cercato di impedire la realizzazione della conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Non ci sono riuscite. Adesso che, secondo le decisioni prese alla conferenza di Helsinki, si sta preparando una nuova assemblea degli stati che hanno sottoscritto l’atto finale, che dovrà tenersi quest’anno a Belgrado, esse vorrebbero riportare indietro l’Europa e il mondo, e vorrebbero fare dell’incontro di Belgrado non un momento di dialogo costruttivo sulle nuove vie per la distensione e per lo sviluppo della collaborazione fra i popoli, bensì una piazza che serva per propagandare gli attacchi contro i paesi socialisti.
A questo fine deve servire anche il pamphlet con il suo contorno di nomi tristemente famosi. Uno dei tanti prodotti per i quali i fornitori all’ingrosso prendono in prestito i nomi dei falliti di tutti i tipi dei diversi paesi socialisti. Una parte integrante delle numerose campagne condotte ora con maggiore ora con minore intensità contro questo o quel paese socialista. Si distingue se vogliamo per il contenuto, non certo per il suo orientamento di fondo.
Non è in realtà difficile intuire chi sia il loro denominatore comune, il loro comune ispiratore. Alla canonica domanda “a chi serve” segue l’altrettanto canonica risposta: serve all’imperialismo, si tratta di una nuova campagna contro il socialismo mondiale.
Non è la prima campagna e certamente nemmeno l’ultima. Nei trent’anni del nostro cammino socialista ne abbiamo conosciute non poche. La propaganda reazionaria ha già diffuso nel mondo fiumi di bugie su di noi.
Essa “gratifica” poi la nostra repubblica di un’attenzione particolare dall’aprile del 1969, da quando cioè il nostro partito e il nostro popolo hanno imboccato con successo la via della stabilizzazione della nostra società socialista e del suo ulteriore sviluppo. I profeti, che sia in patria sia all’estero ci predicevano le piaghe della crisi che ora invece scuote il mondo capitalista, già da anni attendono invano l’avverarsi delle loro stolte previsioni. L’atmosfera serena, laboriosa e creativa del nostro paese inquieta non poco i falliti in patria e all’estero e li conduce a gesti disperati e anche azzardati.
Il partito comunista della Cecoslovacchia ha superato il periodo del caos e del dissesto, ha condotto la società e il popolo fuori dalla crisi. Esso sviluppa in modo coerente e creativo il marxismo-leninismo, al suo XV congresso ha elaborato e approfondito ulteriormente il programma di costruzione di una società socialista progredita, un programma che migliori il tenore di vita del popolo, le sue certezze politiche e sociali, e ha sviluppato e continua a sviluppare la democrazia socialista.
In un momento in cui il nostro popolo, sotto la guida del partito, mette in pratica con grande responsabilità e spirito di sacrificio la linea e le conclusioni del XV congresso, un paio di falliti e usurpatori indispettiti e tronfi, ma in effetti agenti dell’imperialismo, del tipo di Mlynář, Kriegel, Havel, Hájek, Patočka e Vaculík, senza un briciolo di onore e di coscienza ordiscono piani che non hanno e non possono avere altro fine se non quello di preparare una nuova controrivoluzione. Le persone che volevano introdurre di contrabbando nel nostro paese la controrivoluzione già una volta hanno avuto ciò che meritavano. Devono pur rendersi conto che qualsiasi nuovo tentativo è destinato a fallire sul nascere. Il 1968 non si ripeterà. Oggi più che mai vale ciò che ha detto Gottwald: Non permetteremo che sconvolgano la nostra repubblica!
Il nostro popolo va per la sua strada. La strada del progresso sociale, la strada del socialismo. La strada della solida amicizia con l’Unione Sovietica e con gli altri paesi socialisti, come membro stabile della collettività socialista. Collaboriamo e continueremo a collaborare con tutte le forze progressiste e amanti della pace nel mondo.
È la strada buona e retta che ci condurrà con certezza alle mete del comunismo. Chiunque lavora rettamente e si sforza di contribuire al bene comune su questa strada troverà la sicurezza per la propria vita.
Nessun pamphlet menzognero potrà smentire la verità della storia.

Edited by Andrej Zdanov - 18/4/2014, 15:59
view post Posted: 15/2/2014, 17:37 Il realismo socialista e i suoi detrattori - Scritti di altri autori
Da «Inostrannaja literatura», n. 1, 1962:


Il realismo socialista e i suoi detrattori


… Un giorno d’inverno le gelide acque della Senna gettarono sulla riva qualcosa di poco attraente, dal cattivo odore. Si trovò tuttavia della brava gente che raccolse questo «qualcosa» ed ebbe persino il coraggio di renderlo di dominio pubblico. Così apparve sulla rivista «Espirit» l’articolo «Il realismo socialista». Questo fatto è già stato commentato dalla critica sovietica ma vogliamo, tuttavia, occuparcene ancora una volta, dato che racchiude in sé elementi, nel loro genere, istruttivi.
La redazione di «Espirit» informò che l’articolo era opera di un giovane scrittore sovietico il quale, «naturalmente», si nascondeva dietro l’anonimato.
Lo stile di quest’articolo si distingue da quello ampolloso e serio di Demets. L’anonimo non disdegna la retorica e ha persino delle pretese ironiche, sforzandosi di usare uno stile parodistico. Ma il metodo di discussione dello «sconosciuto scrittore» è poi sostanzialmente uguale a quello del famigerato falsificatore Demets. Demets afferma che la teoria del realismo socialista non si basa sulla realtà effettiva, ma su quella prescritta e obbligatoria. Scrive l’anonimo: «Alla base della formula del realismo socialista si trova l’idea dello Scopo, quell’ideale universale al quale tende la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario». L’autore compie poi un banale giochetto di prestigio che esclude il concetto di realtà e ottiene così che lo Scopo (con l’iniziale maiuscola) diventi scopo per sé stesso, una specie di principio divino, esistente in modo autonomo.
«Questo Scopo è lo scopo finale di tutta la realtà, di quella che è e di quella che non è, ed è uno scopo infinito e gratuito, è lo Scopo per se stesso. Infatti quale scopo può avere lo Scopo?»
In pieno accordo coi «ricercatori» del tipo di Demets, il nostro anonimo chiama la teoria del realismo socialista teologica.
A che cosa mira questo «incognito», con le sue banali manipolazioni?
Anzitutto egli mette in dubbio la veridicità esistenziale, la conformità alla realtà e l’obiettività dell’arte del realismo socialista. Egli mette in bocca ai social-realisti questa dichiarazione: «Noi rappresentiamo la vita come la vogliamo vedere, la rappresentiamo così come deve diventare».
I nostri scrittori, pittori, artisti del teatro e del cinema danno con i loro sforzi comuni una vasta panoramica della vita sovietica. Essi vedono sia il nuovo che trionfa, sia le sopravvivenze del passato, sia la rabbiosa opposizione del nemico. La prospettiva di sviluppo della vita che danno i nostri artisti non è basata su una fantasia arbitraria. La società si sviluppa in base a leggi chiare e obiettive e la comprensione di queste leggi, la capacità di individuare nella vita e di comprendere l’azione delle forze sociali determinanti, arma gli artisti e permette loro di guardare con sicurezza in avanti. Lo sviluppo rivoluzionario della vita non è una predizione nebulosa ma un inesorabile processo progressivo, che onora chi lo scopre, lo comprende e lo rappresenta.
Il nuovo Programma del Partito comunista è completamente pervaso dall’idea dello sviluppo dialettico. Esso tempera l’impeto dell’ispirato slancio in avanti verso il comunismo, con la previsione, che ne consegue, della realtà scientifica obiettiva. Non a caso il Programma è indissolubilmente legato al piano di previsione ventennale dello sviluppo dell’economia nazionale. I nostri piani di edificazione del comunismo sono completamente motivati da un punto di vista sia economico che politico. Il socialismo e il comunismo continuano la loro marcia vittoriosa in avanti secondo precise leggi oggettive; la via dello sviluppo comunista è scientificamente prestabilita.
La realtà spaventa i nemici, poiché si sviluppa in modo non conforme ai loro desideri, ma conforme alle profezie scientifiche del comunismo. Essi vorrebbero dichiarare inesistenti i risultati del presente e infondati e fantasiosi i piani per il futuro. Da parte loro gli esteti reazionari levano alte grida in favore della libertà dell’arte mentre essi stessi si cibano delle briciole che cadono dal tavolo degli ideologi e dei politici della loro classe. Anche questi ultimi sono terrorizzati dall’inesorabile sviluppo della realtà. Ed ecco che allora i detrattori, gemendo per lo sforzo, scrivono che il realismo socialista riflette non l’obiettivo trasformarsi della vita ma gli scopi soggettivi, inventati dai politici e dagli ideologi, e, alla luce di questi scopi, deforma il quadro reale dell’esistenza.
Tale è il primo trucco del nostro anonimo.
Il secondo trucco consiste nel rappresentare l’arte socialista come priva di contenuto umanistico. Lo scopo, di cui parla il nostro prestigiatore, è privo di scopo: «infatti quale scopo può avere lo Scopo?»
Il comunismo è per l’uomo; la felicità viva e palpitante dell’uomo, delle masse popolari: ecco lo scopo dell’edificazione comunista. Di questo parla con estrema chiarezza il Programma del partito, approvato dal XXII congresso.
Lo «Scopo» di cui parla l’anonimo è rappresentato come qualcosa di freddo, di privo d’anima, di morto. Uno scopo astratto, indifferente verso l’uomo. Ma è questa una tipica deformazione borghese del comunismo. L’arte socialista non è mai stata, né mai sarà, indifferente verso l’uomo; l’umanesimo è la sua caratteristica fondamentale e determinante. Da questo deriva il particolare carattere dei nostri scopi, dei nostri ideali, il loro essere permeati di una grande umanità.
Le costruzioni «teoretiche» non sono evidentemente bastate al nostro anonimo per l’abbattimento del realismo socialista. Allora egli si rivolge alla pratica artistica, affrontando, con lo stesso zelo e la stessa ingegnosità, il problema dell’eroe positivo.
Un eroe di Gor’kij, stanco dell’eterna indecisione e della mollezza dei personaggi che lo circondano, erompe aspramente: «Bisogna parlar sempre in modo chiaro: o sì o no».
L’«incognito» se la spassa:
«Gor’kij comprendeva che il suo “eroe” era un uomo del futuro e che soltanto uomini spietati e saldi come l’acciaio potevano tracciare la via verso questo futuro».
Proprio Gor’kij ha descritto la spietatezza del mondo dei Majakin. La costanza nel perseguire lo scopo propria del protagonista, che conosce la sua strada di lottatore per l’instaurazione di nuovi rapporti fra gli uomini, non è giudicata dallo scrittore alla stessa stregua della perseveranza priva di sentimento, colma d’odio, dei rappresentati del vecchio mondo.
L’«incognito dell’Espirit» scrive, a proposito della cultura russa del XIX secolo, che essa è stata creata da «un gruppetto di scettici malinconici». Egli contrappone all’integrità delle «nature positive» con i loro ideali di servizio alla società e al popolo, la fiacchezza e l’indecisione ― considerate princìpi positivi ― delle «personalità indipendenti» che vivono estraniate dalla società. Per lui il XIX secolo è un secolo d’oro.
«Il diciannovesimo secolo è pieno di ricerche, di errori, di slanci più o meno ardenti, esso aspira, nell’impotenza, a trovarsi un posto definito sotto il sole, è lacerato dal dubbio e dal dualismo».
E si vogliono far passare questi gorgheggi lirico-storici per concezione teoretica! In essi non vi è posto per i fatti, per la storia, per il riconoscimento che nel XIX secolo, in Russia, non c’erano soltanto persone che cercavano, ma anche persone che avevano trovato, non solo perché disingannate ma perché già avviate per un cammino luminoso; non c’erano soltanto gli impotenti, ma anche i forti, orgogliosamente coscienti della propria forza. E proprio essi esercitarono un influsso determinante sui destini della patria. Questi erano i decabristi, Belinskij, Herzen, Černyševskij, Nekrasov, i rivoluzionari degli anni ’70, Piotr Alekseev. Fu nel XIX secolo che i marxisti russi cominciarono a rivelarsi attivamente e che Lenin gettò le basi teoretiche e organizzative del partito comunista.
Il nostro anonimo si sente più a suo agio tra persone fiacche e sperdute, che non hanno alcuno scopo, né precisi ideali, che non riconoscono alcun dovere verso il popolo (e il fatto che i migliori di questi uomini «inutili» si tormentassero proprio alla ricerca della via per un servizio reale al popolo, ha scarsa importanza per l’anonimo). Egli sente ripugnanza e indignazione per la dirittura degli «uomini nuovi» e per i loro «discorsi sul popolo e sul comunismo».
«L’esclusivo e dispotico predominio del criterio utilitaristico-morale, un altrettanto esclusivo ed oppressivo predominio dell’amore per il popolo e il proletariato, il culto del popolo e dei suoi interessi…», questi sono, secondo lui, i peccati dell’intellighenzia russa. Questa citazione non è tratta dallo scritto anonimo ma dall’articolo di N. Berdjaev contenuto nella famigerata antologia «Vekhi». Ma quanto si adatta, nello spirito, al pensiero dell’anonimo scrittore!
E ancora una citazione tratta da «Vekhi», stavolta dall’articolo di M. Geršenzon:
«… La vita interiore della persona è l’unica forza teoretica della vita umana… Essa, e non dei princìpi autonomi di ordine politico, è l’unica solida base per ogni edificazione di tipo sociale». L’antologia «Le pietre miliari», definita da Lenin enciclopedia del tradimento liberale, ha espresso in modo del tutto lampante la corruzione morale, l’egoismo anti-sociale, l’estraneità e l’avversione a tutti i movimenti democratici popolari dell’intellighenzia borghese postasi al servizio della reazione.
Ci interessa poco sapere chi sia l’anonimo autore dell’articolo sul realismo socialista pubblicato dalla rivista «Espirit». Nessuno ne vuole svelare l’incognito: ha infilato la maschera, se la porti pure in giro! Ma questo tipo lavora rozzamente. Lo spirito dell’intero articolo, la sua forma, lo stile e l’«erudizione» dell’autore mostrano come questo falso sia stato fabbricato in un ambiente intellettuale borghese, legato evidentemente ai circoli dell’emigrazione bianca, dove sono vive le tradizioni de «Le pietre miliari» e delle società filosofico-religiose che incitano alla crociata contro il materialismo.
E a caratterizzare la teoria dell’autore basta il fatto ch’egli ripete quanto diceva la pubblicistica reazionaria nel periodo più infame per il pensiero sociale russo.
Alcuni giornali d’Inghilterra, Stati Uniti e Germania occidentale si affrettarono a riprendere l’articolo dell’anonimo, accompagnandolo con le loro osservazioni… Sospettavano essi in che pozzanghera sarebbero caduti, in compagnia del loro anonimo semplicione? Probabilmente lo sospettavano, dato che la contraffazione è molto rozza, ma l’odio anticomunista ha loro annebbiato i cervelli. Hanno scordato che l’ira è cattiva consigliera.
A proposito, qualche parola su un altro incognito.
Non è soltanto la rivista «Espirit» a interessarsi di spazzatura. L’anno scorso uscì in Inghilterra e in Francia un racconto «di vita sovietica» dal titolo «Entra la corte». L’autore si nasconde sotto lo pseudonimo di Abram Terts. «Si tratta di un racconto d’eccezionale interesse sotto tutti i punti di vista» ― si affrettò a dichiarare il «Guardian» di Manchester. Che vita rappresenta l’autore? Noi utilizzeremo, affinché risulti del tutto chiaro di che cosa si tratta, l’esposizione, piena di simpatia, che ne dà questo autorevole giornale borghese. Secondo l’autore dell’articolo, il libro rivela «gli aspetti intimi della vita della società sovietica e racconta le vicende familiari del procuratore Vladimir Globov, buon padre di famiglia e fedele sostenitore del regime comunista. Sua moglie è una donna innamorata di se stessa che ogni mattina si rimira ignuda nello specchio, mentre Vladimir la spia dal buco della serratura. Il loro figliolo, lo scolaro Sereža, organizza una società segreta, composta da lui e da una bambina con gli occhiali. Lo scopo di questo gioco fanciullesco è lo scalzamento del governo e la creazione di un’autentica società comunista. Due agenti della polizia segreta vagano per il rione elaborando piani per rendere più efficace il loro lavoro, per mezzo della collocazione di filtri nei condotti delle fognature, che trattengano tutti i documenti criminali, gettati nei vasi di latrina…».
Al critico del «Guardian» è piaciuto il tono «particolare», pacato del libro, la maestria e il lucido giudizio dell’autore. Che dire, ognuno ha i suoi gusti. Ma persino da quest’esposizione partigiana appare chiaro che ci troviamo di fronte ad un falso antisovietico piuttosto stupido, fatto su misura per il lettore poco esigente. Le sue immagini non hanno nulla a che vedere con la vita sovietica, ma si possono al massimo riferire alle opere sessual-antirivoluzionarie dell’epoca di maggior marasma sociale sul tipo delle poesie di Sologub o dei racconti di Arcybašev.
I fautori della «guerra fredda» nel campo dell’estetica, nella loro lotta contro il realismo socialista, a quale autenticità, a quale verità vogliono portare?… Non per nulla l’incognito scrittore, lodato dal «Guardian», ha ricordato le tubature dal noto impiego: non sarà questa la fonte d’informazione di questi anonimi e di questi scrittori sotto pseudonimo?

Edited by Andrej Zdanov - 8/8/2014, 19:00
view post Posted: 26/11/2013, 16:11 Discorso alla fabbrica Avto-Praga - Scritti di altri autori
Da L.I. Brežnev, La via leninista, vol. III, Editori Riuniti, 1974, pp. 341-349:


Discorso alla fabbrica Avto-Praga*


Cari compagni! Permettetemi prima di tutto di ringraziarvi cordialmente per le calorose accoglienze e per tutte quelle buone parole che sono state pronunciate qui all’indirizzo dello Stato sovietico e del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Noi membri della delegazione del PCUS, giunti nel vostro paese per assistere ai lavori del XIV Congresso del PCC, trasmetteremo con viva gioia il saluto fraterno delle maestranze dell’Avto-Praga e dei rappresentanti delle altre fabbriche della capitale cecoslovacca, al nostro popolo, ai comunisti sovietici, alla classe operaia dell’URSS. Permettetemi perciò di aggiungere al nostro ringraziamento personale, il ringraziamento di tutto il popolo lavoratore sovietico. Grazie a voi, compagni!
Nel cuore di ogni cittadino sovietico già il solo nome della fabbrica Avto-Praga suscita un moto di simpatia. Noi non dimentichiamo gli amici e sappiamo apprezzare il coraggio e la fermezza dei compagni di fede nella lotta per la nostra causa comune: la causa della costruzione del socialismo e del comunismo. Noi ricordiamo bene la difficile estate del 1968, quando tutti i sovietici, effettivamente tutti, dal dirigente del partito e del governo agli operai e ai colcosiani, hanno seguìto con emozione e preoccupazione come si andava addensando sulla Cecoslovacchia socialista l’ombra di un rivolgimento controrivoluzionario. Allora non «duemila parole», ma forse due e persino ventidue milioni di parole, sono state dette dai nemici del socialismo per minare la fiducia del popolo lavoratore del vostro paese nella via dello sviluppo leninista socialista. Molto è stato messo in moto per minare l’autorità del PCC, per privarlo della sua funzione dirigente nella società e per introdurre, con somma gioia dell’imperialismo, un cuneo fra l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia, per strapparla dalla comunità fraterna dei paesi socialisti. Ed ecco che in quel momento proprio da qui, dalla vostra fabbrica Avto-Praga, ha risuonato la voce appassionata di 99 internazionalisti che hanno trovato in se stessi il coraggio per dire, rivolgendosi ai sovietici: «La nostra amicizia, la nostra alleanza sono state consacrate dal sangue versato in comune presso Sokolovo, sul Dukla e su altri campi di battaglia. I nostri nemici non cambiano, si tratta sempre degli imperialisti e dei loro servizi segreti, solo ora sono più esperti e perciò più pericolosi…».
Perdonatemi se cito qui questa lettera, voi certamente la ricordate bene, dato che qui si trovano molti di coloro che l’hanno scritta. Ma io non posso fare a meno di ricordarvela, poiché per scrivere queste parole e per farle pubblicare sulla Pravda, giornale dei comunisti sovietici, bisognava avere, nella Cecoslovacchia dell’estate 1968, un grande coraggio, un vero coraggio di rivoluzionario operaio.
Il nostro popolo, noi tutti sappiamo bene che gli autori della Lettera dei 99 hanno dovuto subire molte angherie. I nemici del socialismo li hanno sottoposti a vere e proprie persecuzioni, chiamandoli «rinnegati» e addirittura «traditori». Ma nella Lettera dei 99, così come anche negli interventi di molti altri patrioti della Cecoslovacchia socialista, ha risuonato in tutto il mondo la vera voce della classe operaia cecoslovacca. Questa voce non poteva certo essere messa a tacere con qualche stratagemma degli specialisti della propaganda antisocialista e antisovietica, con qualche calunnia, con qualche menzogna.
Questa voce, e le voci degli altri comunisti e dei senza partito fedeli alla causa del socialismo ― operai, contadini, intellettuali della Cecoslovacchia ― è stata sentita. Queste voci hanno trovato una viva eco in tutto il PCC, in tutto il paese, nel cuore di tutti gli uomini onesti. Grazie alla fermezza dei veri comunisti, con l’aiuto fraterno dell’URSS e di altri paesi socialisti, le forze sane del PCC sono riuscite a far fallire il tentativo di un rivolgimento controrivoluzionario nel paese, a sbaragliare le forze antisocialiste, opportunistiche di destra e revisionistiche, ad incamminarsi di nuovo sulla via marxista-leninista. La vita ha dimostrato con estrema chiarezza chi era in realtà un rinnegato e un traditore e chi un vero cittadino della società socialista. Dove sono oggi tutti coloro che lanciavano appelli contro 99 patrioti? Dove sono i loro protettori, uomini politici con due facce, che hanno parlato molto, anzi moltissimo, del «socialismo umano», ma hanno fatto ancora di più per scatenare nel paese una campagna di persecuzioni fra le più sfrenate contro i difensori delle conquiste socialiste del popolo cecoslovacco? Il partito li ha cacciati via dalle sue file, il popolo li ha respinti con disprezzo. Ed ecco invece che gli autori della Lettera dei 99 sono qui, fra di noi. Insieme ai loro fratelli di classe essi rafforzano con il loro lavoro la loro repubblica e la causa del socialismo in tutto il mondo. E il loro coraggioso intervento nell’estate 1968 è entrato nella storia del movimento operaio internazionale come un atto di autentico internazionalismo socialista.
Onore e gloria ai fermi rivoluzionari-internazionalisti!
Cari amici! Alla nostra delegazione ha fatto molto piacere visitare la vostra fabbrica, incontrarsi con gli operai di Praga. Per me ciò è stato particolarmente piacevole, poiché ho trascorso tutta la mia giovinezza in mezzo ad un collettivo aziendale. Trovandoci qui fra di voi, vien fatto di pensare involontariamente all’immenso ruolo esercitato dalla classe operaia nell’edificazione socialista in tutta la vita dei paesi socialisti. Ciò è dimostrato da tutta la storia della lotta per il socialismo e il comunismo, da tutta la nostra esperienza. Tutti voi sapete benissimo che la forza fondamentale del febbraio vittorioso del 1948 in Cecoslovacchia, così come nell’ottobre 1917 in Russia, è stata proprio la classe operaia, che si è sollevata decisamente sotto la guida dei comunisti nella lotta contro la borghesia e che è stata seguìta dai contadini, dagli intellettuali, da tutto il popolo lavoratore.
Voi, operai cecoslovacchi, comunisti cecoslovacchi, avete una buona forma di saluto: «Čest praci» ― gloria al lavoro. Gloria al lavoro, gloria alle mani operaie che edificano il socialismo, che creano tutto ciò che la civiltà moderna mette a disposizione dell’uomo: dagli strumenti più delicati alle gigantesche centrali elettriche, dalle navi spaziali alle case in cui viviamo. Tutto quello che c’è intorno a noi è opera delle mani operaie! E poi, a dir il vero, nella nostra società socialista anche gli intellettuali, anche tutti i quadri dirigenti sono anch’essi, per così dire, in primo luogo un’emanazione della classe operaia, sono usciti dalle sue file, sono legati ad essa da vincoli di parentela diretta. Gli operai sono la forza più rivoluzionaria e più disciplinata della società, la forza interessata più di ogni altra alla realizzazione degli ideali socialisti e comunisti dello sviluppo sociale. Proprio per questo ricade sulla classe operaia anche la responsabilità principale per quel che riguarda le sorti del socialismo. Proprio per questo i nemici del comunismo non lesinano gli sforzi per privare la classe operaia del suo ruolo dirigente, per disorientare gli operai, per introdurre nell’ambiente operaio un’ideologia ad esso estranea, per indebolire la coscienza di classe dei lavoratori. Essi, purtroppo, hanno agito così anche da voi, in Cecoslovacchia!
Voi ricorderete certamente che nell’arsenale delle forze di destra e antisocialiste, c’erano non poche parole altisonanti. Speculando su alcune difficoltà economiche, queste forze denigravano l’intero sistema dell’economia socialista. Esse volevano liquidare la proprietà di tutto il popolo sulle officine, sulle fabbriche e sulle miniere. Esse negavano il principio leninista della pianificazione dell’economia e volevano sostituire la pianificazione con la «libera concorrenza» tra le aziende. Esse sognavano di far rinascere nella repubblica il «mercato dei capitali» e il «mercato del lavoro» e cioè, traducendo le loro parole in un linguaggio comprensibile a tutti, la borsa dei valori e la disoccupazione. I sovietici hanno costatato con viva soddisfazione che la classe operaia della Cecoslovacchia ha respinto le «riforme» del socialismo, auspicate dal revisionismo di destra. La classe operaia ha compreso che i «destri» avrebbero portato alla scomparsa di tutto quello per cui avevano lottato per decenni i lavoratori della Cecoslovacchia sotto la direzione del loro partito comunista. Essa ha preso posizione a favore del rafforzamento della proprietà socialista, a favore di una linea veramente socialista nell’economia.
Noi sappiamo che i «destri» giravano apposta nelle fabbriche per parlare della democrazia, della necessità di svilupparla. È stata estratta dalla polvere dei tempi la parola d’ordine della cosiddetta democrazia «pura», «senza classi», cioè di una democrazia che non esiste. Sotto il paravento di una simile demagogia i revisionisti di destra violavano le leggi democratiche della Cecoslovacchia socialista, conquistate dalla classe operaia. Nel paese veniva fomentato un clima di terrore politico contro i difensori del socialismo che venivano privati, in sostanza, dei diritti più elementari garantiti dalla legge. La famigerata «libertà di discussione» si trasformava di fatto in libertà d’azione per i nemici del socialismo. Ma la classe operaia della Cecoslovacchia non si è lasciata ingannare. Essa ha dimostrato che è stata, è e sarà la fautrice più coerente della democrazia: non della menzognera democrazia borghese, ma dell’autentica democrazia socialista, che dà ai lavoratori stessi la possibilità di governare lo Stato e di articolare la vita della società nell’interesse del popolo lavoratore.
Le forze di destra spingevano il vostro paese sulla via della sottomissione all’Occidente capitalistico. I sovietici lo hanno capito perfettamente e lo ha compreso anche la classe operaia cecoslovacca che non ha infatti seguìto i «destri». Così come nel febbraio 1948, essa si è pronunciata a favore del socialismo, ha seguìto il suo partito comunista.
Onore e gloria alla classe operaia cecoslovacca!
Gloria al lavoro e alla lotta dei costruttori del socialismo! Čest praci!
Compagni! Già da tre giorni assistiamo ai lavori del XIV Congresso del PCC. Noi possiamo dire con convinzione che il congresso produce una profonda, forte impressione. Nel rapporto d’attività del CC del PCC, presentato dal compagno Gustav Husak, nonché nelle relazioni dei compagni Lubomir Strougal e Milos Iakes e nell’intervento del presidente della repubblica compagno Ludvik Svoboda, è contenuta una profonda analisi marxista-leninista del cammino percorso dal PCC e dalla società cecoslovacca negli ultimi anni, è tracciata una chiara linea per l’avvenire.
Nel mio intervento al congresso ho già detto, e voglio ripeterlo qui ancora una volta, che il XIV Congresso del Partito comunista cecoslovacco può essere chiamato a pieno diritto il congresso della vittoria sui nemici del socialismo nella RCS, il congresso del trionfo del socialismo.
Le prospettive di un ulteriore sviluppo della Cecoslovacchia, che sono state oggetto di approfondita discussione al congresso del partito, sono veramente entusiasmanti. È chiaro che i provvedimenti indicati dal partito per il prossimo quinquennio, si ripercuoteranno sensibilmente sia sulla vita di tutta la società, che su quella di ogni singola famiglia, di ogni uomo. È chiaro che l’attuazione delle decisioni del congresso aprirà la strada verso nuove vittorie del socialismo in Cecoslovacchia, contribuirà a rafforzare la potenza di tutta la comunità socialista. È chiaro anche che la realizzazione di queste decisioni può essere assicurata solo col lavoro tenace, creativo degli operai, dei contadini, dei lavoratori della mente del vostro paese.
Noi crediamo che la classe operaia della Cecoslovacchia farà il possibile per tradurre in realtà gli audaci piani del suo partito comunista, farà il possibile affinché i prossimi anni diventino anni di nuova prosperità della vostra repubblica.
Permettetemi di augurare, a nome della delegazione del partito comunista dell’Unione Sovietica, di tutto il popolo sovietico agli operai, agli ingegneri, ai tecnici, agli impiegati della fabbrica Avto-Praga e di tutte le officine e fabbriche di Praga, ai lavoratori della Cecoslovacchia un grande e pieno successo nella realizzazione delle decisioni del congresso del partito per il bene della vostra bellissima patria socialista!
Compagni! Voi certamente sapete che anche da noi ha avuto luogo recentemente il congresso del partito, il XXIV Congresso del PCUS. Esso ha discusso e approvato il programma di sviluppo del nostro paese per il quinquennio 1971-1975 e ha definito le direttrici principali della politica del partito per i prossimi anni. In breve, il senso fondamentale di questa politica consiste nel compiere, utilizzando insieme le realizzazioni della rivoluzione tecnico-scientifica e i vantaggi del sistema dell’economia socialista, un altro importante passo in avanti nell’edificazione del comunismo, nell’assicurare quell’aumento del livello di vita del popolo che finora non abbiamo ancora potuto permetterci.
Il nostro scopo è quello di rendere la vita dei sovietici ancora migliore, più bella, più felice. Noi andiamo incontro ad altri anni di lavoro intenso e entusiasmante. Questa è per noi l’unica via verso il benessere e la felicità, verso un radioso avvenire comunista. Il caloroso appoggio prestato da tutti i sovietici alle decisioni del congresso, i nuovi successi nel lavoro, con cui essi hanno risposto a queste decisioni, tutto ciò sta a dimostrare che gli obiettivi che ci siamo prefissi saranno raggiunti, poiché il popolo e il partito marciano uniti, e in ciò risiede la nostra principale forza!
Compagni! Noi compiti definiti dal congresso del nostro partito riguardanti i vari settori dell’economia sovietica, si tiene conto anche degli Stati socialisti amici. In base agli accordi conclusi, l’URSS fornirà nel quinquennio in corso alla sola Cecoslovacchia circa 70 milioni di tonnellate di petrolio. Ma noi forniremo molto petrolio anche alla RDT, alla Polonia, all’Ungheria, alla Bulgaria, a Cuba e ad altri paesi socialisti. I paesi fratelli riceveranno da noi anche minerali in maggior quantità per la metallurgia ferrosa e non ferrosa, più gas, più carbone, più fertilizzanti. A sua volta, anche noi contiamo che continueranno ad arrivare nell’Unione Sovietica, dai paesi socialisti, prodotti e merci di cui ha bisogno la nostra economia nazionale.
Lo sviluppo della collaborazione economica reciprocamente vantaggiosa è previsto nei piani economici nazionali quinquennali dei nostri Stati. Noi speriamo che nei prossimi anni si riuscirà a fare notevoli passi in direzione dell’integrazione economica dei paesi del socialismo, in direzione di una sempre maggiore specializzazione e cooperazione della produzione.
Non si può fare a meno di rilevare che alla Cecoslovacchia con la sua alta cultura tecnica, con le sue tradizioni in questo campo, con la sua potente base industriale, spetta in questo processo un importante ruolo. Sono note a tutto il mondo le grandi qualità degli operai cecoslovacchi, il loro talento, l’alta preparazione professionale, lo spirito di organizzazione e la laboriosità. Del resto, ogni paese socialista apporta alla nostra causa comune un proprio contributo prezioso: risorse, possibilità, esperienza. Se noi tutti sapremo definire in comune le vie più ragionevoli per l’utilizzazione di queste ricchezze ― nell’interesse di ciascuno dei paesi che partecipano ad una tale collaborazione e nell’interesse di tutta la nostra comunità socialista ― ciò, compagni, rappresenterà già una grande conquista, rappresenterà un immenso passo in avanti nell’opera di rafforzamento delle posizioni del socialismo mondiale.
I partiti comunisti dei nostri paesi, la classe operaia e tutti i lavoratori dell’URSS, della RCS e degli altri Stati socialisti, risolvono i compiti a loro comuni. Noi edifichiamo in comune quel «nostro nuovo mondo», cantato già da alcune generazioni di lavoratori e di rivoluzionari nel loro grande inno rivoluzionario: l’Internazionale. Costruire un tale mondo è il nostro dovere internazionalista dinanzi ai lavoratori di tutto il mondo, dinanzi ai proletari dei paesi capitalistici, dinanzi ai popoli in lotta per la liberazione nazionale.
E per quanto possano tentare i nostri avversari di ostacolarci in questa opera di edificazione, noi adempiremo il nostro dovere. Un nuovo mondo, il mondo del socialismo e del comunismo, sarà ricostruito! In nome di ciò vale la pena di vivere, vale la pena di lavorare, poiché non vi è e non può esservi per ogni comunista, per ogni uomo del lavoro, scopo migliore e dovere più alto.
Compagni! Fra alcune settimane si compiranno i 30 anni dal giorno in cui l’aggressione della Germania hitleriana e dei suoi satelliti all’Unione Sovietica segnò l’inizio delle battaglie decisive della seconda guerra mondiale. In quelle battaglie, le più grandi della storia mondiale, la questione si poneva in questi termini: avrebbe continuato a esistere l’Unione Sovietica, il primo Stato socialista degli operai e dei contadini al mondo, avrebbe difeso i popoli d’Europa, la loro libertà e la loro indipendenza o sarebbero stati asserviti dal fascismo?
Noi combattimenti contro il fascismo nacque la fratellanza d’armi dei nostri popoli. I sovietici serbano gelosamente il ricordo delle imprese valorose del Corpo cecoslovacco, alla cui testa era il nostro stimato amico che è oggi presidente della Repubblica socialista cecoslovacca, il compagno Ludvik Svoboda, delle gesta degli eroi di Sokolovo e del Dukla, delle gesta ― ancora ― dei combattenti coraggiosi dell’insurrezione nazionale slovacca e di Praga insorta.
Il tempo passa. Come si dice da voi: i nostri bambini invecchiano. È passato più di un quarto di secolo dal giorno in cui a Praga echeggiarono le ultime salve della seconda guerra mondiale del continente europeo. Molte cose nel nostro odierno mondo sono cambiate in meglio. I popoli sono consapevoli del fatto che è possibile non permettere all’imperialismo di scatenare una nuova carneficina. Ma noi sappiamo che vi sono ancora nel mondo e nel continente europeo forze che non vogliono rassegnarsi alle storiche risultanze della seconda guerra mondiale, aspirano alla rivincita, vogliono rivedere i confini attualmente esistenti, far tornare i popoli dai paesi socialisti ai vecchi ordinamenti borghesi.
Noi, comunisti, e tutti i lavoratori dei paesi del socialismo, siamo dei combattenti che partecipano alla grande storica battaglia in corso. Ci troviamo sempre sotto il fuoco del nostro avversario di classe. E questo fuoco, questi attacchi diventano tanto più accaniti, quanto maggiori sono i successi che noi conseguiamo nella nostra offensiva generale in continuo sviluppo contro il mondo del capitalismo.
I nostri avversari tentano in tutti i modi di distruggere la comunità fraterna degli Stati socialisti, di indebolire e scindere il fronte combattivo delle forze antimperialistiche. Essi volevano strappare dalle nostre file la Cecoslovacchia, ma non vi sono riusciti. Essi cercano di seminare, con l’aiuto di ogni genere di falsi trucchi e di calunnie, provocazioni e zizzanie, fra i paesi del socialismo e gli Stati progressivi, che si sono liberati dal giogo coloniale. Tutte queste vostre manovre, signori, non approderanno a nulla! La nostra linea leninista è chiara e coerente. Noi faremo di tutto perché si rafforzi di giorno in giorno la grande comunità dei paesi del socialismo, si approfondiscano l’amicizia e la collaborazione fra gli Stati socialisti in Europa, nell’Asia e nell’America Latina. Noi ci adopereremo per consolidare in tutti i modi la nostra alleanza combattiva con tutti i combattenti antimperialistici, con tutte le forze della pace, della libertà e del progresso sociale esistenti sulla terra.
Le azioni congiunte dei paesi del socialismo hanno già dato molti risultati positivi agli effetti del consolidamento della pace in Europa e in tutto il mondo. E oggi possiamo dire con certezza: quanto più salda sarà la nostra amicizia, quanto più stretta sarà la nostra collaborazione, tanto maggiore sarà ciò che noi, tutti insieme, potremo fare per il miglioramento di tutto il clima politico internazionale, affinché i popoli dei nostri paesi e di tutto il mondo possano vivere nella pace e nella sicurezza.
Io posso assicurarvi, compagni, che il Partito comunista dell’Unione Sovietica non risparmierà gli sforzi per sviluppare e consolidare ulteriormente l’amicizia e la collaborazione fra il PCUS e il PCC, fra i popoli sovietico e cecoslovacco.
Noi faremo tutto quanto è in nostro potere perché la collaborazione amichevole con i nostri fratelli cecoslovacchi diventi sempre più multiforme, perché essa abbracci sempre nuovi settori della vita e del lavoro, sempre più vasti strati della popolazione, perché essa diventi sempre più ampiamente opera della mente e del cuore per i sovietici delle città e delle campagne, delle fabbriche, dei colcos e dei sovcos. E noi siamo certi che i nostri amici cecoslovacchi saranno animati dagli stessi intenti.
A conclusione, vorrei ringraziare calorosamente ancora una volta voi, compagni, per le cordiali e amichevoli accoglienze fatte alla nostra delegazione, e augurarvi felicità, buona salute e grandi successi nel lavoro.
Gloria ai lavoratori della Cecoslovacchia socialista!
Viva il Partito comunista cecoslovacco e il suo Comitato centrale con alla testa il compagno Gustav Husak!
Che si rafforzi e prosperi in eterno l’amicizia indistruttibile fra i popoli cecoslovacco e sovietico!

* Praga, 27 maggio 1971.

Edited by Andrej Zdanov - 25/10/2015, 18:48
view post Posted: 21/11/2013, 17:04 Discorso al V Congresso del Partito operaio unificato polacco - Scritti di altri autori
Da L.I. Brežnev, La via leninista, vol. II, Editori Riuniti, 1974, pp. 301-312:


Discorso al V Congresso del Partito operaio unificato polacco*


Stimati delegati, cari compagni! È con viva soddisfazione che la nostra delegazione porta, a nome del Comitato centrale del PCUS, a nome di tredici milioni e cinquecento mila comunisti sovietici, un caloroso fraterno saluto al V Congresso del Partito operaio unificato polacco, a tutti i comunisti polacchi. Auguriamo al vostro congresso proficuo e fecondo lavoro.
Noi, vostri amici e compagni, ci rallegriamo di tutto cuore del fatto che il Partito operaio unificato polacco sia giunto al suo V Congresso con ottimi risultati in tutti i settori dell’edificazione socialista. I successi eccezionali della Polonia popolare sono il risultato di un grande e tenace lavoro della classe operaia, dei contadini, degli intellettuali polacchi, il risultato di un immenso lavoro politico ed organizzativo del Partito operaio unificato polacco e del suo Comitato centrale.
L’esperienza del POUP, la sua attività sia all’interno del paese che nell’arena internazionale rappresenta un contributo sostanziale all’esperienza internazionale dei comunisti. Perciò il rapporto d’attività del Comitato centrale e i documenti congressuali hanno per noi tutti un grande interesse.
Molti paesi del socialismo affrontano oggi compiti analoghi sulla via del loro ulteriore sviluppo. L’utilizzazione creativa delle rispettive esperienze, la collaborazione, l’appoggio reciproco, l’unificazione degli sforzi nei settori decisivi aiutano i partiti e i paesi fratelli ad avanzare più rapidamente verso la nostra grande mèta.
Noi viviamo, compagni, in un’epoca complessa e ricca di tumultuosi avvenimenti. Il processo rivoluzionario mondiale si sviluppa irresistibilmente e al suo centro vi è la lotta dei due principali sistemi sociali del nostro secolo, quello socialista e quello capitalista.
Molto è già stato da noi realizzato nel corso di questa lotta su scala mondiale. È sorto, si è affermato e ha difeso il suo diritto all’esistenza il sistema socialista mondiale. L’economia dei paesi socialisti si sviluppa, il loro potenziale difensivo si rafforza, si perfezionano i rapporti sociali, migliora la vita dei lavoratori. Al tempo stesso si approfondisce la collaborazione fra i paesi del socialismo, si consolida la nostra alleanza con le forze rivoluzionarie in tutto il mondo. Il rapporto di forze continua a cambiare a favore del socialismo e dei suoi alleati.
La potenza del campo socialista è attualmente tale che gli imperialisti temono una disfatta militare nel caso di uno scontro diretto, che non va escluso. Occorre però rilevare che, nelle nuove condizioni, gli imperialisti usano sempre più frequentemente un’altra tattica, più perfida. Essi cercano gli anelli deboli del fronte socialista, puntano su un lavoro ideologico eversivo al suo interno, tentano di influire sullo sviluppo economico di questi paesi, di seminare zizzania, di introdurre delle fratture fra di essi, di incoraggiare e di fomentare i sentimenti e le tendenze nazionalistiche; mirano ad isolare singoli Stati socialisti per prenderli poi alla gola uno per uno. Insomma, l’imperialismo tenta di minare la saldezza del socialismo proprio in quanto sistema mondiale.
L’esperienza dello sviluppo e della lotta che si è avuta negli ultimi anni nei paesi socialisti in queste nuove condizioni, compresa la recente galvanizzazione delle forze ostili al socialismo in Cecoslovacchia, ricorda con nuovo vigore ai comunisti dei paesi socialisti quanto sia importante non dimenticare nemmeno per un istante talune importantissime verità confermate dalla storia.
Se non vogliamo veder rallentata la nostra avanzata sulla via dell’edificazione socialista e comunista, se non vogliamo veder indebolite le nostre posizioni comuni nella lotta contro l’imperialismo, dobbiamo salvaguardare sempre ed ovunque, durante la soluzione di qualsiasi problema della nostra politica interna ed estera, la fedeltà incrollabile ai princìpi del marxismo-leninismo, valutare da chiare posizioni di partito e di classe tutti i fenomeni sociali, opponendoci decisamente all’imperialismo sul piano ideologico, senza fare alcuna concessione all’ideologia borghese.
È proprio sulla base dei princìpi del marxismo-leninismo che si sono conseguiti immensi successi nello sviluppo sociale, politico, economico e culturale nei nostri paesi, successi che non hanno precedenti nella storia.
Nel tentativo di compromettere il socialismo, gli ideologi della borghesia speculano sulle difficoltà e gli errori nello sviluppo di questo o quel paese socialista. Che cosa possiamo dire in proposito? Sì, difficoltà ce ne sono state, ce ne sono e probabilmente ce ne saranno anche in futuro e saranno diverse a seconda delle diverse tappe del nostro cammino in avanti.
Alcune di esse hanno un carattere oggettivo, condizionato da fattori storici, naturali ed altri. Altre hanno un carattere soggettivo, dovute al fatto che non sempre è stata data una soluzione del tutto rispondente a questo o a quell’aspetto dello sviluppo, o al fatto che non si riesce ancora ad utilizzare in pieno tutte le possibilità che oggettivamente l’ordinamento socialista mette a disposizione dell’uomo.
Il problema è come reagire alle difficoltà e agli errori commessi.
Gli esponenti di tendenze piccolo-borghesi, di fronte alle difficoltà, si abbandonano all’isterismo e incominciano a dubitare di tutto. Mentre i revisionisti, di fronte alle difficoltà che sorgono, sono pronti a negare il valore di tutte le realizzazioni già conseguite, a rinunciare a quanto è stato conquistato, a cedere su tutte le posizioni di principio.
I veri comunisti invece intraprendono con sicurezza una strada che porti più avanti, ricercano le migliori soluzioni, facendo leva sulle conquiste socialiste. Essi riconoscono apertamente gli errori commessi in questa o quella direzione, li analizzano e li correggono per rafforzare ancora di più le posizioni del socialismo, per non concedere ai nemici del socialismo neanche una briciola di quello che è stato già conquistato con gli sforzi e con la lotta delle masse popolari. Dunque, possiamo affermare con sicurezza che se un partito poggia saldamente sulle posizioni comuniste, se è fedele al marxismo-leninismo, tutte le difficoltà potranno essere superate.
L’esperienza dimostra in modo convincente quale importanza eccezionale, direi decisiva, abbia ai fini della costruzione vittoriosa del socialismo il continuo consolidamento del ruolo dirigente del partito comunista come la forza più avanzata, come la forza di orientamento, di organizzazione, di stimolo di tutto lo sviluppo sociale nelle condizioni del socialismo.
Un partito armato della teoria marxista-leninista e rispettoso della volontà della classe operaia e di tutti i lavoratori è una forza decisiva nella lotta per il socialismo e il comunismo. Al tempo stesso, rappresenta la migliore garanzia che, nello sviluppo della società socialista, saranno pienamente salvaguardati gli interessi di tutte le classi lavoratrici in armonia con quelli degli altri strati sociali.
Non a caso i nemici del socialismo scelgono sempre quale primo bersaglio dei loro attacchi proprio il partito comunista. Non a caso i revisionisti di ogni tipo, portatori dell’influenza borghese in seno al movimento operaio, cercano sempre di indebolire il partito, di minarne la base organizzativa, cioè il principio leninista del centralismo democratico, puntando sull’indebolimento della disciplina di partito. Non a caso essi diffondono «teorie» secondo cui il partito deve «scindere le sue responsabilità» dalla direzione dello sviluppo della società nel campo dell’economia, della vita statale, della cultura, ecc., il che farebbe molto comodo a chi sogna di far marciare a ritroso, in direzione del capitalismo, lo sviluppo dell’intera società socialista.
Nelle attuali condizioni acquista un’importanza sempre maggiore un aspetto così importante dell’attività del partito come il suo lavoro ideologico; la formazione di una concezione del mondo propria dell’uomo della società socialista e comunista, la rinuncia all’ideologia borghese.
Da tutto ciò i comunisti dell’Unione Sovietica ― e, noi ne siamo certi, anche i comunisti degli altri paesi fratelli ― traggono una chiara conclusione: bisogna consolidare con tutte le forze l’unità e la compattezza del partito, accrescerne al massimo il ruolo dirigente nello sviluppo della società, perfezionare la sua attività in tutte le direzioni.
L’esperienza della lotta e la valutazione realistica della situazione venutasi a creare nel mondo dimostrano con tutta evidenza che per i comunisti dei paesi socialisti è vitalmente indispensabile portare alta la bandiera dell’internazionalismo socialista, rafforzare costantemente la coesione e la solidarietà fra i paesi socialisti. In ciò risiede una delle premesse principali della costruzione vittoriosa del socialismo e del comunismo in ciascuno dei nostri paesi e della lotta vittoriosa del sistema mondiale del socialismo contro l’imperialismo.
La difesa di ogni paese socialista, lo sviluppo della sua economia, della scienza e della cultura, richiedono la più larga collaborazione fra i paesi fratelli, il massimo sviluppo dei vari legami reciproci, un autentico internazionalismo.
L’obiettivo principale dell’imperialismo è la divisione dei paesi socialisti, l’indebolimento della nostra unità. La solidarietà dei nostri paesi è un colpo a queste speranze del nemico. E questa solidarietà sta riportando magnifiche vittorie. Ne è un esempio il Vietnam, la cui lunga eroica lotta contro le forze armate della maggiore potenza imperialistica sarebbe stata impossibile senza un attivo ed efficace aiuto dell’Unione Sovietica, della Polonia e degli altri paesi socialisti. La grande vittoria riportata recentemente dal popolo vietnamita, che ha costretto i dirigenti degli USA a cessare i bombardamenti e le altre azioni militari contro l’intero territorio della Repubblica democratica del Vietnam, costituisce al tempo stesso, come rilevano gli stessi amici vietnamiti, una grande vittoria del campo socialista e di tutte le forze della pace del mondo. Testimonianza della nostra solidarietà è anche la Repubblica democratica tedesca. È chiaro a tutti che la costruzione vittoriosa del socialismo nelle complesse condizioni in cui si trova questo paese è indissolubilmente legata all’attivo appoggio e alla solidarietà degli altri paesi socialisti, alla larga collaborazione economica, alla nostra alleanza militare, così come è immenso il peso della solidarietà socialista per la costruzione del socialismo anche negli altri paesi.
Gli Stati socialisti sostengono il rigoroso rispetto della sovranità di tutti i paesi. Noi ci schieriamo risolutamente contro l’intervento negli affari interni di qualsiasi Stato, contro la violazione della sua sovranità.
Per noi comunisti è di particolare importanza l’affermazione e la difesa della sovranità degli Stati che si sono avviati sulla via della costruzione del socialismo. Le forze dell’imperialismo e della reazione mirano a privare il popolo di questo o quel paese socialista del diritto sovrano di assicurare la prosperità, il benessere e la felicità delle larghe masse lavoratrici, costruendo una società libera da ogni oppressione e dallo sfruttamento. E quando gli attentati a questo diritto incontrano una risposta risoluta del campo socialista, i propagandisti borghesi si mettono a gridare sulla necessità della «difesa della sovranità» e del «non intervento». È chiaro che si tratta di un vero e proprio inganno, di pura demagogia. In realtà essi si preoccupano non della difesa della sovranità socialista, ma della sua soppressione.
È ben noto che l’Unione sovietica ha fatto non poco per l’effettivo rafforzamento della sovranità e dell’indipendenza dei paesi socialisti. Il PCUS ha sempre auspicato che ciascun paese socialista determini le forme concrete del proprio sviluppo sulla via del socialismo, tenendo pienamente conto delle peculiarità delle proprie condizioni nazionali. Ma è noto, compagni, che esistono anche le leggi generali dell’edificazione socialista, l’allontanamento dalle quali potrebbe portare all’allontanamento dal socialismo in quanto tale. E quando le forze interne o esterne ostili al socialismo cercano di imprimere ad un paese socialista un orientamento verso la restaurazione degli ordinamenti capitalistici, quando sorge una minaccia alla causa del socialismo in questo paese, una minaccia alla sicurezza della comunità socialista nel suo insieme, ciò diviene non soltanto un problema del popolo di quel paese, ma anche un problema comune a noi tutti, oggetto di preoccupazione di tutti i paesi socialisti.
È comprensibile che un’azione quale l’aiuto militare ad un paese fratello per stroncare la minaccia all’ordinamento socialista è una misura straordinaria, forzata, che può essere provocata soltanto da azioni palesi dei nemici del socialismo al suo interno e oltre i suoi confini, dalle azioni che costituiscono una minaccia agli interessi generali del campo del socialismo.
L’esperienza dice che la vittoria degli ordinamenti socialisti in questo o quel paese può essere considerata nelle attuali condizioni come definitiva e la restaurazione del capitalismo può essere esclusa solo nel caso in cui il partito comunista, quale forza dirigente della società, applichi fermamente una politica marxista-leninista nello sviluppo di tutti i settori della vita sociale, solo nel caso in cui il partito rafforzi instancabilmente il potenziale difensivo del paese, la difesa delle sue conquiste rivoluzionarie, se si impegna, insieme a tutto il popolo, nella vigilanza nei confronti del nemico di classe, mantiene viva l’intransigenza verso l’ideologia borghese; solo nel caso in cui si rispetta rigorosamente il principio dell’internazionalismo socialista, e si rafforzano l’unità e la solidarietà fraterna con gli altri paesi socialisti.
Si può dire con sicurezza che la politica seguita dal Partito operaio unificato polacco è un buon esempio di applicazione di una linea di principio, marxista-leninista, di fedeltà ai princìpi dell’internazionalismo socialista.
Compagni! L’imperialismo mondiale, soprattutto gli imperialisti USA e i loro principali alleati in Europa, cioè i circoli dirigenti della RFT, persistono nella loro politica aggressiva, compiono numerosi passi che portano a peggiorare il clima internazionale.
Gli imperialisti creano focolai di tensione in varie regioni del mondo, intensificano la corsa agli armamenti, mirano a far tornare il mondo ai tempi della «guerra fredda». Nella RFT si fomentano apertamente gli stati d’animo revanscisti che minacciano la pace e la sicurezza dei popoli europei.
A questa linea politica aggressiva, reazionaria i paesi della comunità socialista contrappongono una propria politica, pacifica e realistica, ma intransigente verso gli oppressori e i revanscisti. Questa politica è volta a prestare un deciso appoggio di classe alle forze rivoluzionarie, alle forze del socialismo e del progresso in tutto il mondo. Al tempo stesso questa politica sostiene i princìpi della coesistenza pacifica, auspica la rinuncia ai tentativi di soluzione con la forza delle armi delle questioni riguardanti i rapporti fra i due sistemi sociali contrapposti, tende conseguentemente ad attenuare la tensione internazionale.
Nella nostra lotta per la pace e la sicurezza dei popoli, per la collaborazione reciprocamente vantaggiosa fra gli Stati a diverso ordinamento sociale, noi registriamo importanti successi, particolarmente se i paesi socialisti intervengono in un fronte unico, compatto.
Ma la situazione mondiale richiede da parte nostra un’elevata vigilanza nei confronti del nostro avversario di classe. Perciò ha una grande importanza il lavoro che stanno compiendo oggi gli Stati del Trattato di Varsavia in risposta ai preparativi militari della NATO, nell’intento di rafforzare e di perfezionare il meccanismo militare della alleanza fra i paesi fratelli.
Sappiano coloro che sono inclini a dimenticare le lezioni della storia e coloro che vorrebbero rifare di nuovo la carta dell’Europa: i confini della Polonia, della RDT, della Cecoslovacchia, come pure di qualsiasi altro paese membro del Trattato di Varsavia, sono incrollabili e intangibili e sono difesi da tutta la potenza armata della comunità socialista. Consigliamo a tutti coloro che amano attentare alle frontiere altrui di ricordarsene sempre!
Compagni, i compiti posti dall’ulteriore sviluppo dell’economia della comunità socialista nelle condizioni della rivoluzione tecnico-scientifica richiedono che si affrontino concretamente i problemi dell’allargamento e perfezionamento dei legami economici fra i nostri paesi. Questi problemi, giunti ormai a maturazione, dovranno essere esaminati al più presto in una conferenza dei dirigenti dei partiti e dei governi dei paesi socialisti membri del Consiglio di mutua assistenza economica.
Una più profonda divisione socialista internazionale del lavoro, la cooperazione e la specializzazione della produzione permetteranno di far valere in modo sempre più efficace i vantaggi del socialismo, di far progredire ancor più rapidamente l’economia nazionale di ciascuno dei nostri paesi, di conseguire nuovi successi nella competizione economica con il capitalismo.
Compagni! Le idee del comunismo predominano nel nostro secolo. La propaganda borghese non si è forse mai occupata così attivamente dei problemi del comunismo come ai nostri giorni. È evidente che la borghesia teme l’ulteriore estendersi del movimento comunista, il quale ha già ottenuto uno sviluppo mondiale, ha riportato importanti vittorie e, facendo trionfare il socialismo in paesi di tre continenti, ha dimostrato di saper realizzare nella pratica i suoi princìpi e i suoi ideali.
Le imponenti battaglie che la classe operaia conduce nei paesi capitalistici dimostrano che anche là dove essa e la sua avanguardia rivoluzionaria intensificano l’offensiva contro il capitalismo rappresentano l’esercito della rivoluzione socialista.
Operando in difficili condizioni, agendo non di rado nella clandestinità e fatti segno alla persecuzione e al terrore, i partiti comunisti ed operai dei paesi capitalistici stanno conducendo una dura lotta per la causa della classe operaia, di tutto il popolo lavoratore. Molti di essi sono diventati una notevole forza politica. Essi rafforzano attivamente i legami con le masse, diffondendo le idee del socialismo scientifico, le idee della rivoluzione.
Nel mondo si estendono le fila degli alleati della classe operaia nella lotta contro l’imperialismo. Ciò fa avvicinare l’ora dell’emancipazione sociale e nazionale dei popoli oppressi. Al tempo stesso, altri strati della popolazione, che pur partecipano insieme alla classe operaia al movimento rivoluzionario, vi apportano proprie concezioni e idee che si distinguono dall’ideologia proletaria e alimentano a volte l’opportunismo di destra e l’avventurismo «di sinistra» in singoli distaccamenti del movimento comunista.
Sarebbe sbagliato sottovalutare il pericolo e il danno di tali correnti. È noto che i revisionisti sia di destra che «di sinistra», nonostante la loro apparente differenza di posizione, collimano nell’essenziale: sia gli uni che gli altri travisano la teoria leninista della rivoluzione socialista, sminuiscono il ruolo della classe operaia e della sua avanguardia ― il partito marxista-leninista ― nella rivoluzione socialista e nell’edificazione socialista. Sia gli uni che gli altri si allontanano dai princìpi dell’internazionalismo proletario, indebolendo così la lotta contro l’imperialismo, frenando lo sviluppo del processo rivoluzionario. Per gli uni e per gli altri è caratteristica la chiusura nazionalistica nella valutazione di importanti problemi della lotta rivoluzionaria, che si trasforma a volte in autentico sciovinismo. A quali limiti possano giungere i revisionisti che agiscono sotto la copertura di una fraseologia di sinistra è mostrato dalla politica del gruppo di Mao Tse-tung.
S’intende, tutte queste deformazioni sono profondamente estranee ai veri comunisti, fedeli al marxismo-leninismo. Una importante fonte di forza del movimento comunista è stata sempre l’internazionalismo. Gli interessi della classe operaia e della sua lotta, come insegnava V. I. Lenin, richiedono la completa solidarietà e la più stretta unità degli operai di tutti i paesi, esigono che sia respinta la politica nazionalistica, e la coesione dei comunisti nella lotta in difesa della dottrina rivoluzionaria di Marx-Lenin, nostra efficace arma ideologica.
All’interno di partiti comunisti che operano in condizioni diverse possono manifestarsi atteggiamenti differenti verso questi o quei problemi e sarebbe da parte nostra sbagliato non tener conto di queste divergenze su singole questioni. Talune di esse sono, a nostro avviso, di carattere assolutamente temporaneo e scompariranno man mano che l’evolversi degli avvenimenti arrecherà chiarezza nella sostanza delle questioni controverse. Altre possono, evidentemente, risultare più durature, ma non debbono, a nostro parere, ostacolare la lotta contro il nemico comune.
L’essenziale è che anche in presenza di divergenze su questa o quella questione i partiti comunisti ed operai cerchino vie e mezzi per sviluppare i legami internazionali, aspirino a rafforzare l’unità delle loro file sulla base del marxismo-leninismo. Da parte nostra abbiamo sempre ritenuto utile uno scambio amichevole di opinioni e siamo pronti ad esaminare francamente le questioni che sorgono fra i partiti fratelli, e siamo certi che proprio rafforzando i nostri legami e la nostra collaborazione è possibile risolvere i problemi che sorgono, nell’interesse dell’unità del movimento comunista internazionale. E ciò è naturale, poiché abbiamo una base ideologica comune: il marxismo-leninismo; un nemico comune: l’imperialismo; una mèta comune: la vittoria del comunismo.
È alla luce di tutto ciò che valutiamo anche i preparativi di una nuova conferenza internazionale dei partiti comunisti ed operai. Apprezzando molto il ruolo dei consessi internazionali dei movimenti comunisti, il nostro partito si pronuncia, insieme ad altri partiti fratelli, a favore della convocazione in un prossimo futuro di una nuova conferenza per il cui successo il Partito comunista dell’Unione Sovietica farà tutto quanto è in suo potere.
L’attuale situazione richiede una maggiore coesione dei partiti fratelli per lanciare un’offensiva ancor più potente contro l’imperialismo, nel rinnovato impegno contenuto nella parola d’ordine immortale del nostro movimento: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!».
Compagni! Noi seguiamo con vivo interesse il modo in cui i comunisti polacchi presentano nel loro congresso i problemi dello sviluppo della società socialista. Noi sappiamo bene, sulla base dell’esperienza della costruzione del socialismo nell’Unione Sovietica, quanto sia importante considerare questi problemi in tutta la loro complessità e specificità.
Con l’eroico lavoro di questi anni i sovietici, stretti attorno al partito di Lenin, hanno creato nel nostro paese un’economia moderna che per il volume della sua produzione si è piazzata già da tempo al secondo posto nel mondo, e per una serie di importanti settori anche al primo. I risultati dei primi tre anni del piano quinquennale dimostrano che gli attuali obiettivi economici si realizzano da noi con successo sia nell’industria che nell’agricoltura; si superano i previsti ritmi di incremento della produzione industriale; sono stati attuati importanti provvedimenti per l’elevamento del tenore di vita dei lavoratori. Nel nostro paese gli operai, i contadini, gli intellettuali lavorano con grande entusiasmo, il che permette un continuo rafforzamento dell’unità morale e politica della società sovietica, la sua coesione intorno al partito.
Noi siamo fieri dei successi conseguiti, ma comprendiamo come in una concreta società socialista che si sviluppa non possa esservi una situazione in cui siano risolte tutte le questioni e non ci si debba ripromettere di migliorare ancora. La costruzione del socialismo e del comunismo ha una propria dialettica: il corso stesso dello sviluppo pone sempre nuovi compiti; quanto più alto è il livello raggiunto, tanto più elevate le esigenze nei confronti del partito, dello Stato, di tutti i lavoratori per assicurare un funzionamento preciso e organizzato del complesso meccanismo della vita economica e sociale del paese.
Ecco perché il nostro partito attribuisce grande importanza all’elaborazione scientifica della sua politica verso tutti i settori della vita del paese. Noi dedichiamo grande attenzione al perfezionamento dei metodi di conduzione dell’economia, di pianificazione e di gestione; all’introduzione su vasta scala delle realizzazioni della scienza e della tecnica in tutti i settori dell’economia. Fonte di forza e di ulteriore sviluppo dell’economia sovietica diventano non solo l’aumento numerico delle aziende e la valorizzazione di nuove terre, ma, in misura sempre maggiore, l’aumento dell’efficienza della produzione sociale, l’incremento incessante della produttività del lavoro, l’accrescimento della fertilità del suolo, il miglioramento della qualità dei prodotti.
Nel mondo si sviluppa una rivoluzione tecnico-scientifica senza precedenti, per i suoi ritmi e per le sue proporzioni. E a chi, se non a noi comunisti, che abbiamo compiuto una grandiosa rivoluzione sociale, spetta di essere in prima linea per quanto riguarda le trasformazioni rivoluzionarie della scienza e della tecnica? Il Partito comunista dell’Unione Sovietica ritiene che oggi uno dei nostri compiti più importanti sia quello di accelerare il progresso tecnico-scientifico, di armare i lavoratori delle cognizioni tecnico-scientifiche moderne, di applicare il più rapidamente possibile nella vita i risultati delle scoperte scientifiche. Ciò permetterà di utilizzare in modo più completo l’immenso potenziale creativo della nostra società socialista, accelererà sensibilmente la creazione della base materiale e tecnica del comunismo.
La nostra stessa società ha subìto grossi cambiamenti. Sono mutati la sua composizione sociale e i rapporti fra le classi. È mutata anche la fisionomia spirituale degli uomini che la formano. Le possibilità della nostra società si sviluppano a ritmi rapidi, ma a ritmi altrettanto rapidi si accrescono le sue esigenze.
È necessario che lo sviluppo della vita politica della società sia adeguato a questi processi. Noi attribuiamo importanza decisiva all’ulteriore elevamento del ruolo dirigente del partito. Il perfezionamento dell’opera di direzione del partito è necessario per risolvere con successo i grandiosi compiti che il popolo sovietico, costruttore del comunismo, si è posti.
L’elevamento del ruolo dirigente del partito non presuppone la sostituzione del ruolo dei soviet o degli organismi economici, o dei sindacati e delle altre organizzazioni di massa dei lavoratori, ma, al contrario, deve assicurare la massima attivizzazione di tutti i settori della vita sociale, migliorarne il lavoro, accrescerne il grado di responsabilità.
Il nostro partito applica coerentemente una linea intesa a sviluppare ulteriormente la democrazia socialista. Noi comunisti siamo fautori della vera democrazia e non concepiamo senza di essa un movimento in avanti. Noi per democrazia intendiamo l’inserimento di larghissime masse lavoratrici nella vita sociale e politica, la creazione di condizioni in cui esse partecipino effettivamente alla direzione della società e dello Stato e sviluppiamo e svilupperemo in tutti i modi una tale democrazia.
Compagni, è per noi fonte di ispirazione la consapevolezza che i successi del popolo sovietico nell’edificazione del comunismo, così come pure i successi di tutti i popoli incamminatisi sulla via del socialismo, moltiplicano le forze dei combattenti per la libertà, la pace e il progresso sociale in tutto il mondo.
Noi vediamo la grandiosità e la mole dei compiti che ci stanno di fronte e cerchiamo continuamente le vie più sicure per risolverli. È pensando a ciò che il popolo sovietico si appresta a festeggiare il centenario della nascita del fondatore del nostro partito e dello Stato sovietico, Vladimir Ilič Lenin.
Cari compagni polacchi! I nostri partiti e i nostri popoli hanno percorso insieme un grande e glorioso cammino. In stretto contatto, uniti, i popoli della Polonia e dell’Unione Sovietica stanno edificando una nuova società e collaborano efficacemente su vasta scala in tutti i settori della vita sociale, economica e politica.
Il nostro partito apprezza molto il contributo che i comunisti polacchi hanno dato alla causa del rafforzamento dell’amicizia dei popoli dell’Unione Sovietica e della Repubblica popolare polacca. Quello che è stato raggiunto da noi in questo campo è il risultato della fiducia sincera fra i nostri partiti e popoli, è il risultato dell’applicazione pratica dei princìpi dell’internazionalismo socialista, è l’internazionalismo stesso.
In stretta alleanza con i partiti e popoli degli altri paesi fratelli i comunisti e i lavoratori della Polonia e dell’Unione Sovietica procedono sul glorioso cammino della lotta per la realizzazione dei grandi ideali del comunismo. Nei giorni del vostro congresso, alla vigilia del ventennale del Partito operaio unificato polacco e del cinquantenario della fondazione del Partito comunista polacco i comunisti dell’Unione Sovietica augurano di tutto cuore a voi compagni nuovi successi, nuove grandi vittorie nella costruzione della Polonia socialista.
Viva il Partito operaio unificato polacco, avanguardia dei lavoratori della Polonia, che guida il paese sulla via del socialismo!
Viva e prosperi l’amicizia indistruttibile dei popoli della Polonia e dell’Unione Sovietica!
Viva il comunismo!

* Varsavia, 12 novembre 1968.

Edited by Andrej Zdanov - 10/11/2014, 15:43
view post Posted: 7/9/2013, 19:18 SULLA STORIA DELLA FILOSOFIA DI ALEXANDROV - Politica e ideologia
CITAZIONE
Una sola curiosità: come si è poi evoluta la storia? Cioè, il Manuale è stato poi riveduto e pubblicato o è poi stato abortito come progetto?

Dopo la discussione filosofica, G.F. Aleksandrov fece autocritica e fu spostato ad un'altro incarico: perse la carica di capo del Dimpartimento di agitazione e propaganda del CC del PCUS (questa carica, su decisione di Stalin, fu occupata da Suslov) ed ottenne quello di presidente dell'Istituto di filosofia dell’Accademia delle Scienze; nel 1954-55 fu Ministro della cultura dell'URSS.
La sua opera sulla storia della filosofia, originariamente progettata per essere continuata con ulteriori volumi, fu interrotta. Tuttavia, furono realizzate altre opere filosofiche degne di nota, come il Piccolo dizionario filosofico di Judin e Rosenthal. Nel manuale di Sceptulin, come forse avrai già avuto modo di notare, le parti dedicate alla storia della filosofia sono scritte nella maniera suggerita da Zdanov.
view post Posted: 7/8/2013, 22:39 Hanno perduto la speranza - Scritti di altri autori
Da «Rinascita», a. VI, nn. 11-12, Novembre-Dicembre 1950:


Hanno perduto la speranza


Con la pubblicazione di questo racconto dell’inglese George Orwell, che si intitola «1984», la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire. Il romanzo d’avvenire! Il semplice richiamo a questo genere letterario è pieno di fascino per chi sa quanta e quale parte esso ha avuto nella marcia degli uomini verso una migliore comprensione del loro destino, verso una più grande padronanza di sé stessi, delle proprie forze e di quelle della natura. Si chiude il mondo antico con la immagine della Repubblica ideale, evocata dalle menti più elette; si apre il mondo moderno con le Città del Sole, con le Utopie, con le Atlantidi, con le Oceane, con le Città felici, con le Repubbliche immaginarie, costruite dai più audaci tra i sognatori, dai più conseguenti tra i ragionatori. Il Settecento riprende il motivo, lo giustifica in sede di filosofia, lo estende, deduce secondo ragione un ideale regno della natura, introduce e fa muovere sulla scena del tempo personaggi nuovi: il cittadino di un mondo sconosciuto che, seguendo principi di natura e di ragione, critica, schernisce, distrugge le incongruenze della realtà e della storia; il selvaggio buono, che ha nella mente e nel cuore uno specchio di razionalità. La gente saggia, ch’è venuta poi, dice ch’erano tutte ingenuità e fantasie non giustificate. È in gran parte vero; ma sotto quelle ingenuità e quelle fantasie si avvertono due cose grandi, che sono state molle potenti del progresso umano: da un lato l’audacia di un pensiero che scopre le flagranti ingiustizie della società esistente e lo slancio di un sentimento che ad esse non si acqueta; dall’altro lato la fiducia spesso senza limiti nella ragione umana, e la certezza, quindi, che le ingiustizie presenti saranno riparate e corrette, e un mondo migliore sarà costruito, dagli uomini stessi, e potrà esistere, e in esso vi sarà benessere, felicità, gioia, per il maggior numero possibile di umani.
Altra cosa è il romanzo d’avvenire della borghesia dei nostri giorni, capitalistica e anticomunista, convinta oramai, in sostanza, che la propria fine è possibile e vicina, e decisa, perciò, alle ultime difese. Che alcuni dei suoi uomini, o degli uomini di cultura che si conformano al costume della casta dirigente e la servono, – letterati, artisti, filosofi, – possano avvertire le flagranti ingiustizie del mondo contemporaneo e metterle in luce, parlare dei ricchi e dei poveri, dire che quelli son tracotanti e questi son disperati, che i quartieri operai d’una grande città sono un inferno e che è una dannazione la esistenza dei lavoratori nelle grandi fabbriche, nelle colonie, negli ergastoli dove si creano ricchezze e fasto per una casta di privilegiati, – sì, questo potrebbe ancora, entro certi limiti, venir tollerato. Sia ben chiaro, però, che se si insiste troppo questa non è più arte, è attività politica, è lavoro dell’«agitprop». La realtà bisogna che l’artista la sappia trasfigurare, perbacco; infonderle un soffio di «eticità»; vederla nella coscienza del singolo, dove si possono far diventare grigi tutti i gatti, e l’atto di chi si mette il pigiama per andare al cesso può sprigionare, attraverso il crogiuolo delle parole, altrettanta emozione dello spirito quanto il fatto del bambino che è morto di fame perché il padre e la madre non hanno lavoro. Se vi tenta la descrizione dei fatti, ebbene, descrivete; ma non vi tenti Victor Hugo o Emilio Zola, non date giudizi, non li suggerite. La società non è il vostro tema. Se mai il male sociale vi colpisca e vi soffochi, evadete, evadete: quante cose non si possono scoprire al di sopra della realtà! E non vi seduca nessuna indagine da cui possa scaturire il richiamo a un’azione liberatrice, soprattutto! Non evocate il demonio che è all’agguato! Le radici del male stanno in ciascuno di noi, perché siamo tutti egualmente peccatori, e se anche non abbiamo proprio colpa per aver individualmente peccato, c’è il peccato originale, che spiega tutto, che dà egual senso metafisico all’azione di chi nega la mercede e a quella di chi deve lottare per ottenerla. Come si può prevedere, giunti a questo punto, o costruire, o sognare un avvenire diverso, una diversa società, la fine per il genere umano delle ingiustizie, delle sofferenze inutili, delle miserie, della guerra, di tutte le altre cose mostruose del giorno d’oggi? Non soltanto questo non si può fare, ma occorre fornire la dimostrazione precisa, scientifica vorremmo dire, che qualsiasi sforzo generale e vasto si compia dall’umanità, o dalla parte più avanzata e cosciente degli uomini, per uscire dalle contraddizioni e dalle angosce del presente, gettar le fondamenta di una società nuova e ben ordinata, e costruire questa società, non può condurre ad altro che a un disastro, alla umiliazione della ragione umana, al suo annientamento e all’annientamento di tutto ciò che per gli uomini ha sempre avuto e sempre avrà un valore: la libertà, la dignità personale, la passione per il vero, per il bello, per il giusto.
Così siamo giunti a George Orwell e al suo scritto. Siamo giunti cioè ancora una volta al romanzo di avvenire, ma a un romanzo di avvenire che è precisamente l’opposto di quelli che furono pensati e scritti nei secoli trascorsi, nell’antichità, nel Rinascimento, ai tempi dell’illuminismo, del primo socialismo. Quelli erano la parola – o il sogno, se volete – di un mondo in cui regnava, o rinasceva, dopo secoli di oscurità, la fiducia nell’uomo, la fede nella ragione umana. Erano espressione fantastica di una grande e giustificata speranza. Questo è la parola di chi ha perduto qualsiasi speranza, di chi è intento a spegnerla là dove ne sia rimasta traccia alcuna. È il punto di arrivo della sfiducia nella ragione degli uomini e nelle sorti stesse del genere umano.
A dire il vero, qui saltano fuori anche i difetti del libro dell’Orwell. Egli presenta, sì, il quadro di un futuro catastrofico per l’umanità, ma quando cerca di dare una giustificazione della catastrofe, – e una giustificazione deve darla, altrimenti non si capisce come gli uomini siano potuti arrivare al punto ch’egli descrive, – rivela una totale assenza di fantasia, si riduce a ripetere i più banali argomenti della più vecchia delle polemiche contro il socialismo. La tesi è che non è possibile creare e mantenere la uguaglianza, perché, fatti i primi passi in questa direzione, si ricostituisce un gruppo dirigente e questo, non volendo abbandonare il potere, mantiene la grande massa degli uomini lontana dalla ricchezza. Se non facesse così, i suoi privilegi, – asserisce l’Orwell, – andrebbero perduti. Il potere, poi, per essere mantenuto, richiede la organizzazione gerarchica di un ceto dirigente, ed in questa organizzazione gerarchica quegli uomini che ne fanno parte perdono ogni personalità, libertà, dignità, sono sottomessi alla volontà tirannica di un capo o di un gruppo di capi supremi, che li riducono a essere semplici strumenti passivi e inconsapevoli di qualsiasi abiezione. Al di sotto della gerarchia dirigente, la grande maggioranza degli uomini vive nell’abbrutimento e nella miseria, e per impedire che i beni ch’essa produce in grande quantità servano a elevarne le condizioni, gli stessi beni sono sistematicamente distrutti in una guerra ininterrotta, nella quale si affrontano i tre grandi Stati in cui è divisa la terra, senza che alcuno di essi mai vinca, però, e senza che le gerarchie dirigenti nemmeno desiderino la vittoria, poiché questa potrebbe porre fine al loro potere.
Il tutto, come si vede, è primitivo, infantile, logicamente non giustificato, oppure giustificato soltanto dal richiamo, come dicevamo, a una di quelle «massime eterne» con le quali gesuiti e liberisti credono di avere risposto efficacemente a chi rivendica maggiore giustizia sociale (che la diseguaglianza non si sopprime; che i potenti e i servitori dei potenti e i poveretti ci son sempre stati e ci saranno sempre; che lo sforzo per dominare il mondo economico e dirigerlo si conclude con la fine della libertà). Questo è il primo motivo del relativo successo del libro, che una rivista di sedicenti liberali ha pubblicato in appendice, che raccomandano i preti e Benedetto Croce (il quale, però, forse non l’ha letto tutto con attenzione, come vedremo). L’altro motivo è che l’autore, quando deve descrivere lo stato di catastrofica abiezione cui è ridotta la umanità per il tentativo fatto dagli uomini di creare un mondo ove regnino l’eguaglianza e la giustizia, accanto ad alcune note che chiameremo di varietà, accumula con la maggior diligenza tutte le più sceme fra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti. Nota di varietà, per esempio, è il divieto ch’è fatto ai membri di sesso diverso della gerarchia dirigente di amarsi e congiungersi con amore. La giustificazione anche qui manca, ma la cosa serve a introdurre alcune scene erotiche e qualche parolaccia, secondo la formula corrente dei libri che si vendono. Per il resto, la gerarchia dirigente si chiama «partito»; vi sono anzi due «partiti», uno che dirige l’altro; nel «partito» vi sono continue epurazioni, persecuzioni, soppressioni; si sopprimono, anzi, tutti coloro che han contribuito a far la rivoluzione e se ne ricordano, e regna il terrore davanti ai dirigenti, potenti ma sconosciuti. Nel «partito» si insegna a commettere, per il «partito», le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti, ad affermare che due più due fanno cinque e non quattro, e così via, fino a che dell’uomo intelligente non resta più nulla. Il capo del «partito», infine, ha i baffi neri, e il suo nemico mortale la barbetta a punta. C’è tutto, come si vede; ci sono principalmente tutte le bassezze e le volgarità che l’anticomunismo vorrebbe far entrare nella convinzione degli uomini. Mancano solo, ci pare, i campi di concentramento, perché per sventura sua l’autore è scomparso prima che questa campagna venisse lanciata. Altrimenti ci sarebbe, senza dubbio, un capitolo in più.
Ma il potere della casta che governa questo mondo mostruoso su che cosa si regge, in sostanza? Perché ubbidisce al gruppo più elevato la gerarchia intermedia; che cosa tiene assieme questo «partito» di sciagurati e di cretini; quale forza o quale metodo consente a chi sta in alto di ridurre chi sta in basso alla condizione che abbiamo veduto? Confessiamo che arrivati a questo punto aspettavamo qualcosa di notevole, di impressionante, perché solo qualcosa di simile, cioè un assieme di mezzi misteriosi e potenti potrebbe spiegare il risultato catastrofico che l’autore ci vuol presentare. Ahimè! a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie. Eccolo, l’autore, secondo le indicazioni biografiche fornite non da noi, ma dall’editore stesso, non sappiamo se a titolo di raccomandazione: – la sua carriera si apre nella polizia imperiale inglese della Birmania, di cui è funzionario per sette anni; poi lo si incontra in altre colonie e in qualche centro di vita internazionale; scoppia la guerra di Spagna, ed eccolo in Catalogna, il funzionario della polizia inglese e, naturalmente, tra le file degli anarchici. Quali mezzi misteriosi e potenti per estendere il proprio dominio sugli uomini poteva inventare un simile tipo? E non ha inventato nulla, difatti. Il mezzo ch’egli conosce è uno solo, quello che si adopera contro gl’indigeni in Birmania e altrove, le botte, il calcio negli stinchi, la mazzata nel gomito, la tortura con la corrente elettrica, e poi lo spionaggio, s’intende, ch’è sempre il cavallo di battaglia. E così il racconto chiude con cento pagine di percosse e la minaccia di un supplizio coi topi, copiato, se non erriamo, da Octave Mirbeau, e con stupore ti accorgi che su niente altro che sulle percosse dovrebbe reggere la costruzione intiera.
Doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana. Questa è la sola parola che seriamente e alla fine esce dal suo libro. Bisogna picchiare gli uomini, per espellere dal cuore e dalla mente loro la passione per la libertà, la giustizia, l’eguaglianza; la passione per la generosa utopia. Picchiateli, torturateli, riduceteli un mucchio d’ossa e di carni sanguinolente; allora sarete sicuri di mantenere su di essi all’infinito il vostro potere. Allora non avrete più da temere nulla per la tranquillità della casta dirigente. Non è l’ultima saggezza, questa, della classe che con la bandiera dell’anticomunismo pretende il dominio sul mondo intiero e crede davvero, con le botte, di fermare il corso della storia?
Ma le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell. Vedete che cosa succede a pag. 263. Siamo a un momento culminante della tortura. La vittima è già sfinita, impotente. Ma le botte fioccano ancora e s’accresce il tormento; il poliziotto torturatore ha infatti altre pretese. È una convinzione filosofica, quella ch’egli esige. “Tu credi – dice – che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto?”. Pazzia! Bisogna credere che la realtà non è esterna, che esiste solo nella mente degli uomini… Potenza delle percosse! Persino l’idealismo filosofico viene accettato, dalla povera vittima, senza convinzione, s’intende, ma per farla finita. Avrà letto anche questa pagina, Benedetto Croce, prima di lanciare il libro così come ha fatto?
Speriamo, ad ogni modo, che almeno per l’idealismo filosofico si voglia fare eccezione, onde noi possiamo continuare, senza correre il rischio del terzo grado, ad aver fiducia nella ragione umana, ad essere e dirci materialisti, a coltivare le nostre speranze.
view post Posted: 2/8/2013, 20:15 Brezhnev e URSS: l'apogeo dello sviluppo socialista - Articoli dei membri della Scuola quadri
Dati sull’economia e sullo sviluppo tecnologico nell’era di Leonid Brezhnev’ (1964-1982).
L’industria sovietica nel periodo del socialismo sviluppato è caratterizzata da un rinnovamento strutturale dell’apparato di produzione,crescita esponenziale dell’industria pesante,sviluppo dei nuovi settori industriali(industria aerospaziale,strategico-militare etc.),e modernizzazione degli impianti dovuti alla rivoluzione tecnologica.
Dopo la presa di potere di Leonid Brezhnev,il comitato centrale del PCUS decise di dare una nuova boccata d’ossigeno all’economia sovietica che,nonostante gli incredibili traguardi raggiunti nella prima parte della durata di legislazione di Khrushov’,era entrata a partire dai primi anni sessanta in una rapida fase di declino.
Brezhnev’ decise di riprendere immediatamente le tecniche per lo sviluppo economico che aveva utilizzato già Stalin durante gli anni 30 e 40’ e che erano state considerate inopportune per la crescita di uno stato socialista.
Anni 60’.
Una delle prime riforme varate dal governo brezhneviano consisteva nella soppressione dei comitati regionali dell’economia che appesantivano l’organizzazione e la pianificazione economica dell’Unione Sovietica. Nel giro di un anno questi comitati vennero soppressi totalmente.La seconda riforma di Brezhnev mirava a rafforzare l’industria pesante sovietica grazie a colossali investimenti per la creazioni di nuovi impianti e di kombinat.Nel giro di due anni dal 1966 al 1968 in tutto il territorio sovietico sorsero più di 50 enormi aree industriali. Solamente sugli Urali, principalmente nella zona di Ekatirinburg,vennero costruiti otto kombinat per la produzione di ghisa e acciaio grezzo,mentre nell’area di Tashkent e di Rybinsk e Chelabynsk furono montati enormi cantieri per l’estrazione di petrolio e gas naturale. Attorno a Leningrado furono inoltre costruiti enormi stabilimenti per il montaggio di vagoni ferroviari.
Grande importanza venne infine data alla produzione industriale per fini militari.
Attorno ad Orenburg ed Orol sorsero fabbriche che producevano semoventi d’artiglieria ed antiaerei, mentre intorno ad Ufa furono inaugurati enormi stabilimenti per la produzione di mezzi militari ad uso terreno come carri armati da combattimento ed assalto. A Vladivostok l’industria militare si concentrò sulla produzioni di navi militari corazzate e sottomarini a propulsione nucleare.In Siberia settentrionale e nei pressi di Novaja Zemlja furono sperimentati alla fine degli anni 60 i primi missili balistici intercontinentali che riuscivano a portare più di una testata atomica. Secondo fonti statunitensi il tasso di crescita industriale a fine dell’ottavo piano quinquennale fece un balzo del 8% rispetto agli ultimi dell’era khrusheviana.
Trascurata invece in questi anni fu l’industria leggera.Il piano Kosygin che aveva come obiettivo quello di traslare l’industria sovietica verso un’industria per la produzione di consumo di massa fu definitivamente accantonata.
Dimostrazione della sicurezza economica dell’Urss negli anni 60’ fu la fulminea ricostruzione della città di Tashkent colpita nel 1965 da un fortissimo terremoto che la distrusse completamente.
Di pari passo procedeva l’innovazione tecnologica e scientifica. Grandi passi in avanti si registravano nell’aeronautica sia civile che militare e nell’esplorazione spaziale.
L’Urss dal 1964 era riuscita a dotarsi di caccia e bombardieri supersonici,(ad esempio il Mig-31)capaci di annientare in poco tempo gli eserciti di tutti gli altri stati europei. Grandi passi faceva anche l’aviazione civile dato che dal 1966 al 1970 uscirono più di 20 nuovi modelli di aerei di linea prodotti da Tupolev e dalla Yakovlev. Tutte le maggiori città dell’Unione avevano grandi ed efficienti aeroporti sia commerciali che civili che garantivano la comunicazione tra Mosca e la restante parte del paese.
Il più grande successo della tecnologia sovietica fu però registrato nell’esplorazione spaziale.
Il Cremlino a partire dal 1965 riuscì ad inviare circa 10 navicelle spaziali con equipaggio umano nello spazio per delle esercitazioni in quanto così come gli Stati Uniti,Brezhnev’ mirava di mandare un modulo spaziale sulla Luna. Nel 1969, quando l’Apollo 11 atterrò con successo sulla Luna, gli Stati Uniti erano convinti oramai di aver vinto la competizione, ma le la felicità risultò prematura dato che nel 1970 l’Unione Sovietica riuscì ad inviare il ”Lunakhod” primo rover spaziale mai costruito nella storia dell’uomo che rimase operativo per molti anni prima di guastarsi.
Si calcola inoltre che il 20% degli scienziati sulla Terra avessero cittadinanza sovietica e negli anni 60’ molti di essi ricevettero il premio Nobel.
In conclusione, alla fine degli anni 60’ l’Urss aveva raggiunto il traguardo di seconda nazione più industrializzata del mondo e scientificamente progredita.

Analisi della situazione economica dell’Urss. –Anni 70’—
Negli anni 70’,mentre il mondo capitalista occidentale era alle prese con la prima crisi economica rimarcabile per le gravi conseguenze che ebbe su molti paesi europei(DDR esclusa), l’Unione Sovietica viveva un periodo di velocissimo sviluppo industriale.Ciò era in gran parte dovuto alla relativa tranquillità e stabilita che si era instaurata all’interno del Partito Comunista.
A metà degli anni 60’,deposto Khrushov’,il potere rimase nelle mani di Leonid Brezhnev che divenne de facto guida del Partito e del Paese.Con l’avvento di questi si cerco di dare al paese e alla sua economia nuovo impulso per il rilancio dell’economia che durante gli ultimi anni di governo khrusheviano,-nonostante i grandi traguardi raggiunti-conobbe la prima battuta d’arresto della storia.
Respinta la volontà di Kosygin di traslare l’industria sovietica da pesante a leggera, effettuate 3 importanti riforme economiche miranti ad una migliore pianificazione degli obiettivi da raggiungere e ad una più veloce comunicazione di necessità tra la rete di imprese esistenti,l’economia dell’Unione Sovietica (industria soprattutto) conobbe un boom ed una crescita paragonabili solo al periodo di governo di Stalin.
Priorità di sviluppo venne data senza alcun dubbio all’industria pesante.
Nel 1970 furono montati sul Don 3 importanti centri per la produzione di acido solforico e fertilizzanti chimici.Sugli Urali tra il 1972 ed il 1976 sorsero ben 7 enormi kombinat miranti alla produzione di acciaio,ghisa e altri metalli e leghe metalliche utili per l’edilizia.Negli stessi anni(1972-1976\77) avveniva la massiccia colonizzazione col conseguente sfruttamento delle terre vergini quali Siberia occidentale e Siberia orientale.Presso l’odierna Novosibirsk nacquero aree per l’estrazione di metalli preziosi e non,mentre poco più a nord vennero montati complessi per l’estrazione di petrolio.Furono infatti scoperti in Siberia immensi bacini sotterranei di petrolio e gas naturale che ancora oggi rappresentano grande fonte di ricchezza per la Federazione Russa.Altri kombinat metallurgici e siderurgici sorsero attorno al lago Bajkal attorno al 1976.Quest’ultime zone di produzione avevano dimensioni enormi,infatti il BMKKZ(Bajkalskij metallurghicheskij kombinat krastnoho znamenia) si estendeva su un territorio ampio quasi come l’intera Pianura Padana.Nello stesso periodo, in Siberia, si costruivano stabilimenti per la lavorazione e la produzione di prodotti chimici e farmaceutici.Attorno a questi stabilimenti nacquero di conseguenza nuovi centri abitati che nel corso di 4-5 anni divenivano città di dimensioni considerevoli.Si menzionano ad esempio “Elektrostal” o”Sibirskij Uljanovsk”.
Importante ruolo ebbe anche lo sviluppo di nuovi complessi di fabbriche per la produzione di macchinari adatti a lavoro pesante e alla realizzazione di opere edilizie.Questi complessi sorsero quasi contemporaneamente tra il 1975 ed il 1977 prevalentemente nelle maggiori città del paese come Mosca(Kluchovskij avtozavod),Leningrado(Leninskij avtozavod),Ekaterinburg(???),Orenburg(???),Stalingrado(Zavod 30zi let pobedi),Togliattigrad,Ufa,Kazan etc...
Di grande considerazione godeva e (avrebbe continuato a godere fino agli anni 90) il trattore sovietico,considerato in gran parte del Mondo come mezzo di altissima qualità ed efficienza.Stesso discorso va fatto per le altri mezzi destinati al lavoro agricolo come trebbiatrici,mietitrici,idroirrigatrici,autofertilizzatrici etc……
Notevolissima crescita ebbe anche la produzione di materiali edilizi quali cementi e glasse cementizie. Nel 1978 la produzione di cemento sovietica era due volte più grande di quella del Rego Unito,della Francia e delle due Germanie. Intorno a Mosca infine si svilupparono altre anelli industriali specializzati soprattutto nella produzione di acciaio e convogli ferroviari(Lenensije zavodi).
In numerose altre citta delle altre repubbliche socialiste,negli stessi anni sorgevano numerosi altri impianti industriali.A Kiev’ nel 1976 vennero ultimate le officine e le fabbriche per la costruzione e montaggio di velivoli sia destinati ad uso civile che a quello militare.Ad Osietievo si svilupparono industrie automobilistiche(qui venivano prodotte le mitiche Volghe e i Zaparozhdzi).A Minsk furono edificati attorno al 1976-1977 impianti per costruzione di tram,autobus,filobus,metrotreni e locomotive elettriche o disel. Altri complessi di fabbriche sorsero sul Don e sul Dnepr.
Analogo è il discorso per le repubbliche socialiste asiatiche dove lo sviluppo negli anni 70 si concentro sulla costruzione di impianti destinati alla produzione di energia.Grandi siti d’estrazione di gas naturale si aprivano nei pressi di Tashkent,Samarcanda e Khiva. Grandi dic
ghe per produzione di energia idroelettriche sorsero sull’alto corso del Chirciq e dell1Amurdarja. Grande fu infine lo sfruttamento del tristemente noto mare di Aral.Nel 1977 si verificò un gravissimo incidente in un kombinat per la lavorazione di cotone presso Bukhara che venne completamente bruciato a causa di un violento incendio che fu domato solo dopo 3 giorni grazie ad un massiccio intervento dell’esercito.
Gli anni 70 rappresentavano un periodo di espansione estremamente veloce dei grandi e medi centri abitati.Erano anni durante i quali il governo spendeva gran parte della ricchezza accumulata per cementificare ed elettrificare ulteriormente nuove e vecchie città in crescita.A Mosca per esempio dal 1971 al 1979 erano stati costruiti circa 17 quartieri che accoglievano in gran parte operai delle vicine industrie.Da ricordare è il quartiere residenziale “Troparyovo”.La risposta del governo e le classiche opere edilizie dell’epoca erano i classici palazzoni di 10-12 piani che accoglievano al loro interno oltre 500 famiglie.Contemporaneamente venivano edificati ampi spazi verdi,molte città si munivano di metropolitane e scali aerei.Le vie di comunicazioni terrestri venivano ristrutturate e modernizzate. Sorgevano ovunque nel territorio del paese nuove centrali nucleari(elettronucleari e termonucleari).Si ricordano quelle di Chelabinsk,Dubinovsk,Uralsograd e la tristemente famosa Pripyat’.
Non mi soffermerò molto sullo sviluppo dell’esercito,ma quello sovietico era considerato come il migliore sia per la mole di mezzi e prodotti militari sia per la qualità d’addestramento dei soldati.
Enorme sviluppo negli anni 70 ebbe la scienza ed ilo progresso tecnologico.Il buon andamento dell’economia sovietica permetteva lo sviluppo e la ricerca di nuove tecnologie e l’esplorazione di nuove branche della scienza.Da ricordare il clamoroso lancio e la buona riuscita del primo rover spaziale teleguidato mai cotruito artificialmente,ovvero il Lunakhod’.Negli anni 70(a metà di questi) iniziarono i lavori per il montaggio della stazione spaziale sovietica “MIR”.Ciò nonostante il numero di scienziati sovietici nominati al Nobel diminuì in modo sensibile rispetto ai periodi precedenti. I buoni risultati economici sovietici contribuirono anche allo sviluppo e al perfezionamento del sistema scolastico sovietico,considerato come il migliore nel mondo.L’Urss era infatti la nazione col maggior numero di specializzati del mondo. Il nono ed il decimo piano quinquennale(e l’undicesimo in misura minore) garantirono all’Urss crescita della ricchezza di quantità enorme.
Nel nono piano quinquennale il PIL(fonti sovietiche) crebbe del 9,4% rispetto all’ottavo piano,mentre nello stesso piano quinquennale la produzione industriale blazo del 32% rispetto al quinquennio precedente.
Il decimo piano quinquennale fede una leggera flessione del PIL(sempre fonti sovietiche) che si ferma all’8,7%,mentre la crescita della produzione industriale e del 34%. Proprio a causa di questi dati molti economisti occidentali cominciarono a chiedersi QUANDO e non SE l’economia sovietica avrebbe superato quella degli Stati Uniti.
view post Posted: 29/7/2013, 23:36 Incontro di Yuri Andropov con il personale di una fabbrica di costruzioni meccaniche - Sulla strada del socialismo
Da Yuri Andropov, Sulla strada del socialismo, Mondadori, 1984, Incontro di Yuri Andropov con il personale di una fabbrica di costruzioni meccaniche (31 gennaio 1983), pp. 40-42:


Incontro di Yuri Andropov con il personale
di una fabbrica di costruzioni meccaniche
(Mosca, 31 gennaio 1983)


Yuri Andropov, segretario generale del CC del PCUS, si è recato nella fabbrica di costruzioni meccaniche di Mosca «Sergo Ordjonikidzé». Ha visitato i reparti della fabbrica e ha esaminato la produzione. Si è intrattenuto con operai e capireparto a proposito dell’organizzazione del lavoro, della formazione professionale e del tempo libero. Durante gli incontri si è parlato anche del rinnovamento della fabbrica e di competitività delle macchine utensili sul mercato internazionale. Andropov ha domandato in quali paesi vengano esportate e quale assistenza tecnica venga concessa dalla fabbrica alle aziende sovietiche.
Nel corso di una pausa, nella Sala delle conferenze annessa alla fabbrica, Yuri Andropov si è incontrato con i rappresentanti dei reparti e dell’amministrazione: operai, capisquadra, tecnici, ingegneri, dirigenti e militanti dell’organizzazione del partito, dei sindacati e della gioventù comunista.
Rivolgendosi all’uditorio, Yuri Andropov ha detto che le decisioni del Plenum di novembre del CC del PCUS hanno avuto grande eco in tutti i collettivi di lavoratori dell’Unione Sovietica. Questo significa che il tema affrontato nel Plenum riguarda veramente gli interessi della gente. Noi avvertiamo l’appoggio unanime della classe operaia sovietica alle decisioni del PCUS volte a sviluppare l’economia sovietica.
Il Plenum, ha continuato Andropov, ha tracciato le vie di sviluppo dell’economia nazionale per l’anno in corso e ha fissato traguardi commisurati alle nostre capacità tecniche e produttive, che sono enormi. Non vi è un solo paese al mondo che produca tanto acciaio, tanto petrolio, e lo stesso si dica per un gran numero di altri prodotti. Le decisioni del Plenum sono importanti anche perché tengono conto di una serie di difficoltà, con le quali ci scontriamo e con cui potremo scontrarci ancora nella realizzazione del piano di quest’anno.
Come vi ricordate, ha detto più avanti Yuri Andropov, il Plenum del CC del PCUS ha posto in tutta la sua acutezza il problema del ritardo, in tutta una serie di settori prioritari della nostra economia, rispetto agli indici del piano quinquennale. È stato ugualmente constatato che la produttività del lavoro cresce a ritmi che non possono soddisfarci.
Conoscete tutti, ha continuato Andropov, l’espressione «apportare correzioni al piano». Confesso di non aver mai sentito parlare di correzioni in aumento degli indici del piano. Se si dice «bisogna correggere», questo vuol dire che bisogna diminuire. Non è difficile immaginare i risultati. La fabbricazione dei prodotti diminuisce e i salari restano gli stessi. Inoltre spesso si distribuiscono premi per la realizzazione di un piano ridotto. Si ottiene così, su scala nazionale, uno scarto tra massa di merci in vendita e massa monetaria a disposizione della popolazione.
Come giustamente si dice, i miracoli non esistono. Voi capite che lo Stato non può distribuire più merci di quante ne siano state prodotte. L’aumento dei salari, se non viene coperto da beni necessari e di buona qualità e se il settore terziario zoppica, non può portare a un aumento reale del livello di vita.
La domanda è: come uscire da questa situazione? La strada migliore per noi consiste nell’incrementare la produttività. Tutto ciò che facciamo e produciamo, dobbiamo farlo e produrlo presto e bene, al costo minimo e senza che la qualità scada.
Yuri Andropov ha poi parlato della necessità di migliorare la qualità del lavoro, di accelerarne le cadenze e di ridurre i costi. Parlando della disciplina sul lavoro, ha sottolineato che si tratta di un’esigenza vitale, perché se manca la necessaria disciplina – sia nel lavoro, sia nella direzione economica, sia nelle funzioni pubbliche – non potremo progredire rapidamente. Per mettere ordine non c’è bisogno di investimenti e tuttavia l’effetto è enorme. L’assenteista, il cattivo lavoratore e il fannullone danneggiano non solo se stessi, ma più ancora la collettività e tutta la società.
Abbiamo bisogno di una disciplina coscienziosa sul lavoro che faccia progredire la produzione, ha continuato Andropov. Dobbiamo dare un grande contenuto alla lotta per la disciplina, dobbiamo legarla direttamente al raggiungimento dei traguardi economici. Solo così non si sarà parlato a vuoto e quello che è stato previsto dal Plenum di novembre del CC del PCUS verrà realizzato.
Yuri Andropov si è quindi soffermato su alcuni problemi di attualità internazionale. Non è difficile comprendere, ha detto, che più grandi sono i nostri successi, più la nostra economia è forte, meglio vanno gli affari nella nostra economia nazionale, più saranno solide le nostre posizioni internazionali, più sarà stabile la pace sulla Terra.
Victor Griscin, membro dell’Ufficio politico del CC del PCUS e primo segretario del Comitato del PCUS di Mosca, ha assistito all’incontro.
view post Posted: 29/7/2013, 19:36 Indice - Sulla strada del socialismo

Indice


7 Premessa all’edizione italiana

9 La dottrina di Karl Marx e alcune domande relative all’edificazione socialista in Unione Sovietica
Articolo di Yuri Andropov, segretario generale del CC del PCUS, pubblicato nella rivista «Kommunist» (n° 3, 1983)

32 Risposte di Yuri Andropov alle domande del corrispondente della «Pravda» (27 marzo 1983)

38 Disarmo
Risposte di Yuri Andropov alle domande del corrispondente della «Pravda» (2 febbraio 1983)


40 Incontro di Yuri Andropov con il personale di una fabbrica di costruzioni meccaniche (31 gennaio 1983)

43 Allocuzione pronunciata alla sessione plenaria straordinaria del CC del PCUS (12 novembre 1982)

46 Allocuzione pronunciata alla commemorazione funebre sulla Piazza Rossa (15 novembre 1982)

49 Discorso alla sessione plenaria del CC del PCUS (22 novembre 1982)

63 Sessantesimo anniversario dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
Rapporto presentato alla seduta solenne ordinaria del PCUS, del Soviet supremo dell’Unione Sovietica e del Soviet supremo della Federazione di Russia, dedicata al 60° anniversario della formazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (21 dicembre 1982)

82 Il leninismo illumina il nostro cammino
Rapporto presentato alla seduta solenne tenuta a Mosca in onore del 94° anniversario della nascita di V.I. Lenin (22 aprile 1964)

98 L’internazionalismo proletario è la bandiera dei comunisti
Estratti del rapporto presentato alla Sessione scientifica internazionale tenuta a Berlino in occasione del 100° anniversario della Prima Internazionale (26 settembre 1964)

119 La grande forza vitale della democrazia socialista
Allocuzione pronunciata davanti agli elettori della circoscrizione di Kachira in occasione delle elezioni al Soviet dell’Unione del Soviet supremo dell’Unione Sovietica (1° giugno 1970)

132 Una ricompensa che incita a nuove realizzazioni
Allocuzione pronunciata alla sessione solenne del Comitato del PCUS e del Soviet dei deputati dei lavoratori di Murmansk, in occasione del conferimento alla città di Murmansk dell’ordine della Bandiera rossa per il lavoro (22 dicembre 1971)

142 Il trionfo della politica nazionale leninista
Estratti del rapporto presentato alla sessione solenne dei collaboratori del Comitato per la sicurezza dello Stato presso il Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica, dedicata al 50° anniversario della fondazione dell’Unione Sovietica (15 dicembre 1972)

155 L’amicizia dei popoli sovietici è la fonte inesauribile delle nostre vittorie
Rapporto presentato alla seduta solenne ordinaria del CC del Partito comunista dell’Estonia e del Soviet supremo della Repubblica socialista sovietica d’Estonia, dedicata alla consegna dell’Ordine dell’amicizia dei popoli alla repubblica e dell’Ordine di Lenin alla città di Tallin (27 dicembre 1973)

169 La coesione e l’unità del popolo sovietico
Discorso pronunciato davanti agli elettori della circoscrizione di Kachira in occasione delle elezioni al Soviet supremo dell’Unione Sovietica (6 giugno 1974)

182 L’unità indefettibile del partito e del popolo
Allocuzione pronunciata davanti agli elettori della circoscrizione di Novomoskovsk in occasione delle elezioni al Soviet supremo della Federazione di Russia (9 giugno 1975)

197 Il leninismo, scienza e arte della creazione rivoluzionaria
Rapporto presentato alla seduta solenne tenuta a Mosca in occasione del 106° anniversario della nascita di Lenin (22 aprile 1976)

217 Essere un comunista convinto: in questo risiede la forza di tutti coloro che costruiscono il mondo nuovo
Rapporto presentato alla riunione solenne tenuta a Mosca in occasione del 100° anniversario della nascita di F.E. Dzeržynskij (9 settembre 1977)

236 Alta decorazione al valore nel lavoro e in combattimento
Allocuzione pronunciata alla seduta solenne consacrata alla consegna dell’ordine della Bandiera rossa del lavoro alla città di Petrozavodsk (5 agosto 1978)

250 Sotto la bandiera di Lenin, sotto la direzione del partito
Allocuzione pronunciata davanti agli elettori della circoscrizione di Stupinsk in occasione delle elezioni al Soviet dell’Unione del Soviet supremo dell’Unione Sovietica (22 febbraio 1979)

263 Il leninismo, fonte inesauribile di energia rivoluzionaria e creativa delle masse
Rapporto alla riunione solenne in occasione del 112° anniversario della nascita di Lenin (22 aprile 1982)

Edited by Andrej Zdanov - 1/8/2013, 16:41
view post Posted: 29/7/2013, 13:36 Disarmo - Sulla strada del socialismo
Da Yuri Andropov, Sulla strada del socialismo, Mondadori, 1984, Disarmo, pp. 38-39:


Disarmo

Risposte di Yuri Andropov
alle domande del corrispondente della «Pravda»
(2 febbraio 1983)


Domanda: Come valuta l’appello del presidente degli Stati Uniti «ai popoli d’Europa», nel quale ha proposto che l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti firmino, alle condizioni americane, un accordo sulla soppressione dei missili di media gittata con base al suolo?
Y. Andropov: Prima di tutto devo dire con chiarezza che non c’è niente di nuovo nella proposta del presidente Reagan. Si tratta sempre – e tutte le agenzie d’informazione del mondo l’hanno notato immediatamente – della stessa «Opzione zero». Che essa sia a priori inaccettabile per l’Unione Sovietica, viene ora universalmente ammesso. In effetti, si può forse parlare seriamente di una proposta in base alla quale l’Unione Sovietica dovrebbe distruggere unilateralmente tutti i suoi missili a media gittata, mentre gli Stati Uniti e i loro alleati nord-atlantici conserverebbero tutti i mezzi nucleari di questa categorie di cui dispongono?
È proprio questa posizione non realista degli Stati Uniti che blocca, e questo è ben noto, qualunque progresso nei negoziati di Ginevra. Il fatto che il presidente degli Stati Uniti l’abbia appena ribadita testimonia solo una cosa: gli Stati Uniti non vogliono cercare un’intesa accettabile con l’Unione Sovietica e votano deliberatamente al fallimento i negoziati di Ginevra.
Ho già detto che l’Unione Sovietica non accetterà mai il disarmo unilaterale. Se si arriverà fino al punto di installare nuovi missili americani in Europa, noi risponderemo nel modo dovuto. Ma in questo caso non sarà una scelta nostra.
L’Unione Sovietica raccomanda un’altra via. Sarebbe meglio, e proprio ciò noi proponiamo, che non vi fossero nell’area europea armi nucleari, né a media gittata, né tattiche. Ma poiché gli Stati Uniti questo non l’accettano, siamo pronti a un accordo in virtù del quale l’Unione Sovietica non abbia in Europa più missili di quanti ne abbia attualmente la Nato. Nello stesso tempo si dovrebbe giungere a un’intesa sulla riduzione da ambo le parti, e sino a raggiungere la parità, del numero di aerei equipaggiati con armi nucleari a media gittata. Si otterrebbe così un’uguaglianza assoluta in materia di missili e di aerei; uguaglianza, si badi bene, a un livello molto più basso di quello attuale. L’Unione Sovietica è pronta a firmare un simile accordo che poggia sul principio della pari sicurezza. È pronto a firmarlo il presidente degli Stati Uniti?

Domanda: Il presidente degli Stati Uniti propone un incontro con lei per firmare l’accordo di cui parla. Che cosa può dire a questo riguardo?
Y. Andropov: Abbiamo sempre pensato e continuiamo a pensare che gli incontri al vertice abbiano un’importanza particolare per la soluzione dei problemi complicati. Da qui il nostro atteggiamento serio e ponderato nei loro confronti.
Non è questione per noi di giochi politici o propagandistici. Un incontro tra i dirigenti dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, volto a trovare soluzioni accettabili per entrambi dei problemi sul tappeto e a promuovere le relazioni tra i nostri due paesi, sarebbe utile tanto all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, che all’Europa e a tutto il mondo.
Dal momento che il presidente degli Stati Uniti pone, come condizione per l’incontro, l’adesione da parte dell’Unione Sovietica a una soluzione inaccettabile a priori del problema degli armamenti nucleari in Europa, siamo costretti a prendere atto della scarsa serietà con cui il gruppo dirigente americano affronta il problema di un incontro al vertice. Non possiamo che dolercene.

Edited by Andrej Zdanov - 29/7/2013, 16:45
view post Posted: 29/7/2013, 13:04 Premessa all’edizione italiana - Sulla strada del socialismo
Da Yuri Andropov, Sulla strada del socialismo, Mondadori, 1984, Premessa all’edizione italiana, p. 7:


Premessa all’edizione italiana


Questo volume che le edizioni Mondadori propongono all’attenzione del lettore italiano raccoglie brevi saggi e allocuzioni di Yuri Andropov, il segretario del Partito comunista sovietico recentemente scomparso. Si tratta di testi che risalgono a periodi diversi, prima e dopo l’ascesa del loro autore alle supreme cariche dell’URSS. Da occasioni assai varie Andropov trae pretesto per esporre le linee di fondo che guidano l’azione del Partito e dello Stato. Su un gran numero di temi, relativi in particolare alla democrazia, al lavoro e alla produttività nel «socialismo avanzato», all’atteggiamento sovietico verso i «dissidenti», alla politica internazionale, egli presenta qui, in maniera organica, punti di vista ufficiali che sono poco e mal conosciuti dal lettore occidentale non specialista, e che la leadership del suo successore, Konstantin Cernienko, non sembra destinata a cambiare.

Edited by Andrej Zdanov - 29/7/2013, 16:42
view post Posted: 21/7/2013, 23:39 Conversazione del comp. L.I. Brežnev con il comp. A.S. Dubček - Scritti di altri autori
Beseda tov. L.I. Brežneva s tov. A.S. Dubčekom. 13 avgusta 1968 goda, www.fas.harvard.edu/~hpcws/Besedy.pdf#pagemode=thumbs:


Conversazione del comp. L.I. Brežnev con il comp. A.S. Dubček

13 agosto 1968


Inizio della conversazione: 17.35;
fine della conversazione: 18.55


Leonid Il’ič Brežnev: Aleksandr Stepanovič, ho urgente necessità di parlarti. Ti ho telefonato stamattina presto, poi nel pomeriggio, ma tu eri sempre a Karlovy Vary, poi mi hai telefonato tu, ma in quel momento ero a un colloquio con i compagni. Ora sono tornato e mi hanno detto che da voi è in corso il presidium, quindi dimmi se ti disturbo troppo con questa telefonata.
Aleksandr Stepanovič Dubček: No, si figuri, i compagni mi avevano avvertito che voleva parlarmi. Sono appena tornato da Karlovy Vary. Abbiamo avuto un incontro con il compagno Ulbricht.
Brežnev: Come è andato l’incontro?
Dubček: Penso che sia andato bene. Il compagno Ulbricht e i compagni che erano con lui sono tornati oggi nella Ddr, li ho appena accompagnati.
Brežnev: Abbiamo poco tempo, consentimi perciò di venire subito al dunque. Ancora una volta mi rivolgo a te con inquietudine a proposito dei mass media del tuo paese che non solo informano in modo non corretto circa i nostri incontri a Čierna nad Tisou e Bratislava, ma intensificano gli attacchi contro le forze sane, diffondono l’antisovietismo e le idee antisocialiste. D’altronde, qui non si tratta di aggressioni isolate, ma di una campagna organizzata e, a giudicare dal contenuto dei materiali, questi organi di stampa fungono da portavoce delle forze antisocialiste di destra. Al Politbjuro ci siamo scambiati le opinioni e siamo tutti arrivati alla conclusione che ci sono tutte le condizioni per considerare la situazione in corso come violazione dell’accordo raggiunto a Čierna nad Tisou. Mi riferisco all’accordo intercorso tra noi due nel dialogo a quattr’occhi, così come all’accordo che abbiamo raggiunto durante gli incontri quattro a quattro e all’accordo che ha avuto luogo tra il Politbjuro del nostro partito e il presidium del Comitato centrale del vostro partito.
Dubček: Le ho già detto quali misure stiamo assumendo per porre fine alle manifestazioni antisovietiche e antisocialiste dei mass media. Le ho già detto quali misure intendiamo prendere e secondo quale ordine le eseguiremo. Ma già allora le avevo detto che non sarebbe stato possibile farlo in un giorno. Ci occorre tempo per mettere tutto in atto. Non possiamo riportare l’ordine nel lavoro dei mass media in due-tre giorni.
Brežnev: È vero, Saša, e noi vi avevamo avvisati già allora che le forze di destra difficilmente avrebbero abbandonato le loro posizioni e che, ovviamente, non sarebbe stato possibile realizzarlo in due-tre giorni, ma sono passati molto più di due-tre giorni, e il successo del vostro lavoro in questa direzione dipende da quanto siano risolute le misure che prenderete per il ripristino dell’ordine nei mass media. Certamente, se la direzione del Pcc e il governo della Repubblica socialista cecoslovacca proseguiranno ad attuare una politica di non interferenza, questi processi andranno avanti, non è possibile venirne a capo con una politica di non interferenza. Sono indispensabili misure concrete. Ci siamo già accordati concretamente sulla responsabilità di Pelikán in questa situazione e sul fatto che occorre assolutamente rimuovere Pelikán. Questo sarà il primo passo per ristabilire l’ordine nei mass media.
Dubček: Leonid Il’ìč, di tali questioni ci siamo occupati e continuiamo ad occuparci. Al compagno Černík ho detto quali misure occorre prendere e al compagno Lenárt ho assegnato il compito di prendere tutte le misure necessarie. Per quanto è a mia conoscenza negli ultimi tempi non ci sono stati attacchi contro il Pcus, contro l’Unione sovietica e contro i paesi socialisti.
Brežnev: Come puoi dire così quando tutti giornali, nessuno escluso (Literární listy, Mladá fronta, Reportér, Práce) pubblicano ogni giorno articoli antisovietici e contro il partito.
Dubček: Questo avveniva prima di Bratislava. Dopo Bratislava non si è più verificato.
Brežnev: Come puoi dire solo prima di Bratislava? Ma se l’8 agosto Literární listy ha pubblicato l’articolo Da Varsavia a Bratislava che è un vero e proprio attacco ostile contro il Pcus, l’Urss e contro tutti i paesi socialisti fratelli. E l’8 agosto è già dopo Bratislava.
Dubček: Questo è un caso isolato. Non ne conosco altri. Gli altri sono apparsi prima di Bratislava. Ora prenderemo le misure contro questo articolo.
Brežnev: Non sono d’accordo, Saša. Negli ultimi due-tre giorni i quotidiani che ho citato prima hanno perseverato nella pubblicazione di materiali a carattere diffamatorio all’indirizzo dell’Unione sovietica e degli altri paesi fratelli. I miei compagni del Politbjuro insistono affinché vi venga inviata da parte nostra una relazione urgente a questo proposito, una nota diplomatica, e non posso contrastare la decisione dei compagni rispetto a questa nota. Volevo però, prima che ti venga inviata la nota a questo proposito, parlare privatamente con te.
Dubček: C’è stata una riunione con i lavoratori della stampa. In quella sede sono state giudicate scorrette le azioni dei giornalisti di quelle testate di cui parlava prima ed è stata presa la decisione di far cessare gli interventi polemici.
Brežnev: Saša, il punto non è se c’è stata o meno la riunione dei lavoratori della stampa. I nostri accordi non riguardavano una riunione. Noi ci eravamo accordati sul fatto che tutti i mass media (stampa, radio e televisione) sarebbero stati messi sotto il controllo del Comitato centrale del Pcc e del governo, e che dopo Bratislava sarebbero cessate tutte le pubblicazioni antisovietiche e antisocialiste. Noi, da parte nostra, in Unione sovietica ci atteniamo esclusivamente a questi accordi e non diamo adito a nessun tipo di polemica. Per quanto riguarda invece i mass media cecoslovacchi, stanno proseguendo senza ostacoli ad attaccare il Pcus, l’Unione sovietica e sono arrivati al punto di attaccare i dirigenti del nostro partito. C’è già chi ci ha definito stalinisti e cose simili. A che gioco stiamo giocando, rispondi!
Dubček: [Tace].
Brežnev: Penso che sia giusto dirti che per ora non vediamo nessuna iniziativa da parte del presidium del Comitato centrale per la messa in pratica degli impegni assunti a questo proposito. Ti devo dire sinceramente, Saša, che l’eccessivo ritardo nella realizzazione degli impegni rappresenta di fatto nient’altro che un vero inganno e un autentico sabotaggio delle decisioni prese di comune accordo. Questo atteggiamento nei confronti degli impegni presi crea una nuova situazione e ci spinge a valutare in modo diverso la vostra dichiarazione. E contestualmente a prendere nuove decisioni autonome che possano difendere sia il Pcc che le ragioni del socialismo in Cecoslovacchia.
Dubček: Vorrei soltanto dirle, compagno Brežnev, che stiamo lavorando in questa direzione. Se lei potesse essere qui tra noi potrebbe vedere con quale sforzo stiamo lavorando in questo senso. Ma è una questione delicata e non possiamo risolverla in due-tre giorni come le ho già detto. Abbiamo bisogno di tempo.
Brežnev: Io invece ti devo dire, Aleksandr Stepanovič, che nemmeno noi possiamo sopportare a lungo e che non dovreste costringerci ad aprire una polemica con i vostri mass media e a rispondere a tutti gli articoli e le azioni che vengono consentite ora in Cecoslovacchia contro il nostro paese, contro il nostro partito, contro tutti i partiti socialisti fratelli.
Durante le trattative non vi abbiamo obbligati ad acconsentire a nulla. Avete preso autonomamente l’impegno di riportare l’ordine nei mass media. E una promessa va mantenuta. Va bene, forse posso essere d’accordo con te che per rimettere ordine in questo settore ci sia bisogno di tempo. Ma come pensate di risolvere la questione dei quadri? Va detto che anche in questo senso abbiamo concordato un patto preciso e precisi limiti di tempo per la sua realizzazione.
Dubček: Vorrei solo dirle, compagno Brežnev, che si tratta di questioni estremamente delicate e non è possibile risolverle così come crede lei.
Brežnev: Capisco che si tratta di questioni delicate. Chiedo solo che siano risolte così come abbiamo concordato a Čierna nad Tisou. Quanto fosse complicata la risoluzione di tali questioni era chiaro anche a voi, a Černík, a Smrkovský, a Svoboda quando ci siamo incontrati quattro a quattro. Ma all’epoca voi, con molta semplicità e in piena autonomia, senza nessuna costrizione da parte nostra, avete tirato fuori tali questioni e avete promesso di risolverle nel più breve tempo possibile.
Dubček: Le ho già detto, compagno Brežnev, che è una questione delicata, per risolvere la quale serve convocare il plenum. Ma per riunirlo e risolvere la questione è necessaria la debita preparazione. Mi devo consigliare con i compagni su come risolvere al meglio tale questione.
Brežnev: Ma all’epoca, a Čierna nad Tisou, erano presenti tutti i vostri compagni e non penso che lei abbia preso tutti quegli impegni senza prima consultarvi tra di voi. Gli impegni li abbiamo stipulati noi due da amici, ci siamo stretti la mano, ci siamo detti che la questione era decisa e che in brevissimo tempo l’avreste risolta.
Dubček: Io non ho promesso di risolvere la questione in due-tre giorni. Abbiamo bisogno di un’adeguata preparazione per risolvere al meglio la questione.
Brežnev: Ma non è possibile risolvere questi problemi all’infinito, Saša. Quando hai preparato lo scorso presidium, io e te abbiamo avuto una conversazione. In particolare abbiamo parlato dei problemi relativi ai quadri. Mi riferisco alla nostra conversazione del 9 agosto. Quel giorno mi hai detto che non eri pronto per il presidium, ma che avresti affrontato e risolto quelle questioni al presidium successivo. Ora mi dici che oggi ci sarà il presidium. Affronterai queste questioni al presidium di oggi o no?
Dubček: Solo il plenum del Comitato centrale può affrontare tali questioni.
Brežnev: Va bene. Tu mi hai anche detto che il plenum si terrà nel corso dei prossimi dieci giorni.
Dubček: Sì, pensiamo di tenere il plenum entro fine mese. Ma può darsi anche che lo terremo solo a inizio settembre.
Brežnev: Ma durante questo plenum affronterai la questione dei quadri? Le risolverai in modo positivo, secondo gli accordi di Čierna nad Tisou?
Dubček: [Dà una risposta evasiva nel senso che sarà come deciderà il plenum].
Brežnev: Ecco il nodo del problema. Il nostro e il vostro problema. Ti parlo onestamente, quando io e voi abbiamo parlato a Čierna nad Tisou, pensavo di avere a che fare con l’organo dirigente del partito, con l’organo che ha i pieni poteri. E tutto ciò che ci avete promesso, l’abbiamo preso per oro colato e vi abbiamo creduto in tutto così come si fa tra amici. Personalmente, Saša, non riesco proprio a capire per quale motivo tu rimandi la decisione di tali questioni fino al nuovo plenum, al plenum straordinario. Noi riteniamo che al presidium di oggi si possano risolvere le questioni dei quadri e, credimi, si possono risolvere senza grandi perdite. Se queste questioni tu le porrai al presidium di oggi, è ancora possibile – ma è l’ultima possibilità – salvare la situazione senza grandi costi, senza grandi perdite. Sarebbe peggio se queste perdite dovessero essere cospicue.
Dubček: [Insiste di nuovo sul fatto che le questioni saranno decise dal plenum].
Brežnev: Se capisco bene quello che dici, tu non hai intenzione di affrontare tali questioni nemmeno oggi. Ti voglio fare una domanda diretta, Saša, che cosa hai in mente? In questo modo ci stai ingannando! Non posso far altro che considerarlo un inganno.
Dubček: Leonid Il’ič, se lei vedesse come stiamo preparando queste questioni al presidium, non parlerebbe così. Abbiamo promesso di risolvere i problemi e stiamo prendendo tutte le misure per risolverli nel modo giusto.
Brežnev: Saša, io non sto parlando solo a nome personale. Il Politbjuro mi ha incaricato di parlarti e di chiederti concretamente se oggi risolverai la questione dei quadri oppure no.
Dubček: [Si sottrae da una risposta diretta, rimandando al concetto che non è possibile risolvere immediatamente le questioni dei quadri, che si tratta di un problema grande e complicato e che, come ha già detto, sono questioni di competenza del plenum].
Brežnev: I miei compagni sono interessati a sapere e ti chiedo di dirmi, affinché possa trasmetterlo ai membri del nostro Politbjuro, quali questioni pensate di affrontare al presidium di oggi del Comitato centrale?
Dubček: [Elenca le questioni e dice che sarà esaminata la questione della suddivisione del Ministero degli interni così come dagli accordi di Čierna nad Tisou].
Brežnev: E come verrà risolta tale questione? Così come abbiamo deciso? Ti voglio ricordare, ma so che lo sai da solo, che quando è stata sollevata questa questione, tu ti sei rivolto a Černík. E Černík ti ha detto che la questione era già risolta, che era pronta la candidatura per la seconda carica e che nel corso di cinque giorni avrebbero trasmesso la faccenda a Smrkovský. Allora ti sei rivolto a Smrkovský e lui ha detto che non appena Černík avesse inviato il documento, la vostra Assemblea nazionale avrebbe risolto la questione nel giro di cinque giorni.
Dubček: Sì, allora a Čierna nad Tisou si era detto così, ma adesso la situazione è profondamente cambiata. Da noi è in corso un processo
di federalizzazione. Ci sarà la federazione della Slovacchia e la federazione dei Paesi cechi. E non è possibile risolvere tale questione da parte di un solo ordine direttivo, valido per tutto il paese fino a quando la Slovacchia e i Paesi cechi separatamente, ciascuna per conto proprio, non avrà preso le decisioni necessarie. Per questo oggi al presidium possiamo risolvere la faccenda solo dando al governo e al ministro l’incarico di preparare le prospettive necessarie per prendere in seguito la decisione finale.
Brežnev: Quando?
Dubček: A ottobre, verso la fine di ottobre.
Brežnev: Che ti posso dire, Saša, se non che questo è un ennesimo inganno? È l’ennesima dimostrazione del fatto che ci state ingannando, non posso che definirlo così e sarò con te assolutamente sincero. Se non sarete in grado di risolvere tale questione, mi sembra di poter dedurre che il vostro presidium abbia perso tutto il suo potere.
Dubček: Io non ci vedo nessun inganno, perché stiamo facendo di tutto per rispettare gli impegni presi. Ma dobbiamo rispettarli nel modo in cui è possibile date le attuali circostanze.
Brežnev: Ma tu capisci che queste circostanze, questo modo di adempiere agli impegni presi a Čierna nad Tisou, porranno in essere una situazione completamente nuova, e non possiamo fare altro che tenerla in considerazione, e ci costringerà sicuramente a rivalutare le circostanze e ad assumere nuove misure autonome.
Dubček: Compagno Brežnev, prenda tutte le misure che il vostro Politbjuro del Comitato centrale ritiene necessarie.
Brežnev: Ma se mi rispondi così, devo dirti, Saša che la tua dichiarazione è poco seria.
Dubček: Non posso rispondere altrimenti. Lavoriamo con impegno per adempiere agli impegni. Ma in queste condizioni in dieci giorni o una settimana non ne verremo a capo. Non possiamo fare di più di quanto abbiamo fatto. Abbiamo di fronte un compito enorme e non possiamo portarlo a termine in 10-15 giorni. Come sarebbe possibile realizzarlo in così poco tempo? Non posso assumermi la responsabilità di fare tutto in 5-7 giorni, è un processo complicato che impegna tutto il partito, impegna tutto il paese, impegna tutta la nazione. E il partito deve venire a capo di questo processo, guidare la nazione verso l’edificazione del socialismo. Questo è il nostro dovere, questo è il nostro impegno, ma non è possibile farlo nel breve tempo che lei ci sta suggerendo, compagno Brežnev. Con tutta la responsabilità del caso le dico che se ci ritenete degli ingannatori, allora dovete prendere tutte le misure che il vostro Politbjuro ritiene necessarie.
Brežnev: Saša, capisco che tu sia nervoso, capisco che la situazione per te è difficile. Ma cerca di capire che ti sto parlando da amico, voglio solo il tuo bene. Se ricordi la conversazione tra noi due e quella quattro a quattro, quando avete avanzato le vostre controproposte per il ristabilimento dell’ordine nei mass media, allora ricorderai che non foste voi, ma noi a dirvi che era una faccenda complicata, che per riprendere possesso dei mass media ci sarebbe voluto del tempo, perché le forze di destra si sono infiltrate ovunque, letteralmente ovunque. In tutti i mass media e gli organi di informazione ci sono esponenti di destra che dirigono la faccenda tramite Pelikán, Císař, Kriegel e altri furfanti. Ma voi, allora, a Čierna nad Tisou ci avete detto che avreste risolto il problema, che il nostro aiuto non vi serviva. A quel punto ci siamo accordati definitivamente che dopo Bratislava avremmo posto fine a qualsiasi tipo di polemica. Capisco che sei in difficoltà, ma quello che non riesco a capire è perché non state facendo nulla per superare queste difficoltà. Torniamo per esempio a parlare della questione dei quadri. Per risolvere questo problema non credo che occorra del tempo. Per risolverlo basta il primo presidium. E va detto che anche voi, allora, senza la nostra costrizione, in completa autonomia, ci avete dichiarato che avreste risolto questa faccenda nel più breve tempo possibile.
Dubček: Non posso risolvere questa faccenda da solo. Non è così semplice, compagno Brežnev, risolverla.
Brežnev: Be’, sarebbe stato meglio farlo presente a Čierna nad Tisou, visto che non è possibile dire che si sono svolte delle conversazioni irresponsabili a livello dei due più importanti organi alla guida del partito. Se era chiaro che la questione era di difficile soluzione, non avreste dovuto dire con tanta irresponsabilità il contrario. È questo che penso. È difficile comunicarti, Saša, quanto irritato io sia per ciò che stai facendo adesso. Stiamo parlando di questioni importanti, di questioni di rilevanza enorme, di questioni che decideranno il destino non solo del partito comunista della Cecoslovacchia, ma anche il destino di tutto il campo socialista. Non ho niente di nuovo da chiederti, non ti sto ponendo nessuna nuova questione. Voglio solo sentire la tua parola d’onore su quando pensi di adempiere agli impegni assunti con noi all’incontro di Čierna nad Tisou. Capisci da solo che non è possibile comportarsi così: due partiti fratelli si incontrano, prendono una decisione, e solo dieci giorni dopo una delle parti ha cambiato registro.
Dubček: Non si tratta di un cambiamento di registro, ma di una faccenda delicata che esige ulteriore tempo per l’adempimento degli impegni assunti.
Brežnev: Bene, Saša, permettimi a questo punto di farti un’altra domanda diretta ed esplicita. Sei personalmente nelle condizioni di adempiere agli impegni assunti a Čierna nad Tisou?
Dubček: Ci sarà il plenum, Leonid Il’ič, il plenum deciderà tutto.
Brežnev: Quando è che ci sarà il plenum?
Dubček: Penso che lo decideremo oggi al presidium. Penso che convocheremo il plenum entro la fine di questo mese. Ma non posso dirle una data precisa, perché se poi non dovesse essere quella, qualora il presidium ne scegliesse un’altra, lei mi accuserebbe di nuovo di aver parlato di una data fasulla. Per me la situazione è molto difficile, compagno Brežnev, devo ancora affrontare il congresso e non mi sono ancora minimamente preparato.
Brežnev: Questo è un discorso completamente diverso. A proposito, già che ci siamo, permettimi di dirti la mia personale opinione a questo riguardo. Ho preso parte a molti congressi, e ne ho già guidato uno come primo segretario del nostro partito. Non riesco proprio a capacitarmi di come si possa allestire un congresso in così poco tempo. In fin dei conti un congresso decide molte questioni nella vita di un partito, occorre prepararlo in modo serio, senza fretta. Mi stupisco persino del fatto che tu possa pensare di preparare un congresso in così poco tempo. Ma, come si dice, questo è affare vostro. Non riguarda la nostra conversazione.
Dubček: Sì, è vero. Ma, tenuto presente lo stato reale dei fatti, lavoriamo giorno e notte alla preparazione del congresso. Abbiamo il Programma d’azione, il progetto dello statuto del partito e le questioni relative ai quadri dirigenti. In generale penso che faremo in tempo a preparare il congresso.
Brežnev: Torniamo al tema della nostra conversazione. Non so se potrai far presente ai compagni del presidium la nostra conversazione, l’inquietudine per la situazione in corso che ti ho manifestato.
Dubček: Sicuramente informerò immediatamente i compagni Černík e Smrkovský.
Brežnev: Sì, è giusto, va detto a Černík e Smrkovský, ma io, Saša, penso che anche gli altri compagni sono membri paritari del presidium e occorre far loro presente la mia telefonata. Ti devo dire, Saša, che loro ti vogliono molto bene e possono esserti di grande aiuto, sono tuoi amici veri, sia per quanto riguarda il lavoro passato – prima del plenum di gennaio – sia per la realizzazione del plenum di gennaio, e se vuoi saperlo, loro possono aiutarti meglio di Černík e Smrkovský.
Dubček: Il presidium ha un altro ordine del giorno, ma farò il possibile per dire a tutti i compagni di questa conversazione.
Brežnev: Saša, se ho capito bene al presidium di oggi non affronterai nessuna delle questioni su cui ci siamo accordati a Čierna nad Tisou.
Dubček: Solo quella riguardante il Ministero degli interni.
Brežnev: Da quello che ho capito voi risolverete però anche tale questione in modo diverso, in modo assolutamente diverso, da quanto stabilito a Čierna nad Tisou.
Dubček: [Con evidente irritazione ripete quanto già detto a proposito delle difficoltà legate alla risoluzione di quelle questioni].
Brežnev: Aleksandr Stepanovič, mi rincresce che usi con me un tono così irritato. Quando si ha a che fare con questioni vitali non possono salvare la situazione le emozioni. In questo momento serve buonsenso, giudizio, volontà. Le emozioni, al contrario, non sono di nessun aiuto.
Dubček: Io preferirei abbandonare tutto e tornare al mio vecchio lavoro. Perché sono irritato? Perché noi ci diamo da fare, lavoriamo, facciamo tutto il possibile per rispettare gli impegni presi a Čierna nad Tisou, ma lei non fa altro che accusarci. Questa è già la seconda conversazione in cui mi accusa di non fare nulla e che la sto ingannando, che non voglio risolvere le questioni su cui ci siamo accordati.
Brežnev: Saša, vorrei crederti, ma cerca di capirmi. Ciò che più di tutto mi inquieta è il fatto che voi non avete ancor rimosso dalle loro funzioni i tre su cui ci siamo accordati. Questa è una faccenda molto delicata. Se siete sinceramente convinti che bisogna rimuovere Císař, Kriegel e Pelikán, e che va fatto, io sono allora profondamente persuaso che, se tale vostro convincimento è sincero, potete farlo in modo rapido e semplice.
Dubček: Su quali basi pensa che questo possa essere fatto velocemente?
Brežnev: Le basi ti sono state fatte presenti a Čierna nad Tisou. Non mi sto nemmeno riferendo alle cose che non sono state verbalizzate: il nostro incontro uno a uno o il nostro incontro quattro a quattro, mi riferisco persino alle sedute plenarie quando c’eravamo tutti. Prendi lo stenogramma del mio intervento alla seduta plenaria. Lì troverai tutti i nostri punti di vista. Lo abbiamo detto dritto negli occhi a Kriegel chi è e cosa rappresenta. Lo abbiamo detto apertamente nella sessione plenaria. Quali altre basi ti occorrono, Saša? Bene, tu dici che non puoi risolvere questi problemi al presidium, che occorre convocare il plenum ordinario. Ma dalle tue risposte, perdonami, non ho capito se questi problemi li affronterai al plenum oppure no?
Dubček: Al plenum ordinario verrà eletto un altro primo segretario del Comitato centrale del Pcc.
Brežnev: Non esagerare, Saša, questo genere di affermazioni è inutile. Io non so perché mi stai parlando così, forse non sei a tuo agio a parlarmi in modo più aperto, forse c’è qualcuno che ti tiene in pugno. A questo punto facciamo così, dopo il presidium verrà da te il compagno Červonenko e con lui entrerai maggiormente nei dettagli su quando e come intendi risolvere le questioni su cui ci siamo accordati all’incontro di Čierna nad Tisou.
Dubček: Non posso aggiungere altro. Ho già detto tutto, compagno Brežnev, e al compagno Červonenko non posso dire nulla di più.
Brežnev: Lasciami allora chiederti se risolverai
o no tali questioni al plenum.
Dubček: E chi ha detto che non lo farò?
Brežnev: Stai di nuovo evitando una risposta diretta, non vuoi dirmi se lo farai o non lo farai?
Dubček: La volta scorsa le ho detto tutto e ora posso soltanto ripetere quanto detto in precedenza, che convocheremo il plenum, che organizzeremo il plenum e che per farlo ci occorre tempo. Se lei pensa che vi stiamo ingannando, prendete le misure che ritenete opportune. Questo è affare vostro.
Brežnev: Vedi, Saša, le misure che riterremo opportune, noi le prenderemo sicuramente. E dici bene che è affare nostro. Visto, però, che non è solo affare nostro, ma che è un affare generale, sarebbe più facile prendere delle misure se tu e i tuoi compagni foste più sinceri e diceste quali sono le misure che vi aspettate da noi.
Dubček: Noi possiamo risolvere tutto con le nostre forze, ma se voi ritenete che occorre prendere delle misure concrete, prego, prendetele pure.
Brežnev: Io però non ti sto chiedendo perché non hai risolto questo o quel problema, ti sto chiedendo un’altra cosa, Saša, quando pensi di risolvere le cose su cui ci siamo accordati?
Dubček: Lei non mi sta chiedendo, mi sta rimproverando.
Brežnev: Non ti sto rimproverando, ma constato che dopo i nostri incontri non è cambiato nulla. Non vediamo nessuna azione concreta diretta alla realizzazione degli accordi stipulati tra noi. Ma giacché le cose stanno così, siamo un po’ allarmati. Ci sembra che ci state semplicemente ingannando e che non volete assolutamente eseguire quanto strettamente stipulato sia nei nostri incontri a due, sia in quelli a quattro. Ma se tu mi dicessi che al plenum ordinario risolverai tutti i problemi su cui ci siamo accordati a Cierna nad Tisou, questo, certamente, attenuerebbe i dubbi. Non dico che cesserebbero, ma si attenuerebbero, e comunque noi siamo abituati a crederti, vediamo in te la guida di un partito fratello verso il quale nutriamo grossa fiducia.
Dubček: Fosse per me io andrei a lavorare in qualunque altro posto. Questo mio compito non mi è caro. Che se ne occupi chi meglio crede, che lo faccia qualcun altro il primo segretario del Comitato centrale del Pcc, io non posso più lavorare senza sostegno, in una situazione di attacchi costanti.
Brežnev: Saša, ti voglio parlare col cuore in mano dicendoti che tutte queste difficoltà di cui parli ve le siete creati da soli. Siete rimasti a guardare mentre sotto i vostri occhi Císař e Kriegel collocavano nella stampa, nella radio, nella televisione i propri uomini. Tutte persone che non hanno nulla in comune con il Partito comunista cecoslovacco. Ve lo siete creati da soli il problema dei quadri. Tutti i problemi di cui parli li avete creati voi stessi. Non siamo stati noi a crearveli. Voi avete allentato la presa ovunque, avete perso potere, e ora ve ne rammaricate. Io sono molto dispiaciuto che consideri la nostra conversazione un attacco invece che un sostegno. Prendilo come un gesto di sostegno ciò che ti dico adesso. Non è un attacco nei tuoi confronti.
Dubček: Leonid Il’ič, mi dica, cosa devo fare?
Brežnev: Mi è difficile darti dei consigli, ma voglio dirti che se sarai da solo, se oscillerai tra gli esponenti di destra e quelli di sinistra, non concluderai nulla. Senza la parte attiva del partito non riuscirai a fare niente. Intorno a te ci sono molti buoni compagni, buone persone, buoni comunisti. Se cercherai sostegno in questa parte attiva, se farete causa comune, allora non ci sono Císař e Kriegel che tengano. A Čierna nad Tisou non ci siamo fatti scrupoli nel dirlo in faccia a Kriegel. Ma voi tuttora continuate a tubare con lui e a baciarlo.
Saša, guardati bene intorno. Non voglio fare i nomi al tuo posto, ma tu conosci le persone sulle quali faresti bene ad appoggiarti e appoggiandoti a loro risolveresti tutte le questioni. Ti dico ancora una volta che con le mie parole, con questa conversazione, voglio aiutarti con tutto il cuore.
Adesso siamo ancora tutti vivi: il nostro partito, i partiti fratelli degli incontri di Bratislava, i documenti della riunione di Bratislava. Ti ho fatto presenti i nostri dubbi in modo aperto, sincero, col cuore in mano. Non ti chiediamo niente di eccezionale. Realizziamo gli accordi stipulati e nemmeno un pelo di più. Alla tua domanda su cosa devi fare, ti posso rispondere. Se vuoi evitare i conflitti tra noi, allora realizza gli accordi stipulati. Assestiamo il dovuto colpo comunista alle forze di destra. Dobbiamo colpirli prima del congresso. Un colpo tale che non si riprenderanno più. Solo così il Partito comunista della Cecoslovacchia potrà arrivare al congresso in buone condizioni.
Dubček: E lei pensa che io non lo voglia?
Brežnev: No, non lo penso, ti credo, Saša. Credo che tutto quello che di buono ti auguriamo, lo recepirai nel modo giusto, che capirai che siamo pronti a darti qualsiasi aiuto. Ma ti chiedo di capire che se non realizzerete gli accordi presi, lo sottolineo ancora una volta, proprio quelli concordati, perché non ti sto proponendo niente di nuovo, nessuna nuova questione, significherà la fine della fiducia. Tutto il senso del nostro incontro a Čierna nad Tisou consiste nella massima fiducia reciproca. Tutte le decisioni sono state prese in un clima di enorme fiducia, e proprio questo ci costringe in piena coscienza a rispettare tutto ciò su cui ci siamo accordati. Ti sei dilungato a profusione sulle difficoltà in cui ci siamo imbattuti durante l’attuazione delle decisioni stabilite insieme, dell’accordo stipulato tra di noi. Io ti voglio dire che qualsiasi questione può sempre essere più complicata ancora.
Dubček: Noi non stiamo complicando nulla, stiamo solo facendo i conti con la situazione reale del paese.
Brežnev: Perché dici così? Prendiamo la questione semplice della suddivisione degli organi del Ministero degli interni. Eppure noi abbiamo raggiunto un accordo in proposito, e proprio voi avete detto che era una questione semplice, che avreste potuto risolverla nel corso di 5-10 giorni. Ma allo stato dei fatti non siete venuti a capo di nulla.
Dubček: Perché sono cambiate le circostanze. Ma io le ho detto che né io né Černík ci siamo inventati nulla. Le circostanze sono cambiate. Il nostro punto di vista, invece, sul fatto che sia necessario prendere delle contromisure, non è cambiato. Siamo fermamente convinti che sia necessario prendere delle contromisure. È solo la situazione ad essere cambiata. E questo problema va ora osservato in modo diverso. La risoluzione del problema non dipende più solo da noi.
Brežnev: Saša, permettimi di farti una domanda: cos’è allora che dipende dal presidium del vostro Comitato centrale?
Dubček: Compagno Brežnev, le chiedo ancora una volta di non esigere da me l’attuazione di questa soluzione visto che le circostanze sono cambiate.
Brežnev: Ma io non lo esigo. Mi limito a constatare che il vostro presidium del Comitato centrale non ha nessun potere e siamo dispiaciuti di non averlo saputo all’incontro di Čierna nad Tisou. All’epoca pensavamo di parlare con l’organo che prende tutte le decisioni del paese. Mentre ora viene fuori che abbiamo parlato con un organo che non decide nulla. Viene fuori che la nostra conversazione è stata poco seria.
Dubček: Le ragioni che sono alla base del rallentamento della risoluzione stanno nel fatto che ora la Slovacchia è un paese federale e questo è l’organo di un’unione tra repubbliche, ora è necessaria tutta una serie di istanze per risolvere definitvamente questo problema.
Brežnev: Io ti credo, ma tu cerca di capire me. Non posso affrontare nuove questioni alle spalle dei membri del mio Politbjuro. Non posso acconsentire a nessuno dei tuoi argomenti. Da quanto dici viene fuori che ti trovi di fronte a nuove condizioni, e che non si capisce e non si sa quando porterai a termine quanto stabilito sulla riorganizzazione del Ministero degli interni. Viene fuori che dovremmo rivedere tutti i nostri accordi. Sai bene che ci siamo accordati ai massimi livelli. Abbiamo parlato da soli. Questo è il più alto livello. Abbiamo parlato quattro a quattro, al livello dei primi segretari, al livello dei presidenti del Consiglio dei ministri, al livello dei presidenti dei presidium dei Soviet supremi, da voi l’Assemblea nazionale, cioè abbiamo parlato al livello dove le persone possono decidere qualsiasi questione. Mentre ora viene fuori che queste persone non possono decidere nulla. E ora mi dici di prendere le misure che il Politbjuro del Comitato centrale del Pcus ritiene necessarie. Certamente, non si può non essere d’accordo con te che dobbiamo prendere le misure che riteniamo indispensabili. A proposito, volevo chiederti delle decisioni che abbiamo preso quando eravamo quattro a quattro. Hai comunicato le decisioni al compagno Bil’ak e agli altri compagni che ti sono vicini?
Dubček: Sì, ho informato il compagno Bil’ak circa le decisioni prese.
Brežnev: Hai fatto bene, Saša. Sono loro i tuoi amici più importanti e vicini. Insisto solo nel consigliarti di appoggiarti a loro, appoggiati a loro e vincerai. Non avrai nemmeno bisogno di aspettare il plenum, con il loro aiuto potrai risolvere tutte le questioni al presidium.
Dubček: Comunque, Leonid Il’ič, aspetti il plenum.
Brežnev: Se il plenum ci sarà presto, certo che lo aspetterò. E lo aspetteremo.
Dubček: Io, Leonid Il’ič, capisco bene le sue buone intenzioni, chiedo di tenere conto anche delle nostre difficoltà.
Brežnev: Le vedo molto bene le tue difficoltà, Saša, ma bisogna lottare contro le difficoltà. Del resto lottare contro le difficoltà è possibile a una sola condizione, se assumi la lotta nelle tue mani, se raccogli intorno a te le forze più attive. Appoggiandoti su quei compagni potrai superare le difficoltà.
Dubček: Le mie forze sono esaurite. Non le ho detto per caso che il plenum eleggerà un nuovo segretario. Io penso di lasciare questo compito. Caro Leonid Il’ič, le chiedo di perdonarmi se oggi ho parlato con un po’ d’irritazione, le chiedo cortesemente di perdonarmi.
Brežnev: Saša, io comprendo le difficoltà e il nervosismo. Vorrei che tu capissi che è necessario prendere le misure e rispettare gli obblighi entro i confini di quanto stabiliti a Čierna nad Tisou.
Dubček: Noi desideriamo almeno quanto voi che queste soluzioni vengano trovate positivamente.
Brežnev: Io, Saša, prendo atto della tua dichiarazione perché tutto il senso della nostra conversazione sta nell’aiutarti a rispettare gli accordi. Ma cerca di capire anche noi, non è facile nemmeno per noi. Se gli impegni che abbiamo riportato al plenum, che abbiamo riportato al Comitato centrale, non venissero rispettati, allora il partito ci chiederebbe, in quanto responsabili, il motivo. Vorrei che tu capissi che i buoni rapporti tra i nostri partiti possono essere mantenuti solo a condizione di un reciproco e onesto rispetto degli impegni. Penso che tu non abbia nessuna lamentela da fare al nostro partito, al nostro Politbjuro per quanto riguarda il rispetto degli impegni presi a Čierna nad Tisou.
Dubček: Leonid Il’ič, affermo ancora una volta che non ci stiamo rifiutando di rispettare gli impegni assunti a Čierna nad Tisou. La questione sta tutta nei tempi in cui è possibile farlo. Non abbiamo infatti mai parlato di limiti di tempo concreti e noi abbiamo bisogno di tempo.
Brežnev: Non mettere la questione in questi termini, perché per ogni problematica sono stati indicati tempi precisi. Dato che abbiamo detto che sarebbe stato risolto nel più breve tempo possibile, entro il congresso, questo vuol dire che i tempi erano stati indicati in modo molto chiaro. Non stiamo parlando di due-tre giorni, ma entro il congresso significa chiaramente che tutto deve essere risolto, diciamo, nel corso di agosto.
Dubček: Io le prometto, compagno Brežnev, che faremo tutto il possibile per rispettare i nostri impegni.
Brežnev: Bene, seguiremo con la massima attenzione lo sviluppo degli eventi. Ti chiedo ancora una volta con insistenza di trasmettere il mio saluto a tutti i tuoi compagni di lavoro e di esprimere anche a loro la preoccupazione di cui ti ho parlato. Ora, Saša, vorrei comunque mettermi d’accordo con te sulle nostre conversazioni future. Se non vuoi incontrare il compagno Červonenko, allora restiamo d’accordo che riprendiamo questo discorso dopo che sarà finito il presidium del Comitato centrale. Capisco che possa essere imbarazzante per te uscire a parlare con me mentre gli altri compagni sono ancora seduti a colloquio.
Dubček: Sono d’accordo. Restiamo che parleremo sicuramente dopo il presidium.
view post Posted: 4/7/2013, 19:11 Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista - Scienza, marxismo, cultura
Il carattere di Partito della cultura.

Ma a questo punto, certo, anche il più volenteroso e ben disposto tra i figli del secolo rifiuterà di seguirci al di là di questa seconda pietra di scandalo. Ammettiamo pure, ci dirà, che effettivamente in Unione sovietica sia realizzato un tipo di direzione culturale ben superiore a quello che noi purtroppo abbiamo conosciuto e conosciamo in Italia e nella società borghese in generale. Nessuno può in buona fede negare che la società socialista, una società in cui sono state liquidate le classi oppressive e sfruttatrici, assicuri una libertà ed una attività culturale delle masse che certo sarebbe stata inconcepibile non solo nell'Italia di Gonella o in quella di Bottai, ma anche in quella di Giolitti o di Bonghi. Fin qui si è trattato di condizioni sociali dello sviluppo della cultura e i vostri ragionamenti son comprensibili e magari convincenti. Ma quando nelle risoluzioni del Partito bolscevico ci si viene a parlare di arte e di scienza e di filosofia di Partito o di classe, non si tratta più di condizioni sociali dello sviluppo della cultura, si tratta del Vero e del Bello, che coi Partiti, bolscevichi o no che siano, non hanno proprio nulla a che fare. O che pretenderete, dunque, che l'acqua non bolla più a 100°, in Unione sovietica? Oppure che la velocità di propagazione della luce non sia la stessa per i capitalisti e per proletari? Questa poi davvero che è troppo grossa!
Ed eccoci dunque dinnanzi al terzo scandalo — il più grosso, forse -- che la cultura nuova dell'umanità socialista solleva tra i figli del secolo. Ma, per una volta, vogliamo subito rassicurare quelli tra i nostri ascoltatori che, da veri buongustai bolognesi, fossero preoccupati per un eventuale abbassamento del punto di ebollizione dell'acqua che potrebbe seriamente compromettere, nella società socialista, il giusto grado di cottura delle famose tagliatelle. Non sono meno sensibile di loro a tali preoccupazioni legittime, ma posso garantire, per esperienza personale e diretta, compiuta nella casa ospitale del compagno Marabini, a Mosca, che anche in Unione sovietica l'acqua bolle a 100°, purché siano rispettate le note condizioni di pressione atmosferica e di purezza chimica; e consente, in ogni caso, una perfetta cottura della famosa specialità bolognese. Eppure...
Eppure, lasciando da parte le celie, lo scandalo c'è; ed è proprio vero che, in Unione sovietica, il Partito bolscevico ha molto da dire non solo sui problemi dell'industria o dell'agricoltura o della finanza o della scuola, ma anche e proprio in materia di arte e di scienza, di Bello e di Vero con la lettera maiuscola. Eccoci dunque, ancora una volta, a cercar di chiarire il senso e la portata effettiva di questo scandalo, sicché i figli del secolo, di buona o di mala fede che siano, sappiano almeno di che, effettivamente, debbano scandalizzarsi. E giacché più di una volta, e non a caso, in tutto il corso della nostra esposizione, ci è venuto fatto di parlar a di pietre di scandalo e di figli del secolo, con una terminologia tratta dai documenti della rivoluzione culturale del primo Cristianesimo, vogliamo affrontare anche questo terzo scandalo della cultura nuova dell'umanità socialista con la domanda che Pilato, secondo il Quarto Vangelo, pose a Gesù nel Pretorio: quid est veritas?
«Che è la verità?». La domanda è grossa, certo, e può apparire persino presuntuosa; ma pure, non v'è stata, nella storia dell'umanità, rivoluzione culturale che abbia potuto sfuggire alla necessità di riproporsela, in una forma o nell'altra; così come non v'è stata, dai tempi dei primi graffiti rupestri dell'età della pietra, rivoluzione culturale che non abbia dovuto riproporsi, in una forma o nell'altra, il problema del Bello e del Giusto.
Per noi, che siamo dei marxisti, e non dei metafisici creatori di sistemi filosofici, proprio questo storico riproporsi di tali domande in ogni rivoluzione culturale .dell'umanità, addita la via per ricercare a tali domande una risposta adeguata al grado di sviluppo più avanzato oggi raggiunto dalla coscienza dell'umanità stessa. La via è, come sempre, per noi, non quella della considerazione di questi massimi problemi da un punto di vista e con un metodo metafisico, bensì quella della considerazione storica del loro significato. Ed alla luce di una tale considerazione, ci appare fin d'ora che quella veritas, quel Vero, di cui Pilato, in nome del vecchio mondo greco-romano, domandava l'essenza a Gesù, non era certo quello stesso Vero, che il Cristianesimo additava agli uomini del nuovo secolo dal Golgota; così come quel Bello, scarno e tormentato, che si affermava nella primitiva iconografia cristiana, non era quello stesso Bello che ancora rifulgeva nelle opere di Fidia e di Prassitele.
Abbiamo scelto a bella posta, tra gli esempi che avremmo potuto citare, quello di un caso famoso, universalmente noto, e lontano oramai da noi nel tempo; lo abbiamo addotto a mostrare che il carattere di classe, di Partito, del Vero e del Bello non è poi poi una maligna invenzione dei bolscevichi. Già e sin dai tempi di Gesù, la classe degli schiavi, il Partito di Gesù il Nazareno, il Partito dei cristiani, aveva qualcosa da dire non soltanto a proposito del Giusto e del Santo, ma anche a proposito del Vero e del Bello; qualcosa che era profondamente diverso e nuovo rispetto a quanto del Vero e del Bello diceva Pilato, la classe dei Romani dominatori e proprietari di schiavi, il Partito romano dominante. E anche allora questo nuovo .Vero e questo nuovo Bello, fiammeggianti sugli Apostoli, suscitarono lo scandalo non solo fra le classi dominanti e fra gli uomini della vecchia cultura, ma fra le turbe stesse degli umiliati e degli offesi ai quali si annunciava la Buona Novella: perché anche allora la cultura dominante era la cultura della classe dominante.
All'epoca del cristianesimo primitivo, così — ed in ogni epoca, da che esiste una società di classi — la coscienza sociale del Vero e del Bello (come quella, d'altronde, del Giusto e del Buono) non ci appare come una coscienza unitaria e uniforme; essa ci rivela ed esprime, necessariamente, l'intima dilacerazione di un'umanità, divisa in classi contrastanti, in oppressi ed in oppressori, in sfruttatori e sfruttati. In ogni epoca storica, certo, la cultura dominante è quella della classe dominante che riesce ad imprimere il suo suggello anche sulla concezione che del Giusto, del Buono, del Vero, del Bello si fanno le masse degli oppressi e degli sfruttati. Ma abbiamo già detto come questa egemonia, questa direzione culturale di una classe oppressiva e sfruttatrice sul complesso della società, possa essere assicurata solo da una relativa passività culturale delle masse: sicché inevitabilmente passivo e superficiale resta il suggello stesso che su di esse imprime la cultura dominante. Questa frammentarietà e contraddittorietà, questa intima dilacerazione della società di classi e della sua cultura, si rivela perciò necessariamente nei momenti di crisi storica e culturale, quando una nuova classe, una nuova cultura, si affaccia prepotente alla ribalta della Storia. Salta allora il superficiale suggello di uniformità e di conformismo, che la cultura dominante aveva impresso sull'insieme della società; e la cultura — il Vero, il Bello, il Buono, il Giusto — appare per quel ch'essa effettivamente è: come una cultura — un Vero, un Bello, un Buono, un Giusto — di classe, di Partito. Allora milioni di uomini, che finora avevano passivamente fatto propri i giudizi ed i luoghi comuni della vecchia classe dominante a proposito del Diritto, della Morale, della Scienza, dell'Arte, non convengono più in questo giudizio, non accettano più questi luoghi comuni: il Vero, il. Bello, il Buono, il Giusto divengono apertamente, agli occhi di tutti, una questione di classe, una questione di Partito.
Non è dunque qui, nella sua caratteristica di classe e di Partito, che va ricercata la terza pietra di scandalo della cultura dell'umanità socialista; non è di questa caratteristica, che i figli del secolo hanno ragione di scandalizzarsi: giacché, da quando esiste una società di classi — dai tempi di Pitagora a quelli di Socrate a quelli di Gesù e di San Tommaso e di Lutero e di Galileo e di Diderot fino ai giorni nostri — ogni cultura è stata una cultura di classe; e sempre, da allora, nei momenti di crisi storica, il Vero ed il Bello, non meno del Buono e del Giusto, si son rivelati, agli occhi di tutti, come una questione di classe, come una questione di Partito, che non unisce gli uomini in un giudizio comune, ma anzi li divide e li contrappone.
Non è dunque qui, nella sua caratteristica di classe e di Partito, la effettiva novità e ragione di scandalo della nuova cultura socialista, bensì nel fatto, semmai, che questa sua caratteristica — a differenza di quel che ogni altra precedente cultura non abbia fatto — la cultura dell'umanità socialista apertamente la proclama e la sottolinea.
Rivedete la scena grandiosa di Gesù e di Pilato nel Pretorio che il Vangelo di San Giovanni tratteggia come in un grande affresco. Nel Pretorio, in una decisiva crisi storica, nella persona del romano Procuratore di Giudea e in quella del fabbro di Nazareth, due classi, due civiltà, due culture si affrontano. Tanto è chiaro e spiccato, in quest'ora, il carattere di classe, di Partito, di ciascuna di queste due culture, che il rapido dialogo fra Gesù e Pilato si esaurisce in un susseguirsi di domande che restano senza una risposta che sia per l'altro intelleggibile. Le due culture già parlano due linguaggi che risultano intraducibili l'uno nell'altro; hanno ciascuna la sua verità che gli altri non possono intendere. Lo dice Gesù stesso, in quel suo dialogo, che sembra un monologo di chi parli a chi ha orecchie, e non ode: Qui est ex veritate, audit vocem meam — «chi è dalla verità», solo chi è dalla verità, «ode la mia voce».
Il dialogo si conclude con la domanda di Pilato: Quid est veritas? Nel procuratore di Giudea, disincantato rappresentante delle vecchie classi dominanti e della vecchia cultura, già travagliata da una crisi profonda, si oscura già quella fiducia incrollabile nella propria verità, che è caratteristica delle classi che ascendono alla ribalta della Storia. Questa sua incertezza si esprime nell'intonazione quasi scettica della sua domanda: ma vi è ancora abbastanza certezza, in lui, nella sua verità, nella ferrea verità delle classi dominanti romane, per mandare impassibile al supplizio il Nazareno. E in Gesù, ben più ancora che in Pilato, appare la certezza che la sua verità, la verità di classe degli umiliati ed offesi, la verità del Partito dei cristiani, sia la Verità senza aggettivi: «Io per ciò sono nato, e proprio a ciò son venuto al mondo, per render testimonianza alla Verità».
Così, di volta in volta, le classi che si sono avvicendate al proscenio della Storia hanno affermato — di contro alle vecchie classi dominanti come di contro alle nuovissime che dal basso urgevano — il valore assoluto della loro cultura, delle loro concezioni del Giusto, del Buono, del Bello, del Vero. Cosi la borghesia, di contro al vecchio mondo della feudalità e dell'assolutismo, ha affermato le sue ragioni — la sua ragione – come la Ragione; le sue libertà — la sua libertà — come la Libertà; la sua scienza economica o la sua scienza della Natura, come la Scienza. Essa ha dichiarato nulle le ragioni delle vecchie classi dominanti schiavistiche e feudali ed ha loro contrapposto la Ragione; ha annientato per i proprietari di schiavi e per i signori feudali la libertà di possedere schiavi o servi della gleba, la libertà di amministrare la giustizia o di non pagare le imposte o di far bastonare dai servi i non nobili, e a queste libertà ha contrapposto la Libertà: la libertà per la borghesia di sfruttare gli operai salariati e la libertà per gli operai disoccupati di morire di fame. La cultura nuova della borghesia ha negato il valore scientifico di una secolare teoria economica, che condannava l'usura ed il prestito a interesse del denaro; ha considerato come puerili vaneggiamenti quelli della scienza di Aristotele o della scolastica medievale. Quando miche, dopo la Rivoluzione francese, e poi sempre più, man mano che la pressione più urgente delle nuove classi proletarie attenuava il suo slancio rivoluzionario; quando anche, dicevamo, la cultura borghese ha cominciato a guardare con nostalgia al passato, ed a considerarne le ragioni, le libertà, la scienza, l'arte, la filosofia in maniera non più astrattamente razionalistica, ma storica; anche allora, il vantato « storicismo » della cultura borghese è restato sempre solo rivolto al passato, alla giustificazione e magari alla riesumazione dei valori di antiche culture e di antichi diritti. Di contro all'avvenire, di contro ai valori culturali della nuova classe che batte alle porte, lo storicismo della cultura borghese è cieco e sordo, si sforza invano di ignorarli, di soffocarli, nel folle tentativo di fermare la Storia, di fermare la Scienza, di fermare la Libertà, di fissare per l'eternità il Diritto nelle immobili forme in cui essa lo ha conquistato. E non ammoniva già forse Mefistofele, nel Faust goethiano:

Es erben sich Gesetz' und Rechte Wie eine ew'ge Krankheit fort; Sie schleppen von Geschlecht sich zum Geschlechte Und riicken sacht von Ort zu Ort.
Vernunft wird Unsinri, Wohltat Plage; Weh dir, dass du ein Enkel bist! Vom Rechte, das mit uns geboren ist, Von dem ist, leider! nie die Frage (*).
(*) Goethe: Faust, I Th.


(Si ereditano man mano leggi e diritti — come un'eterna malattia — si trascinano di generazione in generazione — e di luogo in luogo. — La ragione diviene non-senso, il beneficio divien malanno. — Guai a te, che sei un nipote! — Del diritto, che è nato con noi — di quello, ahimé!, non è mai questione!).
Non è a caso che del diritto — della morale, della scienza, dell'arte nuova — che son nati con noi, dalla lotta della classe operaia, non sia mai questione nella cultura borghese. Non è senza motivo che la borghesia — come ognuna delle classi dominanti che sinora si sono avvicendate nella Storia — si sforza di nascondere a tutti i costi il carattere di classe e storicamente limitato della sua cultura, delle sue concezioni del Giusto, del Buono, del Vero, del Bello. Non è senza ragione che la borghesia si sforza di presentare la sua cultura come la Cultura, la sua morale, il suo diritto, la sua scienza, la sua arte come la Morale, il Diritto, la Scienza, l'Arte, negando addirittura alla cultura nuova della classe operaia e dell'umanità socialista, nonché un'universale validità, il carattere' e la dignità stessa di cultura. Tutto ciò non avviene a caso e non è senza una profonda ragione storica. Ciascuna delle classi dominanti oppressive e sfruttatrici, che si sono avvicendate nella Storia, ha potuto consolidare il suo predominio politico nella data società solo nella misura in cui è riuscita e riesce ad affermare la sua egemonia, la sua 'direzione culturale sul complesso della società stessa; e ciò è possibile solo nella misura in cui la classe dominante riesce a presentarsi, di fronte alle masse oppresse e sfruttate stesse, come portatrice ed interprete degli interessi generali. Ma in una società di classi, profondamente dilacerata dai suoi interni contrasti, gli interessi di una classe dominante oppressiva e sfruttatrice — anche quando essa, per avventura, sia ancora una classe rivoluzionaria e progressiva, effettivamente portatrice del progresso storico della società — sono necessariamente in contrasto con gli interessi attuali della grande maggioranza del popolo; e la cultura della classe dominante — il diritto, la morale, la scienza, l'arte — che del suo dominio esprimono le condizioni storiche, non potrebbero esprimere appieno e senza contraddizioni i sentimenti, le aspirazioni, le esigenze di vita della maggioranza degli oppressi e degli sfruttati. Perché la cultura della classe dominante possa affermarsi come cultura dominante in quella data società, è pertanto necessario — l'abbiam già detto — che le masse siano confinate in una relativa passività culturale; è necessario ch'esse siano indotte o costrette a rinunziare ad una propria, autonoma elaborazione culturale, per accogliere ed accettare, invece, come un dato che non si discute, la cultura della classe dominante — il suo diritto, la sua morale, la sua scienza, la sua arte — che deve a tal uopo, appunto, presentarsi non già come una cultura di classe, socialmente frammentaria e storicamente limitata, bensì come la Cultura, il Diritto, la Morale, la Scienza, l'Arte: valori eterni, che sempre son stati e sempre saranno; o che, comunque, dopo gli infantili vaneggiamenti del passato, la classe dominante ha per sempre fissato nella loro immutabile sostanza.
Profondamente diverse, anzi diametralmente opposte, sono le condizioni obiettive nelle quali la classe operaia — prima e dopo la conquista del potere politico — conduce la lotta per l'affermazione della sua cultura. Per le vecchie classi dominanti oppressive e sfruttatrici, che si sono avvicendate nella Storia, condizione dell'affermazione e del consolidamento della loro egemonia culturale era ed è quella di mantenere accuratamente celato di fronte alle masse, e persino di fronte a se stesse, il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, della loro cultura. Tra le masse degli oppressi e degli sfruttati, in effetti, la dichiarazione aperta del carattere di classe della cultura dominante avrebbe come inevitabile conseguenza lo scoppio di una vera e propria rivolta culturale, una loro immediata attivazione sul terreno di una autonoma elaborazione culturale che entrerebbe necessariamente in aperto contrasto con quella delle classi sfruttatrici. Ma di fronte alle classi sfruttatrici ed oppressive stesse, un'aperta dichiarazione del carattere di classe della loro cultura rappresenterebbe un pericolo mortale: essa rivelerebbe loro il carattere socialmente frammentario e storicamente limitato della loro cultura, mostrerebbe loro che il loro dominio, se ha un passato di storica ascesa e un presente magari ancor saldo, non ha un avvenire se non di decadenza e di disfacimento.
Per la classe operaia, per contro, la constatazione e l'aperta dichiarazione del carattere di classe di ogni cultura in una società di classi costituisce una vitale necessità di lotta, fin dal momento in cui essa si vien costituendo come classe, e si pone il problema della conquista del potere. All'apparire sulla scena politica della classe operaia, per la prima volta nella Storia, la classe che storicamente si pone il problema della conquista del potere non è più una classe che — se pur magari impedita e taglieggiata, come avveniva per la borghesia nel regime feudale — è essa stessa oppressiva e sfruttatrice. La classe operaia è anzi, nella società contemporanea, la classe più oppressa e più sfruttata, la sola che in alcun modo non partecipi allo sfruttamento e all'oppressione di altre classi. Essa non ha nulla da temere dall'ascesa politica e culturale delle altre classi o nazionalità oppresse e sfruttate; anzi sa che non può liberar se stessa senza liberare tutti gli altri oppressi e sfruttati, senza liberar tutta la società da ogni forma di oppressione politica, nazionale, sociale, religiosa, culturale, -senza costruire una società senza classi, ove sia abolito ogni sfruttamento ed ogni oppressione dell'uomo sull'uomo. Per questo, a se stessa — per conquistare la propria coscienza socialista — la classe operaia ha bisogno di dichiarare apertamente il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, di ogni cultura nella società di classi. Ne ha bisogno per acquistar la fiducia e la certezza scientifica nella possibilità storica di battere la forza poderosa di « quel che è, quel che è sempre stato », il monopolio della cultura da parte delle classi dominanti oppressive e sfruttatrici. Ne ha bisogno per arrivare a liberar se stessa dal soffocante suggello della cultura — del diritto, della morale, della scienza, dell'arte — borghese, che tende a mortificarne lo slancio rivoluzionario; ne ha bisogno, ha bisogno di proclamarlo apertamente di fronte a tutti gli oppressi, a tutti gli sfruttati, per liberar le loro inesauribili energie rivoluzionarie nella lotta comune.
A differenza di quel che avveniva per le vecchie classi dominanti oppressive e sfruttatrici, anche dopo la conquista del potere politico, la classe operaia non ha ragione di temere di proclamare apertamente il carattere di classe, di Partito, di ogni cultura nella società di classi. Al contrario: più che mai, dopo la conquista del potere, nella lotta per la costruzione socialista, nella lotta per il passaggio alla fase superiore della costruzione di una società comunista, quando si tratta di liquidare i residui ideologici della società di classi nella coscienza di milioni di uomini, la classe operaia ha ragione e bisogno di proclamare questo carattere di classe, di Partito, della cultura in ogni società di classi. Tutte le classi oppressive e sfruttatrici che sinora si erano avvicendate nella Storia si erano sempre proposte come obiettivo quello della sostituzione di un sistema di oppressione e di sfruttamento con un altro sistema di oppressione e di sfruttamento; di una società di classi con un'altra società di classi. Esse avevano ed hanno, perciò, buone ragioni per voler nascondere a se stesse e alle masse il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, del loro dominio e della loro cultura. Il solo obiettivo storico che la classe operaia, per contro, può porsi sulla, via della propria emancipazione, sulla via dell'affermazione, della propria egemonia, è quello della costruzione di una società senza classi. Il suo obiettivo di classe non può esser che quello dell'abolizione del proprio dominio di classe e di ogni classe in generale, della costruzione di una umanità liberamente associata e non più intimamente dilacerata. Per questo, la classe operaia non ha nessuna ragione di nascondere a se stessa e a tutto il popolo il carattere temporaneo, storicamente limitato, del suo dominio di classe; il carattere ancora frammentario, di classe, storicamente limitato, della sua cultura, del suo diritto, della sua morale, della sua scienza, della sua arte. Al contrario: la classe operaia sa e dichiara apertamente che, anche dopo la conquista del potere, anche dopo la costruzione del socialismo in un solo paese, la sua cultura — il suo diritto, la sua morale, la sua scienza, la sua arte — non può essere ancora una cultura universalmente umana, perché l'umanità è ancora, su scala mondiale, obiettivamente dilacerata in classi; perché, all'interno della società socialista stessa, se pure già più non esistono classi antagonistiche, i residui ideologici, culturali della società di classi debbono essere liquidati nella coscienza degli uomini. E proprio per questo non solo nei paesi capitalistici, ma nel paese stesso del socialismo, la classe operaia ed il suo Partito particolarmente insistono sul carattere di classe di ogni cultura: perché solo dalla chiara coscienza della persistente frammentarietà ed intima dilacerazione della cultura sorgono le forze necessarie al compimento della costruzione di una cultura umana, universalmente valida: capace, certo, di un infinito approfondimento, perché inesauribile ed infinitamente conoscibile è la realtà di cui l'umanità associata prende coscienza, ma non più frammentaria e dilacerata dalla obiettiva dilacerazione della società in classi
Ancora una volta, così, anche il terzo scandalo che la cultura nuova dell'umanità socialista solleva tra i figli del secolo, ci si rivela ben più grave e più profondo di quel che esso non possa apparire a prima vista. Non si tratta semplicemente del fatto che le risoluzioni del Partito bolscevico proclamano apertamente quel che le classi dominanti oppressive e sfruttatrici accuratamente si sforzano di nascondere, cioè il carattere di classe di ogni cultura, in una società di classi. Si tratta di qualcosa di ancora ben più nuovo e più profondo: si tratta del fatto che, proprio proclamando apertamente il carattere di classe, di Partito, di ogni cultura nella società di classi, per la prima volta nella Storia, i popoli del paese del socialismo, sotto la guida del Partito bolscevico, concretamente si pongono il compito della costruzione di una cultura che — da una società non più dilacerata in classi — sorga non più come frammentaria cultura di classe, ma come cultura umana, universalmente valida.
Avevamo dunque ragione, ancora una volta, quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica. Ma qui, a dire il vero, non si tratta più soltanto di una rivoluzione culturale, nel senso corrente della parola; si tratta di una vera e propria rivoluzione gnoseologica senza precedenti nella Storia dell'umanità. Si tratta del fatto che, con la costruzione di una società senza classi, delle possibilità non solo quantitativamente, ma qualitativamente nuove, si aprono dinnanzi alla capacità dell'umanità associata di prender coscienza del mondo. Questo significa, in altri termini, che per l'umanità tutta la costruzione di una società socialista già rappresenta non solo una conquista politica, economica, sociale, culturale di immensa portata storica, ma anche una poderosa conquista gnoseologica.
E le considerazioni che qui appresso verremo svolgendo varranno, ci auguriamo, a dare un'idea più precisa dei passi che già, su questa via, si van compiendo in Unione sovietica.


La costruzione del socialismo come conquista gnoseologica.

Abbiamo parlato della costruzione di una società socialista come di una conquista non solo economica, sociale, politica, culturale, ma gnoseologica dell'umanità; cerchiamo di approfondire e di chiarire ora il senso di questa affermazione.
Costruire una società socialista significa creare una nuova civiltà, dei nuovi rapporti tra gli uomini, e per ciò stesso una cultura nuova. Ogni cultura è la forma nella quale una data società prende coscienza di se stessa e del mondo: una coscienza, beninteso, che non significa passiva registrazione, ma è sempre e necessariamente pratica sociale, attivo intervento nella realtà di cui si prende coscienza. Per questo, della cultura, della coscienza sociale di una società data, non saprebbero esser considerate parte integrante solo la filosofia, la scienza, l'arte, ma a pari diritto la tecnica, la morale, il diritto, la politica. Un esame più attento ci mostra, anzi, che una cultura, nel senso proprio della parola, non nasce e non può nascere se non là dove, di fronte al momento della passiva registrazione, questo momento dell'attività, della pratica umana prende tutto il suo necessario rilievo.
Per la società presa nel suo complesso, in effetti, come per ciascuno di noi individualmente preso, cultura, coscienza, non sono qualcosa di immediato, di istantaneo. Per ciascuno di noi, come per la società presa nel suo complesso, coscienza, cultura, significano tutto un processo storico, nel quale quelli che si vengono elaborando non sono solo i dati immediati della nostra esperienza, ma materiali accumulati e trasmessi dalle precedenti generazioni. Da questi materiali, d'altronde, la nostra più immediata esperienza stessa è ad ogni istante condizionata. Il paesaggio, così, di cui l'uomo di Milano o di Londra, o anche quello della Lucania o della Valle del Tennessee, fa l'esperienza fin dalla sua, nascita, non è una tabula rasa, ma un paesaggio umano, nel quale è già profondamente iscritta l'opera, a pratica delle passate generazioni; e così pure la lingua che egli apprende sin da bambino, la foggia del vestire che gli si impone, i luoghi comuni sociali, morali, scientifici, religiosi, politici che lo dominano, i libri ch'egli legge, son qualcosa che gli si presenta come un dato, come una immane congerie di dati storici che sono un prodotto non suo, ma di una serie innumere di generazioni passate.
Per ciascuno di noi, come per la società presa nel suo complesso, una coscienza, una cultura nuova, nel senso proprio della parola, nasce solo là dove, di fronte a questi dati, a questi materiali che la storia offre ed impone alla nostra esperienza, noi assumiamo un atteggiamento non più semplicemente contemplativo e ricettivo, ma pratico ed attivo. Quel mondo dato, in effetti, che si presenta alla nostra più immediata esperienza, è sempre, intorno a noi, ed in noi stessi, un mondo incoerente ed incongruo, nel quale stratificazioni recenti e remote, antiche e nuove sedimentazioni culturali — come in certe bizzarre formazioni geologiche — arbitrariamente e casualmente, sembra, s'intrecciano. Guardatevi attorno qui, a Bologna: accanto ai resti dell'antico abitato dell'epoca villanoviana ed etrusca e poi di quella dell'invasione gallica, ritrovate ancora chiese e palazzi sulle cui fondamenta latine si è innestato un edificio medievale; e poi, accanto, la trattoria ottocentesca e il moderno negozio di apparecchi radio, e la sede della Camera del lavoro o della lega dei braccianti, e poi la voce di questo microfono dal quale io vi parlo. E se dal mondo che vi circonda voi rivolgete il vostro sguardo in voi stessi, ritrovate sempre un simile intreccio, un'analoga sovrapposizione e intersecazione di storiche sedimentazioni: e il linguaggio, nel quale formulate i vostri pensieri, su di un fondo latino e finanche prelatino ha accolto e conserva accenti celtici e vocaboli germanici; e le nozioni che vi si affollano alla mente vi vengono dalla famiglia e dalla scuola e dall'officina, e son giudizi e pregiudizi che, senza rendervene conto, avete accolto dalla famiglia e dalla scuola e dall'officina, e sovente — come avviene per le vostre nozioni e previsioni meteorologiche — da antichissime tradizioni dei vostri avi contadini.
Una coscienza, una cultura — nel senso proprio della parola — nasce per ciascuno di noi, e per la società presa nel suo complesso, quando, in questo apparente caos che è il mondo della nostra più immediata esperienza, il mondo che si offre alla nostra contemplazione, noi ritroviamo, attraverso la nostra attività pratica, individuale o associata, un filo conduttore, un ordine, una coerenza, una unità. E conoscere Bologna significherà, per l'archeologo o per il turista, imparare ad orientarsi nell'intrico delle sue vie e delle sue piazze, imparare a trovare un senso nel succedersi e nel sovrapporsi dei suoi monumenti e del loro vario stile.; significherà per il piazzista imparare che importanza la vostra città abbia come centro di traffici, e in che senso egli debba orientare lo smercio di una determinata partita di vini, o magari la sua ricerca della miglior trattoria; e significherà per l'organizzatore sindacale intendere la struttura e le caratteristiche della massa dei lavoratori bolognesi. Saranno vari modi di conoscere Bologna, tutti unilaterali e parziali, certo; e a questi vari modi, legati ad una diversa pratica individuale, corrisponde una diversa cultura; ma a ciascuna di queste parziali e individuali culture, Bologna non si presenta già più come un'informe e incoerente congerie di dati, ma come un'unità, come qualcosa in cui ogni parte ha una sua ragion d'essere, un suo nesso con le altre, un suo sviluppo, una sua storia: sicché non solo l'archeologo non potrebbe intender nulla dei vostri monumenti senza studiare le vicende della vostra città, ma neppure il piazzista o l'organizzatore sindacale conoscerebbe la Bologna dei traffici e del lavoro se non imparasse a considerare usi commerciali stabiliti o tradizionali tendenze delle organizzazioni dei lavoratori. Se poi di nuovo, dalla città e dal mondo che ci circonda, rivolgiamo lo sguardo in noi stessi, nel mondo dei nostri pensieri e delle nostre nozioni, e da questo punto di vista, ora, consideriamo come una coscienza e una cultura, nel senso proprio della parola, si vengano maturando, di nuovo ritroviamo che una cultura, una coscienza scientifica, superiore, nasce solo
così e là, dove nella congerie dei dati, delle nozioni passivamente acquistate, una nostra attività ritrovi e stabilisca una coerenza, inquadrandole in quella che i tedeschi chiamano una Weltanschauung, una più o meno elaborata concezione del mondo. Anche nel mondo delle nostre nozioni, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, in effetti, quel che noi spontaneamente ritroviamo è una congerie incoerente di dati, di stratificazioni e di sedimentazioni della più varia provenienza, che bizzarramente s'intrecciano e s'intersecano, proprio come avviene delle vie e delle piazze e delle successive strutture edilizie in un'antica città: del cui intrico nessuno, a prima vista, potrebbe darsi una ragione, senza considerarne, appunto, la storia. E così pure dell'incoerenza di quella congerie di dati e di nozioni tradizionali, che noi spontaneamente ritroviamo in noi, possiamo darci ragione e superarla, conquistandoci una cultura, una più o meno elaborata concezione del mondo, solo quando, di quei singoli dati incoerenti, storicamente consideriamo e critichiamo l'origine e la validità. Non vi è cultura, non vi è scienza, in particolare, là dove una nozione, le nozioni che abbiamo in noi, restino semplici dati, tradizionalmente e passivamente acquisiti, senza essere inquadrati in una coerente — se pur elementare, magari — concezione del mondo.
Soffermiamoci a considerare, proprio, come, in un caso concreto, si effettui questo passaggio dall'accettazione passiva di dati tradizionali — folcloristici, come efficacemente scriveva Gramsci — ad una conoscenza scientifica di fatti della nostra più corrente esperienza.
Ciascuno di noi ha appreso, a scuola, alcune nozioni scientifiche elementari sull'avvicendarsi delle stagioni, su equinozi e solstizi, e altre interessanti cose del genere. Può darsi che parecchi tra noi, con un certo sforzo di memoria, sappiano anche ripetere queste nozioni elementari di astronomia. Ma la maniera in cui queste materie si studiano nelle nostre scuole ha fatto sì che queste nozioni siano state da quasi tutti noi passivamente accettate ed accolte, come qualcosa, appunto, di dato, di tradizionale, senza una nostra attiva partecipazione.
Ecco dunque in noi un dato, accolto da una determinata tradizione, che è, diciamo così, la nostra tradizione scolastica:
nella quale, malgrado le manchevolezze delle nostre scuole, abbiamo generalmente una fiducia abbastanza sicura, almeno per quanto riguarda l'insegnamento scientifico. Ma accanto a queste nozioni elementari di astronomia, che ritroviamo in noi come dato della nostra tradizione scolastica, ne ritroviamo delle altre, di tutt'altra origine. Se, ad esempio, alla maggioranza dei presenti, si domandasse «qual è la giornata più corta dell'anno?», la risposta sarebbe data, probabilmente, con un detto passato in proverbio, che non so come suoni in bolognese, ma che è corrente in tutta Italia, e che io stesso ho imparato da mia nonna nella sua forma toscana: «Santa Lucia, il più corto dì che sia».
Orbene: questi dati di due tradizioni diverse, una scolastica, l'altra popolaresca e contadina, si ritrovano l'uno accanto all'altro, e, probabilmente, pacificamente convivono in quasi tutti noi. Eppure, questi due dati sono contraddittori tra loro. Il giorno di Santa Lucia cade oggi, infatti, se non erro, il 13 dicembre, mentre le nostre nozioni di astronomia, apprese a scuola, c'insegnano che il giorno più corto dell'anno è attorno ai solstizio d'inverno, il 20 dicembre.
L'esperienza, evidentemente, potrebbe abbastanza facilmente risolvere la contraddizione a vantaggio della nostra tradizione scolastica, che in questo caso è la giusta, la scientifica, rispetto a quella popolaresca. Ma anche una semplice considerazione storica della questione ci dà qui il modo di darci ragione di questi due dati contraddittori, che ritroviamo nella nostra tradizione. È certo, infatti, che il proverbio citato ha origini assai antiche, in un'epoca anteriore alla riforma gregoriana del calendario che fu attuata nel 1582. Nel calendario giuliano, vigente a quell'epoca, la data dei solstizi e degli equinozi non risultava fissa, come invece appunto avviene dopo la riforma gregoriana. Questo spiega, pertanto, come per un certo numero di anni il giorno più corto dell'anno potesse effettivamente cadere attorno alla data in cui si festeggiava Santa Lucia, e come sia Potuta nascere una tradizione che si è poi perpetuata sino a noi: e che — con quella fissità che è caratteristica delle tradizioni popolari — ha seguitato e seguita a trovar credito anche dopo che, con la riforma del calendario, essa non corrisponde più alla realtà dei fatti.
In un caso cosi semplice ed elementare, come si vede, un semplice confronto tra due dati della nostra tradizione culturale passiva ci ha permesso, in primo luogo, di rilevarne la contraddittorietà, sulla quale probabilmente non avevano mai. fermato la loro attenzione nemmeno molti tra noi, che sanno cosa sia un solstizio e che, pur sovente, avranno citato il proverbio; in secondo luogo, il confronto ci induce a confermarci nell'idea che doveva essere il nostro maestro di scienze ad aver ragione, perché quel che egli ci ha insegnato sulla «giornata più corta» s'inserisce coerentemente in tutto un sistema di nozioni astronomiche, mentre l'insegnamento del proverbio popolare resta isolato e non coerente con altre nostre nozioni; in terzo luogo, una considerazione storica viene non solo a confermarci la coerenza della nozione appresa a scuola, ma a darci ragione dell'altro dato tradizionale, di cui essa ci spiega l'origine, inquadrandolo in un più vasto sistema di conoscenze.
A prescindere dalla possibilità di una verifica sperimentale, che sarebbe facile in questo caso, noi vediamo, così, che il passaggio da una passiva e incoerente e contraddittoria «cultura» tradizionale alla scienza avviene attraverso un confronto dei dati e delle nozioni che ritroviamo in noi stessi, una loro critica, che ha sempre, un carattere storico. Degli esperimenti e delle osservazioni stesse, del resto, sulle quali le nostre nozioni d'astronomia sono fondate, noi siamo edotti attraverso un processo storico, appunto, né potremmo pretendere di ripeterle tutte personalmente. Ma quel che particolarmente qui c'importa ancora di sottolineare è il fatto che una coscienza scientifica del reale si distingue da una coscienza semplicemente folcloristica, tradizionale, non solo per la sua interna coerenza — cui fa contrasto l'incoerenza e la contraddittorietà delle nozioni passivamente accolte — ma per la sua universale validità.
Quel che noi pretendiamo da una nozione, per considerarla come una nozione scientifica, infatti, non è solo che essa sia inquadrata in un sistema coerente di nozioni, ma è anche che essa sia universalmente valida. Di un'esperienza, così, noi diremo che è un'esperienza scientifica solo se è un'esperienza
ripetibile: se cioè, date quelle determinate condizioni, essa confermi i suoi risultati, quale che sia lo sperimentatore. E quando, allo scienziato ed alla scienza, noi richiediamo una conoscenza obiettiva del mondo, noi chiediamo, appunto, una coerente sistemazione di 'un'esperienza che non sia quella del visionario o neppur solo di quella sua o nostra individuale, ma quella di tutta l'umanità associata, nel suo concreto processo storico: di un'esperienza, pertanto, universalmente valida.
E qui ci riavviciniamo — dopo questa lunga digressione, che era pur necessaria per chiarire il nostro assunto — all'oggetto più specifico della nostra conversazione. Quanto or ora abbiam detto ci mostra, in realtà, che il processo della conoscenza, della coscienza, della cultura, anche quando si parta, nella considerazione di esso, dalla nostra esperienza individuale, è sempre un processo sociale e storico. Dell'obiettività, della realtà stessa del mondo che ci circonda, noi possiamo aver la certezza solo e proprio nei nostri rapporti e nel nostro discorso con gli altri uomini, nella società umana: sicché giustamente è stato detto che solo un impossibile uomo — nato e cresciuto fuori di ogni società umana — potrebbe a buon diritto (come a torto fanno i filosofi idealisti) immaginarsi che terra e mare e cielo siano realtà solo del suo e nel suo pensiero. Ma questo significa che il processo attraverso il quale una società, presa nel suo complesso, conquista una sua coscienza scientifica del reale, una sua cultura, è sostanzialmente analogo — se pur naturalmente ancor più vario e complesso a quello che sinora siam venuti disaminando. E di una società data, come di un dato individuo, diremo che essa ha conquistato una cultura, e in particolare una coscienza scientifica del reale, tanto più elevata, quanto più questa sua coscienza avrà superato l'incoerenza di dati puramente folcloristici e tradizionali, e avrà saputo elaborare una concezione del mondo coerente e storicamente critica, e perciò stesso più universalmente valida.
Non a caso, dunque, i nomi nei quali si suol riassumere la cultura di una data società, i nomi che segnano le tappe decisive nello sviluppo della cultura, della filosofia, della scienza, sono i nomi di coloro che, in una data epoca, con maggior vigore hanno saputo sottoporre ad una critica rinnovatrice quelle che erano divenute incoerenti e passive tradizioni di pensiero e di costume delle epoche precedenti; o di coloro che, di una data epoca, più coerentemente hanno saputo esprimere la coscienza maturata. Così nel nome di Socrate o di San Paolo o di Averroès o di Galileo o di Mendeleev o di Einstein o di Marx, segnaliamo il momento di storiche rivoluzioni scientifiche o culturali; e nel nome di Aristotele o di Linneo o di Maxwell, la più completa e coerente elaborazione della coscienza scientifica e culturale di una data epoca.


Limitatezza gnoseologia della società di classi.

Se vogliamo caratterizzare, così, quel dato periodo della cultura italiana, che va dagli ultimi anni del secolo XIX sino alla prima guerra mondiale, si suole ricorrere, sovente, e non senza ragione, al nome di Benedetto Croce. E certo non si può negare che, nella cultura delle classi dominanti italiane, Benedetto Croce non sia riuscito ad indurre una certa intima coerenza. Ancora negli ultimi decenni del secolo scorso, come è noto, la cultura delle classi dominanti italiane appariva pro fondamente divisa fra le più antiche correnti tradizionali, rinfocolate dalla proclamazione del Sillabo, e le nuove tendenze di pensiero a carattere positivistico che la borghesia era venuta elaborando nel corso del Risorgimento e nei primi decenni successivi all'Unità; senza contare altre minori tendenze e suddivisioni, sulle quali non è ora necessario soffermarci.
vecchia cultura delle classi dominanti italiane, che più di due secoli prima aveva trovato la sua sistemazione nelle tesi e nei decreti del Concilio tridentino, seguitava, sì, a dar prova di un suo tradizionale vigore, radicata co n L'era, ormai, sin nei pregiudizi popolari; ma era divenuta, appunto, pregiudizio; non si mostrava più atta a contenere e ad esprimere le esigenze di vita e di dominio e di relativo progresso delle nuove classi dominanti borghesi che si venivano mescolando e innestando sulle antiche e che erano venute elaborando, nel corso del Risorgimento, un'ideologia cd una cultura laica più adeguate alla loro natura ed ai loro storici obiettivi. Di qui, all'interno delle classi dominanti stesse, un contrasto ed una di-
lacerazione, che non era solo politica, ma anche ideologica e culturale; di qui la necessità, per le classi dominanti del nuovo Regno unito, di superare e di sanare questa dilacerazione, tanto più pericolosa nella misura in cui dal, basso le nuove classi proletarie urgevano con la minaccia delle loro lotte sociali, della loro politica, della loro cultura.
Benedetto Croce ha egregiamente assolto, non v'è dubbio, il difficile compito di rimarginare, per le classi dominanti italiane, questa dilacerazione culturale, costruendo una elaborata concezione del mondo nella quale gli elementi tradizionali di una concezione religiosa venivano riassorbiti e conciliati con quali della tradizione idealistica e positivistica più recente, non scevra di forme e di contenuti scientifici. La caratteristica
del sistema, della Weltanschauung crociana, è data anzi dal fatto che essa cerca di tener conto, nonché delle tradizioni delle classi dominanti italiane, persino della esperienza più recente
del movimento operaio internazionale: che — come sul piano politico avviene col riformismo — si cerca di riassorbire e di subordinare alla cultura delle classi dominanti.
Non si può dire, l'abbiamo già avvertito, che lo sforzo di Benedetto Croce e della sua scuola non abbia sortito un effetto importante, con la elaborazione di una concezione del fondo che ha avuto, per la cultura delle classi dominanti italiane, mia notevole efficacia unificatrice e che non manca di ima sua certa intima coerenza. Questo spiega la grande autorità di cui durante lunghi anni — e persino durante il fascismo — Benedetto Croce ha goduto fra i più larghi strati della borghesia e della piccola borghesia intellettuale italiana. Ma proprio questa efficacia dell'opera di Benedetto Croce ne sottolinea più chiaramente i limiti. Quella concezione del inondo, così sapientemente elaborata; quella Weltanschauung, nella quale così opportunamente, ai fini del consolidamento del dominio della borghesia imperialista ormai conciliata con le vecchie caste feudali, si conciliavano il diavolo e l'acqua santa — che divengono naturalmente, nel sistema crociano, non più contrari, ma solo distinti — quella concezione del mondo, dicevamo, pur così conciliantemente elaborata, restava una concezione di classe, elaborata dal punto di vista di una determinata classe (o di un determinato aggruppamento di classi); non poteva e non può esprimere coerentemente una realtà che è in se stessa, obiettivamente dilacerata e frammentaria. Il sistema di Croce ha pertanto scientificamente fatto fallimento là dove non poteva non far fallimento; là dove esso cercava di riassorbire la nuova cultura, la nuova ideologia della classe operaia, proclamandone la storica caducità, affermando che il marxismo era morto (così come Giolitti aveva creduto che il Capitale potesse relegarsi ormai in soffitta). Non poteva non fallire, su questo punto, il sistema, la Weltanschauung di Croce, perché la sua coscienza e la sua scienza, per quanto intimamente coerenti potessero essere, restavano una coscienza, una scienza di classe, parziali, frammentarie, incapaci d'intendere e di esprimere proprio la contraddizione ed il momento essenziale, decisivo, della realtà contemporanea: il momento della lotta, dell'ideologia, della cultura nuova della classe operaia. E col fascismo e poi con De Gasperi, persino quella temporanea conciliazione che il sistema di Croce aveva raggiunto tra le tradizionali ideologie delle varie frazioni delle classi dominanti, si è rivelata inadeguata per le classi dominanti stesse, sicché queste son ricorse di volta in volta ad altri sistemi: se condo esigenze che non erano astrattamente logiche o filosofiche, ma secondo il mutevole configurarsi dei rapporti di forze e della varia loro disposizione nella società italiana ed internazionale.
La pratica, così, la dialettica della Storia, si è incaricata di dimostrare la storica limitatezza, e parzialità di classe della concezione del mondo crociana; e ciò non solo per noi, per la classe che è la portatrice della nuova cultura, ma persino per quelle classi dominanti, dal cui seno la cultura crociana era stata espressa: sicché quelle stesse classi — malgrado la solenne sentenza di Croce, indubbiamente coerente con la sua concezione del mondo — han dovuto più che mai continuare a preoccuparsi non solo politicamente, ma ideologicamente, di quel marxismo che, in fede di Croce, esse avevano creduto morto e sepolto; e a tal uopo, anzi, proprio dopo la famosa sentenza, han dovuto promuovere e organizzare fascismi e patti antikomintern, crociate ideologiche e piani Marshall, encicliche e «micròfoni di Dio».
Oggi come ieri, d'altronde, la storica limitatezza e parzialità di classe della cultura, della concezione del mondo delle classi dominanti, impedisce loro di cogliere nella sua dialettica unità il processo del reale, vieta loro di intenderne un momento così decisivo, qual è quello della negazione, che è proprio il momento dell'attività, della produttività umana. La parzialità di classe, insomma, della coscienza, della cultura, della concezione del mondo, della scienza delle classi dominanti, costituisce un limite obiettivo alla sua obiettività, alla sua universale validità. E questo vale, si badi bene, non solo in un senso, diciamo così, statistico, che non sarebbe di per sé probante. Non si tratta del fatto che le concezioni del mondo del Papa o di Croce, o magari quella di Einstein o di Planck, per quanto intimamente coerenti esse possano essere, non potrebbero essere universalmente valide, perché i braccianti pugliesi non sanno di latino, o perché gli operai di Torino non sanno di calcolo tensoriale. Non si tratta di questo: ché anzi, finché i braccianti non san di latino e sinché gli operai non si occupano di fisica, essi possono pure essere indotti a subire il suggello, sia pure passivo, della cultura delle classi dominanti; e resta pur valida per essi, a modo loro, la religione del Papa o la scienza ,di Einstein e di Planck. Il senso della nostra affermazione, invece, è ben più profondo e radicale di quel che non possa essere una constatazione statistica della diffusione o meno di una data concezione; si tratta del fatto che non può esservi concezione del mondo universalmente valida là dove non esiste una universale e comune umanità, là dove la società umana è intimamente, obiettivamente dilacerata in classi antagonistiche che necessariamente sviluppano antagonistiche coscienze e concezioni del mondo: sicché quanto più braccianti o operai «sanno di latino» — sviluppano una propria, autonoma attività culturale ed escono da una posizione di pura ricettività — tanto meno valida diviene per essi non solo la religione del Papa, ma persino la scienza della borghesia.
Questo significa, insomma, che la divisione della società in classi non ha solo delle conseguenze economiche, politiche, sociali, culturali che sono quelle in cui tale divisione più immediatamente si esprime. Questo significa che tale intima dilacerazione dell'umanità pone dei limiti obiettivi alla capacità che l'umanità associata ha di prender coscienza del reale in una forma scientifica, coerente, obiettiva, universalmente valida. Questo significa che la divisione della società in classi pone all'umanità delle limitazioni che non sono solo economiche, politiche, sociali, culturali, ma addirittura gnoseologiche.
Questo non vuol dire, beninteso, che anche in una società di classi non si sia manifestata e non si manifesti l'infinita capacità dell'umanità associata di approfondire, con la sua teoria e con la sua pratica, la coscienza e la conoscenza del mondo; né potrebbe esser inteso nel senso che, con la realizzazione di una società senza classi, l'umanità d'un tratto raggiunga una coscienza e una conoscenza del mondo che non sia più infinitamente approfondibile. L'acqua, l'abbiam già detto, in quelle determinate condizioni, bolle a 1000 per il capitalista come per il proletario, e per il lavoratore dell'umanità socialista; e di questo dato scientifico, la scienza borghese ha saputo da tempo registrare l'obiettività. Così pure la data di quella certa eclissi o la data della scoperta dell'America sono egualmente registrate in un trattato di astronomia o di storia borghese come in un trattato sovietico. Ma si tratta, appunto, di d ti che possono avere un valore scientifico quando siano debitamente controllati (e non deformati, come sempre più largamente avviene nella «scienza» borghese), ma che non costituiscono ancora, di per se stessi, la scienza nel senso proprio della parola: che non significa, appunto, un dato o una congerie di dati, ma un loro coerente sistema, in cui ogni dato sperimentale o storico diviene elemento di una concezione del mondo. E questa concezione del mondo potrà essere infinitamente allargata ed arricchita ed approfondita, ma per essere scienza nel senso proprio della parola dovrà essere intimamente coerente ed universalmente valida, obiettiva.


La rivoluzione culturale socialista come "salto" qualitativo.

In questo senso si può dire che, anche su questo piano, la costruzione di una società senza classi rappresenta, nella storia dell'umanità, un vero e proprio salto qualitativo. Il salto è più immediatamente rilevabile per quanto riguarda i rapporti economici, sociali, politici, o la morale — che solo in una società senza classi, appunto, può superare la sua frammentarietà e limitatezza di classe, e divenire una morale umana ma non è meno effettivo per quanto riguarda la scienza stessa, che ora soltanto può vincere la sua parzialità di classe e divenir scienza nel senso proprio della parola, scienza umana, obiettiva nella sua universale validità.
Proprio questo, l'abbiamo già rilevato, è il significato più profondo della rivoluzione culturale e gnoseologica che oggi si viene avviando nel paese del socialismo ; proprio qui sta il valore eccezionale delle prime manifestazioni di una cultura e di una scienza nuova dell'umanità socialista che tanto scandalo hanno sollevato tra i figli del secolo. E già a chi faccia attenzione al modo nuovo in cui la cultura e la scienza nuova crescono e si affermano nella società socialista, questo valore balena in una luce vivida e chiara.
Basti riflettere che, per la prima volta nella storia dell'umanità, in Unione sovietica, tutto il sistema dell'educazione e dell'istruzione, e della direzione culturale in genere, è fondato sulla scienza, su di un sistema e su di un metodo coerente del conoscere. Non vogliamo ora entrare in un giudizio di merito su tale sistema o su tale metodo; non è questo che qui ci interessa. Ma nessuno può negare che per la prima volta nella storia decine di milioni di uomini si educano a liberarsi da una «cultura» e da una coscienza tradizionale, passiva, incoerente, contraddittoria — «folcloristica», direbbe Gramsci per conquistare del mondo una coscienza coerente, attiva, scientifica, unitaria. Nel mondo borghese, nella società di classi, anche la più avanzata, se alle classi «colte», entro certi limiti, si assicura una tale educazione, la grande maggioranza degli uomini è abbandonata e mantenuta in uno stato di passività, di tradizionalismo, di incoerenza culturale — nel folclore piuttosto che in un'attiva coscienza sociale.
Sarebbe difficile sopravvalutare l'importanza che questa diversità assume nella cultura e nella scienza nuova dell'umanità socialista. Si consideri, ad esempio, come si è svolta in Unione sovietica la recente discussione sui problemi della genetica. In un qualsiasi paese del mondo capitalistico, una tale discussione si sarebbe svolta nel chiuso dei gabinetti scientifici, delle Accademie e delle riviste specializzate. E non si tratta solo, badate bene, di una scarsa diffusione della cultura biologica in tali paesi. Ma come si potrebbe discutere dei problemi della genetica di fronte ad un pubblico di milioni di uomini semplici, ai quali si seguita ad insegnare che il mondo è stato creato in sei giorni e che Eva è nata dalla costola di Adamo? Né vale dire che anche certi Padri Gesuiti, sulle loro riviste, dichiarano oggi di accettar le teorie dell'evoluzione delle specie: ché queste sono affermazioni che essi riservano, semmai, per il pubblico «colto», mentre dai pulpiti si seguita a predicare l'obbrobrio ai comunisti «che proclamano l'uomo non creatura di Dio, ma progenie di scimmie». Una discussione scientifica di massa presuppone, per contro, una cultura di massa che, quale che sia il suo attuale livello, sia fondata su di un orientamento verso una coerente concezione del mondo: coerente in quanto confronti e critichi e superi i dati incoerenti e contraddittori di una tradizione folcloristica passivamente accolta per il passato, e coerente in quanto non sia qualitativamente diversa e contraddittoria negli «specialisti», negli «uomini della cultura» da un lato, e nei «profani», negli «uomini semplici» dall'altro.
Ma tali condizioni si ritrovano e si possono ritrovare, appunto, solo in un mondo che, come quello sovietico, abbia già liquidato la divisione della società in classi antagonistiche. Per questo la cultura, la scienza sovietica, possono svilupparsi e già effettivamente si sviluppano, in un modo, in forme, che sono qualitativamente diverse da quelle in cui la cultura e la scienza si sviluppano e progrediscono in una società di classi, come cultura e come scienza di tutto il popolo, attraverso dibattiti di massa.
Le conseguenze di un così diverso modo di sviluppo sono, si badi bene, ancora una volta, non solo sociali o politiche o culturali, ma gnoseologiche: toccano la natura e il valore stesso della scienza, cioè. Cosa significa, ad esempio, da questo punto di vista, il fatto che la discussione sulla nuova biologia sovietica si sia sviluppata in un dibattito di milioni di uomini, invece che di pochi specialisti, come suole avvenire nel mondo capitalistico?
fuor di dubbio che questa diversità ha delle conseguenza importantissime che sono, appunto, di carattere gnoseologico e che sono facilmente rilevabili da chi abbia avuto cura di seguire i termini del dibattito e di approfondirne il senso.
È noto, ad esempio, che una parte molto importante delle esperienze e delle ricerche che vengono interpretate nella teoria morganiana dell'ereditarietà è stata e viene eseguita sulla Drosophila, un comune moscerino che vi sarà spesso capitato sott'occhio attorno all'uva o ad altre frutta in fermentazione. Non vi è nessuna ragione obiettiva per cui questo piccolo dittero debba esser preferito a tutti gli altri esseri viventi, animali e vegetali, nelle nostre ricerche di genetica. La fama mondiale che questo insetto ha conseguito attraverso le ricerche della scuola morganiana non è dovuta al fatto che il genere Drosophila eserciti una funzione od occupi un posto preminente nella natura, o abbia una importanza particolare o una speciale utilità per l'uomo. Quel che ha fatto la «fortuna» scientifica della Drosophila è semplicemente il fatto che essa è rapidamente e facilmente riproducibile in allevamento di laboratorio e che i suoi cromosomi presentano particolarità che ne rendono particolarmente comodo lo studio ai ricercatori.
Ecco dunque che, nella società capitalistica, la disposizione e l'organizzazione della ricerca scientifica esercitano una precisa influenza limitativa, restrittiva, sulla ricerca scientifica stessa e addirittura ne deformano la materia e l'indirizzo sperimentale. Allo stadio attuale delle nostre conoscenze, nulla ci dice che le leggi dell'ereditarietà siano identiche per tutta la gamma delle specie animali e vegetali; al contrario, dalla genetica morganiana stessa risulterebbe che anche specie tra loro abbastanza vicine presentano caratteristiche differenziali importanti per quanto riguarda, ad esempio, l'ereditarietà del sesso. Ma intanto, il distacco che la società capitalistica accentua tra scienza e popolo, tra «specialisti» e «profani», fra «teoria» e «pratica», induce i ricercatori a concentrare i loro studi attorno alla Drosophila; limita, di fatto, il campo delle ricerche, non solo in quanto queste si concentrano solo attorno ad una o poche fra le centinaia di migliaia di specie del mondo vegetale e animale, ma in quanto la ricerca resta quasi esclusivamente confinata nei laboratori e affidata alla pratica di poche migliaia di specialisti in tutto il mondo borghese, anziché allargarsi su milioni di ettari di culture agricole e di allevamenti e beneficiare della pratica, scientificamente controllata, di milioni di uomini.


Il dibattito sulla nuova biologia sovietica.

La biologia nuova che oggi si afferma in Unione sovietica, per contro, non è una biologia «degli scienziati per gli scienziati» che scelga il suo materiale di esperienza secondo il «comodo» dei ricercatori. A una biologia, una scienza degli uomini per gli uomini, che coscientemente si pone il compito di accrescere e perfezionare la padronanza dell'uomo sulla natura attraverso una approfondita conoscenza della natura stessa e delle sue leggi; una scienza che considera la pratica dell'umanità associata, l'esperienza di massa, non solo criterio decisivo della propria obiettività, della propria universale validità, ma momento essenziale del processo stesso della conoscenza scientifica.
Perciò la nuova biologia sovietica, se è pur solo agli inizi del suo cammino glorioso, seppur ha ancora dovuto combattere, sinora, in Unione sovietica stessa, contro le incomprensioni e le resistenze della tradizione reazionaria e borghese della scuola morganiana, non si è rinchiusa solo nei laboratori, non si è ristretta fra pochi specialisti, non si è infatuata solo attorno alla Drosophila, ma ha allargato le sue esperienze su milioni di ettari di culture ed in migliaia di allevamenti kolkhoziani; ha arricchito la pratica dei ricercatori specializzati
con quella di milioni di kolkhoziani, di orticultori, di frutticultori, di allevatori, di selezionatori, scientificamente controllata; ha esteso immensamente il campo delle sue ricerche e della sua sperimentazione nella «jarovizzazione» dei cereali e nell'acclimatazione della patata, nella pratica di massa degli ibridi vegetativi e in quella della semina a nidi, in quella della cultura industriale della pianta da gomma e negli allevamenti kolkhoziani. Legandosi ai compiti pratici della costruzione socialista, la nuova biologia sovietica non solo ha, sin d'ora, recato un apporto decisivo al successo di questa, non solo ha accresciuto la padronanza dell'umanità socialista sulla natura, ma ha beneficiato e beneficerà di un decisivo allargamento della propria base metodologica e gnoseologica; già tende a sfatare la maledizione del distacco fra teoria e pratica, tra scienza e popolo, che nella società di classi soffoca o costringe entro limiti ristretti la capacità dell'umanità associata di conquistare del mondo una conoscenza obiettiva, universalmente valida.
Non potremmo, e non intendiamo qui, beninteso, entrar nel merito del dibattito sulla genetica morganiana e mitschuriniana; abbiamo solo voluto illustrare, sulla base di questo esempio, una delle caratteristiche fondamentali della nuova cultura, della nuova scienza sovietica; e non è un caso che, persino nel mondo capitalistico, molti selezionatori ed allevatori fra i più seri, legati ad una esperienza pratica di massa, sostengano da tempo tesi che si avvicinano, sotto vari aspetti, a quelle che sono allo base dell'indirizzo di ricerche oggi affermatosi vittoriosamente in Unione sovietica col trionfo della scuola di Mitschurin. Il trionfo della scuola di Mitschurin e di Lyssenko è il trionfo della scienza degli uomini, della scienza del popolo per il popolo sulla scienza degli specialisti per gli specialisti, sulla cosiddetta «scienza pura»: che, come l'«arte per l'arte», esprime nella società di classi non già un'impossibile indipendenza della coscienza sociale dai concreti rapporti esistenti in quella data società, ma solo l'intima dilacerazione della società stessa, maledetta dalla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, fra teoria e pratica, tra libro e vita; frammentata, nel suo mondo culturale stesso, in circoli chiusi senza comunicazioni e senza finestre l'uno sull'altro.
'Quanto qui abbiamo rilevato a proposito-del dibattito sulla nuova biologia, in effetti, avremmo potuto rilevarlo a proposito di ogni altro settore della cultura sovietica: a proposito dell'arte o della critica letteraria, come a proposito della storiografia o della filosofia. In ciascuno di questi campi, per ciascuna di queste forme della coscienza sociale della nuova umanità socialista, avremmo potuto constatare come la profonda rivoluzione che è oggi in corso in Unione sovietica esprima un «salto» senza precedenti nella storia dell'umanità e della sua cultura, della sua capacità di prender coscienza del mondo e di trasformarlo.
«Con l'apparizione del marxismo — ha detto il comp. Zhdanov nel suo decisivo intervento sui problemi della filosofia come concezione scientifica del mondo del proletariato, è chiuso il vecchio periodo della storia della filosofia, nel corso del quale la filosofia era cura di singoli, patrimonio di scuole filosofiche, costituite da un piccolo numero di filosofi e di loro discepoli, chiusi, staccati dalla vita, dal popolo, estranei al popolo. Il marxismo non è una scuola filosofica di questo genere. Al contrario: il marxismo rappresenta il superamento della vecchia filosofia, del tempo in cui la filosofia era il patrimonio dí pochi eletti, aristocrazia dello spirito; segna l'inizio di un periodo assolutamente nuovo della storia della filosofia, di un periodo in cui essa è divenuta un'arma nella lotta delle masse proletarie che lottano per la loro liberazione dal capitalismo». Il trionfo della concezione marxista del mondo in Unione sovietica esprime così appieno la nuova coscienza di un'umanità non più dilacerata da aristocrazie della ricchezza o del pensiero contrapposte al popolo; è il trionfo, come scriveva Gramsci, di «una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma generalizzate nella realtà sociale (*)».
In questo passo di Gramsci, come nell'altro di Zhdanov che ho or ora citato, è giustamente posta in rilievo l'assoluta novità del marxismo, che rappresenta, in quanto filosofia di massa, un vero e proprio salto senza precedenti nella storia del pensiero umano; che stabilisce un rapporto assolutamente nuovo fra teoria, tra 'coscienza e pratica dell'umanità associata. Già Marx aveva scritto, nelle sue famose «Glosse a Feuerbach», che «i filosofi hanno solo variamente interpretato il mondo;

nota (*) Antonio Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Torino, Einaudi, 1948, pag. 232.

si tratta di trasformarlo»; aveva affermato che la pratica umana associata è non soltanto criterio, ma momento decisivo del processo della conoscenza. Col trionfo della concezione marxista del mondo nell'umanità socialista, questa superiore coscienza della natura e del processo della conoscenza diviene per l'umanità associata un'arma decisiva per la conquista di una cultura umana, di una scienza, di un'arte, di una morale universalmente valide; impronta di sé ogni attività culturale della società socialista.


Coscienza e pratica sociale nell'estetica e nell'arte nuova.

Si consideri, ad esempio, l'atteggiamento che nella società socialista si viene affermando nei confronti dei problemi dell'arte e si metta a paragone con quello che è caratteristico dei teorici dell'estetica nella società di classi in generale e nel mondo borghese in particolare. Si veda, così, quel che Benedetto Croce, o magari Aristotele o Lessing, ci hanno detto del Bello,o dell'Arte. Croce, ad esempio, non ci parla, è vero, del Bello o dell'Arte come di qualcosa che sia fuori del nostro mondo umano e della storia; da buon filosofo idealista, del resto, una tale considerazione dell'Arte e del Bello non potrebbe aver alcun senso per lui. A prima vista, pertanto, il suo atteggiamento di fronte a questo problema potrebbe sembrare avesse evitato lo scoglio della metafisica, della considerazione di una data realtà fuori del suo nesso con la storia e con la pratica dell'umanità associata. Ma in realtà, a chi più attentamente consideri la parte e la posizione che all'estetica Croce fa nel quadro del suo sistema di filosofia idealistica, non può sfuggire il fatto che dell'Arte, del Bello — nelle forme caratteristiche, appunto, del suo sistema idealistico — Croce fa proprio un concetto dato, anzi una categoria assoluta dello spirito umano, una entità extra e super-storica, astratta dalla pratica dell'umanità associata; una entità, insomma, di quelle che nella terminologia marxista noi qualifichiamo di metafisiche; sicché, anche se non ci parlano di un Bello e di un'arte assoluti, Croce ed i suoi discepoli ci parlano però di un concetto assoluto del Bello e dell'Arte.
Così come per Aristotele o per Lessing, dunque — se pure nelle forme più scaltrite dell'idealismo contemporaneo — il Bello e l'Arte (per Croce il loro concetto) vengon considerati come qualcosa di dato, e l'estetica come un'attività puramente teoretica, speculativa, contemplativa, attraverso la quale il filosofo si limita a scoprire una verità che già c'è, bella e fatta, e che sarebbe appunto il concetto (ci verrebbe quasi voglia di dire l'idea platonica) del Bello e dell'Arte.
In realtà, ciascuno di noi sa, ed ha potuto sperimentare, che questa pretesa di Croce — e di quanti altri filosofi prima di lui, nella società di classi, hanno voluto scoprirci il Bello e l'Arte — è la pretesa ad una falsa obiettività. La realtà è che non c'è nessun concetto di Bello e di Arte che sia là, bello e fatto in un mondo ideale, e che non si tratti che di scoprire con un'attività puramente teoretica e speculativa. La realtà è che Croce, come tutti i filosofi e critici e artisti che prima di lui, con maggiore o minore efficacia culturale, si sono occupati di estetica, non hanno niente affatto semplicemente scoperto o approfondito un concetto del Bello e dell'Arte che fosse là, bell'e pronto, in un superno mondo di idee platoniche ; né la loro attività è stata una attività puramente teoretica e contemplativa, ché anzi è sempre stata, coscientemente o incoscientemente, un'attività teorica e pratica, volta non già a scoprire un concetto del Bello, ma a crearlo; e a crearlo non semplicemente in un senso filosofico-speculativo, di elaborazione concettuale, bensì nel senso tutto pratico e concreto di concetto che vivesse e operasse nella coscienza degli uomini, nel senso della creazione di un nuovo gusto artistico e di una nuova poetica: e a tal fine, del resto, filosofi e critici e artisti si son preoccupati di apparecchiare tutta un'attrezzatura materiale e organizzativa di riviste e di accademie e di cattedre e di camarille universitarie.
Nella nuova estetica sovietica, per contro, l'arte — in quanto forma della coscienza sociale — non viene punto considerata o presentata come qualcosa di dato, come un'idea platonica eterna e sottratta alle vicende di questo nostro basso mondo, come un concetto puramente teorico e speculativo, astratto dalla concreta pratica storica dell'umanità associata. Si pone così continuamente in rilievo, ad esempio, come le teorie estetiche e il gusto dell' «arte per l'arte» siano un prodotto non casuale e arbitrario, ma anzi necessario, della società di classi in una data fase del suo sviluppo storico; si mostra come il predominio di queste teorie e di questo gusto artistico non solo esprima la profonda dilacerazione della società borghese contemporanea, la maledizione che su di essa pesa in conseguenza del monopolio borghese sulla cultura, in conseguenza della separazione tra arte e popolo; ma giustamente si sottolinea come il predominio di queste teorie e di questo gusto abbia una pratica efficacia, tutta rivolta — nell'interesse delle classi dominanti — proprio al consolidamento del loro dominio, del loro monopolio sulle ricchezze e sulla cultura. Non a caso, così, al gusto di ristretti gruppi delle classi dominanti per la poesia ermetica o per la pittura astrattista, fa necessario riscontro — nella società capitalistica contemporanea — un persistente gusto di massa per la oleografia ecclesiastica o per la poesia alla Parzanese, mentre restan soffocati e repressi i germi del canto e della pittura popolare: nel che appunto si esprime la costrizione delle masse popolari in quello stato di relativa passività culturale che è — l'abbiamo visto — condizione essenziale per il dominio di ogni classe oppressiva e sfruttatrice.
Né per questo — in quanto ne sottolinea la pratica efficacia di classe — l'estetica sovietica nega un valore, diciamo così, documentario all'«arte per l'arte», in quanto forma caratteristica della coscienza e della pratica sociale artistica dell'umanità in una data fase del suo sviluppo storico; ma a questa forma di una coscienza e di una pratica sociale artistica frammentaria, parziale, negativa, l'estetica sovietica apertamente ne contrappone un'altra, superiore, totale, positiva: che non è più quella — frammentaria, appunto, e parziale — di ristretti circoli delle classi dominanti, bensì quella di un'umanità intera, in lotta contro il vecchio mondo dell'oppressione, dello sfruttamento, del monopolio della cultura, di un'umanità già volta a rimarginare le ferite della sua intima dilacerazione. E di questa lotta, l'estetica, l'arte nuova della società socialista è — e come potrebbe non essere? — parte integrante: sicché l'estetica sovietica apertamente si dichiara non solo come teoria volta ad approfondire un concetto del Bello, ma come una pratica tendente a liquidare nella coscienza degli uomini i residui ideologici del capitalismo e della divisione della società in classi, come una pratica volta alla creazione di una nuova poetica e di un nuovo gusto artistico, che esprimano i rapporti nuovi di una società umana e rispondano alle esigenze storiche della sua costruzione.
La diversità tra l'estetica dell'«arte per l'arte» di Benedetto Croce, putacaso, e quella sovietica, pertanto, non sta nel fatto che questa subordinerebbe la creazione artistica a determinate condizioni e finalità sociali, mentre quella la abbandonerebbe all'ispirazione che, come lo Spirito santo, «soffia dove vuole», a quanto ci si dice. In realtà, l'una e l'altra estetica esprimono — come ogni ideologia — i rapporti di una società determinata, con la sua realtà e con le sue storiche esigenze. La diversità sta nel fatto che l'estetica, l'arte, il gusto dominanti nella società borghese esprimono la realtà di questa società in una forma parziale, frammentaria, contraddittoria, perché parziale, frammentaria, contraddittoria resta la nostra stessa umanità, finché essa non abbia spezzato il quadro della società di classi; mentre l'estetica sovietica esprime la realtà di una società che ha già spezzato questo quadro per quanto concerne i rapporti di produzione e che coscientemente e solidalmente lavora a spezzarlo per quanto riguarda la conquista di una superiore coscienza umana. Per questo mentre l'estetica borghese accuratamente nasconde — e non può non nascondere — il legame indissolubile che in ogni società stringe la coscienza artistica alla pratica sociale, mentre di questo legame essa non può, nella sua limitazione di classe, conquistare che una coscienza oscura e confusa; l'estetica sovietica, per contro, non solo non ha ragione di nascondere tale legame, ma apertamente lo proclama e può così conquistare una nozione chiara, adeguata, del rapporto che per questa, come per ogni altra forma della coscienza, sussiste fra teoria e pratica sociale.
Da questa chiara e adeguata coscienza dei rapporti fra teoria e pratica, proprio, nasce la superiorità scientifica e la superiore efficacia storica dell'estetica sovietica: il cui storicismo, a differenza di quel che avviene per quella borghese, è rivolto non solo verso il passato, ma verso l'avvenire: che c'illumina non solo l'arte e il gusto delle classi dominanti e dei loro artisti, ma il gusto degli uomini, l'arte per gli uomini. E per questo l'estetica e la critica sovietica, che coscientemente collaborano alla costruzione dell'uomo nuovo, conducono la loro lotta su due fronti. Esse sanno che la fioritura dell'arte nuova dell'umanità socialista, e il loro proprio sviluppo ulteriore, non possono essere il frutto di un processo spontaneo, puramente teorico, mosso dall'ispirazione che «soffia dove vuole» e avulso dai compiti pratici della costruzione socialista; esse sanno che l'arte e l'estetica nuova stessa non possono giungere ad una piena maturazione senza il superamento dei residui ideologici della società di classi nella coscienza di milioni di uomini: ciò che presuppone non solo una teoria estetica astrattamente «vera», ma un suo pratico legame con i compiti concreti della costruzione socialista nel campo materiale e culturale. La superiorità scientifica e la superiore efficacia storica dell'estetica sovietica stanno proprio in ciò: che non solo teoricamente, ma praticamente, essa si pone il compito della lotta per il realismo socialista. Per questo l'estetica sovietica conduce la sua lotta su due fronti; lavora, teoricamente e praticamente, a liberare l'umanità socialista dai residui di una coscienza e di una pratica artistica formale, parziale, frammentaria che sono caratteristici della società di classi in generale, e della società borghese nella fase della sua decomposizione in particolare. Per questo l'estetica sovietica, mentre combatte, da un lato, il formalismo astratto — caratteristico, nella società borghese in decomposizione, per le elucubrazioni artistiche di ristretti gruppi delle classi dominanti — esercita non meno vigorosamente la sua critica, dall'altro, nei confronti delle residue tendenze alla spontaneità, al formalismo naturalistico e fotografico: espressione, nella società di classi, di una relativa passività culturale delle masse popolari. La via per il superamento di questa frammentarietà della coscienza e della pratica artistica sociale, l'estetica sovietica la addita — non solo per i popoli sovietici, ma per l'umanità lavoratrice del mondo intero — nello sviluppo conseguente di quegli elementi di una attività culturale artistica che, dai secoli dei secoli, le masse dell'umanità lavoratrice son venute elaborando, in stretto legame con la loro attività produttiva e con la loro lotta contro l'oppressione e lo sfruttamento, per la conquista di una loro condizione e cultura umana. E in questo senso, ancora una volta, l'estetica sovietica ci si presenta come una dottrina scientifica superiore, capace di una superiore efficienza gnoseologica e pratica, proprio per la sua chiarita coscienza dei legami che intercorrono fra teoria e pratica sociale. Proprio per questo, a differenza di quel che avviene per le estetiche della società di classi in generale, e per quelle borghesi in particolare, lo storicismo dell'estetica sovietica non è solo parziale, rivolto verso il passato, contemplativo; non è solo teorico, non si limita a registrare ed a giudicare un concetto del Bello e dell'Arte che sia già dato e conquistato; ma è totale, rivolto verso l'avvenire, attivo; radica l'arte nuova dell'umanità socialista nella tradizione dell'umanità lavoratrice, ma coscientemente, scientificamente le addita vie nuove e con la sua pratica rivoluzionaria interviene ad aprirle.


La pratica sociale come momento intrinseco del processo della conoscenza nella nuova biologia.

Quel che siamo venuti sommariamente esemplificando a proposito dell'estetica sovietica, avremmo potuto illustrarlo — lo abbiamo già avvertito — con una caratteristica di ogni altro settore della nuova cultura socialista: per la biologia o per la fisica, per la storiografia o per la morale; anche se, beninteso, non in tutti i campi questa rivoluzione si vien compiendo con pari ritmo, ma anzi variamente è avanzata, secondo le varie, concrete e successive esigenze del processo di costruzione dell'uomo nuovo. Ma in tutti i settori, proprio nella dottrina di avanguardia del marxismo-leninismo, del materialismo dialettico, proprio nella chiarita coscienza della pratica umana associata come momento intrinseco decisivo del processo della conoscenza, la nuova cultura socialista trova l'arma ideologica per il superamento della frammentarietà, dell'inadeguatezza della coscienza sociale nella società di classi.
Si veda, ad esempio, quel che oggi avviene nel campo della biologia sovietica. Anche qui, se andiamo a ricercare il senso più profondo delle nuove impostazioni scientifiche che, con la scuola di Mitschurin e di Lyssenko, oggi si affermano nel paese del socialismo, ritroviamo la chiarita coscienza del fatto che non si conosce il mondo senza trasformarlo; che la pratica umana associata non è solo il criterio, bensì un momento intrinseco e decisivo del processo della conoscenza. Nella genetica weissmanniana, mendeliana, morganiana, così, l'esperimento, la pratica umana (concepita ancora, per di più, in una fornii limitata, parziale, individuale, artigianesca) vengono considerati, proprio, come semplice criterio della verità. Io sperimentatore, dedicato alla scienza «pura» (cioè astratta, se pur solo nell'immaginazione dei suoi teorici, dal vivo contesto dei rapporti umani), dovrebbe limitarsi a contemplare quanto avviene nella natura, procurando di eliminare, anzi, gli effetti di ogni nostro involontario intervento nel processo della natura stessa che turberebbe l'obiettività della nostra conoscenza. Nella genetica morganiana, come in tutta la scienza reazionaria borghese, la funzione dell'esperimento dovrebbe restar limitata ad una funzione di semplice verifica; la pratica umana dovrebbe restare semplice criterio della verità, mentre ogni suo intervento volto a dare alla ricerca un orientamento ed un obiettivo vien considerato come una intrusione antiscientifica. Per i Weissmann, per i Mendel, per i Morgan, insomma, lo scienziato deve essere «puro»: deve «stare a vedere» cosa accade delle specie animali e vegetali, cosa accade nelle cellule, nei nuclei, nei cromosomi; cosa accade, al massimo, quando delle cellule si bombardano con dei raggi gamma o quando si trattano con la colchicina, guardandosi bene, Dio ne liberi!, dal proporsi degli «impuri» obiettivi, quali potrebbero essere quelli di una trasformazione di specie animali o vegetali, che risponda alle necessità pratiche dell'uomo.
L'albero della vita e della conoscenza, per fortuna, è più verde di ogni grigia teoria; e nessuno scienziato, così, anche nel mondo borghese, ha potuto seguire appieno i dettami di questa concezione della «scienza pura», che nella società capitalistica castra la produttività inesauribile del metodo sperimentale, precludendogli le vie di un intervento nella realtà che non sia casuale, ma cosciente, sistematico ed orientato, subordinato ad un piano, che solo può dargli tutta la sua efficacia ai fini della conoscenza e della padronanza dell'uomo sulla natura. Malgrado le dottrine idealistiche e reazionarie della «scienza pura», per fortuna, gli scienziati non hanno potuto esimersi, anche nel mondo capitalistico, da un intervento nella realtà che fosse, di fatto, orientato dalle esigenze della pratica umana associata, sia pur ancora limitata e framméntaria come essa solo può essere in una società di classi. Malgrado le impostazioni reazionarie della genetica mendeliana o morganiana, così, nessuno scienziato ha potuto ridursi davvero a semplice osservatore di quanto accadeva nelle specie o nelle cellule; così come, molto prima che Bacone o Galileo avessero chiarito l'efficacia del metodo sperimentale, per centinaia di secoli gli uomini non avevano potuto esimersi dal far degli esperimenti, senza di che non avrebbero potuto vivere e progredire. Malgrado quelle impostazioni idealistiche e reazionarie, insomma, la scienza ha potuto accumulare, anche nel mondo borghese, una messe ingente di dati sperimentali, che restano pur validi, ed elaborare particolari dottrine biologiche che possono essere integrate nella nuova biologia; ma è fuor di dubbio che la mancanza, nella biologia borghese contemporanea, di una chiara coscienza, di una nozione adeguata del significato della pratica umana associata in quanto momento decisivo del processo della conoscenza, le ha impresso una caratteristica metafisica, scolastica; così come, prima che Bacone e Galileo avessero chiarito per la scienza nuova della borghesia il senso del metodo sperimentale in quanto criterio della verità, la scienza della società feudale – che pur non aveva potuto fare a meno di ricorrere, di fatto, all'esperimento ed aveva raccolto numerosi dati sperimentali — si era venuta impigliando in una sterile metafisica ed in una scolastica medievale.
Per la scienza nuova della borghesia, in quella sua epoca rivoluzionaria, la conquista di una chiara nozione del metodo sperimentale come criterio decisivo della verità scientifica rappresentò un vero e proprio salto in avanti che le permise di districarsi da quella metafisica e da quella scolastica medievale, di sottoporre ad una elaborazione scientifica coerente non solo i nuovi dati che l'impiego sistematico del metodo sperimentale ormai veniva raccogliendo, ma quegli stessi dati che la scienza medievale era venuta accumulando. La rivoluzione scientifica, che oggi si vien compiendo in Unione sovietica, ha — nei confronti della scienza borghese contemporanea -- una portata analoga a quella, in quanto essa è fondata sulla conquista marxista di una nozione chiara della pratica umana non solo come criterio, ma come momento decisivo del processo della conoscenza. Ma l'efficacia gnoseologica e pratica di questa nuova rivoluzione scientifica già si manifesta come assai più profonda, come quantitativamente e qualitativamente diversa da quella della rivoluzione baconiana e galileiana. Questa, in effetti, restava, per il momento, una rivoluzione ideologica, metodologica, teorica: la sua efficacia pratica restava individuale e artigianesca, affidata allo spontaneo futuro sviluppo dell'agricoltura e dell'industria capitalistica e limitata dalla persistente divisione della società in classi, dalla ignoranza scientifica di massa che ne è il necessario complemento. Tutt'altra è, fin d'oggi, l'efficacia della rivoluzione scientifica che si vien compiendo in Unione sovietica, ad esempio, nel campo della biologia. Qui la conquista di una nuova, chiara ed adeguata nozione del valore della pratica umana associata in quanto momento intrinseco decisivo del processo della conoscenza, non resta patrimonio individuale di ristretti gruppi di ricercatori specializzati, non ha solo un valore ideologico, metodologico, teorico. Non a caso —l'abbiamo già ricordato — il volume col resoconto stenografico dei recenti dibattiti sulla nuova genetica ha avuto immediatamente una prima tiratura in duecentomila copie: ciò significa che, nella società socialista, nella società senza classi antagonistiche, ogni rivoluzione metodologica nella scienza acquista subito un carattere non più solo teorico, individuale e artigianesco, ma pratico, sociale, organizzato: diviene elemento di una vera e propria mobilitazione scientifica di massa, che allarga a tutta l'umanità la partecipazione attiva alla lotta per la conquista della scienza, per la conoscenza e per la padronanza dell'uomo sulla natura.
Nella nuova biologia sovietica, così, a differenza di quel che avviene nella biologia borghese contemporanea, non ci si limita a stare a vedere quel che avviene delle specie animali o vegetali, o nelle cellule e nei cromosomi; non ci si limita a stare a vedere cosa accade quando si incrociano due specie di moscerini, o quando si bombardano delle cellule con questa o quella particella; non si considera come un' inammissibile intrusione della pratica nella scienza «pura» il fatto di proporsi di trasformare una data specie animale o vegetale in un dato senso, ad un fine di pratica utilità per l'uomo. Al contrario: Mitschurin e Lyssenko hanno chiaramente riconosciuto che «la natura non largisce favori; bisogna prenderseli»; hanno inteso che non si può davvero conoscere la natura senza trasformarla, senza intervenire sistematicamente colla pratica umana associata nel suo processo, senza partecipare attivamente e coscientemente a questo processo stesso secondo un piano: nel quale, per la nuova biologia sovietica, l'esperimento, l'intervento pratico nella realtà, non è più solo casuale, individuale, artigianesco criterio della verità scientifica, ma diviene un momento decisivo del processo stesso attraverso il quale l’uomo approfondisce la sua conoscenza teorica e la sua padronanza pratica sulla natura; diviene esperimento collettivo, orientato, sociale, che crea un rapporto nuovo tra teoria e pratica scientifica. Per questo la nuova biologia sovietica può rigettare ed efficacemente confutare tutte le concezioni idealistiche e misticheggianti della biologia borghese contemporanea che tendono a porre dei limiti insuperabili alla conoscibilità della realtà biologica, che tendono a negare il determinismo biologico per sostituirgli una casualità, perseguibile dallo scienziato solo con mezzi statistici; per questo, di contro alla scolastica impotenza della biologia borghese contemporanea, la nuova biologia sovietica è tutta pervasa dalla sua fiducia scientifica nella possibilità dell'uomo di approfondire indefinitamente la sua conoscenza teorica e la sua padronanza pratica sulla natura.
Non vi è dubbio che, come per le scienze biologiche, anche per le scienze fisiche e matematiche un'analoga rivoluzione è in corso, in Unione sovietica: anche se, in questo campo, il processo di elaborazione e di impostazione nuova appare in una fase più arretrata. Anche qui, la scienza borghese è venuta accumulando materiali .sperimentali immensi che essa si dimostra sempre più, tuttavia, incapace di dominare e di organizzare, impigliata com'essa è nelle impostazioni e nelle deduzioni idealistiche, scolastiche, formalistiche, o addirittura misticheggianti. Contro queste impostazioni e deduzioni, già da tempo la scienza sovietica ha esercitato la sua critica; ma, come abbiamo già avvertito, non si può dire che, in questo campo, la nuova scienza sovietica si sia completamente liberata dalle impostazioni dominanti nel mondo borghese e sia venuta enucleando un nuovo indirizzo delle sue ricerche, compiutamente adeguato — come è già avvenuto per la biologia alla realtà nuova della società socialista. Proprio perché la rivoluzione scientifica che si vien realizzando in Unione sovietica è una rivoluzione non solo teorica, ideologica, ma pratica, è inevitabile che essa si venga affermando secondo una successione di tappe e di settori, che non è casuale, che non deriva semplicemente dalla genialità di questo o di quel singolo ricercatore, ma risponde alle concrete condizioni ed esigenze di sviluppo della costruzione socialista. Ma è fuor di dubbio che fin d'ora, anche per il campo delle scienze fisiche — un campo nel quale le esigenze «atomiche» della borghesia imperialista hanno indotto una deformazione e un disorientamento particolarmente grave della ricerca — la rivoluzione di cui già si possono rilevare i primi segni in Unione sovietica si sviluppa su di una direttrice analoga a quella che già si è affermata per le scienze biologiche: antiidealistica, antiformalistica, anticasualistica, antimistica, nel senso di una nuova e più chiara nozione del rapporto fra teoria e pratica nel processo della conoscenza.


La via di sviluppo della scienza sovietica: la storiografia.

Ma non potremmo concludere questa nostra disamina di alcune caratteristiche, che ci son sembrate particolarmente importanti, della rivoluzione culturale e gnoseologica che si vien compiendo nel paese del socialismo, se non accennassimo ancora al modo, alla via per la quale la cultura e la scienza sovietica si sviluppa. Anche in questo senso, la cultura e la scienza sovietica si differenziano profondamente, qualitativamente, dalla cultura e dalla scienza della società di classi. E vogliamo questa volta, per illustrare questa nostra affermazione, scegliere il nostro esempio nel campo della ricerca storiografica.
Il modo, la via per la quale la storiografia ha affermato i suoi successivi progressi, le sue tappe di sviluppo successive, nella società di classi, è quella di grandi opere storiografiche, dovute al genio individuale di singoli scrittori. Erodoto, Tucidide, Polibio, nella storiografia del mondo greco-romano, hanno potuto segnare col loro nome delle tappe decisive, grazie ad un generale sviluppo, certo, della società di cui essi erano parte; ma queste tappe son pur sempre state segnate dal loro nome e da opere poderose, la cui efficacia era riservata, dapprima, ad un pubblico ristretto di specialisti, uomini di governo o scienziati delle classi dominanti. In rispondenza alla struttura della società di classi, insomma, l'efficacia teorica e pratica di una rivoluzione storiografica — se non restava addirittura limitata alle classi dominanti — si diffondeva, per così dire, dall'alto in basso; veniva, semmai, passivamente accolta dalla coscienza delle masse, per le quali la nuova storiografia restava sempre un'arma del consolidamento del dominio di classi oppressive e sfruttatrici.
Profondamente diverso è il modo, la via dello sviluppo della scienza storiografica in Unione sovietica. È noto così, ad esempio, che, fino al 1934, sono state largamente diffuse, in URSS, le impostazioni e le elaborazioni storiografiche della scuola di Pokrovski che criticava la storiografia borghese non da un punto di vista materialista, proletario, bensì da quello di un positivismo schematico, piccolo borghese. Non si vuol dire, con questo, che la scuola di Pokrovski — che si ricollegava, d'altronde, con certe tradizioni relativamente progressive di storiografia della vecchia Russia zarista — non avesse raccolto ed elaborato una larga messe di materiali, sulla quale ancor oggi criticamente si lavora. Ma è fuor di dubbio che, nel 1934, le impostazioni e gli orientamenti della scuola di Pokrovski apparivano già assolutamente inadeguati al superiore grado di coscienza materialista, marxista, raggiunto dai popoli dell'URSS, ed ai compiti che si ponevano di fronte alla storiografia sovietica. Anche allora, fu l'intervento critico del Partito bolscevico — e quello personale di Stalin, di Kirov, di Zhdanov — a porre in rilievo questa inadeguatezza ed a suscitare una larghissima discussione che appassionò il pubblico sovietico. Questa discussione si concretò, ad un certo momento, nel bando di un concorso per una Storia dei popoli dell'URSS. Ma quel che è caratteristico è questo: a differenza di quel che sarebbe avvenuto in qualsiasi paese del mondo capitalistico, il volume che doveva segnare la vittoria del nuovo indirizzo storiografico non era un grosso tomo, riservato a pochi specialisti, irto di note e di citazioni erudite; bensì un testo per le scuole elementari.
Il testo stesso che fu premiato, del resto, fu sottoposto ad una larghissima discussione e non fu esente da gravi critiche; se ben ricordo, anzi, a sottolineare le sue deficienze, il primo premio del concorso non fu assegnato, ma al vincitore fu solo assegnato il secondo. Si rilevarono fin da allora, nell'opera, deficienze residue per quanto riguardava l'impostazione metodologica e ancor più gravi deficienze per quanto concerneva l'elaborazione critica dei materiali. E come avrebbe potuto essere altrimenti, per un'opera che doveva avviare la storiografia sovietica per vie nuove, se pur potentemente illuminate dalla luce delle geniali impostazioni storiografiche di Marx, di Engels, di Lenin, di Stalin? la scuola di Pokrovski, proprio per le sue residue impostazioni ed orientamenti borghesi, aveva potuto e poteva ancora beneficiare di tutta una tradizione, di tutto un apparato tecnico, erudito, organizzativo, personale, ben superiore, ancora, a quello della scuola conseguentemente marxista. E non mancò, allora (come oggi avviene a non pochi scienziati, anche progressivi, per la scuola biologica di Lyssenko) chi rilevò degli elementi di improvvisazione e di mancanza di documentazione erudita che avrebbero reso l'opera premiata meno persuasiva di quelle, ben altrimenti elaborate, di Pokrovski e della sua scuola, che — tra l'altro — avevano ottenuto non di rado un riconoscimento fin dai maggiori storiografi del mondo capitalistico!
E certo, anche fra noi, se un gruppo di studiosi marxisti imprendesse — e auguriamoci che lo facciano al più presto!—l'elaborazione di un testo elementare di Storia d'Italia, non potrebbero mancare, nella loro opera, deficienze ancor più gravi e difetti d'improvvisazione ben più pesanti di quelli che si potevano riscontrare nell'opera che fu allora premiata in Unione sovietica. Essi si troverebbero a dover affrontare non solo la rielaborazione critica di quella immensa mole di materiali storiografici che la storiografia borghese è venuta elaborando a suo modo, dal punto di vista e nell'interesse delle classi dominanti; ma addirittura la ricerca e la raccolta di un altro larghissimo materiale, specie per quanto riguarda la civiltà materiale ed i rapporti di produzione nel nostro paese che la storiografia borghese ha generalmente trascurato di prendere in considerazione. È fuor di dubbio che, in queste condizioni, il testo elementare elaborato dai nostri bravi studiosi marxisti apparirebbe a molti, di primo acchito, meno «documentato» e meno «persuasivo» della Storia d'Italia, putacaso, di Benedetto Croce, che si fonda su di una tradizione e su di un apparato scientifico, erudito, personale, organizzativo già costituito e consolidato, cristallizzato magari, nella più accurata ricerca della precisa data di nascita di quella cantante napoletana del '600: di cui non vogliamo punto contestare l'utilità, ma che non esaurisce certo, oggi, i compiti della nuova storiografia. Eppure...
Eppure, proprio l'esperienza dei dibattiti storiografici che si svolsero allora e dopo in Unione sovietica ci dimostra che quella scelta nel 1934 è la sola via adeguata allo sviluppo della nuova storiografia dell'umanità socialista. E non a caso, pochi anni dopo, il Breve corso di storia del Partito comunista (bolscevico) dell'URSS — anch'esso un libro elementare, se pur di tanto superiore all'altro per la sua precisione scientifica e per la sua genialità rinnovatrice — ci veniva a confermare che la via dello sviluppo della storiografia nuova è quello della educazione storiografica di massa nello' spirito del marxismo-leninismo, nello spirito di una concezione scientifica coerente, di avanguardia; una via che va dal basso in alto, che assicura all'elaborazione dei problemi storiografici la partecipazione attiva e cosciente di milioni di uomini. E già oggi si può dire che libri come quelli citati — e particolarmente la Storia del Partito bolscevico — hanno educato tutta una generazione dei popoli sovietici e creato una tradizione, un apparato, un personale storiografico di massa: sicché, fin d'oggi, la nuova storiografia sovietica si afferma non solo superiore a quella borghese per le sue impostazioni ed orientamenti metodologici, ma già sovente più ricca, più precisa, più elaborata per il suo apparato erudito.
E siamo giunti al termine della nostra esposizione, nella quale ci siamo sforzati di chiarire il senso più generale della rivoluzione culturale che oggi si vien compiendo nel paese del socialismo: un senso che, in quanto nasce da nuovi rapporti umani già conquistati, è di per se stesso evidente agli uomini dell'umanità nuova, socialista; ma necessariamente si presenta dapprima come «scandalo» ai «figli del secolo» a noi, umanità ancora impigliata e irretita e dilacerata dai rapporti della società capitalistica. Ma non sarà stato inutile il nostro dibattito, se quella che, per gli uomini del vecchio secolo, resta solo «pietra di scandalo», per noi tutti, figli del bisogno e della lotta, diverrà pietra miliare: che ci indirizzi e ci guidi alla lotta per la conquista di un'umanità anche nostra, che c'insegni ad intendere, nella lotta e per la lotta, i valori nuovi e superiori che l'umanità socialista già elabora per tutti gli uomini.
view post Posted: 4/7/2013, 13:48 Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista - Scienza, marxismo, cultura
Da Emilio Sereni, Scienza, marxismo, cultura, Le Edizioni Sociali, 1949, Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista., pp. 13-88:


Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista


Mir. O wonder!
How many goodly creatures are there here?
How beauteous manckind is? O brave new world, That hath such people in 't.
(Shakespeare: The Tempest, V, I)

Conferenza tenuta il 13 novembre 1948 alla Sala farnese, in Bologna, a conclusione del “Mese per l’amicizia italo-sovietica”. Il resoconto stenografico è stato in varie parti rielaborato e sviluppato per la pubblicazione a stampa.

Della filosofia è stato detto che, come la civetta, come l’uccello di Minerva, essa fa la sua apparizione sulla sera, quando compiute e cessate sono le opere industri del giorno. Se questa similitudine dovesse significare — come ha significato per le classi oppressive e sfruttatrici che si sono succedute nel dominio della società umana — una separazione della teoria dalla pratica, del pensiero e del libro dalla vita, essa non varrebbe, certo, a sottolineare il rapporto che, nella lotta della classe operaia per il socialismo, si stabilisce tra la sua teoria e la sua pratica rivoluzionaria. Per la classe operaia, per i figli del bisogno e della lotta, filosofia, scienza, cultura, non son già più, e non possono essere, teoria astratta dalla pratica rivoluzionaria, pensiero che non s’incarni in azione, libro che non esprima esigenze di vita: ché anzi la cultura della classe operaia non può nascere e svilupparsi che da queste vitali esigenze di lotta, le chiarisce e le orienta, in un legame indissolubile tra la teoria e la pratica rivoluzionaria. Ma resta pur sempre vero che la cultura e la scienza nuova dell’umanità socialista rappresentano come il coronamento della lotta della classe operaia, la forma più compiuta in cui di questa lotta si esprime e si realizza l’obiettivo storico, che è quello della creazione di un uomo e di un’umanità nuova, di un nuovo umanesimo. A ragione, dunque, gli iniziatori di questo ciclo di conferenze hanno prescelto tale argomento per questa conversazione conclusiva del «Mese dell’amicizia italo-sovietica»; e l’affollarsi in queste sale di un pubblico così vario per la sua composizione sociale e culturale, mostra quanto largo ed attento, ormai, sia l’interesse che anche tra noi suscitano i problemi non solo economici e più strettamente politici, ma culturali, della costruzione socialista.
Possiamo ben dire che per la prima volta, quest’anno, nel corso di questo «Mese dell’amicizia italo-sovietica», un più largo pubblico italiano ha avuto la possibilità di prendere un più vivo contatto con tali problemi. Con ciò non vogliamo dire, certo, che sinora la nuova civiltà e la nuova cultura sovietica non a abbiamo fatto sentire la loro enorme efficacia anche tra noi, anche nella cultura italiana. Da trenta anni — malgrado gli sforzi del fascismo per nascondere o falsare agli occhi degli italiani la realtà del paese del socialismo — il fatto stesso dell’esistenza dell’Unione sovietica ha rappresentato, anche per l’Italia, il più potente fattore di organizzazione e di orientamento della classe operaia e delle masse popolari nella loro lotta contro il fascismo, per l’indipendenza nazionale, per la pace, per la democrazia, per il socialismo, che è anche nel nostro paese lotta per la cultura, per la sua difesa e per il suo rinnovamento. Siedono qui accanto a me, al tavolo della presidenza di questa riunione, uomini come il prof. Volterra, come Betti, come Tarozzi, come il vostro sindaco, l’amico e compagno Dozza, militanti della lotta antifascista clandestina, che con me e con cento altri in questa sala possono darvi testimonianza di quanto or ora ho affermato. Ciascuno di noi sa bene, ha potuto sperimentare nelle organizzazioni clandestine democratiche e nelle galere fasciste, cosa abbia significato per il successo della nostra lotta questo grandioso fatto storico dell’esistenza del paese del socialismo, della sua forza, delle sue vittorie. Negli anni più duri della tirannide fascista, ogni qual volta un militante antifascista riusciva a tessere qualche filo della grande congiura della libertà, ogni qual volta — a prezzo di sacrifici e di eroismi indicibili — si riusciva a stabilire un contatto con altri combattenti o gruppi di combattenti della democrazia, si ritrovava che lo stimolo alla conquista di una coscienza, la spinta ad una prima organizzazione democratica, la fiducia in una possibilità dí lotta e di vittoria, nasceva sempre di lì: dalla coscienza, sia pur vaga e confusa, dell’esistenza del paese del socialismo, di un paese ove gli operai, i contadini, gli intellettuali d’avanguardia avevano conquistato la libertà, costruivano una società senza sfruttati né sfruttatori.


L’URSS nella lotta per la cultura.

Dopo di allora, in cento altri modi, e finalmente con la vittoria nella grande guerra di liberazione, i popoli dell’Unione sovietica hanno confermato e sviluppato questa loro decisiva funzione di avanguardia nella lotta per la cultura. Centinaia di milioni di uomini semplici, dall’Italia alla Cina, dalla Francia alle Americhe,decine di migliaia di intellettuali della Resistenza hanno potuto intendere ed hanno inteso, alla lezione di grandiosi fatti storici, che — salvando il mondo dalla barbarie nazista e fascista sui campi di Leningrado e di Stalingrado — i popoli sovietici hanno salvato, per l’umanità tutta, la civiltà, la cultura, la possibilità stessa di una civiltà e di una cultura.
Eppure, questo apporto grandioso che i popoli dell’Unione sovietica, la cultura e la civiltà nuova del socialismo hanno dato e dànno alla causa mondiale della pace, della civiltà, della cultura, non è che un elemento, un momento, un aspetto di un apporto ancor più decisivo e universale; ed è su tale apporto che mi sembra particolarmente necessario attirare la vostra attenzione.
Si consideri cosa significhi, nel nostro paese e per ogni dove, cultura e lotta per la cultura. Non v’è cultura e non v’è certo, senza la conservazione di quei valori che le generazioni passate hanno creato col loro sforzo millenario, senza una tradizione culturale, nella quale ogni nuova generazione trova la materia delle sue elaborazioni. Ma non è men vero che non v’è cultura e non v’è civiltà là dove una tradizione, passivamente accolta od imposta, col suo immobile peso schiacci e soffochi quello che di ogni cultura è il momento decisivo, il momento dell’attività, della creatività culturale. Per questo, in ogni epoca della storia dell’umanità, quel paese, quel popolo, che di volta in volta ha espresso primo dal suo seno nuovi rapporti di produzione, nuove classi, che — di contro all’opera, alle tradizioni del passato affermavano un’attività ed una produttività nuova, ha sempre esercitato una funzione d’avanguardia e d’irradiazione culturale. Così avvenuto per la Grecia e per l’Italia antica, ove una nuova società e nuove classi cittadine si sono affermate contro le immobili tradizioni della società, gentiIizia così è avvenuto per la cultura dei nostri Comuni e per quella nostro Rinascimento; così è avvenuto per la cultura francese nell’epoca dell’illuminismo e della Grande rivoluzione.
Nelle epoche passate, tuttavia, e per ciascuna delle rivoluzioni culturali or ora ricordate, l’efficacia liberatrice, la produttività di una cultura e della sua irradiazione — per quanto grandiose esse ci possano apparire — restavano necessariamente limitate dal carattere stesso della civiltà di cui esse erano l’espressione. Ciascuna di queste rivoluzioni, certo, pur innestandosi su di una data tradizione culturale, la spezzava e la rinnovava, produceva nuovi valori. All’alba della nuova éra così, la letteratura cristiana ci dice, per bocca di San Paolo, che «non vi è più né Giudeo né Gentile», ci esprime la avvenuta venuta rottura del vecchio quadro di una cultura limitatamente cittadina o particolaristica, quale era stata quella della polis greca o delle tribù d’Israele; e all’alba dell’età contemporanea, del pari, la cultura illuministica del Terzo stato ci esprimerà, nell’accezione nuova di termini quali «nation» o «citoyen», la rottura del quadro tradizionale di una società, dilacerata in caste ereditarie. Ma sempre, di nuovo, in ciascuna di queste rivoluzioni culturali, la produttività e la creatività della cultura nuova è limitata dal fatto che la rottura con la tradizione del passato (il suo superamento) resta sempre relativa. Nuove classi si avvicendano alla testa della società, affermano in essa la loro egemonia economica, politica, culturale; ma son sempre classi oppressive e sfruttatrici, e la loro cultura, la cultura dominante, non può esprimere appunto che le condizioni e le esigenze ideologiche del loro dominio. Da una tradizione servile si libera, l’umanità; ma quella nuova che le si impone è ancora una tradizione servile nuova, che esprime la realtà e le esigenze del dominio di una nuova classe, anch’essa oppressiva e sfruttatrice, che non può affermare il suo dominio senza perpetuare la divisione della società in classi.
In ciascuna delle rivoluzioni culturali del passato, così, di contro a quel che di nuovo, di più umano quella data rivoluzione afferma e produce, resta preponderante il peso di una millenaria tradizione servile, il peso di «quel che è sempre stato», della divisione della società in oppressi e in oppressori, in sfruttatori e in sfruttati; sicché il giudizio che la nuova cultura dà del mondo, e dell’uomo, e dei suoi destini, e della condizione umana — per quanto nuovo e rivoluzionario esso possa apparire — resta in fatto tutto dominato e materiato da questo pregiudizio, da una tradizione millenaria, che è nata sulla base dell’intima dilacerazione di una società divisa in classi.


L’URSS contro la forza di “quel che è sempre stato”.

Quale e quanto sia il peso soffocante di questo pregiudizio, di questa tradizione, ciascuno di noi lo sperimenta ogni giorno nella sua lotta per il rinnovamento della cultura e della civiltà italiana. A chi consideri il travaglio della nostra società, non può sfuggire che proprio questo è il più formidabile tra i nemici che ci troviamo a dover combattere. Non saranno né i Truman né i De Gasperi, né gli Scelba né i Gonella, i poveri untorelli che spianteranno Milano o Bologna o l’Italia, che potranno fermare la marcia della civiltà nuova; e quel che ancor oggi essi possono, per ritardare questa marcia, non è tanto opera loro, attiva e cosciente, quanto l’opera di una forza possente e tremenda che ancora agisce nelle nostre file, in noi stessi, negli istituti che reggono la nostra società come nell’intimo della nostra coscienza. È quella forza contro la quale, nel dramma di Schiller, persino Wallenstein, l’ardito condottiero, si confessava impotente a combattere, ma che pur l’umanità deve battere, per costruire il mondo e la cultura nuova: la forza di quel che è sempre stato.
L’apporto decisivo, che i popoli dell’Unione sovietica hanno recato e recano alla vittoria della cultura e della civiltà nuova, è proprio questo. Caste sacerdotali antiche o antiche classi di proprietari di schiavi, imperatori cristiani e signori feudali, re assoluti e borghesi liberali o repubblicani, di volta in volta nella storia hanno affermato il loro dominio, ed hanno elaborato civiltà nuove, splendide di templi e di opere d’arte meravigliose, di pensamenti nuovi e profondi o di conquiste ardimentose della tecnica; eppure di volta in volta essi hanno ribadito le catene di un’antica tradizione, di un pregiudizio che sembrava eterno, secondo il quale la ricchezza, la libertà, la cultura dei pochi, avrebbero per presupposto inevitabile la miseria, la servitù, l’ignoranza dei più. «Così è sempre stato, così sempre sarà», ci dicono ancor oggi Truman e il Papa, Benedetto Croce e l’editorialista del Corriere della Sera o del Reader’s Digest, quando non sanno additarci, come via d’ascesa dell’umanità, altro che quella dell’«iniziativa privata» del fattorino che diventa miliardario — dall’ago al milione — trasformandosi egli stesso in sfruttatore, o del Santo o del Saggio che conquistano la loro personale saggezza o santità di contro alla turba profana dei peccatori e dei poveri di spirito.
«Così sempre è stato, così sempre sarà». L’enorme importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre, la sua portata culturale senza precedenti, sta nel fatto che essa ha per sempre spezzato questa tradizione e questo pregiudizio servile che l’umanità si era trascinato appresso attraverso tutte le sue rivoluzioni. Quando, nelle conversazioni che in questo ciclo di conferenze hanno preceduto questa mia, vi si è parlato della Rivoluzione socialista e del paese del socialismo, quando vi si è mostrato come, in Unione sovietica, sia stato abolito ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come siano state liquidate le classi sfruttatrici, come si sia costruita una società in cui già più non esistono classi antagonistiche e in cui la libertà degli uni non è più negazione e limite, ma anzi condizione e potenziamento della libertà degli altri; quando vi si è mostrato come, in Unione sovietica, il vertiginoso progresso dell’agricoltura e dell’industria sia condizionato dall’elevamento generale del livello tecnico e culturale delle masse, e non più solo di pochi privilegiati, vi si è mostrato, nei fatti, che — se «così sempre era stato» nel passato — non è vero che così anche debba sempre essere per l’avvenire: vi si è mostrato che è possibile rompere, che già sulla sesta parte del globo son rotte le catene di quel pregiudizio, di quella tradizione servile.
O si consideri, ancora, quel che Truman e il Papa, Benedetto Croce e l’editorialista del Corriere della Sera o del Reader’s Digest ogni giorno in varia forma ci ripetono, a proposito di nazione o di guerra. È difficile, certo, per la borghesia imperialista e per i suoi ideologi, venirci a parlare oggi della «bellezza» della guerra, come faceva Mussolini. Troppo recente, ancora, è lo spettacolo dei suoi orrori, perché una tale predicazione possa sperare di attecchire. E allora si cerca di persuadere i milioni degli uomini semplici, e magari gli intellettuali d’avanguardia, che la guerra, sì, è una cosa orrenda e mostruosa, ma che dobbiamo acconciarci a combatterne una nuova, al servizio dei magnati di Wall Street — come ieri al servizio dei tedeschi — perché «così è sempre stato, e così sempre sarà»; perché dal pantano di fango e di sangue dell’imperialismo, per ributtante e mortale che sia, non c’è via d’uscita. E forse che, dai secoli dei secoli, popoli e nazioni non si son battuti per il loro predominio, per imporre il loro suggello su altri popoli, su altre nazioni? E forse che non è questa un’eterna legge di vita e di morte degli uomini?
«Così sempre è stato, così sempre sarà». L’enorme importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre, la sua portata culturale senza precedenti, sta nel fatto che essa ha per sempre spezzato questa tradizione e questo pregiudizio servile che l’umanità si era trascinato appresso attraverso tutte le sue rivoluzioni. Poco più di cento anni sono trascorsi da che, in Russia stessa, in una poesia famosa, Alessandro Puschkin — che pure era un veggente annunciatore di tempi nuovi cantava, a proposito delle lotte tra i popoli dell’antico Impero zarista:
Dai tempi dei tempi tra loro si battono
Queste stirpi; già sovente, alla tempesta,
Si è piegata ora l’una, ora l’altra parte.
Non più di quarant’anni sono trascorsi da che, nella Russia zarista, russi ed ebrei, turchi ed armeni, georgiani e tartari, si affrontavano in orrendi pogrom, restavano schiacciati sotto il duplice giogo di un’oppressione sociale e nazionale. Quando, nelle conversazioni che hanno preceduto questa mia, vi si è mostrato come la Rivoluzione d’Ottobre abbia risolto la questione nazionale, come, in Unione sovietica, cento popoli diversi vivano affratellati da un comune patriottismo, come essi creino, ciascuno secondo il proprio genio, una civiltà che è socialista per il suo contenuto, nazionale quanto alla sua forma; quando vi si è mostrato di che unità monolitica questi cento popoli diversi abbiano dato prova nella difesa della patria comune, vi si è mostrato che, anche per quanto riguarda i problemi della oppressione nazionale e della guerra, se è vero che «così era sempre stato» nel passato, non è vero che così anche sempre debba essere per l’avvenire; vi si è mostrato che è possibile rompere, che già sulla sesta parte del globo son rotte le catene di quel pregiudizio, di quella tradizione servile, in fede della quale ancora una volta si cerca di trascinare gli uomini al macello.
Ma di tutto questo, di tutto quanto in Unione sovietica si è realizzato e si realizza sul piano politico, sociale, economico, tecnico, di quel che significhi la creazione di un’industria e di un’agricoltura socialiste, vi è stato già parlato nelle precedenti conversazioni di questo ciclo. Così pure vi è stato chiarito, senza dubbio, quale sia il significato che queste conquiste dei popoli sovietici hanno per noi, nella nostra lotta per la pace, per l’indipendenza nazionale, per la democrazia, per il socialismo. Quel che m’importava di sottolineare, era però il fatto che queste conquiste hanno per noi un significato, appunto, che non è solo economico o sociale o politico, ma culturale, in quanto ci documentano la possibilità di una lotta e di una vittoria anche nostra contro una millenaria tradizione servile, in quanto maturano in centinaia di milioni di uomini semplici l’idea dell’assalto contro la cittadella del pregiudizio, che ancora inalbera il nero gagliardetto dell’«è sempre stato così, e sempre così sarà».


Scuola e “socializzazione della cultura” nel paese del socialismo.

Ma parlare di cultura e di scienza nuova dell’umanità socialista non potrebbe significare, beninteso, solo parlare di questo suo generico, se pur universale e decisivo, apporto alla nostra lotta per una cultura nuova. E nemmeno basterebbe, a chiarire la portata storica della rivoluzione culturale che oggi celebra le sue vittorie in Unione sovietica, parlarvi solo di quel che la Rivoluzione socialista ha già realizzato, nel senso della diffusione della cultura, nel senso dell’elevamento del livello culturale delle masse.
Certo — come giustamente rilevava Gramsci nei suoi Quaderni del carcere — «creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, «socializzarle», per così dire, e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è un fatto «filosofico» ben più importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali» (I). In questo senso, senza dubbio, lo sforzo ed i successi realizzati nel paese del socialismo sono senza precedenti nella storia. Non vogliamo appesantire questa nostra esposizione con dati statistici troppo particolareggiati che non è mai facile seguire in una trattazione orale e che si possono d’altronde ritrovare in pubblicazioni a stampa. Ci limiteremo a citare alcune cifre caratteristiche.
Nella Russia zarista, alla vigilia della prima guerra mondiale, gli Istituti di educazione prescolastica (asili infantili e simili), non erano più di 275, ed erano tutti — ad eccezione di una quindicina — riservati ai bambini delle classi privilegiate. Nel 1941, il numero di tali Istituti era salito a 16.251, senza contare le colonie estive; nel 1947, oltre quattro milioni di bambini venivano accolti in Istituti di educazione prescolastica.
Per quanto riguarda l’istruzione elementare, ognuno sa come il vecchio Impero zarista fosse il paese d’elezione di un analfabetismo di massa, che toccava punte del 98 e del 99 per cento tra le decine di milioni di uomini e di donne delle nazionalità oppresse. Ben quaranta tra queste nazionalità non disponevano nemmeno di un alfabeto per la loro lingua, e perciò di una lingua e di una letteratura scritta; tanto meno potevano disporre, pertanto, di una scuola e di istituzioni culturali. Nel complesso delle popolazioni dell’Impero zarista, la percentuale degli analfabeti, alla vigilia della Rivoluzione di Ottobre, era di oltre il 65%; oggi l’analfabetismo è stato praticamente liquidato. Dal 1930 è stata introdotta l’istruzione elementare obbligatoria fino alla settima classe nelle città e villaggi, fino alla quarta classe nelle località rurali. Da 10.300.000 nel 1928-’29, il numero degli alunni delle scuole elementari è salito a 17.700.000 nel 1932-’33, a 21.200.000 nel 1938-’39. Particolarmente degno di nota è il fatto che il numero degli alunni nei corsi dal quinto al settimo, che nelle località rurali era solo di 533.000 nel 1929-’30, era già salito a ben 5.576.000 nel 1938-’39.
Non meno impressionante è lo sviluppo dell’istruzione media. Nel 1914, in tutto l’Impero zarista non esistevano che 1.953 Istituti d’istruzione media; nel 1938-’39, il numero di tali Istituti saliva in Unione sovietica a ben 12.469. Gli alunni delle scuole medie, che erano poche decine di migliaia prima della Rivoluzione, e non più di 138.000 nel 1933, erano già 1.408.000 nel 1938, senza contare quelli delle scuole medie kolkhoziane.
Intere Repubbliche, come quella del Kazakhstan e dell’Uzbekistan, che erano prive di scuole medie prima della Rivoluzione, ne avevano già rispettivamente 439 e 232 nel 1938; e per preparare nuove centinaia di migliaia di maestri, il numero delle Scuole normali, che era solo di 19 nel 1914, era stato portato a 196 nel 1946.
Non parliamo delle scuole per adulti, alle quali accorrevano nel 1939 ben 751.000 persone, né delle scuole tecnico-professionali specializzate. Per quanto riguarda l’istruzione superiore, di tipo universitario, nel 1914 non esistevano nell’Impero zarista che 91 centri d’istruzione di questo grado, anche se si comprendono sotto questa voce corsi privati speciali di lingue, ecc. Nel 1946, gli Istituti superiori pubblici di tipo universitario salivano in Unione sovietica a ben 792, ed erano frequentati da 653.000 studenti: un numero superiore a quello della popolazione universitaria di tutta l’Europa capitalistica. Ma vi è di più: nel 1914, fra gli studenti di otto università russe, il 38,3% apparteneva, per la sua origine sociale, alla nobiltà e all’alta burocrazia, il 43,2% alla borghesia e al clero, il 14% alla borghesia rurale; solo il 4,5% proveniva da famiglie di operai, di contadini o di intellettuali poveri. Oggi ancora, negli Stati Uniti d’America, secondo i dati raccolti da una Commissione dell’Università di Harvard, solo il 5% di figli di lavoratori trova accesso agli Istituti d’istruzione superiore. In Unione sovietica, per contro, l’istruzione superiore è effettivamente, e non solo nominalmente, aperta a tutti, e tutta la popolazione universitaria risulta composta di lavoratori e di figli di lavoratori.


L’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri.

Il compito grandioso che oggi si pone di fronte ai popoli dell’URSS, e che già si viene realizzando, nel campo dell’istruzione, è quello dell’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri. Né si creda che ciò voglia significare semplicemente tino sviluppo della cultura tecnica e scientifica; di pari passo con la diffusione e l’approfondimento di questa, va la diffusione della cultura cosiddetta umanistica. Basti accennare al moltiplicarsi dei Musei e delle Accademie di belle arti, delle Istituzioni teatrali e musicali; basti ricordare che le tirature e la diffusione dei classici russi e stranieri — da Tolstoi a Rabelais, da Balzac a Shakespeare, dal Palladio al Goldoni — superano sovente già, in Unione sovietica, quelle che si ritrovano nei paesi d’origine dei singoli autori.
A mostrare quali passi, sulla via già accennata dell’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri, siano ormai stati compiuti nel paese del socialismo, voglio citarvi ancora. solo una cifra, che mi si presenta qui sottomano. Voi sapete che nel corso di questa estate si è svolta, presso l’Accademia delle scienze dell’URSS, una discussione sui problemi della genetica, di quella parte della biologia, cioè, che studia le leggi della trasmissione dei caratteri ereditari degli esseri viventi. Di questa discussione sono stati dati, per oltre un mese, larghi resoconti, non solo nella stampa specializzata, ma nelle prime pagine dei quotidiani. Milioni di lettori hanno potuto seguirne gli sviluppi nelle linee generali. Ebbene: pochi giorni or sono, il resoconto stenografico completo dei dibattiti è stato pubblicato in questo grosso volume che ho qui dinnanzi a me. E un volume che in qualsiasi paese del mondo capitalistico, anche dei più avanzati, sarebbe accessibile solo a poche centinaia, o al massimo ad alcune migliaia di specialisti o di scienziati. In Unione sovietica, questo volume è stato tirato in una prima edizione di duecentomila esemplari; e il compagno, che in questi giorni me ne ha portato questa copia da Mosca, mi diceva che gli era stato assai difficile trovarmela perché, già pochi giorni dopo la sua pubblicazione, questa prima edizione era esaurita in quasi tutte le librerie della capitale sovietica.
L’interesse dei dati sommari che ho qui citato mi ha già indotto ad appesantire, più di quanto non fosse nelle mie intenzioni, di cifre la mia esposizione; e non vorrei peccare ancora per questo verso. Mi basti solo citare ancora un dato significativo, che valga a riassumere tutto quanto siamo venuti rilevando. Mentre negli Stati Uniti d’America, ai fini dell’educazione e dell’istruzione, si spende poco più dell’ 1,5% del reddito nazionale; mentre, in Inghilterra, tale percentuale si eleva appena al 3%, in Unione sovietica ben il 13% del bilancio economico nazionale è destinato alle spese per l’istruzione e per l’educazione: con una percentuale che, nei paesi capitalistici, si ritrova solo quando si calcolano non già le spese per la costruzione culturale, bensì quelle per le opere distruttive degli armamenti e della guerra.
Abbiamo già avvertito, tuttavia, che neanche l’imponenza dei risultati che il paese del socialismo ha realizzato e sta realizzando su questo piano della diffusione della cultura e dell’elevamento del livello culturale delle masse, potrebbe esaurire il senso e la portata della rivoluzione culturale che oggi si sviluppa in Unione sovietica. Si può dire, anzi, in un certo senso, che di questa rivoluzione culturale tali grandiose realizzazioni rappresentano solo la premessa, mentre la rivoluzione stessa si sviluppa e si manifesta su di un piano ancor più largo ed elevato.


La liquidazione dei residui ideologici della società di classi nella coscienza degli uomini.

La realtà è che la costruzione vittoriosa del socialismo è venuta e vien costruendo in URSS un’umanità, un uomo nuovo. L’eliminazione di ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la liquidazione dell’inferiorità economica, sociale, politica, intellettuale della donna, la soluzione della questione nazionale, assicurano già all’umanità sovietica condizioni di sviluppo che non hanno precedenti nella storia. Abbiamo già detto come la Rivoluzione socialista abbia conquistato e distrutto la cittadella del pregiudizio, la cittadella dell’«è sempre stato così, e sempre così sarà». Ma quel che è vero per i rapporti e per gl’istituti sociali, non è men vero per l’uomo stesso, per la sua coscienza sociale, politica e morale. Fenomeni grandiosi come quello dell’emulazione socialista e dello stakhanovismo, o come quello dell’eroismo di massa che ha meravigliato il mondo nel corso della guerra patriottica contro l’aggressore nazista, già rivelano la nascita di questo uomo nuovo, che sta in rapporti nuovi con gli altri uomini e con la società di cui è parte, che con occhi nuovi guarda al mondo, e alle sue lotte, e al suo avvenire. È un’umanità che già coscientemente si è posto — sotto la guida del Partito bolscevico – il compito di liquidare i residui ideologici del capitalismo e della società di classi nella coscienza degli uomini. E già su questa via — che è la via del passaggio dalla società socialista alla società comunista — dei passi decisivi si compiono, mentre di questo passaggio si pongono le premesse sul piano dei rapporti di produzione.
Marx ed Engels avevano già mostrato come un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, che assicuri all’umanità un’abbondanza di prodotti, sia una condizione essenziale per il passaggio dalla società socialista — in cui vige il principio di distribuzione: «a ciascuno secondo il suo lavoro» al suo stadio superiore, alla società comunista, in cui vige il principio: «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Lo sviluppo ininterrotto delle forze produttive del paese del socialismo — che si è verificato come legge fondamentale dell’economia socialista persino negli anni più duri della guerra e dell’invasione nazista, di contro alla stagnazione e al marasma economico del mondo capitalista — assicura che la fondamentale condizione per il passaggio alla società comunista è in via di realizzazione. Ma ancora più importanti, ai fini che qui particolarmente ci interessano, sono altre due condizioni che debbono essere soddisfatte perché divenga possibile il pieno sviluppo di una società comunista.
Già oggi, nel paese del socialismo, liquidate le classi oppressive e sfruttatrici, la società non è più divisa in classi antagonistiche, che abbiano cioè tra di loro interessi contrastanti. Operai, kolkhoziani, intellettuali sovietici sono classi amiche, con caratteristiche profondamente diverse, ormai, da quelle che le classi corrispondenti hanno nella società capitalistica. Tra queste classi amiche, tuttavia, se pur non sussistono antagonismi che le separino, sussistono ancora diversità che le distinguono, per la loro posizione nel processo produttivo, come per le condizioni ambientali della loro esistenza, come per il loro grado di sviluppo intellettuale. La separazione tra città e campagne — questa fondamentale caratteristica della società di classi — non è ancora superata nella società socialista: nella quale, se essa è già superata in quanto contrasto, non è ancora, appunto, in tutto superata in quanto distinzione, per quanto riguarda condizioni di vita e possibilità di sviluppo culturale. Fin d’oggi, tuttavia, lo sviluppo del regime kolkhoziano viene rapidamente liquidando l’arretratezza tecnica dell’agricoltura rispetto all’industria; la meccanizzazione e l’elettrificazione delle campagne – che non hanno confronto nel mondo capitalistico – ,la combinazione del lavoro industriale col lavoro agricolo nei kolkhoz, lo sviluppo grandioso delle istituzioni scolastiche e culturali nei centri kolkhoziani, modificano profondamente le condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni rurali; mentre una cosciente e pianificata politica urbanistica moltiplica fin nelle regioni più remote i nuovi centri cittadini, che una politica delle comunicazioni e dei trasporti avvicina ed irradia sulle campagne circostanti.
Mentre così, con la progressiva liquidazione del contrasto tra città e campagne, si pone un’altra fondamentale premessa per il passaggio alla società comunista, non meno importanti sono i passi che si vengono compiendo per la liquidazione dell’altro fondamentale contrasto, caratteristico per la società di classi: il contrasto fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale.
Non vi può sfuggire, evidentemente, la particolare importanza che il progressivo superamento di questo contrasto assume ai fini di una effettiva e radicale rivoluzione culturale. Nella società di classi, se dal contrasto fra città e campagne la maggior parte dell’umanità è condannata a quello che Marx ha chiamato l’idiotismo contadino, il contrasto fra lavoro manuale e lavoro intellettuale condanna l’umanità intera ad una vera e propria mutilazione, la cultura ad una relativa impotenza che nasce dalla separazione della teoria dalla pratica, del libro dal lavoro e dalla vita. Mentre le grandi masse dei lavoratori manuali restano così, di fatto, escluse da ogni possibilità di superiore e più umano sviluppo culturale, la cultura degli intellettuali si sviluppa fuori del contatto vivo col mondo della produzione sociale, si frammenta in specializzazioni e in circoli chiusi, si evapora in astrazioni quintessenziali.
Nel paese del socialismo, questa che Lenin chiama una delle più tremende maledizioni che pesano sulla società capitalistica, il contrasto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra il libro e la vita, è anch’essa in via di superamento. La via non è, beninteso, quella della realizzazione di una sorta di media culturale, attraverso l’abbassamento del livello culturale degli intellettuali, bensì quella alla quale abbiamo già accennato, dell’elevamento del livello culturale delle masse al livello dei tecnici e degli ingegneri. La ristrettezza del tempo ci vieta di soffermarci ad illustrare i passi concreti che già nel paese del socialismo si son compiuti in questa direzione. Basti ricordare, d’altronde, che per la loro origine sociale e per la loro formazione stessa, fin d’oggi, gli intellettuali sovietici sono profondamente diversi dagli intellettuali dei paesi capitalistici, per il loro organico legame con le masse degli operai e dei kolkhoziani, ai cui problemi essi restano quotidianamente legati nell’opera comune della costruzione socialista. Lo sviluppo numerico e qualitativo dell’intellettualità sovietica si realizza così, a differenza di quel che avviene nella società capitalistica, sulla base di un generale e rapido elevamento del livello culturale delle masse: l’estensione dell’istruzione obbligatoria sino alla settima classe, la progressiva generalizzazione dell’istruzione media e superiore, già segnano un passo importante sulla via del superamento del contrasto fra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Ma non meno importante è il cambiamento della natura e del significato delle occupazioni manuali stesse. Già nella società socialista, il lavoro non è più un’attività servile e coatta, ma tende a divenire una libera esplicazione delle facoltà e dell’attività umana; il movimento stakhanovista di massa nasce già sulla base di questa nuova caratteristica del lavoro, comporta un impiego e una mobilitazione non solo e non tanto delle capacità e della forza fisica, quanto quello delle capacità tecniche, intellettuali, organizzative del lavoratore. La partecipazione attiva alla responsabilità e alla direzione della produzione, il sollievo crescente dai lavori più pesanti attraverso l’automatizzazione, il gusto alla creazione del prodotto, al perfezionamento dei metodi produttivi, già sono elementi che, nella società socialista, tendono a ravvicinare sempre più il lavoro manuale al lavoro intellettuale. Mentre sia l’uno che l’altro, d’altra parte, si vengono ulteriormente specializzando, la diffusione di un’istruzione generale fondata sul lavoro e l’attiva partecipazione di ogni lavoratore — intellettuale o manuale — alla direzione della cosa pubblica ed alla vita sociale, attraverso il sistema sovietico, accomuna tutti i lavoratori nella superiore attività intellettuale, nella cultura della società socialista.
Ci siamo soffermati ad illustrare questi fondamentali processi che si realizzano nella struttura stessa della società socialista e che avviano la sua trasformazione, il suo passaggio allo stadio superiore della società comunista. Ma — l’abbiam già detto — tutti questi processi, per quanto, grandiosi essi possano apparire, ed effettivamente siano, non costituiscono in un certo senso ancora altro che una premessa di quella vera e propria rivoluzione culturale che si manifesta su di un piano ancor più largo e più elevato.


Rivoluzione culturale.

Ma quali sono, dunque, le forme in cui questa rivoluzione culturale più propriamente si manifesta?
A chi, dal vecchio mondo dell’oppressione e dello sfruttamento, dal vecchio mondo della cultura borghese, si volga a rimirare le manifestazioni di questa rivoluzione, esse si presentano — e come potrebbero non presentarsi? — nelle forme di un vero e proprio scandalo.
Non sembri paradossale quanto ora qui io affermo. E forse che, all’epoca del primo Cristianesimo, non si parlò — e giustamente si parlò — dello «scandalo della Croce», di questo strumento di tortura e segno d’obbrobrio, eretto a simbolo di salvazione e di fede?
Ogni rivoluzione, sociale o politica o culturale che sia, è tale appunto perché rivolge e capovolge valori sostanziali e fondamentali di una data società, dà scandalo, è pietra di scandalo
— per usare l’espressione biblica — agli uomini del vecchio secolo, del vecchio mondo. E tanto più questo è vero per ogni manifestazione della rivoluzione proletaria che sommuove e rinnova e capovolge valori che da tutte le società di classi, da tutte le classi dominanti che si sono avvicendate nella storia, erano considerati come stabili e eterni: «quel che è sempre stato, e quel che sempre sarà».
Una tale pietra di scandalo ha rappresentato, per il vecchio mondo dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistico, per il vecchio mondo della cultura borghese, l’inizio della pubblicazione, da parte del Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione sovietica, di una serie di risoluzioni sui problemi della cultura: della storiografia, e della letteratura, della filosofia e del cinema, della musica e delle arti figurative, della biologia e della critica.
Mi sembra che il modo migliore d’intendere il senso e la portata della rivoluzione culturale che oggi si va sviluppando nel paese del socialismo, sia proprio quello di prender di petto gli eroici furori di questi scandalizzati rappresentanti del vecchio mondo e della vecchia cultura. Oportet ut scandala eveniant è parola di Vangelo; e la rivoluzione proletaria non è davvero meno profondamente rinnovatrice di quella cristiana da non dovere e potere apertamente e superbamente proclamare lo scandalo che la sua civiltà nuova solleva tra i figli del secolo. E tra i «figli del secolo», oggi come ai tempi del primo Cristianesimo vi son pure gli uomini di buona volontà e di buona fede, che proprio dalla pietra dello scandalo non restano impacciati e travolti, ma anzi indirizzati e orientati sul nuovo cammino.


Partito e cultura.

A questi uomini di buona volontà e di buona fede sono indirizzate queste parole; e non saprei muovere, nel mio discorso,
da altri motivi che non siano proprio quelli del loro scandalo.
E che mai — ci dicono questi uomini di buona fede — e che mai: ora un Partito politico si deve mettere, in Unione sovietica, a discutere e ad approvare risoluzioni sui problemi della filosofia, della scienza, dell’arte? E che mai questo può avere a che fare coi compiti di un Partito politico?
Che il Partito bolscevico e il suo Comitato centrale discutano ed approvino, putacaso, una risoluzione sul problema dell’organizzazione industriale o su quello della politica estera o su quello del cambio della moneta, non è, di per se stesso, fatto che susciti scandalo fra gli uomini di buona fede; e neanche, d’altronde, ne suscita fra gli avversari dichiarati dell’Unione sovietica e del socialismo. Forse che anche da noi il Partito comunista, o il Partito della democrazia cristiana, non discutono e non approvano, nei loro Congressi o nei loro Consigli nazionali, risoluzioni e mozioni su problemi del genere? Anche nel mondo capitalistico, problemi come quello della politica estera o. come quello dell’organizzazione industriale o del cambio della moneta, sono problemi che toccano da vicino gli interessi di ogni cittadino; e un Partito politico, che pretenda dirigere ed orientare la vita di una nazione qualsiasi, non saprebbe assolvere questa sua funzione senza prender posizione sui problemi che interessano ed appassionano gli uomini di quel paese.
Perché, dunque, questo scandalo di fronte alla pubblicazione delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della filosofia, della scienza, dell’arte? Certo, su problemi del genere, i Partiti politici dei paesi capitalistici non discutono e non approvano, in generale, delle, risoluzioni.
Vero è che, anche nel mondo capitalistico, là dove dei problemi culturali hanno davvero appassionato la massa dei cittadini, si son visti i Partiti politici più diversi prender posizione su questi temi. Basti ricordare, a questo proposito, le lotte che in Germania, al tempo di Bismarck, fra i Partiti politici furono combattute nel cosiddetto Kulturkampf; o quelle combattute in Francia attorno all’affare Dreyfuss o attorno alle leggi Combes; o, per prendere un esempio più vicino a noi nello spazio e nel tempo, le discussioni attorno alla «libertà della scuola», nell’altro dopoguerra. In ciascuna di queste, occasioni, e in molte altre che qui tralasciamo di ricordare, di fronte a problemi culturali che appassionavano milioni di uomini, si son visti, nei diversi paesi del mondo capitalistico, i Partiti più diversi non solo prender posizione, ma addirittura modificare il loro schieramento ed il loro raggruppamento politico in base al loro atteggiamento dí fronte a tali problemi.
Non è un caso, tuttavia, che tutti gli esempi che abbiamo citato, e la maggior parte degli altri che potremmo citare, si riferiscano a lotte che fra i Partiti politici si sono sviluppate attorno a problemi della cultura e dell’educazione religiosa: o che, comunque, con tali problemi avevano una stretta attinenza. La realtà è che, anche nel mondo capitalistico, quando un problema culturale tocca l’interesse e appassiona milioni di uomini, i più diversi Partiti politici, laici o confessionali che siano, sono portati e obbligati, anzi, a prender posizione di fronte a tali problemi. Ma nei paesi capitalistici, i problemi culturali che appassionano milioni di uomini sono quasi esclusivamente quelli della cultura religiosa tradizionale o quelli della lotta delle masse per la loro emancipazione da tale cultura, passivamente accolta o addirittura imposta dallo Stato.
Il fatto non ci può meravigliare quando si avverta che, in ogni società di classi, la grande maggioranza della popolazione è condannata all’incoltura, che significa appunto una mancanza di attività culturale, l’accettazione passiva di una cultura già ferma e cristallizzata, ereditata tradizionalmente dalle precedenti generazioni, imposta, diffusa, consolidata attraverso l’apparato statale e culturale delle classi dominanti. E ciascuno sa, ciascuno può facilmente constatare come la forma principale che questa cultura passiva, questa incoltura delle masse assume, sia proprio quella della «cultura», della tradizione religiosa, della superstizione. Già Montaigne rilevava efficace mente, nei suoi Saggi famosi, questo carattere passivo della «cultura» religiosa delle masse, quando egli scriveva che « nous sommes chrétiens à méme titre que nous sommes périgourdins ou allemands», quando accomunava la tradizione cattolica del suo paese ad ogni altra tradizione religiosa, osservando che essa viene passivamente accolta «non autrement que corame les autres réligions se revoivent», solo per il fatto «que nous nous sommes rencontrés au pays où elle etait en usage; où nous regardons son ancienneté où l’autorité des hommes qui l’ont maintenue; où craignons les menaces qu’elle attache aux mécréants, où suivons ses promesses» (*).
Non può meravigliarci, pertanto, che là dove milioni di uomini semplici si risvegliano ad una vita culturale, ad una cultura attiva, le prime grandi lotte culturali che toccano e interessano le masse siano proprio quelle che si sviluppano attorno al problema della cultura e dell’educazione religiosa. Così era già avvenuto nel Medio Evo, quando ancora e sempre di nuovo ogni rivoluzione culturale di massa addirittura trovava la sua espressione in forme religiose; così è avvenuto e avviene nella società borghese, dove, prima ancora che il proletariato elabori le sue più caratteristiche forme di lotta per la conquista della cultura, delle frazioni stesse della borghesia e della piccola borghesia sono portate ad esprimere la loro attività culturale nella lotta per l’emancipazione dalla cultura religiosa tradizionale.
Il fatto, dunque, che, nei paesi capitalistici, i Partiti politici siano portati a pronunciarsi quasi esclusivamente su quei temi culturali che più da vicino sono attinenti alla cultura e all’educazione religiosa, è in stretto rapporto con la caratteristica prevalentemente passiva della cultura delle masse, ab-
Nota (*) Montaigne: Essais. I,ivre II, eh. XII.
bandonate e costrette all’incoltura di una tradizione religiosa passivamente accolta: sicché, là dove esse si risvegliano ad una prima attività culturale, questa è volta necessariamente alla lotta per la emancipazione da questa tradizione, ed è su questo terreno, appunto, che si combattono fra i Partiti le grandi battaglie culturali di massa.
Profondamente diverse sono le condizioni nelle quali le battaglie per la cultura si combattono nella società socialista, in Unione sovietica. Qui l’apparato oppressivo del vecchio Stato feudale o borghese è stato distrutto da decenni ; l’apparato «culturale» delle vecchie classi dominanti non è più lì a trasmettere e a radicar tra le masse l’analfabetismo e la superstizione, il pregiudizio del «così sempre è stato, e così sempre sarà». La Chiesa non è più appoggiata e finanziata dallo Stato che non mette più a disposizione del clero il suo braccio secolare. Le tradizioni e le superstizioni religiose non sono più diffuse dall’apparato scolastico e dalla stampa, dal cinema e dalle radio, per i mille tramiti capillari di cui le vecchie classi dominanti disponevano. L’esercizio dei culti è libero, ma nessuna imposizione interviene a perpetuarlo. L’educazione e l’istruzione delle masse non è più fondata, nella scuola socialista, sull’imbottimento dei crani con formule, dogmi e catechismi passivamente imposti ed accolti; bensì sul lavoro, sulla attività culturale, su di un atteggiamento critico, scientifico, storicistico, di fronte alle tradizioni del passato: che attivamente, criticamente, appunto, vengono accolte, trasmesse, valorizzate, e che perciò della nuova cultura divengono non più limite e peso morto, ma materia di elaborazione e fermento.
Se si aggiunge a tutto questo il fatto decisivo che nella società socialista, cioè, la cosciente padronanza dell’umanità associata sui propri destini recide le radici sociali delle credenze religiose, non può più meravigliare il fatto che in Unione sovietica i problemi culturali attorno ai quali si afferma il più appassionato interesse delle masse siano ben più larghi e si sviluppino su di un piano ben più elevato, di quel che non possa avvenire nei paesi capitalistici. L’enorme maggioranza degli uomini e delle donne sovietiche si è ormai emancipata, nei nuovi rapporti della società socialista, da una «cultura» di tipo religioso, tradizionale e passivo; l’educazione e l’istruzione socialista, la partecipazione attiva e cosciente alla costruzione della società nuova, alla sua direzione, le ha impresso la caratteristica di un’attività culturale, che da ogni parte e ad ogni istante viene sollecitata, promossa, sostenuta dall’esercizio della critica e dell’autocritica, nella scuola come nell’officina o negli istituti scientifici o nel Partito o nel soviet o nella redazione della rivista letteraria. Ho citato, poco fa, il dibattito recente sulla genetica che si è allargato per mesi sulle prime pagine dei quotidiani, oltre che nelle colonne delle riviste specializzate; e del pari avrei potuto citare i dibattiti sulla filosofia o sulle belle arti o sulla letteratura.
Alla domanda, pertanto: — Perché il Partito bolscevico, un Partito politico, pubblica delle risoluzioni sui problemi della filosofia e dell’arte, della biologia e della storiografia? — la risposta è assai semplice. Il Partito bolscevico fa quello che ogni Partito politico, che pretenda di dirigere e orientare la vita di una nazione, fa anche nei paesi capitalistici. Il Partito bolscevico, proprio come fa in Italia il Partito comunista o quello della Democrazia cristiana, o come faceva il Partito liberale, quando ancora tra Benedetto Croce e Leone Cattani esso non si era ridotto all’impotenza; il Partito bolscevico, dicevamo, proprio come fanno tutti i Partiti nel mondo capitalistico, prende posizione e dà un orientamento per tutti quei problemi che suscitano interesse, ed eventualmente contrasto di interessi, tra milioni di uomini, che si tratti di problemi della costruzione economica o di quelli della politica estera o di quelli della cultura. Quel che è diverso, in Unione sovietica, è il fatto che i problemi della cultura, che nella società socialista sollevano l’interesse appassionato delle masse, non sono più solo quelli della «cultura» religiosa o quelli della emancipazione dalla sua passiva tradizione, bensì tutti i problemi di una cultura di massa, che è attività, che è critica nell’arte, nella filosofia, nella scienza.
Il primo scandalo, dunque, della cultura nuova dell’umanità socialista, è in realtà ben più grave di quel che a prima vista non possa apparire. Non si tratta di una stranezza, di una eccentrica particolarità di un Partito politico che va ad occuparsi di cose che non lo riguardano; si tratta di qualcosa di ben più profondo e sostanziale. Si tratta del fatto che, in Unione sovietica, il Partito bolscevico si occupa di arte e di scienza, di filosofia e di letteratura, perché di queste cose si occupano milioni e milioni di cittadini sovietici, con la stessa passione e con la stessa attività con cui essi si occupano della costruzione dell’industria o dell’organizzazione kolkhoziana, o con cui, nei paesi capitalistici, milioni di uomini si appassionano ai problemi del cambio della moneta o del sussidio di disoccupazione. E per questo avevamo ragione quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica.
Ma, obietterà ora l’uomo di buona volontà e di buona fede, ammettiamo pure che in questo scandalo si esprima, in realtà, questa prodigiosa rivoluzione culturale, senza precedenti nella Storia, che ha portato decine di milioni di uomini semplici a non appassionarsi più di Santa Fede e di Madonne che muovono gli occhi, ma di arte, di scienza, di filosofia. Ammettiamo pure tutto questo: ma resta pur sempre il fatto che in Unione sovietica, insomma, la cultura non è libera, perché il Partito dominante imprime una sua direzione persino in materia di pittura o di musica o di biologia. A parte il fatto, dunque, che in Unione sovietica il Partito bolscevico opera nel senso di un effettivo e progressivo elevamento del livello culturale delle masse, invece che in senso retrivo e oscurantistico, i metodi che esso segue sono pur sempre quelli della dittatura, praticati anche in questo campo dal fascismo e dal nazismo.


Spontaneità e direzione culturale.

Eccoci dunque dinnanzi al secondo scandalo che la cultura nuova dell’umanità socialista solleva tra i figli del secolo, ed anche, senza dubbio, tra uomini di buona volontà e di buona fede; ed eccoci, ancora una volta, a cercare di chiarirne il senso e la portata effettiva, perché i figli del secolo, di buona o di mala fede che siano, sappiano almeno di che, effettivamente, debbano scandalizzarsi.
E permettetemi, a questo punto, ch’io ricorra ad un esempio, tratto dalla mia esperienza parlamentare. Quando, dopo la liberazione del Nord, s’inaugurò la Consulta nazionale, a presiederla fu prescelto, come ricorderete, non so bene per che ragione, l’on. Sforza. Nell’assumere la presidenza, l’on. Sforza, additando teatralmente la tribuna dell’oratore, rilevò che da
quella tribuna, proprio Mussolini aveva pronunciato parole e annunziato atti liberticidi; propose pertanto che, nelle nuove e libere assemblee della democrazia italiana, gli oratori non parlassero da quella tribuna insozzata, bensì dal proprio banco.
Ora bisogna riconoscere che — se anche Mussolini usò questa espressione in tutt’altro senso, politico e liberticida — l’aula di Montecitorio, nella quale si tenevano le riunioni della Consulta, è effettivamente, materialmente «sorda e grigia». Il risultato dell’accettazione della proposta dell’on. Sforza fu perciò questo: che gli oratori, alla Consulta, parlarono dal loro banco, invece che dalla tribuna, e che nessuno riusciva a sentire e a seguire quel che dicevano; finché, provvidenzialmente, non si ebbe ricorso all’uso di microfoni, che a tutt’oggi si adoperano alla Camera.
Se ho fatto ricorso a questo esempio, tratto dalla mia esperienza parlamentare, è per illustrare una verità che non ci dovrebbe esser bisogno di dimostrare: che determinate esigenze sono evidentemente comuni, cioè, a qualsiasi tipo di organizzazione sociale o di assemblee o di governo o di cultura, o di vita, più in generale. Mussolini e Hitler, così, avranno anch’essi dovuto, ogni giorno, più o meno, mangiare e bere; e per quanto grande possa e debba essere la nostra esecrazione per i loro delitti contro l’umanità, noi non ci sogniamo certo di rinunciare a mangiare e a bere, o a soddisfare altri nostri bisogni corporali, «perché anche Mussolini e Hitler facevano così». Così del pari in ogni assemblea, fascista o nazista o democratica che sia, si sente l’esigenza di poter seguire il discorso dell’oratore, e possibilmente il gesto: che è anch’esso, almeno tra noi meridionali, parte integrante e sottolineatura del discorso. Per questo in tutte le assemblee, fin dai tempi più antichi, e specie là dove la disposizione dell’ambiente rendeva difficile l’ascolto, si è ricorso all’uso della tribuna per l’oratore: sicché già nel Foro di Roma antica si parlava dai Rostri, e ci è parsa bizzarra la proposta dell’on. Sforza: il cui antifascismo, anche in quella occasione, si rivelò piuttosto come inconcludente abito settario che come costruttiva coscienza democratica.
Quel che vale per le esigenze dell’oratoria in una qualsiasi assemblea, o per quella di una direzione in qualsiasi dibattito, non è meno valido per l’esigenza e per l’effettiva realtà di una organizzazione e di una direzione culturale in qualsiasi forma (li società, in qualsiasi forma di organizzazione politica e statale. Non vi è esempio, non è dato nemmeno di immaginare una cultura là dove non si realizzi una organizzazione ed una direzione culturale. È un fatto, questo, di cui ciascuno di noi può facilmente rendersi conto, pur che guardi attorno a sé e alla propria stessa formazione culturale. Forse che ciascuno di noi non si è culturalmente formato e ogni giorno non si sviluppa nell’ambito di una data organizzazione culturale? Forse che non è una sia pur embrionale organizzazione culturale la famiglia stessa, nel cui seno abbiamo imparato a parlare e a ragionare, e poi la scuola, o il sagrato dinnanzi alla chiesa del nostro villaggio, o l’officina, o l’università, e il sindacato, e la confraternita religiosa, e la cellula del Partito o la Sezione delle ACLI: e poi tutta la società in cu viviamo, con la sua stampa e coi suoi cinema, coi suoi musei e con i suoi teatri? E forse che, in ciascuna di queste più o meno larghe, più o meno esplicite organizzazioni culturali, la nostra cultura non si sviluppa sotto la costellazione di una determinata direzione culturale? E sarà la mamma che ci dirige non solo nei primi passi e nei primi gesti, ma nell’uso del nostro dialetto o della nostra lingua, che significa poi un dato modo di ragionare e di esprimerci, ed è la nostra prima cultura; e sarà il maestro che ci dirige nei primi studi, con un metodo suo particolare, che orienta la nostra curiosità in un dato senso; e sarà il sacerdote che ci dirige nell’assimilazione di una dottrina tradizionale, o addirittura come confessore o come padre spirituale ci detta sin le minuzie della nostra pratica morale; e poi l’assemblea del Sindacato o del Partito, alla quale noi portiamo il contributo di una nostra personale attività culturale, ma che pur ci dirige attraverso l’elaborazione di un orientamento collettivo, che è frutto di un’esperienza non solo nostra. E sarà infine la più larga società nella quale noi viviamo e della quale siamo partecipi, che ad ogni istante, si può dire, afferma nei nostri confronti la sua direzione culturale: una società che noi ci troviamo dinnanzi come qualcosa di dato storicamente; di precostituito, e che ad ogni istante culturalmente ci forma e ci dirige con la sua scuola e col suo cinema, coi suoi giornali e col suo teatro, con la sua chiesa e con la sua opinione pubblica e con la sua morale dominante e coi suoi luoghi comuni.
Quel che contraddistingue, dunque, la vita e l’attività culturale dell’Unione sovietica — o quella dell’Italia di Mussolini o di De Gasperi o di Giolitti — non è e non può essere il fatto che in questo o in quel paese l’attività e la vita culturale si sviluppino sotto il segno, sotto la costellazione di una data direzione culturale. Non vi è cultura od organizzazione culturale che si sviluppi senza l’impronta di una determinata direzione: quel che si tratta di ricercare, se si vuole intendere quale sia 1′ effettiva diversità tra la cultura nuova dell’ umanità socialista e la vecchia cultura, è chi, nell’una e nell’altra società, esercita una direzione culturale, e come questa direzione culturale differentemente si esercita.
Abbiamo visto e vediamo ogni giorno, d’altronde, chi e come, nei paesi capitalistici, eserciti la sua direzione culturale sul complesso della società. Sono le classi dominanti e le loro diverse frazioni che, secondo le mutevoli esigenze del loro dominio politico e culturale, di volta in volta scatenano un Kulturkampf o ristabiliscono l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole, finanziano la stampa massonica o quella clericale, perpetuano tra le masse l’analfabetismo o lo moderano ai fini di un minimo necessario di cultura, indispensabile per lo sviluppo di un’industria moderna. Dalla stampa al cinema, dalla scuola ai laboratori di ricerca scientifica, dalle Case editrici all’apparato statale, dal regolamento carcerario alla Chiesa, al regolamento militare, tutto il formidabile apparato di direzione culturale dei paesi capitalistici è nelle mani delle classi dominanti borghesi. E quel che ancora più importa, di fronte alla massa degli oppressi e degli sfruttati, mantenuti nell’incoltura, o in una cultura puramente tradizionale e passiva, le classi dominanti della società borghese dispongono esse sole di una cultura attiva, produttiva, di una cultura effettivamente superiore a quella delle masse, che assicura loro, più ancora che una egemonia, un vero e proprio monopolio della cultura. Grazie a questo regime di monopolio, l’effettiva direzione culturale nei paesi capitalistici si concentra, più ancora che in appositi organismi dell’apparato statale — quali sarebbero il Ministero o le Commissioni parlamentari per la pubblica istruzione — in ristretti circoli degli strati superiori delle classi dominanti: negli uffici-studi di Donegani o attorno alla Galleria d’arte di Gualino, nello studio di Giovanni Gentile o nel salotto di Benedetto Croce, attorno al Gran Maestro della Massoneria o nella Congregazione dell’Indice.
La direzione culturale delle classi dominanti borghesi non è e non può essere, beninteso, una direzione culturale pienamente omogenea ed uniforme. Essa risente, necessariamente, della varia composizione e differenziazione, dei vari raggruppamenti delle diverse frazioni delle classi dominanti stesse che ovunque, nel mondo capitalistico, esprimono un compromesso o una storica interpenetrazione coi resti delle classi dominanti della vecchia società feudale e chiesastica. Assistiamo cosi, di volta in volta, all’avvicendarsi, alla direzione culturale di un dato paese, di frazioni e gruppi e circoli diversi degli strati superiori delle classi dominanti; e vediamo la direzione culturale stessa mutare nel suo senso, come quando, ad esempio, all’indomani dell’Unità, di contro alle vecchie classi dominanti, si afferma, in seno alla nuova borghesia, una direzione culturale orientata in senso liberale e laico; mentre, più tardi, di fronte allo sviluppo del movimento operaio e democratico delle masse, riaffiorano e dominano di nuovo le tendenze ad una direzione culturale fondata sul compromesso confessionale e poi addirittura quelle apertamente antiliberali e fasciste.
Né si può dire che, anche per quanto riguarda le forme ed i modi esteriori nei quali la direzione culturale delle classi dominanti si esercita nella società capitalistica, non si possano e non si debbano riscontrare notevoli diversità. Sintantoché il predominio sociale e politico delle classi dominanti e il loro effettivo monopolio della cultura resta praticamente indiscusso e incontrastato, la loro direzione culturale tende ad esercitarsi nelle forme, diciamo cosi, liberali, e magari democratiche. Quella che predomina, semmai, è la preoccupazione della lotta contro i resti della cultura e dell’influenza culturale delle vecchie classi dominanti ecclesiastiche e feudali, in quanto esse possano costituire un pericolo politico per il nuovo Stato; e in questa lotta, ai fini di questa lotta, le frazioni più avanzate della borghesia non rifuggono, all’occasione, dal mobilitare anche certi strati delle masse, dall’orientarli e dirigerli culturalmente in senso laico e progressivo. In seno alle classi dominanti stesse, d’altronde, l’assenza di un pericolo imminente che urga dal basso, e che seriamente minacci il loro dominio, permette una certa libertà di giuoco alle varie tendenze ed ai vari orientamenti della direzione culturale. Il presupposto di questa relativa libertà culturale delle classi dominanti resta tuttavia, beninteso, proprio la passività culturale delle masse, la loro incoltura, la loro assenza dall’agone della cultura stessa.
La storia recente ed antica c’insegna, tuttavia, che questi metodi e queste forme esteriori della direzione culturale delle classi dominanti borghesi mutano rapidamente, non appena, col risveglio di più larghi strati di massa ad un’autonoma attività politica e culturale, qualche valore sostanziale della cultura e del dominio borghese sia messo in questione. Sul piano della direzione culturale, come su quello della direzione più propriamente politica, vediamo allora i gruppi decisivi della borghesia — in Italia come in altri paesi — abbandonare sin le forme di una direzione culturale liberale o democratica, passare ai metodi dell’aperta repressione anticulturale, non solo nei confronti delle masse, ma anche nei confronti di quelle frazioni o di quegli esponenti delle classi dominanti che mostrano di non intendere la gravità del pericolo che minaccia il comune dominio e la necessità di un saldo blocco culturale: che, di contro a una nuova cultura che urge dal basso, releghi al secondo piano i secondari contrasti interni che si manifestano nella cultura dominante.
A un fenomeno di questo genere abbiamo dovuto assistere, nel corso del ventennio fascista, nel nostro paese stesso, come in non pochi altri paesi del mondo capitalistico; a tentativi analoghi assistiamo oggi di nuovo, in Italia, anche se il blocco culturale delle vecchie classi dominanti tende oggi ad organizzarsi più ancora attorno alla Chiesa ed al suo apparato che non attorno all’apparato dello Stato, esso stesso soggetto oggi, d’altronde, ad un rapido processo di clericalizzazione. Di nuovo, come nel ventennio fascista, le classi dominanti italiane tendono a passare a metodi di direzione « culturale » apertamente repressivi, non solo nei confronti delle masse popolari, ma anche contro gli esponenti culturali delle classi dominanti stesse che assumono un atteggiamento di dissidenza dal blocco clericale.
Pure, per impressionanti e importanti che possano essere le forme esteriori che la direzione culturale della società nei paesi capitalistici, e il modo, il senso fondamentale di tale direzione, resta sostanzialmente lo stesso. Chi di fatto esercita la direzione culturale sul complesso della società nei paesi capitalistici, quale che sia la loro struttura politica e culturale, è sempre la borghesia, e particolarmente la grande borghesia, sempre più organicamente interpenetrata e fusa coi resti delle vecchie classi dominanti ecclesiastiche e feudali. Il modo fondamentale in cui questa direzione culturale della borghesia si esercita nei paesi capitalistici, è quello del monopolio della cultura attiva, produttiva, da parte delle classi dominanti, quello della condanna delle masse popolari all’incoltura, a una cultura solo tradizionale e passiva: sicché, più ancora che dall’imponenza di un apparato culturale o repressivo, la direzione culturale della borghesia sul complesso della società resta assicurato da una sua effettiva e storica superiorità culturale; e persino quei singoli individui che, dalle classi oppresse e sfruttate, assurgono alla «conquista della cultura», conquistano una cultura che è quella delle classi dominanti, che esprime le condizioni storiche del loro dominio, e vengono perciò spontaneamente assorbiti e inquadrati nell’ambito della cultura dominante.
A chi anche voglia considerare, d’altronde, la diversa importanza che una politica di diretta repressione anticulturale abbia nelle varie forme di direzione culturale della borghesia, non sempre riuscirà facile precisare tale diversità tra l’Italia di Mussolini, ad esempio, e l’America di Truman. Negli Stati Uniti d’oggi, certo, la strapotenza economica dei trust e la relativa arretratezza di sviluppo di un’autonoma coscienza ed attività culturale delle masse popolari avevano reso meno urgente, fino a pochi anni or sono, il ricorso alle forme di una diretta repressione anticulturale, del tipo di quella che abbiamo conosciuto nell’Italia fascista; ma pur senza tener conto della più recente politica di direzione culturale della borghesia imperialista americana, che oggi è giunta a processare degli scrittori non per una loro attività politica, ma per il semplice fatto che essi professano le dottrine del marxismo-leninismo; anche senza tener conto di questa più recente evoluzione, dicevamo, basti ricordare che da sempre nella « democratica » America una direzione culturale apertamente razzista esclude una parte importante della popolazione — i negri, e sovente gli italiani e gli ebrei da istituti scolastici e da istituti culturali, da attività giornalistiche, editoriali ed altre; da sempre i metodi della pura e semplice repressione culturale si sono combinati con quelli della lusinga e della corruzione, li hanno appoggiati e rafforzati ai fini del mantenimento della direzione culturale sotto il tallone di ferro della borghesia americana. Una tale combinazione delle forme della direzione con quelle della pura e semplice repressione culturale si può ritrovare e si ritrova necessariamente, d’altronde — se pure in varia misura — ovunque una classe dominante detenga, di fatto, il monopolio della cultura e mantenga le masse della popolazione in uno stato di incoltura, di passività culturale. In tali condizioni, è inevitabile che la cultura delle classi dominanti si imponga come cultura dominante; ma è altrettanto inevitabile che questa cultura dominante non possa esprimere appieno, e senza contraddizioni, le aspirazioni e i sentimenti delle grandi masse, che questa cultura passivamente accolgono e subiscono; sicché sempre di nuovo, tra le masse, fermentano i germi di vere e proprie ribellioni culturali, contro le quali la classe dominante è portata ad adoperare i metodi del soffocamento, dell’ostracismo, della repressione.
Con tutto questo non vogliamo dire, naturalmente, che non si debba fare una differenza tra le forme della direzione culturale adottate dall’Inquisizione o da Mussolini, tra quelle che oggi De Gasperi, Andreotti e Gonella vorrebbero riimpiantare in Italia, e le forme consuete nei paesi di una più libera democrazia borghese. Ma quel che era qui necessario sottolineare era il fatto che, in tutte queste varie forme di direzione culturale, quel che importa sempre ricercare è chi esercita la direzione culturale sul complesso della società, in che modo la esercita. E in tutti i casi citati, chi esercita la direzione culturale sono le classi dominanti che detengono il monopolio della cultura come quello della proprietà; il modo col quale tale direzione è esercitata (qualunque sia la forma che essa assume) è quello dell’esclusione delle grandi masse della popolazione da ogni forma di cultura che non sia passiva e tradizionale — incoltura.
Profondamente e sostanzialmente diversi sono invece il soggetto, il modo e le forme che la direzione culturale assume oggi in Unione sovietica, in una società socialista che già compie dei passi importanti sulla via di sviluppo verso la sua fase superiore, verso la società comunista. In Unione sovietica, liquidate le classi dominanti oppressive e sfruttatrici, liquidata la dilacerazione della società in classi antagonistiche, non si potrebbe neppure immaginare una direzione culturale affidata ad un gruppo sociale che avesse interessi materiali, economici o culturali, diversi o contrastanti rispetto a quelli della maggioranza del popolo. A differenza di quel che avviene nei paesi capitalistici — o, più generalmente, nella società di classi — un tale tipo di direzione culturale non potrebbe nemmeno essere immaginato in Unione sovietica, per il semplice fatto che nel paese del socialismo già non esistono più classi che abbiano interessi antagonistici, ma solo le classi amiche degli operai, dei kolkhoziani, degli intellettuali sovietici, che insieme e concordemente avviano la costruzione della società comunista.
Questo non significa, lo abbiamo già avvertito, che fra queste classi amiche, e all’interno di ciascuna di queste classi stesse, non esistano ancora delle diversità (non dei contrasti) nelle condizioni ambientali di lavoro e di vita, nel grado di sviluppo della coscienza socialista; proprio per questo, anche nella società socialista, l’avanguardia della classe operaia e di tutti i popoli sovietici continua ad organizzarsi nel grande Partito bolscevico; nel Partito che, dopo aver guidato i popoli dell’URSS alla lotta e alla vittoria contro lo zarismo, contro il capitalismo e l’imperialismo, nella costruzione del socialismo, li guida oggi alla costruzione di una società comunista.
Alla domanda, pertanto: chi, in Unione sovietica, esercita la direzione culturale sul complesso della società?, si può rispondere e si risponde apertamente: il Partito bolscevico, il Partito di Lenin e Stalin, il Partito che raggruppa e organizza l’avanguardia della classe operaia e di tutti i popoli sovietici, gli uomini e le donne più coscienti e più provati, che hanno dimostrato e dimostrano con fatti e con sacrifici inauditi il loro legame con le grandi masse del popolo, la loro capacità di guidarle alla lotta e alla vittoria del socialismo, la loro devozione alla causa del popolo; un Partito che non ha e non può avere altri interessi politici, sociali, culturali che quelli di tutto il popolo.
Per questa diversità del suo soggetto, il tipo di direzione culturale che oggi si esercita nella società sovietica è qualitativamente, sostanzialmente diverso da quello che si esercita nella società borghese, o da quello che sinora si era esercitato in ogni società di classi. In ogni società di classi, infatti, il gruppo sociale che esercitava la direzione culturale aveva interessi economici, sociali, politici, culturali contrastanti rispetto a quelli dell’enorme maggioranza della popolazione; la direzione culturale era perciò eterogenea nei confronti della società stessa, sulla quale essa si esercitava. Nella società socialista, in Unione sovietica, per contro, gl’interessi economici, sociali, politici, culturali del Partito bolscevico, del gruppo sociale che esercita la direzione culturale, sono quelli stessi di tutto il popolo, quelli della costruzione di una società comunista; il gruppo sociale che esercita la direzione culturale si distingue dal resto del popolo non già per una diversità di interessi, ma anzi per una più chiara ed avanzata coscienza, per una più matura esperienza di lotta, per un più devoto spirito di sacrificio agli interessi di tutto il popolo; la direzione culturale che il Partito bolscevico esercita nella società sovietica è perciò non più eterogenea, ma omogenea nei confronti della società stessa.
Questa sostanziale diversità nel soggetto e nel tipo di direzione culturale, che differenzia la società socialista da ogni precedente società di classi, si riflette necessariamente in una non meno sostanziale diversità nel modo in cui il Partito bolscevico esercita questa sua direzione culturale. Abbiamo già visto come, nella società borghese, ed in ogni società di classi, il modo di direzione culturale delle classi dominanti sia caratteristicamente esclusivo, restrittivo: tutto lo sforzo delle classi dominanti è volto ad imporre la loro direzione culturale attraverso un effettivo monopolio della cultura, escludendo le masse da ogni forma di cultura che non sia passiva, ricettiva, tradizionale; incoltura, insomma. In una società di classi, una classe dominante che non usasse proprio questo modo di direzione culturale sarebbe condannata, d’altronde, a veder presto tramontare la sua egemonia culturale; la sua direzione culturale, infatti, è, come abbiamo visto, eterogenea rispetto al complesso della società su cui si esercita; presuppone perciò, se non altro, una passività culturale delle masse.
Tutt’ altre sono le condizioni, e pertanto il modo, in cui solo può esercitarsi la direzione culturale del Partito bolscevico nella società socialista. La direzione culturale è qui omogenea, e non più eterogenea, rispetto al complesso della società; i suoi obiettivi sono quelli della costruzione comunista, che non possono essere raggiunti senza lo sviluppo di una coscienza superiore, di un’attività socialista in tutto il popolo. Per le classi dominanti delle passate società il carattere restrittivo, esclusivo della direzione culturale era una condizione del suo effettivo esercizio, e questo presupponeva un monopolio della cultura. Il Partito bolscevico, un Partito comunista, non può esercitare la sua funzione di direzione politica e culturale se non sollecitando e attraendo sempre nuovi strati di masse alla conquista di una superiore ed autonoma coscienza ed attività culturale. Così vediamo il Partito bolscevico dibattere i grandi problemi della direzione culturale del paese non più nel salotto di Benedetto Croce o nella Congregazione dell’Indice o solo nelle riviste specializzate, ma di fronte a tutto il popolo, in migliaia e migliaia di assemblee, col metodo della critica e dell’autocritica, sulle prime pagine dei quotidiani e nella corrispondenza coi loro lettori, sollecitando in mille forme l’iniziativa e la critica e l’attività e la produttività culturale di tutto il popolo: realizzando un modo di direzione culturale che non è più restrittivo ed esclusivo, bensì estensivo e propulsivo.
Se, per concludere su questo punto, vogliamo tirar le somme di quanto siamo venuti chiarendo, possiamo dire che anche il secondo scandalo che la cultura nuova dell’umanità socialista solleva tra i figli del secolo è, in realtà, assai più grave di quel che non appaia a prima vista. Non si tratta, invero, semplicemente del fatto che in Unione sovietica vi sarebbe una direzione culturale, come nei regimi fascisti, mentre tale direzione non esisterebbe nei regimi della democrazia borghese. Al contrario: quanto a questo, abbiamo mostrato, anzi, che una direzione culturale esiste in ogni forma di società, e che, semmai, una sostanziale conformità del tipo di direzione culturale esiste proprio tra i regimi fascisti e i regimi della democrazia borghese: giacché, negli uni e negli altri, è pur sempre la borghesia che esercita la direzione culturale e la esercita sempre col monopolio della cultura, escludendo le masse da ogni autonoma e produttiva attività culturale. Non è dunque in superficiali e fallaci analogie alla Sforza che va proclamato lo scandalo della cultura socialista, bensì in qualcosa di ben più nuovo e di più profondo: proprio nel fatto, cioè, che per la prima volta nella Storia il Partito bolscevico dà l’esempio e la prova di una direzione culturale omogenea alla società su cui essa si esercita; di una direzione culturale estensiva e non restrittiva, propulsiva e non esclusiva; fondata sull’attività e non sulla passività culturale delle masse; di una direzione culturale, insomma, che per la prima volta nella Storia apre non più solo ad una minoranza di privilegiati, ma all’umanità tutta, le vie di una cultura che non sia più solo inerte e passiva tradizione, ma cosciente conquista e creazione. E per questo, ancora una volta, avevamo ragione quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica.

(I) Antonio Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. – Einaudi, Torino 1948, pag. 5.

Edited by Andrej Zdanov - 4/7/2013, 23:07
view post Posted: 20/6/2013, 01:19 A proposito degli articoli di P. Fedoseev - Scritti di altri autori
Dalla «Pravda», 24 dicembre 1952:


A proposito degli articoli di P. Fedoseev


Si sa che, prima dell’apparizione della nuova opera del compagno Stalin, proprio in questa questione sul carattere e sulle azioni delle leggi economiche del socialismo in un gran numero di economisti e filosofi sovietici si era verificato un fenomeno di confusione che consisteva più che altro nell’attribuire un carattere soggettivo e volontaristico alle leggi della economia socialistica. Questi economisti e filosofi ritenevano che lo Stato sovietico di propria volontà, seguendo i propri piani economici e a mezzo della propria politica potesse «trasformare», «creare», e «distruggere» le leggi economiche della società socialista…
Bisogna notare che una parte poco invidiabile nella diffusione di questi concetti soggettivistici sulle questioni dell’economia politica del socialismo è stata rappresentata a suo tempo dalle riviste Voprosy Ekonomiki, Planovoe Chozajstvo (Economia pianificata) e Bol’ševik. La rivista Bol’ševik, per esempio, al tempo in cui redattore capo era il compagno Fedoseev, per anni non solo non ha smascherato i concetti soggettivistici nel settore dell’economia politica del socialismo, ma ha offerto le proprie pagine alla propaganda di tali concetti sbagliati. La rivista inneggiava al libro antimarxista di N. Voznesenskij sull’Economia di guerra dell’URSS e lo presentava come l’ultima parola della scienza, come «un apporto prezioso alla scienza economica sovietica», come un’opera scientifica la quale doveva «aiutare i nostri quadri del partito a comprendere più profondamente le leggi progressive dello sviluppo della società socialistica» (Bol’ševik, n. 1, 1948, p. 71, 88, ecc.). In realtà il libro di Voznesenskij metteva confusione nell’elaborazione dei problemi dell’economia politica del socialismo e rappresentava un miscuglio di punti di vista volontaristici sull’importanza della pianificazione e dello Stato nella società sovietica, e faceva un feticcio della legge dei costi, che era, a parere suo, un regolatore della distribuzione del lavoro fra i settori dell’economia popolare dell’URSS.
In armonia con questi punti di vista non marxisti sul carattere delle leggi progressive dell’economia socialistica, alcuni autori di articoli pubblicati nel Bol’ševik, quando il compagno Fedoseev ne era redattore capo, dichiaravano che l’oggetto principale dell’economia politica del socialismo è la politica del partito comunista e dello Stato socialista. Cosi, per esempio, l’articolo di D. Konakov pubblicato nel n. 11 del 1948 affermava che «lo studio della parte direttiva della politica del partito bolscevico e dello Stato socialista nello sviluppo economico dell’URSS sulla via del comunismo deve rappresentare la base delle ricerche scientifiche sulle leggi dell’economia popolare socialista». In tal modo il compagno Fedoseev ha peccato non poco verso il partito, contribuendo alla diffusione, attraverso la rivista Bol’ševik, di punti di vista estranei al marxismo sulle questioni dell’economia politica del socialismo, infliggendo un danno alla causa dell’educazione dei quadri del partito, sovietici e scientifici. Ecco perché non possono non suscitare meraviglia gli articoli del compagno Fedoseev sulle Izvestija in cui egli non dice nemmeno una parola di questi suoi errori. Possibile che il compagno Fedoseev li abbia dimenticati?…
L’azione di Fedoseev non può venire qualificata che come un tentativo di nascondere i propri errori, il che è in ammissibile per un comunista. L’obbligo elementare di ogni membro del partito consiste nel non nascondere i propri errori, non cercare di evitarne la responsabilità ma onestamente e apertamente riconoscere i propri errori e correggerli. Solo questo atteggiamento verso i propri errori — insegna il nostro partito — assicura il superamento di essi e una giusta educazione dei quadri. Certo la circostanza che un uomo che ha fatto non poca confusione e sostanzialmente è rimasto su posizioni antimarxiste per quanto riguarda importanti questioni dell’economia politica del socialismo, venga ora avanti nella stampa con teorie giuste su questo problema, già merita una certa attenzione. Il compagno Fedoseev deve onestamente criticare i propri errori. Allora il valore dei suoi articoli sarebbe ben diverso. Ma non basta. Se egli non lo fa, il lettore ha il diritto di dubitare che siano sincere le giuste teorie marxiste che egli professa ora, può dubitare che egli lo faccia con una reale intima persuasione e può credere che egli cerchi di ingannarci.

Edited by Alaricus Rex - 2/3/2018, 23:03
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