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Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista

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view post Posted on 4/7/2013, 13:48

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Da Emilio Sereni, Scienza, marxismo, cultura, Le Edizioni Sociali, 1949, Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista., pp. 13-88:


Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista


Mir. O wonder!
How many goodly creatures are there here?
How beauteous manckind is? O brave new world, That hath such people in 't.
(Shakespeare: The Tempest, V, I)

Conferenza tenuta il 13 novembre 1948 alla Sala farnese, in Bologna, a conclusione del “Mese per l’amicizia italo-sovietica”. Il resoconto stenografico è stato in varie parti rielaborato e sviluppato per la pubblicazione a stampa.

Della filosofia è stato detto che, come la civetta, come l’uccello di Minerva, essa fa la sua apparizione sulla sera, quando compiute e cessate sono le opere industri del giorno. Se questa similitudine dovesse significare — come ha significato per le classi oppressive e sfruttatrici che si sono succedute nel dominio della società umana — una separazione della teoria dalla pratica, del pensiero e del libro dalla vita, essa non varrebbe, certo, a sottolineare il rapporto che, nella lotta della classe operaia per il socialismo, si stabilisce tra la sua teoria e la sua pratica rivoluzionaria. Per la classe operaia, per i figli del bisogno e della lotta, filosofia, scienza, cultura, non son già più, e non possono essere, teoria astratta dalla pratica rivoluzionaria, pensiero che non s’incarni in azione, libro che non esprima esigenze di vita: ché anzi la cultura della classe operaia non può nascere e svilupparsi che da queste vitali esigenze di lotta, le chiarisce e le orienta, in un legame indissolubile tra la teoria e la pratica rivoluzionaria. Ma resta pur sempre vero che la cultura e la scienza nuova dell’umanità socialista rappresentano come il coronamento della lotta della classe operaia, la forma più compiuta in cui di questa lotta si esprime e si realizza l’obiettivo storico, che è quello della creazione di un uomo e di un’umanità nuova, di un nuovo umanesimo. A ragione, dunque, gli iniziatori di questo ciclo di conferenze hanno prescelto tale argomento per questa conversazione conclusiva del «Mese dell’amicizia italo-sovietica»; e l’affollarsi in queste sale di un pubblico così vario per la sua composizione sociale e culturale, mostra quanto largo ed attento, ormai, sia l’interesse che anche tra noi suscitano i problemi non solo economici e più strettamente politici, ma culturali, della costruzione socialista.
Possiamo ben dire che per la prima volta, quest’anno, nel corso di questo «Mese dell’amicizia italo-sovietica», un più largo pubblico italiano ha avuto la possibilità di prendere un più vivo contatto con tali problemi. Con ciò non vogliamo dire, certo, che sinora la nuova civiltà e la nuova cultura sovietica non a abbiamo fatto sentire la loro enorme efficacia anche tra noi, anche nella cultura italiana. Da trenta anni — malgrado gli sforzi del fascismo per nascondere o falsare agli occhi degli italiani la realtà del paese del socialismo — il fatto stesso dell’esistenza dell’Unione sovietica ha rappresentato, anche per l’Italia, il più potente fattore di organizzazione e di orientamento della classe operaia e delle masse popolari nella loro lotta contro il fascismo, per l’indipendenza nazionale, per la pace, per la democrazia, per il socialismo, che è anche nel nostro paese lotta per la cultura, per la sua difesa e per il suo rinnovamento. Siedono qui accanto a me, al tavolo della presidenza di questa riunione, uomini come il prof. Volterra, come Betti, come Tarozzi, come il vostro sindaco, l’amico e compagno Dozza, militanti della lotta antifascista clandestina, che con me e con cento altri in questa sala possono darvi testimonianza di quanto or ora ho affermato. Ciascuno di noi sa bene, ha potuto sperimentare nelle organizzazioni clandestine democratiche e nelle galere fasciste, cosa abbia significato per il successo della nostra lotta questo grandioso fatto storico dell’esistenza del paese del socialismo, della sua forza, delle sue vittorie. Negli anni più duri della tirannide fascista, ogni qual volta un militante antifascista riusciva a tessere qualche filo della grande congiura della libertà, ogni qual volta — a prezzo di sacrifici e di eroismi indicibili — si riusciva a stabilire un contatto con altri combattenti o gruppi di combattenti della democrazia, si ritrovava che lo stimolo alla conquista di una coscienza, la spinta ad una prima organizzazione democratica, la fiducia in una possibilità dí lotta e di vittoria, nasceva sempre di lì: dalla coscienza, sia pur vaga e confusa, dell’esistenza del paese del socialismo, di un paese ove gli operai, i contadini, gli intellettuali d’avanguardia avevano conquistato la libertà, costruivano una società senza sfruttati né sfruttatori.


L’URSS nella lotta per la cultura.

Dopo di allora, in cento altri modi, e finalmente con la vittoria nella grande guerra di liberazione, i popoli dell’Unione sovietica hanno confermato e sviluppato questa loro decisiva funzione di avanguardia nella lotta per la cultura. Centinaia di milioni di uomini semplici, dall’Italia alla Cina, dalla Francia alle Americhe,decine di migliaia di intellettuali della Resistenza hanno potuto intendere ed hanno inteso, alla lezione di grandiosi fatti storici, che — salvando il mondo dalla barbarie nazista e fascista sui campi di Leningrado e di Stalingrado — i popoli sovietici hanno salvato, per l’umanità tutta, la civiltà, la cultura, la possibilità stessa di una civiltà e di una cultura.
Eppure, questo apporto grandioso che i popoli dell’Unione sovietica, la cultura e la civiltà nuova del socialismo hanno dato e dànno alla causa mondiale della pace, della civiltà, della cultura, non è che un elemento, un momento, un aspetto di un apporto ancor più decisivo e universale; ed è su tale apporto che mi sembra particolarmente necessario attirare la vostra attenzione.
Si consideri cosa significhi, nel nostro paese e per ogni dove, cultura e lotta per la cultura. Non v’è cultura e non v’è certo, senza la conservazione di quei valori che le generazioni passate hanno creato col loro sforzo millenario, senza una tradizione culturale, nella quale ogni nuova generazione trova la materia delle sue elaborazioni. Ma non è men vero che non v’è cultura e non v’è civiltà là dove una tradizione, passivamente accolta od imposta, col suo immobile peso schiacci e soffochi quello che di ogni cultura è il momento decisivo, il momento dell’attività, della creatività culturale. Per questo, in ogni epoca della storia dell’umanità, quel paese, quel popolo, che di volta in volta ha espresso primo dal suo seno nuovi rapporti di produzione, nuove classi, che — di contro all’opera, alle tradizioni del passato affermavano un’attività ed una produttività nuova, ha sempre esercitato una funzione d’avanguardia e d’irradiazione culturale. Così avvenuto per la Grecia e per l’Italia antica, ove una nuova società e nuove classi cittadine si sono affermate contro le immobili tradizioni della società, gentiIizia così è avvenuto per la cultura dei nostri Comuni e per quella nostro Rinascimento; così è avvenuto per la cultura francese nell’epoca dell’illuminismo e della Grande rivoluzione.
Nelle epoche passate, tuttavia, e per ciascuna delle rivoluzioni culturali or ora ricordate, l’efficacia liberatrice, la produttività di una cultura e della sua irradiazione — per quanto grandiose esse ci possano apparire — restavano necessariamente limitate dal carattere stesso della civiltà di cui esse erano l’espressione. Ciascuna di queste rivoluzioni, certo, pur innestandosi su di una data tradizione culturale, la spezzava e la rinnovava, produceva nuovi valori. All’alba della nuova éra così, la letteratura cristiana ci dice, per bocca di San Paolo, che «non vi è più né Giudeo né Gentile», ci esprime la avvenuta venuta rottura del vecchio quadro di una cultura limitatamente cittadina o particolaristica, quale era stata quella della polis greca o delle tribù d’Israele; e all’alba dell’età contemporanea, del pari, la cultura illuministica del Terzo stato ci esprimerà, nell’accezione nuova di termini quali «nation» o «citoyen», la rottura del quadro tradizionale di una società, dilacerata in caste ereditarie. Ma sempre, di nuovo, in ciascuna di queste rivoluzioni culturali, la produttività e la creatività della cultura nuova è limitata dal fatto che la rottura con la tradizione del passato (il suo superamento) resta sempre relativa. Nuove classi si avvicendano alla testa della società, affermano in essa la loro egemonia economica, politica, culturale; ma son sempre classi oppressive e sfruttatrici, e la loro cultura, la cultura dominante, non può esprimere appunto che le condizioni e le esigenze ideologiche del loro dominio. Da una tradizione servile si libera, l’umanità; ma quella nuova che le si impone è ancora una tradizione servile nuova, che esprime la realtà e le esigenze del dominio di una nuova classe, anch’essa oppressiva e sfruttatrice, che non può affermare il suo dominio senza perpetuare la divisione della società in classi.
In ciascuna delle rivoluzioni culturali del passato, così, di contro a quel che di nuovo, di più umano quella data rivoluzione afferma e produce, resta preponderante il peso di una millenaria tradizione servile, il peso di «quel che è sempre stato», della divisione della società in oppressi e in oppressori, in sfruttatori e in sfruttati; sicché il giudizio che la nuova cultura dà del mondo, e dell’uomo, e dei suoi destini, e della condizione umana — per quanto nuovo e rivoluzionario esso possa apparire — resta in fatto tutto dominato e materiato da questo pregiudizio, da una tradizione millenaria, che è nata sulla base dell’intima dilacerazione di una società divisa in classi.


L’URSS contro la forza di “quel che è sempre stato”.

Quale e quanto sia il peso soffocante di questo pregiudizio, di questa tradizione, ciascuno di noi lo sperimenta ogni giorno nella sua lotta per il rinnovamento della cultura e della civiltà italiana. A chi consideri il travaglio della nostra società, non può sfuggire che proprio questo è il più formidabile tra i nemici che ci troviamo a dover combattere. Non saranno né i Truman né i De Gasperi, né gli Scelba né i Gonella, i poveri untorelli che spianteranno Milano o Bologna o l’Italia, che potranno fermare la marcia della civiltà nuova; e quel che ancor oggi essi possono, per ritardare questa marcia, non è tanto opera loro, attiva e cosciente, quanto l’opera di una forza possente e tremenda che ancora agisce nelle nostre file, in noi stessi, negli istituti che reggono la nostra società come nell’intimo della nostra coscienza. È quella forza contro la quale, nel dramma di Schiller, persino Wallenstein, l’ardito condottiero, si confessava impotente a combattere, ma che pur l’umanità deve battere, per costruire il mondo e la cultura nuova: la forza di quel che è sempre stato.
L’apporto decisivo, che i popoli dell’Unione sovietica hanno recato e recano alla vittoria della cultura e della civiltà nuova, è proprio questo. Caste sacerdotali antiche o antiche classi di proprietari di schiavi, imperatori cristiani e signori feudali, re assoluti e borghesi liberali o repubblicani, di volta in volta nella storia hanno affermato il loro dominio, ed hanno elaborato civiltà nuove, splendide di templi e di opere d’arte meravigliose, di pensamenti nuovi e profondi o di conquiste ardimentose della tecnica; eppure di volta in volta essi hanno ribadito le catene di un’antica tradizione, di un pregiudizio che sembrava eterno, secondo il quale la ricchezza, la libertà, la cultura dei pochi, avrebbero per presupposto inevitabile la miseria, la servitù, l’ignoranza dei più. «Così è sempre stato, così sempre sarà», ci dicono ancor oggi Truman e il Papa, Benedetto Croce e l’editorialista del Corriere della Sera o del Reader’s Digest, quando non sanno additarci, come via d’ascesa dell’umanità, altro che quella dell’«iniziativa privata» del fattorino che diventa miliardario — dall’ago al milione — trasformandosi egli stesso in sfruttatore, o del Santo o del Saggio che conquistano la loro personale saggezza o santità di contro alla turba profana dei peccatori e dei poveri di spirito.
«Così sempre è stato, così sempre sarà». L’enorme importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre, la sua portata culturale senza precedenti, sta nel fatto che essa ha per sempre spezzato questa tradizione e questo pregiudizio servile che l’umanità si era trascinato appresso attraverso tutte le sue rivoluzioni. Quando, nelle conversazioni che in questo ciclo di conferenze hanno preceduto questa mia, vi si è parlato della Rivoluzione socialista e del paese del socialismo, quando vi si è mostrato come, in Unione sovietica, sia stato abolito ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come siano state liquidate le classi sfruttatrici, come si sia costruita una società in cui già più non esistono classi antagonistiche e in cui la libertà degli uni non è più negazione e limite, ma anzi condizione e potenziamento della libertà degli altri; quando vi si è mostrato come, in Unione sovietica, il vertiginoso progresso dell’agricoltura e dell’industria sia condizionato dall’elevamento generale del livello tecnico e culturale delle masse, e non più solo di pochi privilegiati, vi si è mostrato, nei fatti, che — se «così sempre era stato» nel passato — non è vero che così anche debba sempre essere per l’avvenire: vi si è mostrato che è possibile rompere, che già sulla sesta parte del globo son rotte le catene di quel pregiudizio, di quella tradizione servile.
O si consideri, ancora, quel che Truman e il Papa, Benedetto Croce e l’editorialista del Corriere della Sera o del Reader’s Digest ogni giorno in varia forma ci ripetono, a proposito di nazione o di guerra. È difficile, certo, per la borghesia imperialista e per i suoi ideologi, venirci a parlare oggi della «bellezza» della guerra, come faceva Mussolini. Troppo recente, ancora, è lo spettacolo dei suoi orrori, perché una tale predicazione possa sperare di attecchire. E allora si cerca di persuadere i milioni degli uomini semplici, e magari gli intellettuali d’avanguardia, che la guerra, sì, è una cosa orrenda e mostruosa, ma che dobbiamo acconciarci a combatterne una nuova, al servizio dei magnati di Wall Street — come ieri al servizio dei tedeschi — perché «così è sempre stato, e così sempre sarà»; perché dal pantano di fango e di sangue dell’imperialismo, per ributtante e mortale che sia, non c’è via d’uscita. E forse che, dai secoli dei secoli, popoli e nazioni non si son battuti per il loro predominio, per imporre il loro suggello su altri popoli, su altre nazioni? E forse che non è questa un’eterna legge di vita e di morte degli uomini?
«Così sempre è stato, così sempre sarà». L’enorme importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre, la sua portata culturale senza precedenti, sta nel fatto che essa ha per sempre spezzato questa tradizione e questo pregiudizio servile che l’umanità si era trascinato appresso attraverso tutte le sue rivoluzioni. Poco più di cento anni sono trascorsi da che, in Russia stessa, in una poesia famosa, Alessandro Puschkin — che pure era un veggente annunciatore di tempi nuovi cantava, a proposito delle lotte tra i popoli dell’antico Impero zarista:
Dai tempi dei tempi tra loro si battono
Queste stirpi; già sovente, alla tempesta,
Si è piegata ora l’una, ora l’altra parte.
Non più di quarant’anni sono trascorsi da che, nella Russia zarista, russi ed ebrei, turchi ed armeni, georgiani e tartari, si affrontavano in orrendi pogrom, restavano schiacciati sotto il duplice giogo di un’oppressione sociale e nazionale. Quando, nelle conversazioni che hanno preceduto questa mia, vi si è mostrato come la Rivoluzione d’Ottobre abbia risolto la questione nazionale, come, in Unione sovietica, cento popoli diversi vivano affratellati da un comune patriottismo, come essi creino, ciascuno secondo il proprio genio, una civiltà che è socialista per il suo contenuto, nazionale quanto alla sua forma; quando vi si è mostrato di che unità monolitica questi cento popoli diversi abbiano dato prova nella difesa della patria comune, vi si è mostrato che, anche per quanto riguarda i problemi della oppressione nazionale e della guerra, se è vero che «così era sempre stato» nel passato, non è vero che così anche sempre debba essere per l’avvenire; vi si è mostrato che è possibile rompere, che già sulla sesta parte del globo son rotte le catene di quel pregiudizio, di quella tradizione servile, in fede della quale ancora una volta si cerca di trascinare gli uomini al macello.
Ma di tutto questo, di tutto quanto in Unione sovietica si è realizzato e si realizza sul piano politico, sociale, economico, tecnico, di quel che significhi la creazione di un’industria e di un’agricoltura socialiste, vi è stato già parlato nelle precedenti conversazioni di questo ciclo. Così pure vi è stato chiarito, senza dubbio, quale sia il significato che queste conquiste dei popoli sovietici hanno per noi, nella nostra lotta per la pace, per l’indipendenza nazionale, per la democrazia, per il socialismo. Quel che m’importava di sottolineare, era però il fatto che queste conquiste hanno per noi un significato, appunto, che non è solo economico o sociale o politico, ma culturale, in quanto ci documentano la possibilità di una lotta e di una vittoria anche nostra contro una millenaria tradizione servile, in quanto maturano in centinaia di milioni di uomini semplici l’idea dell’assalto contro la cittadella del pregiudizio, che ancora inalbera il nero gagliardetto dell’«è sempre stato così, e sempre così sarà».


Scuola e “socializzazione della cultura” nel paese del socialismo.

Ma parlare di cultura e di scienza nuova dell’umanità socialista non potrebbe significare, beninteso, solo parlare di questo suo generico, se pur universale e decisivo, apporto alla nostra lotta per una cultura nuova. E nemmeno basterebbe, a chiarire la portata storica della rivoluzione culturale che oggi celebra le sue vittorie in Unione sovietica, parlarvi solo di quel che la Rivoluzione socialista ha già realizzato, nel senso della diffusione della cultura, nel senso dell’elevamento del livello culturale delle masse.
Certo — come giustamente rilevava Gramsci nei suoi Quaderni del carcere — «creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, «socializzarle», per così dire, e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è un fatto «filosofico» ben più importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali» (I). In questo senso, senza dubbio, lo sforzo ed i successi realizzati nel paese del socialismo sono senza precedenti nella storia. Non vogliamo appesantire questa nostra esposizione con dati statistici troppo particolareggiati che non è mai facile seguire in una trattazione orale e che si possono d’altronde ritrovare in pubblicazioni a stampa. Ci limiteremo a citare alcune cifre caratteristiche.
Nella Russia zarista, alla vigilia della prima guerra mondiale, gli Istituti di educazione prescolastica (asili infantili e simili), non erano più di 275, ed erano tutti — ad eccezione di una quindicina — riservati ai bambini delle classi privilegiate. Nel 1941, il numero di tali Istituti era salito a 16.251, senza contare le colonie estive; nel 1947, oltre quattro milioni di bambini venivano accolti in Istituti di educazione prescolastica.
Per quanto riguarda l’istruzione elementare, ognuno sa come il vecchio Impero zarista fosse il paese d’elezione di un analfabetismo di massa, che toccava punte del 98 e del 99 per cento tra le decine di milioni di uomini e di donne delle nazionalità oppresse. Ben quaranta tra queste nazionalità non disponevano nemmeno di un alfabeto per la loro lingua, e perciò di una lingua e di una letteratura scritta; tanto meno potevano disporre, pertanto, di una scuola e di istituzioni culturali. Nel complesso delle popolazioni dell’Impero zarista, la percentuale degli analfabeti, alla vigilia della Rivoluzione di Ottobre, era di oltre il 65%; oggi l’analfabetismo è stato praticamente liquidato. Dal 1930 è stata introdotta l’istruzione elementare obbligatoria fino alla settima classe nelle città e villaggi, fino alla quarta classe nelle località rurali. Da 10.300.000 nel 1928-’29, il numero degli alunni delle scuole elementari è salito a 17.700.000 nel 1932-’33, a 21.200.000 nel 1938-’39. Particolarmente degno di nota è il fatto che il numero degli alunni nei corsi dal quinto al settimo, che nelle località rurali era solo di 533.000 nel 1929-’30, era già salito a ben 5.576.000 nel 1938-’39.
Non meno impressionante è lo sviluppo dell’istruzione media. Nel 1914, in tutto l’Impero zarista non esistevano che 1.953 Istituti d’istruzione media; nel 1938-’39, il numero di tali Istituti saliva in Unione sovietica a ben 12.469. Gli alunni delle scuole medie, che erano poche decine di migliaia prima della Rivoluzione, e non più di 138.000 nel 1933, erano già 1.408.000 nel 1938, senza contare quelli delle scuole medie kolkhoziane.
Intere Repubbliche, come quella del Kazakhstan e dell’Uzbekistan, che erano prive di scuole medie prima della Rivoluzione, ne avevano già rispettivamente 439 e 232 nel 1938; e per preparare nuove centinaia di migliaia di maestri, il numero delle Scuole normali, che era solo di 19 nel 1914, era stato portato a 196 nel 1946.
Non parliamo delle scuole per adulti, alle quali accorrevano nel 1939 ben 751.000 persone, né delle scuole tecnico-professionali specializzate. Per quanto riguarda l’istruzione superiore, di tipo universitario, nel 1914 non esistevano nell’Impero zarista che 91 centri d’istruzione di questo grado, anche se si comprendono sotto questa voce corsi privati speciali di lingue, ecc. Nel 1946, gli Istituti superiori pubblici di tipo universitario salivano in Unione sovietica a ben 792, ed erano frequentati da 653.000 studenti: un numero superiore a quello della popolazione universitaria di tutta l’Europa capitalistica. Ma vi è di più: nel 1914, fra gli studenti di otto università russe, il 38,3% apparteneva, per la sua origine sociale, alla nobiltà e all’alta burocrazia, il 43,2% alla borghesia e al clero, il 14% alla borghesia rurale; solo il 4,5% proveniva da famiglie di operai, di contadini o di intellettuali poveri. Oggi ancora, negli Stati Uniti d’America, secondo i dati raccolti da una Commissione dell’Università di Harvard, solo il 5% di figli di lavoratori trova accesso agli Istituti d’istruzione superiore. In Unione sovietica, per contro, l’istruzione superiore è effettivamente, e non solo nominalmente, aperta a tutti, e tutta la popolazione universitaria risulta composta di lavoratori e di figli di lavoratori.


L’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri.

Il compito grandioso che oggi si pone di fronte ai popoli dell’URSS, e che già si viene realizzando, nel campo dell’istruzione, è quello dell’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri. Né si creda che ciò voglia significare semplicemente tino sviluppo della cultura tecnica e scientifica; di pari passo con la diffusione e l’approfondimento di questa, va la diffusione della cultura cosiddetta umanistica. Basti accennare al moltiplicarsi dei Musei e delle Accademie di belle arti, delle Istituzioni teatrali e musicali; basti ricordare che le tirature e la diffusione dei classici russi e stranieri — da Tolstoi a Rabelais, da Balzac a Shakespeare, dal Palladio al Goldoni — superano sovente già, in Unione sovietica, quelle che si ritrovano nei paesi d’origine dei singoli autori.
A mostrare quali passi, sulla via già accennata dell’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri, siano ormai stati compiuti nel paese del socialismo, voglio citarvi ancora. solo una cifra, che mi si presenta qui sottomano. Voi sapete che nel corso di questa estate si è svolta, presso l’Accademia delle scienze dell’URSS, una discussione sui problemi della genetica, di quella parte della biologia, cioè, che studia le leggi della trasmissione dei caratteri ereditari degli esseri viventi. Di questa discussione sono stati dati, per oltre un mese, larghi resoconti, non solo nella stampa specializzata, ma nelle prime pagine dei quotidiani. Milioni di lettori hanno potuto seguirne gli sviluppi nelle linee generali. Ebbene: pochi giorni or sono, il resoconto stenografico completo dei dibattiti è stato pubblicato in questo grosso volume che ho qui dinnanzi a me. E un volume che in qualsiasi paese del mondo capitalistico, anche dei più avanzati, sarebbe accessibile solo a poche centinaia, o al massimo ad alcune migliaia di specialisti o di scienziati. In Unione sovietica, questo volume è stato tirato in una prima edizione di duecentomila esemplari; e il compagno, che in questi giorni me ne ha portato questa copia da Mosca, mi diceva che gli era stato assai difficile trovarmela perché, già pochi giorni dopo la sua pubblicazione, questa prima edizione era esaurita in quasi tutte le librerie della capitale sovietica.
L’interesse dei dati sommari che ho qui citato mi ha già indotto ad appesantire, più di quanto non fosse nelle mie intenzioni, di cifre la mia esposizione; e non vorrei peccare ancora per questo verso. Mi basti solo citare ancora un dato significativo, che valga a riassumere tutto quanto siamo venuti rilevando. Mentre negli Stati Uniti d’America, ai fini dell’educazione e dell’istruzione, si spende poco più dell’ 1,5% del reddito nazionale; mentre, in Inghilterra, tale percentuale si eleva appena al 3%, in Unione sovietica ben il 13% del bilancio economico nazionale è destinato alle spese per l’istruzione e per l’educazione: con una percentuale che, nei paesi capitalistici, si ritrova solo quando si calcolano non già le spese per la costruzione culturale, bensì quelle per le opere distruttive degli armamenti e della guerra.
Abbiamo già avvertito, tuttavia, che neanche l’imponenza dei risultati che il paese del socialismo ha realizzato e sta realizzando su questo piano della diffusione della cultura e dell’elevamento del livello culturale delle masse, potrebbe esaurire il senso e la portata della rivoluzione culturale che oggi si sviluppa in Unione sovietica. Si può dire, anzi, in un certo senso, che di questa rivoluzione culturale tali grandiose realizzazioni rappresentano solo la premessa, mentre la rivoluzione stessa si sviluppa e si manifesta su di un piano ancor più largo ed elevato.


La liquidazione dei residui ideologici della società di classi nella coscienza degli uomini.

La realtà è che la costruzione vittoriosa del socialismo è venuta e vien costruendo in URSS un’umanità, un uomo nuovo. L’eliminazione di ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la liquidazione dell’inferiorità economica, sociale, politica, intellettuale della donna, la soluzione della questione nazionale, assicurano già all’umanità sovietica condizioni di sviluppo che non hanno precedenti nella storia. Abbiamo già detto come la Rivoluzione socialista abbia conquistato e distrutto la cittadella del pregiudizio, la cittadella dell’«è sempre stato così, e sempre così sarà». Ma quel che è vero per i rapporti e per gl’istituti sociali, non è men vero per l’uomo stesso, per la sua coscienza sociale, politica e morale. Fenomeni grandiosi come quello dell’emulazione socialista e dello stakhanovismo, o come quello dell’eroismo di massa che ha meravigliato il mondo nel corso della guerra patriottica contro l’aggressore nazista, già rivelano la nascita di questo uomo nuovo, che sta in rapporti nuovi con gli altri uomini e con la società di cui è parte, che con occhi nuovi guarda al mondo, e alle sue lotte, e al suo avvenire. È un’umanità che già coscientemente si è posto — sotto la guida del Partito bolscevico – il compito di liquidare i residui ideologici del capitalismo e della società di classi nella coscienza degli uomini. E già su questa via — che è la via del passaggio dalla società socialista alla società comunista — dei passi decisivi si compiono, mentre di questo passaggio si pongono le premesse sul piano dei rapporti di produzione.
Marx ed Engels avevano già mostrato come un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, che assicuri all’umanità un’abbondanza di prodotti, sia una condizione essenziale per il passaggio dalla società socialista — in cui vige il principio di distribuzione: «a ciascuno secondo il suo lavoro» al suo stadio superiore, alla società comunista, in cui vige il principio: «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Lo sviluppo ininterrotto delle forze produttive del paese del socialismo — che si è verificato come legge fondamentale dell’economia socialista persino negli anni più duri della guerra e dell’invasione nazista, di contro alla stagnazione e al marasma economico del mondo capitalista — assicura che la fondamentale condizione per il passaggio alla società comunista è in via di realizzazione. Ma ancora più importanti, ai fini che qui particolarmente ci interessano, sono altre due condizioni che debbono essere soddisfatte perché divenga possibile il pieno sviluppo di una società comunista.
Già oggi, nel paese del socialismo, liquidate le classi oppressive e sfruttatrici, la società non è più divisa in classi antagonistiche, che abbiano cioè tra di loro interessi contrastanti. Operai, kolkhoziani, intellettuali sovietici sono classi amiche, con caratteristiche profondamente diverse, ormai, da quelle che le classi corrispondenti hanno nella società capitalistica. Tra queste classi amiche, tuttavia, se pur non sussistono antagonismi che le separino, sussistono ancora diversità che le distinguono, per la loro posizione nel processo produttivo, come per le condizioni ambientali della loro esistenza, come per il loro grado di sviluppo intellettuale. La separazione tra città e campagne — questa fondamentale caratteristica della società di classi — non è ancora superata nella società socialista: nella quale, se essa è già superata in quanto contrasto, non è ancora, appunto, in tutto superata in quanto distinzione, per quanto riguarda condizioni di vita e possibilità di sviluppo culturale. Fin d’oggi, tuttavia, lo sviluppo del regime kolkhoziano viene rapidamente liquidando l’arretratezza tecnica dell’agricoltura rispetto all’industria; la meccanizzazione e l’elettrificazione delle campagne – che non hanno confronto nel mondo capitalistico – ,la combinazione del lavoro industriale col lavoro agricolo nei kolkhoz, lo sviluppo grandioso delle istituzioni scolastiche e culturali nei centri kolkhoziani, modificano profondamente le condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni rurali; mentre una cosciente e pianificata politica urbanistica moltiplica fin nelle regioni più remote i nuovi centri cittadini, che una politica delle comunicazioni e dei trasporti avvicina ed irradia sulle campagne circostanti.
Mentre così, con la progressiva liquidazione del contrasto tra città e campagne, si pone un’altra fondamentale premessa per il passaggio alla società comunista, non meno importanti sono i passi che si vengono compiendo per la liquidazione dell’altro fondamentale contrasto, caratteristico per la società di classi: il contrasto fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale.
Non vi può sfuggire, evidentemente, la particolare importanza che il progressivo superamento di questo contrasto assume ai fini di una effettiva e radicale rivoluzione culturale. Nella società di classi, se dal contrasto fra città e campagne la maggior parte dell’umanità è condannata a quello che Marx ha chiamato l’idiotismo contadino, il contrasto fra lavoro manuale e lavoro intellettuale condanna l’umanità intera ad una vera e propria mutilazione, la cultura ad una relativa impotenza che nasce dalla separazione della teoria dalla pratica, del libro dal lavoro e dalla vita. Mentre le grandi masse dei lavoratori manuali restano così, di fatto, escluse da ogni possibilità di superiore e più umano sviluppo culturale, la cultura degli intellettuali si sviluppa fuori del contatto vivo col mondo della produzione sociale, si frammenta in specializzazioni e in circoli chiusi, si evapora in astrazioni quintessenziali.
Nel paese del socialismo, questa che Lenin chiama una delle più tremende maledizioni che pesano sulla società capitalistica, il contrasto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra il libro e la vita, è anch’essa in via di superamento. La via non è, beninteso, quella della realizzazione di una sorta di media culturale, attraverso l’abbassamento del livello culturale degli intellettuali, bensì quella alla quale abbiamo già accennato, dell’elevamento del livello culturale delle masse al livello dei tecnici e degli ingegneri. La ristrettezza del tempo ci vieta di soffermarci ad illustrare i passi concreti che già nel paese del socialismo si son compiuti in questa direzione. Basti ricordare, d’altronde, che per la loro origine sociale e per la loro formazione stessa, fin d’oggi, gli intellettuali sovietici sono profondamente diversi dagli intellettuali dei paesi capitalistici, per il loro organico legame con le masse degli operai e dei kolkhoziani, ai cui problemi essi restano quotidianamente legati nell’opera comune della costruzione socialista. Lo sviluppo numerico e qualitativo dell’intellettualità sovietica si realizza così, a differenza di quel che avviene nella società capitalistica, sulla base di un generale e rapido elevamento del livello culturale delle masse: l’estensione dell’istruzione obbligatoria sino alla settima classe, la progressiva generalizzazione dell’istruzione media e superiore, già segnano un passo importante sulla via del superamento del contrasto fra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Ma non meno importante è il cambiamento della natura e del significato delle occupazioni manuali stesse. Già nella società socialista, il lavoro non è più un’attività servile e coatta, ma tende a divenire una libera esplicazione delle facoltà e dell’attività umana; il movimento stakhanovista di massa nasce già sulla base di questa nuova caratteristica del lavoro, comporta un impiego e una mobilitazione non solo e non tanto delle capacità e della forza fisica, quanto quello delle capacità tecniche, intellettuali, organizzative del lavoratore. La partecipazione attiva alla responsabilità e alla direzione della produzione, il sollievo crescente dai lavori più pesanti attraverso l’automatizzazione, il gusto alla creazione del prodotto, al perfezionamento dei metodi produttivi, già sono elementi che, nella società socialista, tendono a ravvicinare sempre più il lavoro manuale al lavoro intellettuale. Mentre sia l’uno che l’altro, d’altra parte, si vengono ulteriormente specializzando, la diffusione di un’istruzione generale fondata sul lavoro e l’attiva partecipazione di ogni lavoratore — intellettuale o manuale — alla direzione della cosa pubblica ed alla vita sociale, attraverso il sistema sovietico, accomuna tutti i lavoratori nella superiore attività intellettuale, nella cultura della società socialista.
Ci siamo soffermati ad illustrare questi fondamentali processi che si realizzano nella struttura stessa della società socialista e che avviano la sua trasformazione, il suo passaggio allo stadio superiore della società comunista. Ma — l’abbiam già detto — tutti questi processi, per quanto, grandiosi essi possano apparire, ed effettivamente siano, non costituiscono in un certo senso ancora altro che una premessa di quella vera e propria rivoluzione culturale che si manifesta su di un piano ancor più largo e più elevato.


Rivoluzione culturale.

Ma quali sono, dunque, le forme in cui questa rivoluzione culturale più propriamente si manifesta?
A chi, dal vecchio mondo dell’oppressione e dello sfruttamento, dal vecchio mondo della cultura borghese, si volga a rimirare le manifestazioni di questa rivoluzione, esse si presentano — e come potrebbero non presentarsi? — nelle forme di un vero e proprio scandalo.
Non sembri paradossale quanto ora qui io affermo. E forse che, all’epoca del primo Cristianesimo, non si parlò — e giustamente si parlò — dello «scandalo della Croce», di questo strumento di tortura e segno d’obbrobrio, eretto a simbolo di salvazione e di fede?
Ogni rivoluzione, sociale o politica o culturale che sia, è tale appunto perché rivolge e capovolge valori sostanziali e fondamentali di una data società, dà scandalo, è pietra di scandalo
— per usare l’espressione biblica — agli uomini del vecchio secolo, del vecchio mondo. E tanto più questo è vero per ogni manifestazione della rivoluzione proletaria che sommuove e rinnova e capovolge valori che da tutte le società di classi, da tutte le classi dominanti che si sono avvicendate nella storia, erano considerati come stabili e eterni: «quel che è sempre stato, e quel che sempre sarà».
Una tale pietra di scandalo ha rappresentato, per il vecchio mondo dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistico, per il vecchio mondo della cultura borghese, l’inizio della pubblicazione, da parte del Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione sovietica, di una serie di risoluzioni sui problemi della cultura: della storiografia, e della letteratura, della filosofia e del cinema, della musica e delle arti figurative, della biologia e della critica.
Mi sembra che il modo migliore d’intendere il senso e la portata della rivoluzione culturale che oggi si va sviluppando nel paese del socialismo, sia proprio quello di prender di petto gli eroici furori di questi scandalizzati rappresentanti del vecchio mondo e della vecchia cultura. Oportet ut scandala eveniant è parola di Vangelo; e la rivoluzione proletaria non è davvero meno profondamente rinnovatrice di quella cristiana da non dovere e potere apertamente e superbamente proclamare lo scandalo che la sua civiltà nuova solleva tra i figli del secolo. E tra i «figli del secolo», oggi come ai tempi del primo Cristianesimo vi son pure gli uomini di buona volontà e di buona fede, che proprio dalla pietra dello scandalo non restano impacciati e travolti, ma anzi indirizzati e orientati sul nuovo cammino.


Partito e cultura.

A questi uomini di buona volontà e di buona fede sono indirizzate queste parole; e non saprei muovere, nel mio discorso,
da altri motivi che non siano proprio quelli del loro scandalo.
E che mai — ci dicono questi uomini di buona fede — e che mai: ora un Partito politico si deve mettere, in Unione sovietica, a discutere e ad approvare risoluzioni sui problemi della filosofia, della scienza, dell’arte? E che mai questo può avere a che fare coi compiti di un Partito politico?
Che il Partito bolscevico e il suo Comitato centrale discutano ed approvino, putacaso, una risoluzione sul problema dell’organizzazione industriale o su quello della politica estera o su quello del cambio della moneta, non è, di per se stesso, fatto che susciti scandalo fra gli uomini di buona fede; e neanche, d’altronde, ne suscita fra gli avversari dichiarati dell’Unione sovietica e del socialismo. Forse che anche da noi il Partito comunista, o il Partito della democrazia cristiana, non discutono e non approvano, nei loro Congressi o nei loro Consigli nazionali, risoluzioni e mozioni su problemi del genere? Anche nel mondo capitalistico, problemi come quello della politica estera o. come quello dell’organizzazione industriale o del cambio della moneta, sono problemi che toccano da vicino gli interessi di ogni cittadino; e un Partito politico, che pretenda dirigere ed orientare la vita di una nazione qualsiasi, non saprebbe assolvere questa sua funzione senza prender posizione sui problemi che interessano ed appassionano gli uomini di quel paese.
Perché, dunque, questo scandalo di fronte alla pubblicazione delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della filosofia, della scienza, dell’arte? Certo, su problemi del genere, i Partiti politici dei paesi capitalistici non discutono e non approvano, in generale, delle, risoluzioni.
Vero è che, anche nel mondo capitalistico, là dove dei problemi culturali hanno davvero appassionato la massa dei cittadini, si son visti i Partiti politici più diversi prender posizione su questi temi. Basti ricordare, a questo proposito, le lotte che in Germania, al tempo di Bismarck, fra i Partiti politici furono combattute nel cosiddetto Kulturkampf; o quelle combattute in Francia attorno all’affare Dreyfuss o attorno alle leggi Combes; o, per prendere un esempio più vicino a noi nello spazio e nel tempo, le discussioni attorno alla «libertà della scuola», nell’altro dopoguerra. In ciascuna di queste, occasioni, e in molte altre che qui tralasciamo di ricordare, di fronte a problemi culturali che appassionavano milioni di uomini, si son visti, nei diversi paesi del mondo capitalistico, i Partiti più diversi non solo prender posizione, ma addirittura modificare il loro schieramento ed il loro raggruppamento politico in base al loro atteggiamento dí fronte a tali problemi.
Non è un caso, tuttavia, che tutti gli esempi che abbiamo citato, e la maggior parte degli altri che potremmo citare, si riferiscano a lotte che fra i Partiti politici si sono sviluppate attorno a problemi della cultura e dell’educazione religiosa: o che, comunque, con tali problemi avevano una stretta attinenza. La realtà è che, anche nel mondo capitalistico, quando un problema culturale tocca l’interesse e appassiona milioni di uomini, i più diversi Partiti politici, laici o confessionali che siano, sono portati e obbligati, anzi, a prender posizione di fronte a tali problemi. Ma nei paesi capitalistici, i problemi culturali che appassionano milioni di uomini sono quasi esclusivamente quelli della cultura religiosa tradizionale o quelli della lotta delle masse per la loro emancipazione da tale cultura, passivamente accolta o addirittura imposta dallo Stato.
Il fatto non ci può meravigliare quando si avverta che, in ogni società di classi, la grande maggioranza della popolazione è condannata all’incoltura, che significa appunto una mancanza di attività culturale, l’accettazione passiva di una cultura già ferma e cristallizzata, ereditata tradizionalmente dalle precedenti generazioni, imposta, diffusa, consolidata attraverso l’apparato statale e culturale delle classi dominanti. E ciascuno sa, ciascuno può facilmente constatare come la forma principale che questa cultura passiva, questa incoltura delle masse assume, sia proprio quella della «cultura», della tradizione religiosa, della superstizione. Già Montaigne rilevava efficace mente, nei suoi Saggi famosi, questo carattere passivo della «cultura» religiosa delle masse, quando egli scriveva che « nous sommes chrétiens à méme titre que nous sommes périgourdins ou allemands», quando accomunava la tradizione cattolica del suo paese ad ogni altra tradizione religiosa, osservando che essa viene passivamente accolta «non autrement que corame les autres réligions se revoivent», solo per il fatto «que nous nous sommes rencontrés au pays où elle etait en usage; où nous regardons son ancienneté où l’autorité des hommes qui l’ont maintenue; où craignons les menaces qu’elle attache aux mécréants, où suivons ses promesses» (*).
Non può meravigliarci, pertanto, che là dove milioni di uomini semplici si risvegliano ad una vita culturale, ad una cultura attiva, le prime grandi lotte culturali che toccano e interessano le masse siano proprio quelle che si sviluppano attorno al problema della cultura e dell’educazione religiosa. Così era già avvenuto nel Medio Evo, quando ancora e sempre di nuovo ogni rivoluzione culturale di massa addirittura trovava la sua espressione in forme religiose; così è avvenuto e avviene nella società borghese, dove, prima ancora che il proletariato elabori le sue più caratteristiche forme di lotta per la conquista della cultura, delle frazioni stesse della borghesia e della piccola borghesia sono portate ad esprimere la loro attività culturale nella lotta per l’emancipazione dalla cultura religiosa tradizionale.
Il fatto, dunque, che, nei paesi capitalistici, i Partiti politici siano portati a pronunciarsi quasi esclusivamente su quei temi culturali che più da vicino sono attinenti alla cultura e all’educazione religiosa, è in stretto rapporto con la caratteristica prevalentemente passiva della cultura delle masse, ab-
Nota (*) Montaigne: Essais. I,ivre II, eh. XII.
bandonate e costrette all’incoltura di una tradizione religiosa passivamente accolta: sicché, là dove esse si risvegliano ad una prima attività culturale, questa è volta necessariamente alla lotta per la emancipazione da questa tradizione, ed è su questo terreno, appunto, che si combattono fra i Partiti le grandi battaglie culturali di massa.
Profondamente diverse sono le condizioni nelle quali le battaglie per la cultura si combattono nella società socialista, in Unione sovietica. Qui l’apparato oppressivo del vecchio Stato feudale o borghese è stato distrutto da decenni ; l’apparato «culturale» delle vecchie classi dominanti non è più lì a trasmettere e a radicar tra le masse l’analfabetismo e la superstizione, il pregiudizio del «così sempre è stato, e così sempre sarà». La Chiesa non è più appoggiata e finanziata dallo Stato che non mette più a disposizione del clero il suo braccio secolare. Le tradizioni e le superstizioni religiose non sono più diffuse dall’apparato scolastico e dalla stampa, dal cinema e dalle radio, per i mille tramiti capillari di cui le vecchie classi dominanti disponevano. L’esercizio dei culti è libero, ma nessuna imposizione interviene a perpetuarlo. L’educazione e l’istruzione delle masse non è più fondata, nella scuola socialista, sull’imbottimento dei crani con formule, dogmi e catechismi passivamente imposti ed accolti; bensì sul lavoro, sulla attività culturale, su di un atteggiamento critico, scientifico, storicistico, di fronte alle tradizioni del passato: che attivamente, criticamente, appunto, vengono accolte, trasmesse, valorizzate, e che perciò della nuova cultura divengono non più limite e peso morto, ma materia di elaborazione e fermento.
Se si aggiunge a tutto questo il fatto decisivo che nella società socialista, cioè, la cosciente padronanza dell’umanità associata sui propri destini recide le radici sociali delle credenze religiose, non può più meravigliare il fatto che in Unione sovietica i problemi culturali attorno ai quali si afferma il più appassionato interesse delle masse siano ben più larghi e si sviluppino su di un piano ben più elevato, di quel che non possa avvenire nei paesi capitalistici. L’enorme maggioranza degli uomini e delle donne sovietiche si è ormai emancipata, nei nuovi rapporti della società socialista, da una «cultura» di tipo religioso, tradizionale e passivo; l’educazione e l’istruzione socialista, la partecipazione attiva e cosciente alla costruzione della società nuova, alla sua direzione, le ha impresso la caratteristica di un’attività culturale, che da ogni parte e ad ogni istante viene sollecitata, promossa, sostenuta dall’esercizio della critica e dell’autocritica, nella scuola come nell’officina o negli istituti scientifici o nel Partito o nel soviet o nella redazione della rivista letteraria. Ho citato, poco fa, il dibattito recente sulla genetica che si è allargato per mesi sulle prime pagine dei quotidiani, oltre che nelle colonne delle riviste specializzate; e del pari avrei potuto citare i dibattiti sulla filosofia o sulle belle arti o sulla letteratura.
Alla domanda, pertanto: — Perché il Partito bolscevico, un Partito politico, pubblica delle risoluzioni sui problemi della filosofia e dell’arte, della biologia e della storiografia? — la risposta è assai semplice. Il Partito bolscevico fa quello che ogni Partito politico, che pretenda di dirigere e orientare la vita di una nazione, fa anche nei paesi capitalistici. Il Partito bolscevico, proprio come fa in Italia il Partito comunista o quello della Democrazia cristiana, o come faceva il Partito liberale, quando ancora tra Benedetto Croce e Leone Cattani esso non si era ridotto all’impotenza; il Partito bolscevico, dicevamo, proprio come fanno tutti i Partiti nel mondo capitalistico, prende posizione e dà un orientamento per tutti quei problemi che suscitano interesse, ed eventualmente contrasto di interessi, tra milioni di uomini, che si tratti di problemi della costruzione economica o di quelli della politica estera o di quelli della cultura. Quel che è diverso, in Unione sovietica, è il fatto che i problemi della cultura, che nella società socialista sollevano l’interesse appassionato delle masse, non sono più solo quelli della «cultura» religiosa o quelli della emancipazione dalla sua passiva tradizione, bensì tutti i problemi di una cultura di massa, che è attività, che è critica nell’arte, nella filosofia, nella scienza.
Il primo scandalo, dunque, della cultura nuova dell’umanità socialista, è in realtà ben più grave di quel che a prima vista non possa apparire. Non si tratta di una stranezza, di una eccentrica particolarità di un Partito politico che va ad occuparsi di cose che non lo riguardano; si tratta di qualcosa di ben più profondo e sostanziale. Si tratta del fatto che, in Unione sovietica, il Partito bolscevico si occupa di arte e di scienza, di filosofia e di letteratura, perché di queste cose si occupano milioni e milioni di cittadini sovietici, con la stessa passione e con la stessa attività con cui essi si occupano della costruzione dell’industria o dell’organizzazione kolkhoziana, o con cui, nei paesi capitalistici, milioni di uomini si appassionano ai problemi del cambio della moneta o del sussidio di disoccupazione. E per questo avevamo ragione quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica.
Ma, obietterà ora l’uomo di buona volontà e di buona fede, ammettiamo pure che in questo scandalo si esprima, in realtà, questa prodigiosa rivoluzione culturale, senza precedenti nella Storia, che ha portato decine di milioni di uomini semplici a non appassionarsi più di Santa Fede e di Madonne che muovono gli occhi, ma di arte, di scienza, di filosofia. Ammettiamo pure tutto questo: ma resta pur sempre il fatto che in Unione sovietica, insomma, la cultura non è libera, perché il Partito dominante imprime una sua direzione persino in materia di pittura o di musica o di biologia. A parte il fatto, dunque, che in Unione sovietica il Partito bolscevico opera nel senso di un effettivo e progressivo elevamento del livello culturale delle masse, invece che in senso retrivo e oscurantistico, i metodi che esso segue sono pur sempre quelli della dittatura, praticati anche in questo campo dal fascismo e dal nazismo.


Spontaneità e direzione culturale.

Eccoci dunque dinnanzi al secondo scandalo che la cultura nuova dell’umanità socialista solleva tra i figli del secolo, ed anche, senza dubbio, tra uomini di buona volontà e di buona fede; ed eccoci, ancora una volta, a cercare di chiarirne il senso e la portata effettiva, perché i figli del secolo, di buona o di mala fede che siano, sappiano almeno di che, effettivamente, debbano scandalizzarsi.
E permettetemi, a questo punto, ch’io ricorra ad un esempio, tratto dalla mia esperienza parlamentare. Quando, dopo la liberazione del Nord, s’inaugurò la Consulta nazionale, a presiederla fu prescelto, come ricorderete, non so bene per che ragione, l’on. Sforza. Nell’assumere la presidenza, l’on. Sforza, additando teatralmente la tribuna dell’oratore, rilevò che da
quella tribuna, proprio Mussolini aveva pronunciato parole e annunziato atti liberticidi; propose pertanto che, nelle nuove e libere assemblee della democrazia italiana, gli oratori non parlassero da quella tribuna insozzata, bensì dal proprio banco.
Ora bisogna riconoscere che — se anche Mussolini usò questa espressione in tutt’altro senso, politico e liberticida — l’aula di Montecitorio, nella quale si tenevano le riunioni della Consulta, è effettivamente, materialmente «sorda e grigia». Il risultato dell’accettazione della proposta dell’on. Sforza fu perciò questo: che gli oratori, alla Consulta, parlarono dal loro banco, invece che dalla tribuna, e che nessuno riusciva a sentire e a seguire quel che dicevano; finché, provvidenzialmente, non si ebbe ricorso all’uso di microfoni, che a tutt’oggi si adoperano alla Camera.
Se ho fatto ricorso a questo esempio, tratto dalla mia esperienza parlamentare, è per illustrare una verità che non ci dovrebbe esser bisogno di dimostrare: che determinate esigenze sono evidentemente comuni, cioè, a qualsiasi tipo di organizzazione sociale o di assemblee o di governo o di cultura, o di vita, più in generale. Mussolini e Hitler, così, avranno anch’essi dovuto, ogni giorno, più o meno, mangiare e bere; e per quanto grande possa e debba essere la nostra esecrazione per i loro delitti contro l’umanità, noi non ci sogniamo certo di rinunciare a mangiare e a bere, o a soddisfare altri nostri bisogni corporali, «perché anche Mussolini e Hitler facevano così». Così del pari in ogni assemblea, fascista o nazista o democratica che sia, si sente l’esigenza di poter seguire il discorso dell’oratore, e possibilmente il gesto: che è anch’esso, almeno tra noi meridionali, parte integrante e sottolineatura del discorso. Per questo in tutte le assemblee, fin dai tempi più antichi, e specie là dove la disposizione dell’ambiente rendeva difficile l’ascolto, si è ricorso all’uso della tribuna per l’oratore: sicché già nel Foro di Roma antica si parlava dai Rostri, e ci è parsa bizzarra la proposta dell’on. Sforza: il cui antifascismo, anche in quella occasione, si rivelò piuttosto come inconcludente abito settario che come costruttiva coscienza democratica.
Quel che vale per le esigenze dell’oratoria in una qualsiasi assemblea, o per quella di una direzione in qualsiasi dibattito, non è meno valido per l’esigenza e per l’effettiva realtà di una organizzazione e di una direzione culturale in qualsiasi forma (li società, in qualsiasi forma di organizzazione politica e statale. Non vi è esempio, non è dato nemmeno di immaginare una cultura là dove non si realizzi una organizzazione ed una direzione culturale. È un fatto, questo, di cui ciascuno di noi può facilmente rendersi conto, pur che guardi attorno a sé e alla propria stessa formazione culturale. Forse che ciascuno di noi non si è culturalmente formato e ogni giorno non si sviluppa nell’ambito di una data organizzazione culturale? Forse che non è una sia pur embrionale organizzazione culturale la famiglia stessa, nel cui seno abbiamo imparato a parlare e a ragionare, e poi la scuola, o il sagrato dinnanzi alla chiesa del nostro villaggio, o l’officina, o l’università, e il sindacato, e la confraternita religiosa, e la cellula del Partito o la Sezione delle ACLI: e poi tutta la società in cu viviamo, con la sua stampa e coi suoi cinema, coi suoi musei e con i suoi teatri? E forse che, in ciascuna di queste più o meno larghe, più o meno esplicite organizzazioni culturali, la nostra cultura non si sviluppa sotto la costellazione di una determinata direzione culturale? E sarà la mamma che ci dirige non solo nei primi passi e nei primi gesti, ma nell’uso del nostro dialetto o della nostra lingua, che significa poi un dato modo di ragionare e di esprimerci, ed è la nostra prima cultura; e sarà il maestro che ci dirige nei primi studi, con un metodo suo particolare, che orienta la nostra curiosità in un dato senso; e sarà il sacerdote che ci dirige nell’assimilazione di una dottrina tradizionale, o addirittura come confessore o come padre spirituale ci detta sin le minuzie della nostra pratica morale; e poi l’assemblea del Sindacato o del Partito, alla quale noi portiamo il contributo di una nostra personale attività culturale, ma che pur ci dirige attraverso l’elaborazione di un orientamento collettivo, che è frutto di un’esperienza non solo nostra. E sarà infine la più larga società nella quale noi viviamo e della quale siamo partecipi, che ad ogni istante, si può dire, afferma nei nostri confronti la sua direzione culturale: una società che noi ci troviamo dinnanzi come qualcosa di dato storicamente; di precostituito, e che ad ogni istante culturalmente ci forma e ci dirige con la sua scuola e col suo cinema, coi suoi giornali e col suo teatro, con la sua chiesa e con la sua opinione pubblica e con la sua morale dominante e coi suoi luoghi comuni.
Quel che contraddistingue, dunque, la vita e l’attività culturale dell’Unione sovietica — o quella dell’Italia di Mussolini o di De Gasperi o di Giolitti — non è e non può essere il fatto che in questo o in quel paese l’attività e la vita culturale si sviluppino sotto il segno, sotto la costellazione di una data direzione culturale. Non vi è cultura od organizzazione culturale che si sviluppi senza l’impronta di una determinata direzione: quel che si tratta di ricercare, se si vuole intendere quale sia 1′ effettiva diversità tra la cultura nuova dell’ umanità socialista e la vecchia cultura, è chi, nell’una e nell’altra società, esercita una direzione culturale, e come questa direzione culturale differentemente si esercita.
Abbiamo visto e vediamo ogni giorno, d’altronde, chi e come, nei paesi capitalistici, eserciti la sua direzione culturale sul complesso della società. Sono le classi dominanti e le loro diverse frazioni che, secondo le mutevoli esigenze del loro dominio politico e culturale, di volta in volta scatenano un Kulturkampf o ristabiliscono l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole, finanziano la stampa massonica o quella clericale, perpetuano tra le masse l’analfabetismo o lo moderano ai fini di un minimo necessario di cultura, indispensabile per lo sviluppo di un’industria moderna. Dalla stampa al cinema, dalla scuola ai laboratori di ricerca scientifica, dalle Case editrici all’apparato statale, dal regolamento carcerario alla Chiesa, al regolamento militare, tutto il formidabile apparato di direzione culturale dei paesi capitalistici è nelle mani delle classi dominanti borghesi. E quel che ancora più importa, di fronte alla massa degli oppressi e degli sfruttati, mantenuti nell’incoltura, o in una cultura puramente tradizionale e passiva, le classi dominanti della società borghese dispongono esse sole di una cultura attiva, produttiva, di una cultura effettivamente superiore a quella delle masse, che assicura loro, più ancora che una egemonia, un vero e proprio monopolio della cultura. Grazie a questo regime di monopolio, l’effettiva direzione culturale nei paesi capitalistici si concentra, più ancora che in appositi organismi dell’apparato statale — quali sarebbero il Ministero o le Commissioni parlamentari per la pubblica istruzione — in ristretti circoli degli strati superiori delle classi dominanti: negli uffici-studi di Donegani o attorno alla Galleria d’arte di Gualino, nello studio di Giovanni Gentile o nel salotto di Benedetto Croce, attorno al Gran Maestro della Massoneria o nella Congregazione dell’Indice.
La direzione culturale delle classi dominanti borghesi non è e non può essere, beninteso, una direzione culturale pienamente omogenea ed uniforme. Essa risente, necessariamente, della varia composizione e differenziazione, dei vari raggruppamenti delle diverse frazioni delle classi dominanti stesse che ovunque, nel mondo capitalistico, esprimono un compromesso o una storica interpenetrazione coi resti delle classi dominanti della vecchia società feudale e chiesastica. Assistiamo cosi, di volta in volta, all’avvicendarsi, alla direzione culturale di un dato paese, di frazioni e gruppi e circoli diversi degli strati superiori delle classi dominanti; e vediamo la direzione culturale stessa mutare nel suo senso, come quando, ad esempio, all’indomani dell’Unità, di contro alle vecchie classi dominanti, si afferma, in seno alla nuova borghesia, una direzione culturale orientata in senso liberale e laico; mentre, più tardi, di fronte allo sviluppo del movimento operaio e democratico delle masse, riaffiorano e dominano di nuovo le tendenze ad una direzione culturale fondata sul compromesso confessionale e poi addirittura quelle apertamente antiliberali e fasciste.
Né si può dire che, anche per quanto riguarda le forme ed i modi esteriori nei quali la direzione culturale delle classi dominanti si esercita nella società capitalistica, non si possano e non si debbano riscontrare notevoli diversità. Sintantoché il predominio sociale e politico delle classi dominanti e il loro effettivo monopolio della cultura resta praticamente indiscusso e incontrastato, la loro direzione culturale tende ad esercitarsi nelle forme, diciamo cosi, liberali, e magari democratiche. Quella che predomina, semmai, è la preoccupazione della lotta contro i resti della cultura e dell’influenza culturale delle vecchie classi dominanti ecclesiastiche e feudali, in quanto esse possano costituire un pericolo politico per il nuovo Stato; e in questa lotta, ai fini di questa lotta, le frazioni più avanzate della borghesia non rifuggono, all’occasione, dal mobilitare anche certi strati delle masse, dall’orientarli e dirigerli culturalmente in senso laico e progressivo. In seno alle classi dominanti stesse, d’altronde, l’assenza di un pericolo imminente che urga dal basso, e che seriamente minacci il loro dominio, permette una certa libertà di giuoco alle varie tendenze ed ai vari orientamenti della direzione culturale. Il presupposto di questa relativa libertà culturale delle classi dominanti resta tuttavia, beninteso, proprio la passività culturale delle masse, la loro incoltura, la loro assenza dall’agone della cultura stessa.
La storia recente ed antica c’insegna, tuttavia, che questi metodi e queste forme esteriori della direzione culturale delle classi dominanti borghesi mutano rapidamente, non appena, col risveglio di più larghi strati di massa ad un’autonoma attività politica e culturale, qualche valore sostanziale della cultura e del dominio borghese sia messo in questione. Sul piano della direzione culturale, come su quello della direzione più propriamente politica, vediamo allora i gruppi decisivi della borghesia — in Italia come in altri paesi — abbandonare sin le forme di una direzione culturale liberale o democratica, passare ai metodi dell’aperta repressione anticulturale, non solo nei confronti delle masse, ma anche nei confronti di quelle frazioni o di quegli esponenti delle classi dominanti che mostrano di non intendere la gravità del pericolo che minaccia il comune dominio e la necessità di un saldo blocco culturale: che, di contro a una nuova cultura che urge dal basso, releghi al secondo piano i secondari contrasti interni che si manifestano nella cultura dominante.
A un fenomeno di questo genere abbiamo dovuto assistere, nel corso del ventennio fascista, nel nostro paese stesso, come in non pochi altri paesi del mondo capitalistico; a tentativi analoghi assistiamo oggi di nuovo, in Italia, anche se il blocco culturale delle vecchie classi dominanti tende oggi ad organizzarsi più ancora attorno alla Chiesa ed al suo apparato che non attorno all’apparato dello Stato, esso stesso soggetto oggi, d’altronde, ad un rapido processo di clericalizzazione. Di nuovo, come nel ventennio fascista, le classi dominanti italiane tendono a passare a metodi di direzione « culturale » apertamente repressivi, non solo nei confronti delle masse popolari, ma anche contro gli esponenti culturali delle classi dominanti stesse che assumono un atteggiamento di dissidenza dal blocco clericale.
Pure, per impressionanti e importanti che possano essere le forme esteriori che la direzione culturale della società nei paesi capitalistici, e il modo, il senso fondamentale di tale direzione, resta sostanzialmente lo stesso. Chi di fatto esercita la direzione culturale sul complesso della società nei paesi capitalistici, quale che sia la loro struttura politica e culturale, è sempre la borghesia, e particolarmente la grande borghesia, sempre più organicamente interpenetrata e fusa coi resti delle vecchie classi dominanti ecclesiastiche e feudali. Il modo fondamentale in cui questa direzione culturale della borghesia si esercita nei paesi capitalistici, è quello del monopolio della cultura attiva, produttiva, da parte delle classi dominanti, quello della condanna delle masse popolari all’incoltura, a una cultura solo tradizionale e passiva: sicché, più ancora che dall’imponenza di un apparato culturale o repressivo, la direzione culturale della borghesia sul complesso della società resta assicurato da una sua effettiva e storica superiorità culturale; e persino quei singoli individui che, dalle classi oppresse e sfruttate, assurgono alla «conquista della cultura», conquistano una cultura che è quella delle classi dominanti, che esprime le condizioni storiche del loro dominio, e vengono perciò spontaneamente assorbiti e inquadrati nell’ambito della cultura dominante.
A chi anche voglia considerare, d’altronde, la diversa importanza che una politica di diretta repressione anticulturale abbia nelle varie forme di direzione culturale della borghesia, non sempre riuscirà facile precisare tale diversità tra l’Italia di Mussolini, ad esempio, e l’America di Truman. Negli Stati Uniti d’oggi, certo, la strapotenza economica dei trust e la relativa arretratezza di sviluppo di un’autonoma coscienza ed attività culturale delle masse popolari avevano reso meno urgente, fino a pochi anni or sono, il ricorso alle forme di una diretta repressione anticulturale, del tipo di quella che abbiamo conosciuto nell’Italia fascista; ma pur senza tener conto della più recente politica di direzione culturale della borghesia imperialista americana, che oggi è giunta a processare degli scrittori non per una loro attività politica, ma per il semplice fatto che essi professano le dottrine del marxismo-leninismo; anche senza tener conto di questa più recente evoluzione, dicevamo, basti ricordare che da sempre nella « democratica » America una direzione culturale apertamente razzista esclude una parte importante della popolazione — i negri, e sovente gli italiani e gli ebrei da istituti scolastici e da istituti culturali, da attività giornalistiche, editoriali ed altre; da sempre i metodi della pura e semplice repressione culturale si sono combinati con quelli della lusinga e della corruzione, li hanno appoggiati e rafforzati ai fini del mantenimento della direzione culturale sotto il tallone di ferro della borghesia americana. Una tale combinazione delle forme della direzione con quelle della pura e semplice repressione culturale si può ritrovare e si ritrova necessariamente, d’altronde — se pure in varia misura — ovunque una classe dominante detenga, di fatto, il monopolio della cultura e mantenga le masse della popolazione in uno stato di incoltura, di passività culturale. In tali condizioni, è inevitabile che la cultura delle classi dominanti si imponga come cultura dominante; ma è altrettanto inevitabile che questa cultura dominante non possa esprimere appieno, e senza contraddizioni, le aspirazioni e i sentimenti delle grandi masse, che questa cultura passivamente accolgono e subiscono; sicché sempre di nuovo, tra le masse, fermentano i germi di vere e proprie ribellioni culturali, contro le quali la classe dominante è portata ad adoperare i metodi del soffocamento, dell’ostracismo, della repressione.
Con tutto questo non vogliamo dire, naturalmente, che non si debba fare una differenza tra le forme della direzione culturale adottate dall’Inquisizione o da Mussolini, tra quelle che oggi De Gasperi, Andreotti e Gonella vorrebbero riimpiantare in Italia, e le forme consuete nei paesi di una più libera democrazia borghese. Ma quel che era qui necessario sottolineare era il fatto che, in tutte queste varie forme di direzione culturale, quel che importa sempre ricercare è chi esercita la direzione culturale sul complesso della società, in che modo la esercita. E in tutti i casi citati, chi esercita la direzione culturale sono le classi dominanti che detengono il monopolio della cultura come quello della proprietà; il modo col quale tale direzione è esercitata (qualunque sia la forma che essa assume) è quello dell’esclusione delle grandi masse della popolazione da ogni forma di cultura che non sia passiva e tradizionale — incoltura.
Profondamente e sostanzialmente diversi sono invece il soggetto, il modo e le forme che la direzione culturale assume oggi in Unione sovietica, in una società socialista che già compie dei passi importanti sulla via di sviluppo verso la sua fase superiore, verso la società comunista. In Unione sovietica, liquidate le classi dominanti oppressive e sfruttatrici, liquidata la dilacerazione della società in classi antagonistiche, non si potrebbe neppure immaginare una direzione culturale affidata ad un gruppo sociale che avesse interessi materiali, economici o culturali, diversi o contrastanti rispetto a quelli della maggioranza del popolo. A differenza di quel che avviene nei paesi capitalistici — o, più generalmente, nella società di classi — un tale tipo di direzione culturale non potrebbe nemmeno essere immaginato in Unione sovietica, per il semplice fatto che nel paese del socialismo già non esistono più classi che abbiano interessi antagonistici, ma solo le classi amiche degli operai, dei kolkhoziani, degli intellettuali sovietici, che insieme e concordemente avviano la costruzione della società comunista.
Questo non significa, lo abbiamo già avvertito, che fra queste classi amiche, e all’interno di ciascuna di queste classi stesse, non esistano ancora delle diversità (non dei contrasti) nelle condizioni ambientali di lavoro e di vita, nel grado di sviluppo della coscienza socialista; proprio per questo, anche nella società socialista, l’avanguardia della classe operaia e di tutti i popoli sovietici continua ad organizzarsi nel grande Partito bolscevico; nel Partito che, dopo aver guidato i popoli dell’URSS alla lotta e alla vittoria contro lo zarismo, contro il capitalismo e l’imperialismo, nella costruzione del socialismo, li guida oggi alla costruzione di una società comunista.
Alla domanda, pertanto: chi, in Unione sovietica, esercita la direzione culturale sul complesso della società?, si può rispondere e si risponde apertamente: il Partito bolscevico, il Partito di Lenin e Stalin, il Partito che raggruppa e organizza l’avanguardia della classe operaia e di tutti i popoli sovietici, gli uomini e le donne più coscienti e più provati, che hanno dimostrato e dimostrano con fatti e con sacrifici inauditi il loro legame con le grandi masse del popolo, la loro capacità di guidarle alla lotta e alla vittoria del socialismo, la loro devozione alla causa del popolo; un Partito che non ha e non può avere altri interessi politici, sociali, culturali che quelli di tutto il popolo.
Per questa diversità del suo soggetto, il tipo di direzione culturale che oggi si esercita nella società sovietica è qualitativamente, sostanzialmente diverso da quello che si esercita nella società borghese, o da quello che sinora si era esercitato in ogni società di classi. In ogni società di classi, infatti, il gruppo sociale che esercitava la direzione culturale aveva interessi economici, sociali, politici, culturali contrastanti rispetto a quelli dell’enorme maggioranza della popolazione; la direzione culturale era perciò eterogenea nei confronti della società stessa, sulla quale essa si esercitava. Nella società socialista, in Unione sovietica, per contro, gl’interessi economici, sociali, politici, culturali del Partito bolscevico, del gruppo sociale che esercita la direzione culturale, sono quelli stessi di tutto il popolo, quelli della costruzione di una società comunista; il gruppo sociale che esercita la direzione culturale si distingue dal resto del popolo non già per una diversità di interessi, ma anzi per una più chiara ed avanzata coscienza, per una più matura esperienza di lotta, per un più devoto spirito di sacrificio agli interessi di tutto il popolo; la direzione culturale che il Partito bolscevico esercita nella società sovietica è perciò non più eterogenea, ma omogenea nei confronti della società stessa.
Questa sostanziale diversità nel soggetto e nel tipo di direzione culturale, che differenzia la società socialista da ogni precedente società di classi, si riflette necessariamente in una non meno sostanziale diversità nel modo in cui il Partito bolscevico esercita questa sua direzione culturale. Abbiamo già visto come, nella società borghese, ed in ogni società di classi, il modo di direzione culturale delle classi dominanti sia caratteristicamente esclusivo, restrittivo: tutto lo sforzo delle classi dominanti è volto ad imporre la loro direzione culturale attraverso un effettivo monopolio della cultura, escludendo le masse da ogni forma di cultura che non sia passiva, ricettiva, tradizionale; incoltura, insomma. In una società di classi, una classe dominante che non usasse proprio questo modo di direzione culturale sarebbe condannata, d’altronde, a veder presto tramontare la sua egemonia culturale; la sua direzione culturale, infatti, è, come abbiamo visto, eterogenea rispetto al complesso della società su cui si esercita; presuppone perciò, se non altro, una passività culturale delle masse.
Tutt’ altre sono le condizioni, e pertanto il modo, in cui solo può esercitarsi la direzione culturale del Partito bolscevico nella società socialista. La direzione culturale è qui omogenea, e non più eterogenea, rispetto al complesso della società; i suoi obiettivi sono quelli della costruzione comunista, che non possono essere raggiunti senza lo sviluppo di una coscienza superiore, di un’attività socialista in tutto il popolo. Per le classi dominanti delle passate società il carattere restrittivo, esclusivo della direzione culturale era una condizione del suo effettivo esercizio, e questo presupponeva un monopolio della cultura. Il Partito bolscevico, un Partito comunista, non può esercitare la sua funzione di direzione politica e culturale se non sollecitando e attraendo sempre nuovi strati di masse alla conquista di una superiore ed autonoma coscienza ed attività culturale. Così vediamo il Partito bolscevico dibattere i grandi problemi della direzione culturale del paese non più nel salotto di Benedetto Croce o nella Congregazione dell’Indice o solo nelle riviste specializzate, ma di fronte a tutto il popolo, in migliaia e migliaia di assemblee, col metodo della critica e dell’autocritica, sulle prime pagine dei quotidiani e nella corrispondenza coi loro lettori, sollecitando in mille forme l’iniziativa e la critica e l’attività e la produttività culturale di tutto il popolo: realizzando un modo di direzione culturale che non è più restrittivo ed esclusivo, bensì estensivo e propulsivo.
Se, per concludere su questo punto, vogliamo tirar le somme di quanto siamo venuti chiarendo, possiamo dire che anche il secondo scandalo che la cultura nuova dell’umanità socialista solleva tra i figli del secolo è, in realtà, assai più grave di quel che non appaia a prima vista. Non si tratta, invero, semplicemente del fatto che in Unione sovietica vi sarebbe una direzione culturale, come nei regimi fascisti, mentre tale direzione non esisterebbe nei regimi della democrazia borghese. Al contrario: quanto a questo, abbiamo mostrato, anzi, che una direzione culturale esiste in ogni forma di società, e che, semmai, una sostanziale conformità del tipo di direzione culturale esiste proprio tra i regimi fascisti e i regimi della democrazia borghese: giacché, negli uni e negli altri, è pur sempre la borghesia che esercita la direzione culturale e la esercita sempre col monopolio della cultura, escludendo le masse da ogni autonoma e produttiva attività culturale. Non è dunque in superficiali e fallaci analogie alla Sforza che va proclamato lo scandalo della cultura socialista, bensì in qualcosa di ben più nuovo e di più profondo: proprio nel fatto, cioè, che per la prima volta nella Storia il Partito bolscevico dà l’esempio e la prova di una direzione culturale omogenea alla società su cui essa si esercita; di una direzione culturale estensiva e non restrittiva, propulsiva e non esclusiva; fondata sull’attività e non sulla passività culturale delle masse; di una direzione culturale, insomma, che per la prima volta nella Storia apre non più solo ad una minoranza di privilegiati, ma all’umanità tutta, le vie di una cultura che non sia più solo inerte e passiva tradizione, ma cosciente conquista e creazione. E per questo, ancora una volta, avevamo ragione quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica.

(I) Antonio Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. – Einaudi, Torino 1948, pag. 5.

Edited by Andrej Zdanov - 4/7/2013, 23:07
 
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Il carattere di Partito della cultura.

Ma a questo punto, certo, anche il più volenteroso e ben disposto tra i figli del secolo rifiuterà di seguirci al di là di questa seconda pietra di scandalo. Ammettiamo pure, ci dirà, che effettivamente in Unione sovietica sia realizzato un tipo di direzione culturale ben superiore a quello che noi purtroppo abbiamo conosciuto e conosciamo in Italia e nella società borghese in generale. Nessuno può in buona fede negare che la società socialista, una società in cui sono state liquidate le classi oppressive e sfruttatrici, assicuri una libertà ed una attività culturale delle masse che certo sarebbe stata inconcepibile non solo nell'Italia di Gonella o in quella di Bottai, ma anche in quella di Giolitti o di Bonghi. Fin qui si è trattato di condizioni sociali dello sviluppo della cultura e i vostri ragionamenti son comprensibili e magari convincenti. Ma quando nelle risoluzioni del Partito bolscevico ci si viene a parlare di arte e di scienza e di filosofia di Partito o di classe, non si tratta più di condizioni sociali dello sviluppo della cultura, si tratta del Vero e del Bello, che coi Partiti, bolscevichi o no che siano, non hanno proprio nulla a che fare. O che pretenderete, dunque, che l'acqua non bolla più a 100°, in Unione sovietica? Oppure che la velocità di propagazione della luce non sia la stessa per i capitalisti e per proletari? Questa poi davvero che è troppo grossa!
Ed eccoci dunque dinnanzi al terzo scandalo — il più grosso, forse -- che la cultura nuova dell'umanità socialista solleva tra i figli del secolo. Ma, per una volta, vogliamo subito rassicurare quelli tra i nostri ascoltatori che, da veri buongustai bolognesi, fossero preoccupati per un eventuale abbassamento del punto di ebollizione dell'acqua che potrebbe seriamente compromettere, nella società socialista, il giusto grado di cottura delle famose tagliatelle. Non sono meno sensibile di loro a tali preoccupazioni legittime, ma posso garantire, per esperienza personale e diretta, compiuta nella casa ospitale del compagno Marabini, a Mosca, che anche in Unione sovietica l'acqua bolle a 100°, purché siano rispettate le note condizioni di pressione atmosferica e di purezza chimica; e consente, in ogni caso, una perfetta cottura della famosa specialità bolognese. Eppure...
Eppure, lasciando da parte le celie, lo scandalo c'è; ed è proprio vero che, in Unione sovietica, il Partito bolscevico ha molto da dire non solo sui problemi dell'industria o dell'agricoltura o della finanza o della scuola, ma anche e proprio in materia di arte e di scienza, di Bello e di Vero con la lettera maiuscola. Eccoci dunque, ancora una volta, a cercar di chiarire il senso e la portata effettiva di questo scandalo, sicché i figli del secolo, di buona o di mala fede che siano, sappiano almeno di che, effettivamente, debbano scandalizzarsi. E giacché più di una volta, e non a caso, in tutto il corso della nostra esposizione, ci è venuto fatto di parlar a di pietre di scandalo e di figli del secolo, con una terminologia tratta dai documenti della rivoluzione culturale del primo Cristianesimo, vogliamo affrontare anche questo terzo scandalo della cultura nuova dell'umanità socialista con la domanda che Pilato, secondo il Quarto Vangelo, pose a Gesù nel Pretorio: quid est veritas?
«Che è la verità?». La domanda è grossa, certo, e può apparire persino presuntuosa; ma pure, non v'è stata, nella storia dell'umanità, rivoluzione culturale che abbia potuto sfuggire alla necessità di riproporsela, in una forma o nell'altra; così come non v'è stata, dai tempi dei primi graffiti rupestri dell'età della pietra, rivoluzione culturale che non abbia dovuto riproporsi, in una forma o nell'altra, il problema del Bello e del Giusto.
Per noi, che siamo dei marxisti, e non dei metafisici creatori di sistemi filosofici, proprio questo storico riproporsi di tali domande in ogni rivoluzione culturale .dell'umanità, addita la via per ricercare a tali domande una risposta adeguata al grado di sviluppo più avanzato oggi raggiunto dalla coscienza dell'umanità stessa. La via è, come sempre, per noi, non quella della considerazione di questi massimi problemi da un punto di vista e con un metodo metafisico, bensì quella della considerazione storica del loro significato. Ed alla luce di una tale considerazione, ci appare fin d'ora che quella veritas, quel Vero, di cui Pilato, in nome del vecchio mondo greco-romano, domandava l'essenza a Gesù, non era certo quello stesso Vero, che il Cristianesimo additava agli uomini del nuovo secolo dal Golgota; così come quel Bello, scarno e tormentato, che si affermava nella primitiva iconografia cristiana, non era quello stesso Bello che ancora rifulgeva nelle opere di Fidia e di Prassitele.
Abbiamo scelto a bella posta, tra gli esempi che avremmo potuto citare, quello di un caso famoso, universalmente noto, e lontano oramai da noi nel tempo; lo abbiamo addotto a mostrare che il carattere di classe, di Partito, del Vero e del Bello non è poi poi una maligna invenzione dei bolscevichi. Già e sin dai tempi di Gesù, la classe degli schiavi, il Partito di Gesù il Nazareno, il Partito dei cristiani, aveva qualcosa da dire non soltanto a proposito del Giusto e del Santo, ma anche a proposito del Vero e del Bello; qualcosa che era profondamente diverso e nuovo rispetto a quanto del Vero e del Bello diceva Pilato, la classe dei Romani dominatori e proprietari di schiavi, il Partito romano dominante. E anche allora questo nuovo .Vero e questo nuovo Bello, fiammeggianti sugli Apostoli, suscitarono lo scandalo non solo fra le classi dominanti e fra gli uomini della vecchia cultura, ma fra le turbe stesse degli umiliati e degli offesi ai quali si annunciava la Buona Novella: perché anche allora la cultura dominante era la cultura della classe dominante.
All'epoca del cristianesimo primitivo, così — ed in ogni epoca, da che esiste una società di classi — la coscienza sociale del Vero e del Bello (come quella, d'altronde, del Giusto e del Buono) non ci appare come una coscienza unitaria e uniforme; essa ci rivela ed esprime, necessariamente, l'intima dilacerazione di un'umanità, divisa in classi contrastanti, in oppressi ed in oppressori, in sfruttatori e sfruttati. In ogni epoca storica, certo, la cultura dominante è quella della classe dominante che riesce ad imprimere il suo suggello anche sulla concezione che del Giusto, del Buono, del Vero, del Bello si fanno le masse degli oppressi e degli sfruttati. Ma abbiamo già detto come questa egemonia, questa direzione culturale di una classe oppressiva e sfruttatrice sul complesso della società, possa essere assicurata solo da una relativa passività culturale delle masse: sicché inevitabilmente passivo e superficiale resta il suggello stesso che su di esse imprime la cultura dominante. Questa frammentarietà e contraddittorietà, questa intima dilacerazione della società di classi e della sua cultura, si rivela perciò necessariamente nei momenti di crisi storica e culturale, quando una nuova classe, una nuova cultura, si affaccia prepotente alla ribalta della Storia. Salta allora il superficiale suggello di uniformità e di conformismo, che la cultura dominante aveva impresso sull'insieme della società; e la cultura — il Vero, il Bello, il Buono, il Giusto — appare per quel ch'essa effettivamente è: come una cultura — un Vero, un Bello, un Buono, un Giusto — di classe, di Partito. Allora milioni di uomini, che finora avevano passivamente fatto propri i giudizi ed i luoghi comuni della vecchia classe dominante a proposito del Diritto, della Morale, della Scienza, dell'Arte, non convengono più in questo giudizio, non accettano più questi luoghi comuni: il Vero, il. Bello, il Buono, il Giusto divengono apertamente, agli occhi di tutti, una questione di classe, una questione di Partito.
Non è dunque qui, nella sua caratteristica di classe e di Partito, che va ricercata la terza pietra di scandalo della cultura dell'umanità socialista; non è di questa caratteristica, che i figli del secolo hanno ragione di scandalizzarsi: giacché, da quando esiste una società di classi — dai tempi di Pitagora a quelli di Socrate a quelli di Gesù e di San Tommaso e di Lutero e di Galileo e di Diderot fino ai giorni nostri — ogni cultura è stata una cultura di classe; e sempre, da allora, nei momenti di crisi storica, il Vero ed il Bello, non meno del Buono e del Giusto, si son rivelati, agli occhi di tutti, come una questione di classe, come una questione di Partito, che non unisce gli uomini in un giudizio comune, ma anzi li divide e li contrappone.
Non è dunque qui, nella sua caratteristica di classe e di Partito, la effettiva novità e ragione di scandalo della nuova cultura socialista, bensì nel fatto, semmai, che questa sua caratteristica — a differenza di quel che ogni altra precedente cultura non abbia fatto — la cultura dell'umanità socialista apertamente la proclama e la sottolinea.
Rivedete la scena grandiosa di Gesù e di Pilato nel Pretorio che il Vangelo di San Giovanni tratteggia come in un grande affresco. Nel Pretorio, in una decisiva crisi storica, nella persona del romano Procuratore di Giudea e in quella del fabbro di Nazareth, due classi, due civiltà, due culture si affrontano. Tanto è chiaro e spiccato, in quest'ora, il carattere di classe, di Partito, di ciascuna di queste due culture, che il rapido dialogo fra Gesù e Pilato si esaurisce in un susseguirsi di domande che restano senza una risposta che sia per l'altro intelleggibile. Le due culture già parlano due linguaggi che risultano intraducibili l'uno nell'altro; hanno ciascuna la sua verità che gli altri non possono intendere. Lo dice Gesù stesso, in quel suo dialogo, che sembra un monologo di chi parli a chi ha orecchie, e non ode: Qui est ex veritate, audit vocem meam — «chi è dalla verità», solo chi è dalla verità, «ode la mia voce».
Il dialogo si conclude con la domanda di Pilato: Quid est veritas? Nel procuratore di Giudea, disincantato rappresentante delle vecchie classi dominanti e della vecchia cultura, già travagliata da una crisi profonda, si oscura già quella fiducia incrollabile nella propria verità, che è caratteristica delle classi che ascendono alla ribalta della Storia. Questa sua incertezza si esprime nell'intonazione quasi scettica della sua domanda: ma vi è ancora abbastanza certezza, in lui, nella sua verità, nella ferrea verità delle classi dominanti romane, per mandare impassibile al supplizio il Nazareno. E in Gesù, ben più ancora che in Pilato, appare la certezza che la sua verità, la verità di classe degli umiliati ed offesi, la verità del Partito dei cristiani, sia la Verità senza aggettivi: «Io per ciò sono nato, e proprio a ciò son venuto al mondo, per render testimonianza alla Verità».
Così, di volta in volta, le classi che si sono avvicendate al proscenio della Storia hanno affermato — di contro alle vecchie classi dominanti come di contro alle nuovissime che dal basso urgevano — il valore assoluto della loro cultura, delle loro concezioni del Giusto, del Buono, del Bello, del Vero. Cosi la borghesia, di contro al vecchio mondo della feudalità e dell'assolutismo, ha affermato le sue ragioni — la sua ragione – come la Ragione; le sue libertà — la sua libertà — come la Libertà; la sua scienza economica o la sua scienza della Natura, come la Scienza. Essa ha dichiarato nulle le ragioni delle vecchie classi dominanti schiavistiche e feudali ed ha loro contrapposto la Ragione; ha annientato per i proprietari di schiavi e per i signori feudali la libertà di possedere schiavi o servi della gleba, la libertà di amministrare la giustizia o di non pagare le imposte o di far bastonare dai servi i non nobili, e a queste libertà ha contrapposto la Libertà: la libertà per la borghesia di sfruttare gli operai salariati e la libertà per gli operai disoccupati di morire di fame. La cultura nuova della borghesia ha negato il valore scientifico di una secolare teoria economica, che condannava l'usura ed il prestito a interesse del denaro; ha considerato come puerili vaneggiamenti quelli della scienza di Aristotele o della scolastica medievale. Quando miche, dopo la Rivoluzione francese, e poi sempre più, man mano che la pressione più urgente delle nuove classi proletarie attenuava il suo slancio rivoluzionario; quando anche, dicevamo, la cultura borghese ha cominciato a guardare con nostalgia al passato, ed a considerarne le ragioni, le libertà, la scienza, l'arte, la filosofia in maniera non più astrattamente razionalistica, ma storica; anche allora, il vantato « storicismo » della cultura borghese è restato sempre solo rivolto al passato, alla giustificazione e magari alla riesumazione dei valori di antiche culture e di antichi diritti. Di contro all'avvenire, di contro ai valori culturali della nuova classe che batte alle porte, lo storicismo della cultura borghese è cieco e sordo, si sforza invano di ignorarli, di soffocarli, nel folle tentativo di fermare la Storia, di fermare la Scienza, di fermare la Libertà, di fissare per l'eternità il Diritto nelle immobili forme in cui essa lo ha conquistato. E non ammoniva già forse Mefistofele, nel Faust goethiano:

Es erben sich Gesetz' und Rechte Wie eine ew'ge Krankheit fort; Sie schleppen von Geschlecht sich zum Geschlechte Und riicken sacht von Ort zu Ort.
Vernunft wird Unsinri, Wohltat Plage; Weh dir, dass du ein Enkel bist! Vom Rechte, das mit uns geboren ist, Von dem ist, leider! nie die Frage (*).
(*) Goethe: Faust, I Th.


(Si ereditano man mano leggi e diritti — come un'eterna malattia — si trascinano di generazione in generazione — e di luogo in luogo. — La ragione diviene non-senso, il beneficio divien malanno. — Guai a te, che sei un nipote! — Del diritto, che è nato con noi — di quello, ahimé!, non è mai questione!).
Non è a caso che del diritto — della morale, della scienza, dell'arte nuova — che son nati con noi, dalla lotta della classe operaia, non sia mai questione nella cultura borghese. Non è senza motivo che la borghesia — come ognuna delle classi dominanti che sinora si sono avvicendate nella Storia — si sforza di nascondere a tutti i costi il carattere di classe e storicamente limitato della sua cultura, delle sue concezioni del Giusto, del Buono, del Vero, del Bello. Non è senza ragione che la borghesia si sforza di presentare la sua cultura come la Cultura, la sua morale, il suo diritto, la sua scienza, la sua arte come la Morale, il Diritto, la Scienza, l'Arte, negando addirittura alla cultura nuova della classe operaia e dell'umanità socialista, nonché un'universale validità, il carattere' e la dignità stessa di cultura. Tutto ciò non avviene a caso e non è senza una profonda ragione storica. Ciascuna delle classi dominanti oppressive e sfruttatrici, che si sono avvicendate nella Storia, ha potuto consolidare il suo predominio politico nella data società solo nella misura in cui è riuscita e riesce ad affermare la sua egemonia, la sua 'direzione culturale sul complesso della società stessa; e ciò è possibile solo nella misura in cui la classe dominante riesce a presentarsi, di fronte alle masse oppresse e sfruttate stesse, come portatrice ed interprete degli interessi generali. Ma in una società di classi, profondamente dilacerata dai suoi interni contrasti, gli interessi di una classe dominante oppressiva e sfruttatrice — anche quando essa, per avventura, sia ancora una classe rivoluzionaria e progressiva, effettivamente portatrice del progresso storico della società — sono necessariamente in contrasto con gli interessi attuali della grande maggioranza del popolo; e la cultura della classe dominante — il diritto, la morale, la scienza, l'arte — che del suo dominio esprimono le condizioni storiche, non potrebbero esprimere appieno e senza contraddizioni i sentimenti, le aspirazioni, le esigenze di vita della maggioranza degli oppressi e degli sfruttati. Perché la cultura della classe dominante possa affermarsi come cultura dominante in quella data società, è pertanto necessario — l'abbiam già detto — che le masse siano confinate in una relativa passività culturale; è necessario ch'esse siano indotte o costrette a rinunziare ad una propria, autonoma elaborazione culturale, per accogliere ed accettare, invece, come un dato che non si discute, la cultura della classe dominante — il suo diritto, la sua morale, la sua scienza, la sua arte — che deve a tal uopo, appunto, presentarsi non già come una cultura di classe, socialmente frammentaria e storicamente limitata, bensì come la Cultura, il Diritto, la Morale, la Scienza, l'Arte: valori eterni, che sempre son stati e sempre saranno; o che, comunque, dopo gli infantili vaneggiamenti del passato, la classe dominante ha per sempre fissato nella loro immutabile sostanza.
Profondamente diverse, anzi diametralmente opposte, sono le condizioni obiettive nelle quali la classe operaia — prima e dopo la conquista del potere politico — conduce la lotta per l'affermazione della sua cultura. Per le vecchie classi dominanti oppressive e sfruttatrici, che si sono avvicendate nella Storia, condizione dell'affermazione e del consolidamento della loro egemonia culturale era ed è quella di mantenere accuratamente celato di fronte alle masse, e persino di fronte a se stesse, il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, della loro cultura. Tra le masse degli oppressi e degli sfruttati, in effetti, la dichiarazione aperta del carattere di classe della cultura dominante avrebbe come inevitabile conseguenza lo scoppio di una vera e propria rivolta culturale, una loro immediata attivazione sul terreno di una autonoma elaborazione culturale che entrerebbe necessariamente in aperto contrasto con quella delle classi sfruttatrici. Ma di fronte alle classi sfruttatrici ed oppressive stesse, un'aperta dichiarazione del carattere di classe della loro cultura rappresenterebbe un pericolo mortale: essa rivelerebbe loro il carattere socialmente frammentario e storicamente limitato della loro cultura, mostrerebbe loro che il loro dominio, se ha un passato di storica ascesa e un presente magari ancor saldo, non ha un avvenire se non di decadenza e di disfacimento.
Per la classe operaia, per contro, la constatazione e l'aperta dichiarazione del carattere di classe di ogni cultura in una società di classi costituisce una vitale necessità di lotta, fin dal momento in cui essa si vien costituendo come classe, e si pone il problema della conquista del potere. All'apparire sulla scena politica della classe operaia, per la prima volta nella Storia, la classe che storicamente si pone il problema della conquista del potere non è più una classe che — se pur magari impedita e taglieggiata, come avveniva per la borghesia nel regime feudale — è essa stessa oppressiva e sfruttatrice. La classe operaia è anzi, nella società contemporanea, la classe più oppressa e più sfruttata, la sola che in alcun modo non partecipi allo sfruttamento e all'oppressione di altre classi. Essa non ha nulla da temere dall'ascesa politica e culturale delle altre classi o nazionalità oppresse e sfruttate; anzi sa che non può liberar se stessa senza liberare tutti gli altri oppressi e sfruttati, senza liberar tutta la società da ogni forma di oppressione politica, nazionale, sociale, religiosa, culturale, -senza costruire una società senza classi, ove sia abolito ogni sfruttamento ed ogni oppressione dell'uomo sull'uomo. Per questo, a se stessa — per conquistare la propria coscienza socialista — la classe operaia ha bisogno di dichiarare apertamente il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, di ogni cultura nella società di classi. Ne ha bisogno per acquistar la fiducia e la certezza scientifica nella possibilità storica di battere la forza poderosa di « quel che è, quel che è sempre stato », il monopolio della cultura da parte delle classi dominanti oppressive e sfruttatrici. Ne ha bisogno per arrivare a liberar se stessa dal soffocante suggello della cultura — del diritto, della morale, della scienza, dell'arte — borghese, che tende a mortificarne lo slancio rivoluzionario; ne ha bisogno, ha bisogno di proclamarlo apertamente di fronte a tutti gli oppressi, a tutti gli sfruttati, per liberar le loro inesauribili energie rivoluzionarie nella lotta comune.
A differenza di quel che avveniva per le vecchie classi dominanti oppressive e sfruttatrici, anche dopo la conquista del potere politico, la classe operaia non ha ragione di temere di proclamare apertamente il carattere di classe, di Partito, di ogni cultura nella società di classi. Al contrario: più che mai, dopo la conquista del potere, nella lotta per la costruzione socialista, nella lotta per il passaggio alla fase superiore della costruzione di una società comunista, quando si tratta di liquidare i residui ideologici della società di classi nella coscienza di milioni di uomini, la classe operaia ha ragione e bisogno di proclamare questo carattere di classe, di Partito, della cultura in ogni società di classi. Tutte le classi oppressive e sfruttatrici che sinora si erano avvicendate nella Storia si erano sempre proposte come obiettivo quello della sostituzione di un sistema di oppressione e di sfruttamento con un altro sistema di oppressione e di sfruttamento; di una società di classi con un'altra società di classi. Esse avevano ed hanno, perciò, buone ragioni per voler nascondere a se stesse e alle masse il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, del loro dominio e della loro cultura. Il solo obiettivo storico che la classe operaia, per contro, può porsi sulla, via della propria emancipazione, sulla via dell'affermazione, della propria egemonia, è quello della costruzione di una società senza classi. Il suo obiettivo di classe non può esser che quello dell'abolizione del proprio dominio di classe e di ogni classe in generale, della costruzione di una umanità liberamente associata e non più intimamente dilacerata. Per questo, la classe operaia non ha nessuna ragione di nascondere a se stessa e a tutto il popolo il carattere temporaneo, storicamente limitato, del suo dominio di classe; il carattere ancora frammentario, di classe, storicamente limitato, della sua cultura, del suo diritto, della sua morale, della sua scienza, della sua arte. Al contrario: la classe operaia sa e dichiara apertamente che, anche dopo la conquista del potere, anche dopo la costruzione del socialismo in un solo paese, la sua cultura — il suo diritto, la sua morale, la sua scienza, la sua arte — non può essere ancora una cultura universalmente umana, perché l'umanità è ancora, su scala mondiale, obiettivamente dilacerata in classi; perché, all'interno della società socialista stessa, se pure già più non esistono classi antagonistiche, i residui ideologici, culturali della società di classi debbono essere liquidati nella coscienza degli uomini. E proprio per questo non solo nei paesi capitalistici, ma nel paese stesso del socialismo, la classe operaia ed il suo Partito particolarmente insistono sul carattere di classe di ogni cultura: perché solo dalla chiara coscienza della persistente frammentarietà ed intima dilacerazione della cultura sorgono le forze necessarie al compimento della costruzione di una cultura umana, universalmente valida: capace, certo, di un infinito approfondimento, perché inesauribile ed infinitamente conoscibile è la realtà di cui l'umanità associata prende coscienza, ma non più frammentaria e dilacerata dalla obiettiva dilacerazione della società in classi
Ancora una volta, così, anche il terzo scandalo che la cultura nuova dell'umanità socialista solleva tra i figli del secolo, ci si rivela ben più grave e più profondo di quel che esso non possa apparire a prima vista. Non si tratta semplicemente del fatto che le risoluzioni del Partito bolscevico proclamano apertamente quel che le classi dominanti oppressive e sfruttatrici accuratamente si sforzano di nascondere, cioè il carattere di classe di ogni cultura, in una società di classi. Si tratta di qualcosa di ancora ben più nuovo e più profondo: si tratta del fatto che, proprio proclamando apertamente il carattere di classe, di Partito, di ogni cultura nella società di classi, per la prima volta nella Storia, i popoli del paese del socialismo, sotto la guida del Partito bolscevico, concretamente si pongono il compito della costruzione di una cultura che — da una società non più dilacerata in classi — sorga non più come frammentaria cultura di classe, ma come cultura umana, universalmente valida.
Avevamo dunque ragione, ancora una volta, quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica. Ma qui, a dire il vero, non si tratta più soltanto di una rivoluzione culturale, nel senso corrente della parola; si tratta di una vera e propria rivoluzione gnoseologica senza precedenti nella Storia dell'umanità. Si tratta del fatto che, con la costruzione di una società senza classi, delle possibilità non solo quantitativamente, ma qualitativamente nuove, si aprono dinnanzi alla capacità dell'umanità associata di prender coscienza del mondo. Questo significa, in altri termini, che per l'umanità tutta la costruzione di una società socialista già rappresenta non solo una conquista politica, economica, sociale, culturale di immensa portata storica, ma anche una poderosa conquista gnoseologica.
E le considerazioni che qui appresso verremo svolgendo varranno, ci auguriamo, a dare un'idea più precisa dei passi che già, su questa via, si van compiendo in Unione sovietica.


La costruzione del socialismo come conquista gnoseologica.

Abbiamo parlato della costruzione di una società socialista come di una conquista non solo economica, sociale, politica, culturale, ma gnoseologica dell'umanità; cerchiamo di approfondire e di chiarire ora il senso di questa affermazione.
Costruire una società socialista significa creare una nuova civiltà, dei nuovi rapporti tra gli uomini, e per ciò stesso una cultura nuova. Ogni cultura è la forma nella quale una data società prende coscienza di se stessa e del mondo: una coscienza, beninteso, che non significa passiva registrazione, ma è sempre e necessariamente pratica sociale, attivo intervento nella realtà di cui si prende coscienza. Per questo, della cultura, della coscienza sociale di una società data, non saprebbero esser considerate parte integrante solo la filosofia, la scienza, l'arte, ma a pari diritto la tecnica, la morale, il diritto, la politica. Un esame più attento ci mostra, anzi, che una cultura, nel senso proprio della parola, non nasce e non può nascere se non là dove, di fronte al momento della passiva registrazione, questo momento dell'attività, della pratica umana prende tutto il suo necessario rilievo.
Per la società presa nel suo complesso, in effetti, come per ciascuno di noi individualmente preso, cultura, coscienza, non sono qualcosa di immediato, di istantaneo. Per ciascuno di noi, come per la società presa nel suo complesso, coscienza, cultura, significano tutto un processo storico, nel quale quelli che si vengono elaborando non sono solo i dati immediati della nostra esperienza, ma materiali accumulati e trasmessi dalle precedenti generazioni. Da questi materiali, d'altronde, la nostra più immediata esperienza stessa è ad ogni istante condizionata. Il paesaggio, così, di cui l'uomo di Milano o di Londra, o anche quello della Lucania o della Valle del Tennessee, fa l'esperienza fin dalla sua, nascita, non è una tabula rasa, ma un paesaggio umano, nel quale è già profondamente iscritta l'opera, a pratica delle passate generazioni; e così pure la lingua che egli apprende sin da bambino, la foggia del vestire che gli si impone, i luoghi comuni sociali, morali, scientifici, religiosi, politici che lo dominano, i libri ch'egli legge, son qualcosa che gli si presenta come un dato, come una immane congerie di dati storici che sono un prodotto non suo, ma di una serie innumere di generazioni passate.
Per ciascuno di noi, come per la società presa nel suo complesso, una coscienza, una cultura nuova, nel senso proprio della parola, nasce solo là dove, di fronte a questi dati, a questi materiali che la storia offre ed impone alla nostra esperienza, noi assumiamo un atteggiamento non più semplicemente contemplativo e ricettivo, ma pratico ed attivo. Quel mondo dato, in effetti, che si presenta alla nostra più immediata esperienza, è sempre, intorno a noi, ed in noi stessi, un mondo incoerente ed incongruo, nel quale stratificazioni recenti e remote, antiche e nuove sedimentazioni culturali — come in certe bizzarre formazioni geologiche — arbitrariamente e casualmente, sembra, s'intrecciano. Guardatevi attorno qui, a Bologna: accanto ai resti dell'antico abitato dell'epoca villanoviana ed etrusca e poi di quella dell'invasione gallica, ritrovate ancora chiese e palazzi sulle cui fondamenta latine si è innestato un edificio medievale; e poi, accanto, la trattoria ottocentesca e il moderno negozio di apparecchi radio, e la sede della Camera del lavoro o della lega dei braccianti, e poi la voce di questo microfono dal quale io vi parlo. E se dal mondo che vi circonda voi rivolgete il vostro sguardo in voi stessi, ritrovate sempre un simile intreccio, un'analoga sovrapposizione e intersecazione di storiche sedimentazioni: e il linguaggio, nel quale formulate i vostri pensieri, su di un fondo latino e finanche prelatino ha accolto e conserva accenti celtici e vocaboli germanici; e le nozioni che vi si affollano alla mente vi vengono dalla famiglia e dalla scuola e dall'officina, e son giudizi e pregiudizi che, senza rendervene conto, avete accolto dalla famiglia e dalla scuola e dall'officina, e sovente — come avviene per le vostre nozioni e previsioni meteorologiche — da antichissime tradizioni dei vostri avi contadini.
Una coscienza, una cultura — nel senso proprio della parola — nasce per ciascuno di noi, e per la società presa nel suo complesso, quando, in questo apparente caos che è il mondo della nostra più immediata esperienza, il mondo che si offre alla nostra contemplazione, noi ritroviamo, attraverso la nostra attività pratica, individuale o associata, un filo conduttore, un ordine, una coerenza, una unità. E conoscere Bologna significherà, per l'archeologo o per il turista, imparare ad orientarsi nell'intrico delle sue vie e delle sue piazze, imparare a trovare un senso nel succedersi e nel sovrapporsi dei suoi monumenti e del loro vario stile.; significherà per il piazzista imparare che importanza la vostra città abbia come centro di traffici, e in che senso egli debba orientare lo smercio di una determinata partita di vini, o magari la sua ricerca della miglior trattoria; e significherà per l'organizzatore sindacale intendere la struttura e le caratteristiche della massa dei lavoratori bolognesi. Saranno vari modi di conoscere Bologna, tutti unilaterali e parziali, certo; e a questi vari modi, legati ad una diversa pratica individuale, corrisponde una diversa cultura; ma a ciascuna di queste parziali e individuali culture, Bologna non si presenta già più come un'informe e incoerente congerie di dati, ma come un'unità, come qualcosa in cui ogni parte ha una sua ragion d'essere, un suo nesso con le altre, un suo sviluppo, una sua storia: sicché non solo l'archeologo non potrebbe intender nulla dei vostri monumenti senza studiare le vicende della vostra città, ma neppure il piazzista o l'organizzatore sindacale conoscerebbe la Bologna dei traffici e del lavoro se non imparasse a considerare usi commerciali stabiliti o tradizionali tendenze delle organizzazioni dei lavoratori. Se poi di nuovo, dalla città e dal mondo che ci circonda, rivolgiamo lo sguardo in noi stessi, nel mondo dei nostri pensieri e delle nostre nozioni, e da questo punto di vista, ora, consideriamo come una coscienza e una cultura, nel senso proprio della parola, si vengano maturando, di nuovo ritroviamo che una cultura, una coscienza scientifica, superiore, nasce solo
così e là, dove nella congerie dei dati, delle nozioni passivamente acquistate, una nostra attività ritrovi e stabilisca una coerenza, inquadrandole in quella che i tedeschi chiamano una Weltanschauung, una più o meno elaborata concezione del mondo. Anche nel mondo delle nostre nozioni, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, in effetti, quel che noi spontaneamente ritroviamo è una congerie incoerente di dati, di stratificazioni e di sedimentazioni della più varia provenienza, che bizzarramente s'intrecciano e s'intersecano, proprio come avviene delle vie e delle piazze e delle successive strutture edilizie in un'antica città: del cui intrico nessuno, a prima vista, potrebbe darsi una ragione, senza considerarne, appunto, la storia. E così pure dell'incoerenza di quella congerie di dati e di nozioni tradizionali, che noi spontaneamente ritroviamo in noi, possiamo darci ragione e superarla, conquistandoci una cultura, una più o meno elaborata concezione del mondo, solo quando, di quei singoli dati incoerenti, storicamente consideriamo e critichiamo l'origine e la validità. Non vi è cultura, non vi è scienza, in particolare, là dove una nozione, le nozioni che abbiamo in noi, restino semplici dati, tradizionalmente e passivamente acquisiti, senza essere inquadrati in una coerente — se pur elementare, magari — concezione del mondo.
Soffermiamoci a considerare, proprio, come, in un caso concreto, si effettui questo passaggio dall'accettazione passiva di dati tradizionali — folcloristici, come efficacemente scriveva Gramsci — ad una conoscenza scientifica di fatti della nostra più corrente esperienza.
Ciascuno di noi ha appreso, a scuola, alcune nozioni scientifiche elementari sull'avvicendarsi delle stagioni, su equinozi e solstizi, e altre interessanti cose del genere. Può darsi che parecchi tra noi, con un certo sforzo di memoria, sappiano anche ripetere queste nozioni elementari di astronomia. Ma la maniera in cui queste materie si studiano nelle nostre scuole ha fatto sì che queste nozioni siano state da quasi tutti noi passivamente accettate ed accolte, come qualcosa, appunto, di dato, di tradizionale, senza una nostra attiva partecipazione.
Ecco dunque in noi un dato, accolto da una determinata tradizione, che è, diciamo così, la nostra tradizione scolastica:
nella quale, malgrado le manchevolezze delle nostre scuole, abbiamo generalmente una fiducia abbastanza sicura, almeno per quanto riguarda l'insegnamento scientifico. Ma accanto a queste nozioni elementari di astronomia, che ritroviamo in noi come dato della nostra tradizione scolastica, ne ritroviamo delle altre, di tutt'altra origine. Se, ad esempio, alla maggioranza dei presenti, si domandasse «qual è la giornata più corta dell'anno?», la risposta sarebbe data, probabilmente, con un detto passato in proverbio, che non so come suoni in bolognese, ma che è corrente in tutta Italia, e che io stesso ho imparato da mia nonna nella sua forma toscana: «Santa Lucia, il più corto dì che sia».
Orbene: questi dati di due tradizioni diverse, una scolastica, l'altra popolaresca e contadina, si ritrovano l'uno accanto all'altro, e, probabilmente, pacificamente convivono in quasi tutti noi. Eppure, questi due dati sono contraddittori tra loro. Il giorno di Santa Lucia cade oggi, infatti, se non erro, il 13 dicembre, mentre le nostre nozioni di astronomia, apprese a scuola, c'insegnano che il giorno più corto dell'anno è attorno ai solstizio d'inverno, il 20 dicembre.
L'esperienza, evidentemente, potrebbe abbastanza facilmente risolvere la contraddizione a vantaggio della nostra tradizione scolastica, che in questo caso è la giusta, la scientifica, rispetto a quella popolaresca. Ma anche una semplice considerazione storica della questione ci dà qui il modo di darci ragione di questi due dati contraddittori, che ritroviamo nella nostra tradizione. È certo, infatti, che il proverbio citato ha origini assai antiche, in un'epoca anteriore alla riforma gregoriana del calendario che fu attuata nel 1582. Nel calendario giuliano, vigente a quell'epoca, la data dei solstizi e degli equinozi non risultava fissa, come invece appunto avviene dopo la riforma gregoriana. Questo spiega, pertanto, come per un certo numero di anni il giorno più corto dell'anno potesse effettivamente cadere attorno alla data in cui si festeggiava Santa Lucia, e come sia Potuta nascere una tradizione che si è poi perpetuata sino a noi: e che — con quella fissità che è caratteristica delle tradizioni popolari — ha seguitato e seguita a trovar credito anche dopo che, con la riforma del calendario, essa non corrisponde più alla realtà dei fatti.
In un caso cosi semplice ed elementare, come si vede, un semplice confronto tra due dati della nostra tradizione culturale passiva ci ha permesso, in primo luogo, di rilevarne la contraddittorietà, sulla quale probabilmente non avevano mai. fermato la loro attenzione nemmeno molti tra noi, che sanno cosa sia un solstizio e che, pur sovente, avranno citato il proverbio; in secondo luogo, il confronto ci induce a confermarci nell'idea che doveva essere il nostro maestro di scienze ad aver ragione, perché quel che egli ci ha insegnato sulla «giornata più corta» s'inserisce coerentemente in tutto un sistema di nozioni astronomiche, mentre l'insegnamento del proverbio popolare resta isolato e non coerente con altre nostre nozioni; in terzo luogo, una considerazione storica viene non solo a confermarci la coerenza della nozione appresa a scuola, ma a darci ragione dell'altro dato tradizionale, di cui essa ci spiega l'origine, inquadrandolo in un più vasto sistema di conoscenze.
A prescindere dalla possibilità di una verifica sperimentale, che sarebbe facile in questo caso, noi vediamo, così, che il passaggio da una passiva e incoerente e contraddittoria «cultura» tradizionale alla scienza avviene attraverso un confronto dei dati e delle nozioni che ritroviamo in noi stessi, una loro critica, che ha sempre, un carattere storico. Degli esperimenti e delle osservazioni stesse, del resto, sulle quali le nostre nozioni d'astronomia sono fondate, noi siamo edotti attraverso un processo storico, appunto, né potremmo pretendere di ripeterle tutte personalmente. Ma quel che particolarmente qui c'importa ancora di sottolineare è il fatto che una coscienza scientifica del reale si distingue da una coscienza semplicemente folcloristica, tradizionale, non solo per la sua interna coerenza — cui fa contrasto l'incoerenza e la contraddittorietà delle nozioni passivamente accolte — ma per la sua universale validità.
Quel che noi pretendiamo da una nozione, per considerarla come una nozione scientifica, infatti, non è solo che essa sia inquadrata in un sistema coerente di nozioni, ma è anche che essa sia universalmente valida. Di un'esperienza, così, noi diremo che è un'esperienza scientifica solo se è un'esperienza
ripetibile: se cioè, date quelle determinate condizioni, essa confermi i suoi risultati, quale che sia lo sperimentatore. E quando, allo scienziato ed alla scienza, noi richiediamo una conoscenza obiettiva del mondo, noi chiediamo, appunto, una coerente sistemazione di 'un'esperienza che non sia quella del visionario o neppur solo di quella sua o nostra individuale, ma quella di tutta l'umanità associata, nel suo concreto processo storico: di un'esperienza, pertanto, universalmente valida.
E qui ci riavviciniamo — dopo questa lunga digressione, che era pur necessaria per chiarire il nostro assunto — all'oggetto più specifico della nostra conversazione. Quanto or ora abbiam detto ci mostra, in realtà, che il processo della conoscenza, della coscienza, della cultura, anche quando si parta, nella considerazione di esso, dalla nostra esperienza individuale, è sempre un processo sociale e storico. Dell'obiettività, della realtà stessa del mondo che ci circonda, noi possiamo aver la certezza solo e proprio nei nostri rapporti e nel nostro discorso con gli altri uomini, nella società umana: sicché giustamente è stato detto che solo un impossibile uomo — nato e cresciuto fuori di ogni società umana — potrebbe a buon diritto (come a torto fanno i filosofi idealisti) immaginarsi che terra e mare e cielo siano realtà solo del suo e nel suo pensiero. Ma questo significa che il processo attraverso il quale una società, presa nel suo complesso, conquista una sua coscienza scientifica del reale, una sua cultura, è sostanzialmente analogo — se pur naturalmente ancor più vario e complesso a quello che sinora siam venuti disaminando. E di una società data, come di un dato individuo, diremo che essa ha conquistato una cultura, e in particolare una coscienza scientifica del reale, tanto più elevata, quanto più questa sua coscienza avrà superato l'incoerenza di dati puramente folcloristici e tradizionali, e avrà saputo elaborare una concezione del mondo coerente e storicamente critica, e perciò stesso più universalmente valida.
Non a caso, dunque, i nomi nei quali si suol riassumere la cultura di una data società, i nomi che segnano le tappe decisive nello sviluppo della cultura, della filosofia, della scienza, sono i nomi di coloro che, in una data epoca, con maggior vigore hanno saputo sottoporre ad una critica rinnovatrice quelle che erano divenute incoerenti e passive tradizioni di pensiero e di costume delle epoche precedenti; o di coloro che, di una data epoca, più coerentemente hanno saputo esprimere la coscienza maturata. Così nel nome di Socrate o di San Paolo o di Averroès o di Galileo o di Mendeleev o di Einstein o di Marx, segnaliamo il momento di storiche rivoluzioni scientifiche o culturali; e nel nome di Aristotele o di Linneo o di Maxwell, la più completa e coerente elaborazione della coscienza scientifica e culturale di una data epoca.


Limitatezza gnoseologia della società di classi.

Se vogliamo caratterizzare, così, quel dato periodo della cultura italiana, che va dagli ultimi anni del secolo XIX sino alla prima guerra mondiale, si suole ricorrere, sovente, e non senza ragione, al nome di Benedetto Croce. E certo non si può negare che, nella cultura delle classi dominanti italiane, Benedetto Croce non sia riuscito ad indurre una certa intima coerenza. Ancora negli ultimi decenni del secolo scorso, come è noto, la cultura delle classi dominanti italiane appariva pro fondamente divisa fra le più antiche correnti tradizionali, rinfocolate dalla proclamazione del Sillabo, e le nuove tendenze di pensiero a carattere positivistico che la borghesia era venuta elaborando nel corso del Risorgimento e nei primi decenni successivi all'Unità; senza contare altre minori tendenze e suddivisioni, sulle quali non è ora necessario soffermarci.
vecchia cultura delle classi dominanti italiane, che più di due secoli prima aveva trovato la sua sistemazione nelle tesi e nei decreti del Concilio tridentino, seguitava, sì, a dar prova di un suo tradizionale vigore, radicata co n L'era, ormai, sin nei pregiudizi popolari; ma era divenuta, appunto, pregiudizio; non si mostrava più atta a contenere e ad esprimere le esigenze di vita e di dominio e di relativo progresso delle nuove classi dominanti borghesi che si venivano mescolando e innestando sulle antiche e che erano venute elaborando, nel corso del Risorgimento, un'ideologia cd una cultura laica più adeguate alla loro natura ed ai loro storici obiettivi. Di qui, all'interno delle classi dominanti stesse, un contrasto ed una di-
lacerazione, che non era solo politica, ma anche ideologica e culturale; di qui la necessità, per le classi dominanti del nuovo Regno unito, di superare e di sanare questa dilacerazione, tanto più pericolosa nella misura in cui dal, basso le nuove classi proletarie urgevano con la minaccia delle loro lotte sociali, della loro politica, della loro cultura.
Benedetto Croce ha egregiamente assolto, non v'è dubbio, il difficile compito di rimarginare, per le classi dominanti italiane, questa dilacerazione culturale, costruendo una elaborata concezione del mondo nella quale gli elementi tradizionali di una concezione religiosa venivano riassorbiti e conciliati con quali della tradizione idealistica e positivistica più recente, non scevra di forme e di contenuti scientifici. La caratteristica
del sistema, della Weltanschauung crociana, è data anzi dal fatto che essa cerca di tener conto, nonché delle tradizioni delle classi dominanti italiane, persino della esperienza più recente
del movimento operaio internazionale: che — come sul piano politico avviene col riformismo — si cerca di riassorbire e di subordinare alla cultura delle classi dominanti.
Non si può dire, l'abbiamo già avvertito, che lo sforzo di Benedetto Croce e della sua scuola non abbia sortito un effetto importante, con la elaborazione di una concezione del fondo che ha avuto, per la cultura delle classi dominanti italiane, mia notevole efficacia unificatrice e che non manca di ima sua certa intima coerenza. Questo spiega la grande autorità di cui durante lunghi anni — e persino durante il fascismo — Benedetto Croce ha goduto fra i più larghi strati della borghesia e della piccola borghesia intellettuale italiana. Ma proprio questa efficacia dell'opera di Benedetto Croce ne sottolinea più chiaramente i limiti. Quella concezione del inondo, così sapientemente elaborata; quella Weltanschauung, nella quale così opportunamente, ai fini del consolidamento del dominio della borghesia imperialista ormai conciliata con le vecchie caste feudali, si conciliavano il diavolo e l'acqua santa — che divengono naturalmente, nel sistema crociano, non più contrari, ma solo distinti — quella concezione del mondo, dicevamo, pur così conciliantemente elaborata, restava una concezione di classe, elaborata dal punto di vista di una determinata classe (o di un determinato aggruppamento di classi); non poteva e non può esprimere coerentemente una realtà che è in se stessa, obiettivamente dilacerata e frammentaria. Il sistema di Croce ha pertanto scientificamente fatto fallimento là dove non poteva non far fallimento; là dove esso cercava di riassorbire la nuova cultura, la nuova ideologia della classe operaia, proclamandone la storica caducità, affermando che il marxismo era morto (così come Giolitti aveva creduto che il Capitale potesse relegarsi ormai in soffitta). Non poteva non fallire, su questo punto, il sistema, la Weltanschauung di Croce, perché la sua coscienza e la sua scienza, per quanto intimamente coerenti potessero essere, restavano una coscienza, una scienza di classe, parziali, frammentarie, incapaci d'intendere e di esprimere proprio la contraddizione ed il momento essenziale, decisivo, della realtà contemporanea: il momento della lotta, dell'ideologia, della cultura nuova della classe operaia. E col fascismo e poi con De Gasperi, persino quella temporanea conciliazione che il sistema di Croce aveva raggiunto tra le tradizionali ideologie delle varie frazioni delle classi dominanti, si è rivelata inadeguata per le classi dominanti stesse, sicché queste son ricorse di volta in volta ad altri sistemi: se condo esigenze che non erano astrattamente logiche o filosofiche, ma secondo il mutevole configurarsi dei rapporti di forze e della varia loro disposizione nella società italiana ed internazionale.
La pratica, così, la dialettica della Storia, si è incaricata di dimostrare la storica limitatezza, e parzialità di classe della concezione del mondo crociana; e ciò non solo per noi, per la classe che è la portatrice della nuova cultura, ma persino per quelle classi dominanti, dal cui seno la cultura crociana era stata espressa: sicché quelle stesse classi — malgrado la solenne sentenza di Croce, indubbiamente coerente con la sua concezione del mondo — han dovuto più che mai continuare a preoccuparsi non solo politicamente, ma ideologicamente, di quel marxismo che, in fede di Croce, esse avevano creduto morto e sepolto; e a tal uopo, anzi, proprio dopo la famosa sentenza, han dovuto promuovere e organizzare fascismi e patti antikomintern, crociate ideologiche e piani Marshall, encicliche e «micròfoni di Dio».
Oggi come ieri, d'altronde, la storica limitatezza e parzialità di classe della cultura, della concezione del mondo delle classi dominanti, impedisce loro di cogliere nella sua dialettica unità il processo del reale, vieta loro di intenderne un momento così decisivo, qual è quello della negazione, che è proprio il momento dell'attività, della produttività umana. La parzialità di classe, insomma, della coscienza, della cultura, della concezione del mondo, della scienza delle classi dominanti, costituisce un limite obiettivo alla sua obiettività, alla sua universale validità. E questo vale, si badi bene, non solo in un senso, diciamo così, statistico, che non sarebbe di per sé probante. Non si tratta del fatto che le concezioni del mondo del Papa o di Croce, o magari quella di Einstein o di Planck, per quanto intimamente coerenti esse possano essere, non potrebbero essere universalmente valide, perché i braccianti pugliesi non sanno di latino, o perché gli operai di Torino non sanno di calcolo tensoriale. Non si tratta di questo: ché anzi, finché i braccianti non san di latino e sinché gli operai non si occupano di fisica, essi possono pure essere indotti a subire il suggello, sia pure passivo, della cultura delle classi dominanti; e resta pur valida per essi, a modo loro, la religione del Papa o la scienza ,di Einstein e di Planck. Il senso della nostra affermazione, invece, è ben più profondo e radicale di quel che non possa essere una constatazione statistica della diffusione o meno di una data concezione; si tratta del fatto che non può esservi concezione del mondo universalmente valida là dove non esiste una universale e comune umanità, là dove la società umana è intimamente, obiettivamente dilacerata in classi antagonistiche che necessariamente sviluppano antagonistiche coscienze e concezioni del mondo: sicché quanto più braccianti o operai «sanno di latino» — sviluppano una propria, autonoma attività culturale ed escono da una posizione di pura ricettività — tanto meno valida diviene per essi non solo la religione del Papa, ma persino la scienza della borghesia.
Questo significa, insomma, che la divisione della società in classi non ha solo delle conseguenze economiche, politiche, sociali, culturali che sono quelle in cui tale divisione più immediatamente si esprime. Questo significa che tale intima dilacerazione dell'umanità pone dei limiti obiettivi alla capacità che l'umanità associata ha di prender coscienza del reale in una forma scientifica, coerente, obiettiva, universalmente valida. Questo significa che la divisione della società in classi pone all'umanità delle limitazioni che non sono solo economiche, politiche, sociali, culturali, ma addirittura gnoseologiche.
Questo non vuol dire, beninteso, che anche in una società di classi non si sia manifestata e non si manifesti l'infinita capacità dell'umanità associata di approfondire, con la sua teoria e con la sua pratica, la coscienza e la conoscenza del mondo; né potrebbe esser inteso nel senso che, con la realizzazione di una società senza classi, l'umanità d'un tratto raggiunga una coscienza e una conoscenza del mondo che non sia più infinitamente approfondibile. L'acqua, l'abbiam già detto, in quelle determinate condizioni, bolle a 1000 per il capitalista come per il proletario, e per il lavoratore dell'umanità socialista; e di questo dato scientifico, la scienza borghese ha saputo da tempo registrare l'obiettività. Così pure la data di quella certa eclissi o la data della scoperta dell'America sono egualmente registrate in un trattato di astronomia o di storia borghese come in un trattato sovietico. Ma si tratta, appunto, di d ti che possono avere un valore scientifico quando siano debitamente controllati (e non deformati, come sempre più largamente avviene nella «scienza» borghese), ma che non costituiscono ancora, di per se stessi, la scienza nel senso proprio della parola: che non significa, appunto, un dato o una congerie di dati, ma un loro coerente sistema, in cui ogni dato sperimentale o storico diviene elemento di una concezione del mondo. E questa concezione del mondo potrà essere infinitamente allargata ed arricchita ed approfondita, ma per essere scienza nel senso proprio della parola dovrà essere intimamente coerente ed universalmente valida, obiettiva.


La rivoluzione culturale socialista come "salto" qualitativo.

In questo senso si può dire che, anche su questo piano, la costruzione di una società senza classi rappresenta, nella storia dell'umanità, un vero e proprio salto qualitativo. Il salto è più immediatamente rilevabile per quanto riguarda i rapporti economici, sociali, politici, o la morale — che solo in una società senza classi, appunto, può superare la sua frammentarietà e limitatezza di classe, e divenire una morale umana ma non è meno effettivo per quanto riguarda la scienza stessa, che ora soltanto può vincere la sua parzialità di classe e divenir scienza nel senso proprio della parola, scienza umana, obiettiva nella sua universale validità.
Proprio questo, l'abbiamo già rilevato, è il significato più profondo della rivoluzione culturale e gnoseologica che oggi si viene avviando nel paese del socialismo ; proprio qui sta il valore eccezionale delle prime manifestazioni di una cultura e di una scienza nuova dell'umanità socialista che tanto scandalo hanno sollevato tra i figli del secolo. E già a chi faccia attenzione al modo nuovo in cui la cultura e la scienza nuova crescono e si affermano nella società socialista, questo valore balena in una luce vivida e chiara.
Basti riflettere che, per la prima volta nella storia dell'umanità, in Unione sovietica, tutto il sistema dell'educazione e dell'istruzione, e della direzione culturale in genere, è fondato sulla scienza, su di un sistema e su di un metodo coerente del conoscere. Non vogliamo ora entrare in un giudizio di merito su tale sistema o su tale metodo; non è questo che qui ci interessa. Ma nessuno può negare che per la prima volta nella storia decine di milioni di uomini si educano a liberarsi da una «cultura» e da una coscienza tradizionale, passiva, incoerente, contraddittoria — «folcloristica», direbbe Gramsci per conquistare del mondo una coscienza coerente, attiva, scientifica, unitaria. Nel mondo borghese, nella società di classi, anche la più avanzata, se alle classi «colte», entro certi limiti, si assicura una tale educazione, la grande maggioranza degli uomini è abbandonata e mantenuta in uno stato di passività, di tradizionalismo, di incoerenza culturale — nel folclore piuttosto che in un'attiva coscienza sociale.
Sarebbe difficile sopravvalutare l'importanza che questa diversità assume nella cultura e nella scienza nuova dell'umanità socialista. Si consideri, ad esempio, come si è svolta in Unione sovietica la recente discussione sui problemi della genetica. In un qualsiasi paese del mondo capitalistico, una tale discussione si sarebbe svolta nel chiuso dei gabinetti scientifici, delle Accademie e delle riviste specializzate. E non si tratta solo, badate bene, di una scarsa diffusione della cultura biologica in tali paesi. Ma come si potrebbe discutere dei problemi della genetica di fronte ad un pubblico di milioni di uomini semplici, ai quali si seguita ad insegnare che il mondo è stato creato in sei giorni e che Eva è nata dalla costola di Adamo? Né vale dire che anche certi Padri Gesuiti, sulle loro riviste, dichiarano oggi di accettar le teorie dell'evoluzione delle specie: ché queste sono affermazioni che essi riservano, semmai, per il pubblico «colto», mentre dai pulpiti si seguita a predicare l'obbrobrio ai comunisti «che proclamano l'uomo non creatura di Dio, ma progenie di scimmie». Una discussione scientifica di massa presuppone, per contro, una cultura di massa che, quale che sia il suo attuale livello, sia fondata su di un orientamento verso una coerente concezione del mondo: coerente in quanto confronti e critichi e superi i dati incoerenti e contraddittori di una tradizione folcloristica passivamente accolta per il passato, e coerente in quanto non sia qualitativamente diversa e contraddittoria negli «specialisti», negli «uomini della cultura» da un lato, e nei «profani», negli «uomini semplici» dall'altro.
Ma tali condizioni si ritrovano e si possono ritrovare, appunto, solo in un mondo che, come quello sovietico, abbia già liquidato la divisione della società in classi antagonistiche. Per questo la cultura, la scienza sovietica, possono svilupparsi e già effettivamente si sviluppano, in un modo, in forme, che sono qualitativamente diverse da quelle in cui la cultura e la scienza si sviluppano e progrediscono in una società di classi, come cultura e come scienza di tutto il popolo, attraverso dibattiti di massa.
Le conseguenze di un così diverso modo di sviluppo sono, si badi bene, ancora una volta, non solo sociali o politiche o culturali, ma gnoseologiche: toccano la natura e il valore stesso della scienza, cioè. Cosa significa, ad esempio, da questo punto di vista, il fatto che la discussione sulla nuova biologia sovietica si sia sviluppata in un dibattito di milioni di uomini, invece che di pochi specialisti, come suole avvenire nel mondo capitalistico?
fuor di dubbio che questa diversità ha delle conseguenza importantissime che sono, appunto, di carattere gnoseologico e che sono facilmente rilevabili da chi abbia avuto cura di seguire i termini del dibattito e di approfondirne il senso.
È noto, ad esempio, che una parte molto importante delle esperienze e delle ricerche che vengono interpretate nella teoria morganiana dell'ereditarietà è stata e viene eseguita sulla Drosophila, un comune moscerino che vi sarà spesso capitato sott'occhio attorno all'uva o ad altre frutta in fermentazione. Non vi è nessuna ragione obiettiva per cui questo piccolo dittero debba esser preferito a tutti gli altri esseri viventi, animali e vegetali, nelle nostre ricerche di genetica. La fama mondiale che questo insetto ha conseguito attraverso le ricerche della scuola morganiana non è dovuta al fatto che il genere Drosophila eserciti una funzione od occupi un posto preminente nella natura, o abbia una importanza particolare o una speciale utilità per l'uomo. Quel che ha fatto la «fortuna» scientifica della Drosophila è semplicemente il fatto che essa è rapidamente e facilmente riproducibile in allevamento di laboratorio e che i suoi cromosomi presentano particolarità che ne rendono particolarmente comodo lo studio ai ricercatori.
Ecco dunque che, nella società capitalistica, la disposizione e l'organizzazione della ricerca scientifica esercitano una precisa influenza limitativa, restrittiva, sulla ricerca scientifica stessa e addirittura ne deformano la materia e l'indirizzo sperimentale. Allo stadio attuale delle nostre conoscenze, nulla ci dice che le leggi dell'ereditarietà siano identiche per tutta la gamma delle specie animali e vegetali; al contrario, dalla genetica morganiana stessa risulterebbe che anche specie tra loro abbastanza vicine presentano caratteristiche differenziali importanti per quanto riguarda, ad esempio, l'ereditarietà del sesso. Ma intanto, il distacco che la società capitalistica accentua tra scienza e popolo, tra «specialisti» e «profani», fra «teoria» e «pratica», induce i ricercatori a concentrare i loro studi attorno alla Drosophila; limita, di fatto, il campo delle ricerche, non solo in quanto queste si concentrano solo attorno ad una o poche fra le centinaia di migliaia di specie del mondo vegetale e animale, ma in quanto la ricerca resta quasi esclusivamente confinata nei laboratori e affidata alla pratica di poche migliaia di specialisti in tutto il mondo borghese, anziché allargarsi su milioni di ettari di culture agricole e di allevamenti e beneficiare della pratica, scientificamente controllata, di milioni di uomini.


Il dibattito sulla nuova biologia sovietica.

La biologia nuova che oggi si afferma in Unione sovietica, per contro, non è una biologia «degli scienziati per gli scienziati» che scelga il suo materiale di esperienza secondo il «comodo» dei ricercatori. A una biologia, una scienza degli uomini per gli uomini, che coscientemente si pone il compito di accrescere e perfezionare la padronanza dell'uomo sulla natura attraverso una approfondita conoscenza della natura stessa e delle sue leggi; una scienza che considera la pratica dell'umanità associata, l'esperienza di massa, non solo criterio decisivo della propria obiettività, della propria universale validità, ma momento essenziale del processo stesso della conoscenza scientifica.
Perciò la nuova biologia sovietica, se è pur solo agli inizi del suo cammino glorioso, seppur ha ancora dovuto combattere, sinora, in Unione sovietica stessa, contro le incomprensioni e le resistenze della tradizione reazionaria e borghese della scuola morganiana, non si è rinchiusa solo nei laboratori, non si è ristretta fra pochi specialisti, non si è infatuata solo attorno alla Drosophila, ma ha allargato le sue esperienze su milioni di ettari di culture ed in migliaia di allevamenti kolkhoziani; ha arricchito la pratica dei ricercatori specializzati
con quella di milioni di kolkhoziani, di orticultori, di frutticultori, di allevatori, di selezionatori, scientificamente controllata; ha esteso immensamente il campo delle sue ricerche e della sua sperimentazione nella «jarovizzazione» dei cereali e nell'acclimatazione della patata, nella pratica di massa degli ibridi vegetativi e in quella della semina a nidi, in quella della cultura industriale della pianta da gomma e negli allevamenti kolkhoziani. Legandosi ai compiti pratici della costruzione socialista, la nuova biologia sovietica non solo ha, sin d'ora, recato un apporto decisivo al successo di questa, non solo ha accresciuto la padronanza dell'umanità socialista sulla natura, ma ha beneficiato e beneficerà di un decisivo allargamento della propria base metodologica e gnoseologica; già tende a sfatare la maledizione del distacco fra teoria e pratica, tra scienza e popolo, che nella società di classi soffoca o costringe entro limiti ristretti la capacità dell'umanità associata di conquistare del mondo una conoscenza obiettiva, universalmente valida.
Non potremmo, e non intendiamo qui, beninteso, entrar nel merito del dibattito sulla genetica morganiana e mitschuriniana; abbiamo solo voluto illustrare, sulla base di questo esempio, una delle caratteristiche fondamentali della nuova cultura, della nuova scienza sovietica; e non è un caso che, persino nel mondo capitalistico, molti selezionatori ed allevatori fra i più seri, legati ad una esperienza pratica di massa, sostengano da tempo tesi che si avvicinano, sotto vari aspetti, a quelle che sono allo base dell'indirizzo di ricerche oggi affermatosi vittoriosamente in Unione sovietica col trionfo della scuola di Mitschurin. Il trionfo della scuola di Mitschurin e di Lyssenko è il trionfo della scienza degli uomini, della scienza del popolo per il popolo sulla scienza degli specialisti per gli specialisti, sulla cosiddetta «scienza pura»: che, come l'«arte per l'arte», esprime nella società di classi non già un'impossibile indipendenza della coscienza sociale dai concreti rapporti esistenti in quella data società, ma solo l'intima dilacerazione della società stessa, maledetta dalla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, fra teoria e pratica, tra libro e vita; frammentata, nel suo mondo culturale stesso, in circoli chiusi senza comunicazioni e senza finestre l'uno sull'altro.
'Quanto qui abbiamo rilevato a proposito-del dibattito sulla nuova biologia, in effetti, avremmo potuto rilevarlo a proposito di ogni altro settore della cultura sovietica: a proposito dell'arte o della critica letteraria, come a proposito della storiografia o della filosofia. In ciascuno di questi campi, per ciascuna di queste forme della coscienza sociale della nuova umanità socialista, avremmo potuto constatare come la profonda rivoluzione che è oggi in corso in Unione sovietica esprima un «salto» senza precedenti nella storia dell'umanità e della sua cultura, della sua capacità di prender coscienza del mondo e di trasformarlo.
«Con l'apparizione del marxismo — ha detto il comp. Zhdanov nel suo decisivo intervento sui problemi della filosofia come concezione scientifica del mondo del proletariato, è chiuso il vecchio periodo della storia della filosofia, nel corso del quale la filosofia era cura di singoli, patrimonio di scuole filosofiche, costituite da un piccolo numero di filosofi e di loro discepoli, chiusi, staccati dalla vita, dal popolo, estranei al popolo. Il marxismo non è una scuola filosofica di questo genere. Al contrario: il marxismo rappresenta il superamento della vecchia filosofia, del tempo in cui la filosofia era il patrimonio dí pochi eletti, aristocrazia dello spirito; segna l'inizio di un periodo assolutamente nuovo della storia della filosofia, di un periodo in cui essa è divenuta un'arma nella lotta delle masse proletarie che lottano per la loro liberazione dal capitalismo». Il trionfo della concezione marxista del mondo in Unione sovietica esprime così appieno la nuova coscienza di un'umanità non più dilacerata da aristocrazie della ricchezza o del pensiero contrapposte al popolo; è il trionfo, come scriveva Gramsci, di «una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma generalizzate nella realtà sociale (*)».
In questo passo di Gramsci, come nell'altro di Zhdanov che ho or ora citato, è giustamente posta in rilievo l'assoluta novità del marxismo, che rappresenta, in quanto filosofia di massa, un vero e proprio salto senza precedenti nella storia del pensiero umano; che stabilisce un rapporto assolutamente nuovo fra teoria, tra 'coscienza e pratica dell'umanità associata. Già Marx aveva scritto, nelle sue famose «Glosse a Feuerbach», che «i filosofi hanno solo variamente interpretato il mondo;

nota (*) Antonio Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Torino, Einaudi, 1948, pag. 232.

si tratta di trasformarlo»; aveva affermato che la pratica umana associata è non soltanto criterio, ma momento decisivo del processo della conoscenza. Col trionfo della concezione marxista del mondo nell'umanità socialista, questa superiore coscienza della natura e del processo della conoscenza diviene per l'umanità associata un'arma decisiva per la conquista di una cultura umana, di una scienza, di un'arte, di una morale universalmente valide; impronta di sé ogni attività culturale della società socialista.


Coscienza e pratica sociale nell'estetica e nell'arte nuova.

Si consideri, ad esempio, l'atteggiamento che nella società socialista si viene affermando nei confronti dei problemi dell'arte e si metta a paragone con quello che è caratteristico dei teorici dell'estetica nella società di classi in generale e nel mondo borghese in particolare. Si veda, così, quel che Benedetto Croce, o magari Aristotele o Lessing, ci hanno detto del Bello,o dell'Arte. Croce, ad esempio, non ci parla, è vero, del Bello o dell'Arte come di qualcosa che sia fuori del nostro mondo umano e della storia; da buon filosofo idealista, del resto, una tale considerazione dell'Arte e del Bello non potrebbe aver alcun senso per lui. A prima vista, pertanto, il suo atteggiamento di fronte a questo problema potrebbe sembrare avesse evitato lo scoglio della metafisica, della considerazione di una data realtà fuori del suo nesso con la storia e con la pratica dell'umanità associata. Ma in realtà, a chi più attentamente consideri la parte e la posizione che all'estetica Croce fa nel quadro del suo sistema di filosofia idealistica, non può sfuggire il fatto che dell'Arte, del Bello — nelle forme caratteristiche, appunto, del suo sistema idealistico — Croce fa proprio un concetto dato, anzi una categoria assoluta dello spirito umano, una entità extra e super-storica, astratta dalla pratica dell'umanità associata; una entità, insomma, di quelle che nella terminologia marxista noi qualifichiamo di metafisiche; sicché, anche se non ci parlano di un Bello e di un'arte assoluti, Croce ed i suoi discepoli ci parlano però di un concetto assoluto del Bello e dell'Arte.
Così come per Aristotele o per Lessing, dunque — se pure nelle forme più scaltrite dell'idealismo contemporaneo — il Bello e l'Arte (per Croce il loro concetto) vengon considerati come qualcosa di dato, e l'estetica come un'attività puramente teoretica, speculativa, contemplativa, attraverso la quale il filosofo si limita a scoprire una verità che già c'è, bella e fatta, e che sarebbe appunto il concetto (ci verrebbe quasi voglia di dire l'idea platonica) del Bello e dell'Arte.
In realtà, ciascuno di noi sa, ed ha potuto sperimentare, che questa pretesa di Croce — e di quanti altri filosofi prima di lui, nella società di classi, hanno voluto scoprirci il Bello e l'Arte — è la pretesa ad una falsa obiettività. La realtà è che non c'è nessun concetto di Bello e di Arte che sia là, bello e fatto in un mondo ideale, e che non si tratti che di scoprire con un'attività puramente teoretica e speculativa. La realtà è che Croce, come tutti i filosofi e critici e artisti che prima di lui, con maggiore o minore efficacia culturale, si sono occupati di estetica, non hanno niente affatto semplicemente scoperto o approfondito un concetto del Bello e dell'Arte che fosse là, bell'e pronto, in un superno mondo di idee platoniche ; né la loro attività è stata una attività puramente teoretica e contemplativa, ché anzi è sempre stata, coscientemente o incoscientemente, un'attività teorica e pratica, volta non già a scoprire un concetto del Bello, ma a crearlo; e a crearlo non semplicemente in un senso filosofico-speculativo, di elaborazione concettuale, bensì nel senso tutto pratico e concreto di concetto che vivesse e operasse nella coscienza degli uomini, nel senso della creazione di un nuovo gusto artistico e di una nuova poetica: e a tal fine, del resto, filosofi e critici e artisti si son preoccupati di apparecchiare tutta un'attrezzatura materiale e organizzativa di riviste e di accademie e di cattedre e di camarille universitarie.
Nella nuova estetica sovietica, per contro, l'arte — in quanto forma della coscienza sociale — non viene punto considerata o presentata come qualcosa di dato, come un'idea platonica eterna e sottratta alle vicende di questo nostro basso mondo, come un concetto puramente teorico e speculativo, astratto dalla concreta pratica storica dell'umanità associata. Si pone così continuamente in rilievo, ad esempio, come le teorie estetiche e il gusto dell' «arte per l'arte» siano un prodotto non casuale e arbitrario, ma anzi necessario, della società di classi in una data fase del suo sviluppo storico; si mostra come il predominio di queste teorie e di questo gusto artistico non solo esprima la profonda dilacerazione della società borghese contemporanea, la maledizione che su di essa pesa in conseguenza del monopolio borghese sulla cultura, in conseguenza della separazione tra arte e popolo; ma giustamente si sottolinea come il predominio di queste teorie e di questo gusto abbia una pratica efficacia, tutta rivolta — nell'interesse delle classi dominanti — proprio al consolidamento del loro dominio, del loro monopolio sulle ricchezze e sulla cultura. Non a caso, così, al gusto di ristretti gruppi delle classi dominanti per la poesia ermetica o per la pittura astrattista, fa necessario riscontro — nella società capitalistica contemporanea — un persistente gusto di massa per la oleografia ecclesiastica o per la poesia alla Parzanese, mentre restan soffocati e repressi i germi del canto e della pittura popolare: nel che appunto si esprime la costrizione delle masse popolari in quello stato di relativa passività culturale che è — l'abbiamo visto — condizione essenziale per il dominio di ogni classe oppressiva e sfruttatrice.
Né per questo — in quanto ne sottolinea la pratica efficacia di classe — l'estetica sovietica nega un valore, diciamo così, documentario all'«arte per l'arte», in quanto forma caratteristica della coscienza e della pratica sociale artistica dell'umanità in una data fase del suo sviluppo storico; ma a questa forma di una coscienza e di una pratica sociale artistica frammentaria, parziale, negativa, l'estetica sovietica apertamente ne contrappone un'altra, superiore, totale, positiva: che non è più quella — frammentaria, appunto, e parziale — di ristretti circoli delle classi dominanti, bensì quella di un'umanità intera, in lotta contro il vecchio mondo dell'oppressione, dello sfruttamento, del monopolio della cultura, di un'umanità già volta a rimarginare le ferite della sua intima dilacerazione. E di questa lotta, l'estetica, l'arte nuova della società socialista è — e come potrebbe non essere? — parte integrante: sicché l'estetica sovietica apertamente si dichiara non solo come teoria volta ad approfondire un concetto del Bello, ma come una pratica tendente a liquidare nella coscienza degli uomini i residui ideologici del capitalismo e della divisione della società in classi, come una pratica volta alla creazione di una nuova poetica e di un nuovo gusto artistico, che esprimano i rapporti nuovi di una società umana e rispondano alle esigenze storiche della sua costruzione.
La diversità tra l'estetica dell'«arte per l'arte» di Benedetto Croce, putacaso, e quella sovietica, pertanto, non sta nel fatto che questa subordinerebbe la creazione artistica a determinate condizioni e finalità sociali, mentre quella la abbandonerebbe all'ispirazione che, come lo Spirito santo, «soffia dove vuole», a quanto ci si dice. In realtà, l'una e l'altra estetica esprimono — come ogni ideologia — i rapporti di una società determinata, con la sua realtà e con le sue storiche esigenze. La diversità sta nel fatto che l'estetica, l'arte, il gusto dominanti nella società borghese esprimono la realtà di questa società in una forma parziale, frammentaria, contraddittoria, perché parziale, frammentaria, contraddittoria resta la nostra stessa umanità, finché essa non abbia spezzato il quadro della società di classi; mentre l'estetica sovietica esprime la realtà di una società che ha già spezzato questo quadro per quanto concerne i rapporti di produzione e che coscientemente e solidalmente lavora a spezzarlo per quanto riguarda la conquista di una superiore coscienza umana. Per questo mentre l'estetica borghese accuratamente nasconde — e non può non nascondere — il legame indissolubile che in ogni società stringe la coscienza artistica alla pratica sociale, mentre di questo legame essa non può, nella sua limitazione di classe, conquistare che una coscienza oscura e confusa; l'estetica sovietica, per contro, non solo non ha ragione di nascondere tale legame, ma apertamente lo proclama e può così conquistare una nozione chiara, adeguata, del rapporto che per questa, come per ogni altra forma della coscienza, sussiste fra teoria e pratica sociale.
Da questa chiara e adeguata coscienza dei rapporti fra teoria e pratica, proprio, nasce la superiorità scientifica e la superiore efficacia storica dell'estetica sovietica: il cui storicismo, a differenza di quel che avviene per quella borghese, è rivolto non solo verso il passato, ma verso l'avvenire: che c'illumina non solo l'arte e il gusto delle classi dominanti e dei loro artisti, ma il gusto degli uomini, l'arte per gli uomini. E per questo l'estetica e la critica sovietica, che coscientemente collaborano alla costruzione dell'uomo nuovo, conducono la loro lotta su due fronti. Esse sanno che la fioritura dell'arte nuova dell'umanità socialista, e il loro proprio sviluppo ulteriore, non possono essere il frutto di un processo spontaneo, puramente teorico, mosso dall'ispirazione che «soffia dove vuole» e avulso dai compiti pratici della costruzione socialista; esse sanno che l'arte e l'estetica nuova stessa non possono giungere ad una piena maturazione senza il superamento dei residui ideologici della società di classi nella coscienza di milioni di uomini: ciò che presuppone non solo una teoria estetica astrattamente «vera», ma un suo pratico legame con i compiti concreti della costruzione socialista nel campo materiale e culturale. La superiorità scientifica e la superiore efficacia storica dell'estetica sovietica stanno proprio in ciò: che non solo teoricamente, ma praticamente, essa si pone il compito della lotta per il realismo socialista. Per questo l'estetica sovietica conduce la sua lotta su due fronti; lavora, teoricamente e praticamente, a liberare l'umanità socialista dai residui di una coscienza e di una pratica artistica formale, parziale, frammentaria che sono caratteristici della società di classi in generale, e della società borghese nella fase della sua decomposizione in particolare. Per questo l'estetica sovietica, mentre combatte, da un lato, il formalismo astratto — caratteristico, nella società borghese in decomposizione, per le elucubrazioni artistiche di ristretti gruppi delle classi dominanti — esercita non meno vigorosamente la sua critica, dall'altro, nei confronti delle residue tendenze alla spontaneità, al formalismo naturalistico e fotografico: espressione, nella società di classi, di una relativa passività culturale delle masse popolari. La via per il superamento di questa frammentarietà della coscienza e della pratica artistica sociale, l'estetica sovietica la addita — non solo per i popoli sovietici, ma per l'umanità lavoratrice del mondo intero — nello sviluppo conseguente di quegli elementi di una attività culturale artistica che, dai secoli dei secoli, le masse dell'umanità lavoratrice son venute elaborando, in stretto legame con la loro attività produttiva e con la loro lotta contro l'oppressione e lo sfruttamento, per la conquista di una loro condizione e cultura umana. E in questo senso, ancora una volta, l'estetica sovietica ci si presenta come una dottrina scientifica superiore, capace di una superiore efficienza gnoseologica e pratica, proprio per la sua chiarita coscienza dei legami che intercorrono fra teoria e pratica sociale. Proprio per questo, a differenza di quel che avviene per le estetiche della società di classi in generale, e per quelle borghesi in particolare, lo storicismo dell'estetica sovietica non è solo parziale, rivolto verso il passato, contemplativo; non è solo teorico, non si limita a registrare ed a giudicare un concetto del Bello e dell'Arte che sia già dato e conquistato; ma è totale, rivolto verso l'avvenire, attivo; radica l'arte nuova dell'umanità socialista nella tradizione dell'umanità lavoratrice, ma coscientemente, scientificamente le addita vie nuove e con la sua pratica rivoluzionaria interviene ad aprirle.


La pratica sociale come momento intrinseco del processo della conoscenza nella nuova biologia.

Quel che siamo venuti sommariamente esemplificando a proposito dell'estetica sovietica, avremmo potuto illustrarlo — lo abbiamo già avvertito — con una caratteristica di ogni altro settore della nuova cultura socialista: per la biologia o per la fisica, per la storiografia o per la morale; anche se, beninteso, non in tutti i campi questa rivoluzione si vien compiendo con pari ritmo, ma anzi variamente è avanzata, secondo le varie, concrete e successive esigenze del processo di costruzione dell'uomo nuovo. Ma in tutti i settori, proprio nella dottrina di avanguardia del marxismo-leninismo, del materialismo dialettico, proprio nella chiarita coscienza della pratica umana associata come momento intrinseco decisivo del processo della conoscenza, la nuova cultura socialista trova l'arma ideologica per il superamento della frammentarietà, dell'inadeguatezza della coscienza sociale nella società di classi.
Si veda, ad esempio, quel che oggi avviene nel campo della biologia sovietica. Anche qui, se andiamo a ricercare il senso più profondo delle nuove impostazioni scientifiche che, con la scuola di Mitschurin e di Lyssenko, oggi si affermano nel paese del socialismo, ritroviamo la chiarita coscienza del fatto che non si conosce il mondo senza trasformarlo; che la pratica umana associata non è solo il criterio, bensì un momento intrinseco e decisivo del processo della conoscenza. Nella genetica weissmanniana, mendeliana, morganiana, così, l'esperimento, la pratica umana (concepita ancora, per di più, in una fornii limitata, parziale, individuale, artigianesca) vengono considerati, proprio, come semplice criterio della verità. Io sperimentatore, dedicato alla scienza «pura» (cioè astratta, se pur solo nell'immaginazione dei suoi teorici, dal vivo contesto dei rapporti umani), dovrebbe limitarsi a contemplare quanto avviene nella natura, procurando di eliminare, anzi, gli effetti di ogni nostro involontario intervento nel processo della natura stessa che turberebbe l'obiettività della nostra conoscenza. Nella genetica morganiana, come in tutta la scienza reazionaria borghese, la funzione dell'esperimento dovrebbe restar limitata ad una funzione di semplice verifica; la pratica umana dovrebbe restare semplice criterio della verità, mentre ogni suo intervento volto a dare alla ricerca un orientamento ed un obiettivo vien considerato come una intrusione antiscientifica. Per i Weissmann, per i Mendel, per i Morgan, insomma, lo scienziato deve essere «puro»: deve «stare a vedere» cosa accade delle specie animali e vegetali, cosa accade nelle cellule, nei nuclei, nei cromosomi; cosa accade, al massimo, quando delle cellule si bombardano con dei raggi gamma o quando si trattano con la colchicina, guardandosi bene, Dio ne liberi!, dal proporsi degli «impuri» obiettivi, quali potrebbero essere quelli di una trasformazione di specie animali o vegetali, che risponda alle necessità pratiche dell'uomo.
L'albero della vita e della conoscenza, per fortuna, è più verde di ogni grigia teoria; e nessuno scienziato, così, anche nel mondo borghese, ha potuto seguire appieno i dettami di questa concezione della «scienza pura», che nella società capitalistica castra la produttività inesauribile del metodo sperimentale, precludendogli le vie di un intervento nella realtà che non sia casuale, ma cosciente, sistematico ed orientato, subordinato ad un piano, che solo può dargli tutta la sua efficacia ai fini della conoscenza e della padronanza dell'uomo sulla natura. Malgrado le dottrine idealistiche e reazionarie della «scienza pura», per fortuna, gli scienziati non hanno potuto esimersi, anche nel mondo capitalistico, da un intervento nella realtà che fosse, di fatto, orientato dalle esigenze della pratica umana associata, sia pur ancora limitata e framméntaria come essa solo può essere in una società di classi. Malgrado le impostazioni reazionarie della genetica mendeliana o morganiana, così, nessuno scienziato ha potuto ridursi davvero a semplice osservatore di quanto accadeva nelle specie o nelle cellule; così come, molto prima che Bacone o Galileo avessero chiarito l'efficacia del metodo sperimentale, per centinaia di secoli gli uomini non avevano potuto esimersi dal far degli esperimenti, senza di che non avrebbero potuto vivere e progredire. Malgrado quelle impostazioni idealistiche e reazionarie, insomma, la scienza ha potuto accumulare, anche nel mondo borghese, una messe ingente di dati sperimentali, che restano pur validi, ed elaborare particolari dottrine biologiche che possono essere integrate nella nuova biologia; ma è fuor di dubbio che la mancanza, nella biologia borghese contemporanea, di una chiara coscienza, di una nozione adeguata del significato della pratica umana associata in quanto momento decisivo del processo della conoscenza, le ha impresso una caratteristica metafisica, scolastica; così come, prima che Bacone e Galileo avessero chiarito per la scienza nuova della borghesia il senso del metodo sperimentale in quanto criterio della verità, la scienza della società feudale – che pur non aveva potuto fare a meno di ricorrere, di fatto, all'esperimento ed aveva raccolto numerosi dati sperimentali — si era venuta impigliando in una sterile metafisica ed in una scolastica medievale.
Per la scienza nuova della borghesia, in quella sua epoca rivoluzionaria, la conquista di una chiara nozione del metodo sperimentale come criterio decisivo della verità scientifica rappresentò un vero e proprio salto in avanti che le permise di districarsi da quella metafisica e da quella scolastica medievale, di sottoporre ad una elaborazione scientifica coerente non solo i nuovi dati che l'impiego sistematico del metodo sperimentale ormai veniva raccogliendo, ma quegli stessi dati che la scienza medievale era venuta accumulando. La rivoluzione scientifica, che oggi si vien compiendo in Unione sovietica, ha — nei confronti della scienza borghese contemporanea -- una portata analoga a quella, in quanto essa è fondata sulla conquista marxista di una nozione chiara della pratica umana non solo come criterio, ma come momento decisivo del processo della conoscenza. Ma l'efficacia gnoseologica e pratica di questa nuova rivoluzione scientifica già si manifesta come assai più profonda, come quantitativamente e qualitativamente diversa da quella della rivoluzione baconiana e galileiana. Questa, in effetti, restava, per il momento, una rivoluzione ideologica, metodologica, teorica: la sua efficacia pratica restava individuale e artigianesca, affidata allo spontaneo futuro sviluppo dell'agricoltura e dell'industria capitalistica e limitata dalla persistente divisione della società in classi, dalla ignoranza scientifica di massa che ne è il necessario complemento. Tutt'altra è, fin d'oggi, l'efficacia della rivoluzione scientifica che si vien compiendo in Unione sovietica, ad esempio, nel campo della biologia. Qui la conquista di una nuova, chiara ed adeguata nozione del valore della pratica umana associata in quanto momento intrinseco decisivo del processo della conoscenza, non resta patrimonio individuale di ristretti gruppi di ricercatori specializzati, non ha solo un valore ideologico, metodologico, teorico. Non a caso —l'abbiamo già ricordato — il volume col resoconto stenografico dei recenti dibattiti sulla nuova genetica ha avuto immediatamente una prima tiratura in duecentomila copie: ciò significa che, nella società socialista, nella società senza classi antagonistiche, ogni rivoluzione metodologica nella scienza acquista subito un carattere non più solo teorico, individuale e artigianesco, ma pratico, sociale, organizzato: diviene elemento di una vera e propria mobilitazione scientifica di massa, che allarga a tutta l'umanità la partecipazione attiva alla lotta per la conquista della scienza, per la conoscenza e per la padronanza dell'uomo sulla natura.
Nella nuova biologia sovietica, così, a differenza di quel che avviene nella biologia borghese contemporanea, non ci si limita a stare a vedere quel che avviene delle specie animali o vegetali, o nelle cellule e nei cromosomi; non ci si limita a stare a vedere cosa accade quando si incrociano due specie di moscerini, o quando si bombardano delle cellule con questa o quella particella; non si considera come un' inammissibile intrusione della pratica nella scienza «pura» il fatto di proporsi di trasformare una data specie animale o vegetale in un dato senso, ad un fine di pratica utilità per l'uomo. Al contrario: Mitschurin e Lyssenko hanno chiaramente riconosciuto che «la natura non largisce favori; bisogna prenderseli»; hanno inteso che non si può davvero conoscere la natura senza trasformarla, senza intervenire sistematicamente colla pratica umana associata nel suo processo, senza partecipare attivamente e coscientemente a questo processo stesso secondo un piano: nel quale, per la nuova biologia sovietica, l'esperimento, l'intervento pratico nella realtà, non è più solo casuale, individuale, artigianesco criterio della verità scientifica, ma diviene un momento decisivo del processo stesso attraverso il quale l’uomo approfondisce la sua conoscenza teorica e la sua padronanza pratica sulla natura; diviene esperimento collettivo, orientato, sociale, che crea un rapporto nuovo tra teoria e pratica scientifica. Per questo la nuova biologia sovietica può rigettare ed efficacemente confutare tutte le concezioni idealistiche e misticheggianti della biologia borghese contemporanea che tendono a porre dei limiti insuperabili alla conoscibilità della realtà biologica, che tendono a negare il determinismo biologico per sostituirgli una casualità, perseguibile dallo scienziato solo con mezzi statistici; per questo, di contro alla scolastica impotenza della biologia borghese contemporanea, la nuova biologia sovietica è tutta pervasa dalla sua fiducia scientifica nella possibilità dell'uomo di approfondire indefinitamente la sua conoscenza teorica e la sua padronanza pratica sulla natura.
Non vi è dubbio che, come per le scienze biologiche, anche per le scienze fisiche e matematiche un'analoga rivoluzione è in corso, in Unione sovietica: anche se, in questo campo, il processo di elaborazione e di impostazione nuova appare in una fase più arretrata. Anche qui, la scienza borghese è venuta accumulando materiali .sperimentali immensi che essa si dimostra sempre più, tuttavia, incapace di dominare e di organizzare, impigliata com'essa è nelle impostazioni e nelle deduzioni idealistiche, scolastiche, formalistiche, o addirittura misticheggianti. Contro queste impostazioni e deduzioni, già da tempo la scienza sovietica ha esercitato la sua critica; ma, come abbiamo già avvertito, non si può dire che, in questo campo, la nuova scienza sovietica si sia completamente liberata dalle impostazioni dominanti nel mondo borghese e sia venuta enucleando un nuovo indirizzo delle sue ricerche, compiutamente adeguato — come è già avvenuto per la biologia alla realtà nuova della società socialista. Proprio perché la rivoluzione scientifica che si vien realizzando in Unione sovietica è una rivoluzione non solo teorica, ideologica, ma pratica, è inevitabile che essa si venga affermando secondo una successione di tappe e di settori, che non è casuale, che non deriva semplicemente dalla genialità di questo o di quel singolo ricercatore, ma risponde alle concrete condizioni ed esigenze di sviluppo della costruzione socialista. Ma è fuor di dubbio che fin d'ora, anche per il campo delle scienze fisiche — un campo nel quale le esigenze «atomiche» della borghesia imperialista hanno indotto una deformazione e un disorientamento particolarmente grave della ricerca — la rivoluzione di cui già si possono rilevare i primi segni in Unione sovietica si sviluppa su di una direttrice analoga a quella che già si è affermata per le scienze biologiche: antiidealistica, antiformalistica, anticasualistica, antimistica, nel senso di una nuova e più chiara nozione del rapporto fra teoria e pratica nel processo della conoscenza.


La via di sviluppo della scienza sovietica: la storiografia.

Ma non potremmo concludere questa nostra disamina di alcune caratteristiche, che ci son sembrate particolarmente importanti, della rivoluzione culturale e gnoseologica che si vien compiendo nel paese del socialismo, se non accennassimo ancora al modo, alla via per la quale la cultura e la scienza sovietica si sviluppa. Anche in questo senso, la cultura e la scienza sovietica si differenziano profondamente, qualitativamente, dalla cultura e dalla scienza della società di classi. E vogliamo questa volta, per illustrare questa nostra affermazione, scegliere il nostro esempio nel campo della ricerca storiografica.
Il modo, la via per la quale la storiografia ha affermato i suoi successivi progressi, le sue tappe di sviluppo successive, nella società di classi, è quella di grandi opere storiografiche, dovute al genio individuale di singoli scrittori. Erodoto, Tucidide, Polibio, nella storiografia del mondo greco-romano, hanno potuto segnare col loro nome delle tappe decisive, grazie ad un generale sviluppo, certo, della società di cui essi erano parte; ma queste tappe son pur sempre state segnate dal loro nome e da opere poderose, la cui efficacia era riservata, dapprima, ad un pubblico ristretto di specialisti, uomini di governo o scienziati delle classi dominanti. In rispondenza alla struttura della società di classi, insomma, l'efficacia teorica e pratica di una rivoluzione storiografica — se non restava addirittura limitata alle classi dominanti — si diffondeva, per così dire, dall'alto in basso; veniva, semmai, passivamente accolta dalla coscienza delle masse, per le quali la nuova storiografia restava sempre un'arma del consolidamento del dominio di classi oppressive e sfruttatrici.
Profondamente diverso è il modo, la via dello sviluppo della scienza storiografica in Unione sovietica. È noto così, ad esempio, che, fino al 1934, sono state largamente diffuse, in URSS, le impostazioni e le elaborazioni storiografiche della scuola di Pokrovski che criticava la storiografia borghese non da un punto di vista materialista, proletario, bensì da quello di un positivismo schematico, piccolo borghese. Non si vuol dire, con questo, che la scuola di Pokrovski — che si ricollegava, d'altronde, con certe tradizioni relativamente progressive di storiografia della vecchia Russia zarista — non avesse raccolto ed elaborato una larga messe di materiali, sulla quale ancor oggi criticamente si lavora. Ma è fuor di dubbio che, nel 1934, le impostazioni e gli orientamenti della scuola di Pokrovski apparivano già assolutamente inadeguati al superiore grado di coscienza materialista, marxista, raggiunto dai popoli dell'URSS, ed ai compiti che si ponevano di fronte alla storiografia sovietica. Anche allora, fu l'intervento critico del Partito bolscevico — e quello personale di Stalin, di Kirov, di Zhdanov — a porre in rilievo questa inadeguatezza ed a suscitare una larghissima discussione che appassionò il pubblico sovietico. Questa discussione si concretò, ad un certo momento, nel bando di un concorso per una Storia dei popoli dell'URSS. Ma quel che è caratteristico è questo: a differenza di quel che sarebbe avvenuto in qualsiasi paese del mondo capitalistico, il volume che doveva segnare la vittoria del nuovo indirizzo storiografico non era un grosso tomo, riservato a pochi specialisti, irto di note e di citazioni erudite; bensì un testo per le scuole elementari.
Il testo stesso che fu premiato, del resto, fu sottoposto ad una larghissima discussione e non fu esente da gravi critiche; se ben ricordo, anzi, a sottolineare le sue deficienze, il primo premio del concorso non fu assegnato, ma al vincitore fu solo assegnato il secondo. Si rilevarono fin da allora, nell'opera, deficienze residue per quanto riguardava l'impostazione metodologica e ancor più gravi deficienze per quanto concerneva l'elaborazione critica dei materiali. E come avrebbe potuto essere altrimenti, per un'opera che doveva avviare la storiografia sovietica per vie nuove, se pur potentemente illuminate dalla luce delle geniali impostazioni storiografiche di Marx, di Engels, di Lenin, di Stalin? la scuola di Pokrovski, proprio per le sue residue impostazioni ed orientamenti borghesi, aveva potuto e poteva ancora beneficiare di tutta una tradizione, di tutto un apparato tecnico, erudito, organizzativo, personale, ben superiore, ancora, a quello della scuola conseguentemente marxista. E non mancò, allora (come oggi avviene a non pochi scienziati, anche progressivi, per la scuola biologica di Lyssenko) chi rilevò degli elementi di improvvisazione e di mancanza di documentazione erudita che avrebbero reso l'opera premiata meno persuasiva di quelle, ben altrimenti elaborate, di Pokrovski e della sua scuola, che — tra l'altro — avevano ottenuto non di rado un riconoscimento fin dai maggiori storiografi del mondo capitalistico!
E certo, anche fra noi, se un gruppo di studiosi marxisti imprendesse — e auguriamoci che lo facciano al più presto!—l'elaborazione di un testo elementare di Storia d'Italia, non potrebbero mancare, nella loro opera, deficienze ancor più gravi e difetti d'improvvisazione ben più pesanti di quelli che si potevano riscontrare nell'opera che fu allora premiata in Unione sovietica. Essi si troverebbero a dover affrontare non solo la rielaborazione critica di quella immensa mole di materiali storiografici che la storiografia borghese è venuta elaborando a suo modo, dal punto di vista e nell'interesse delle classi dominanti; ma addirittura la ricerca e la raccolta di un altro larghissimo materiale, specie per quanto riguarda la civiltà materiale ed i rapporti di produzione nel nostro paese che la storiografia borghese ha generalmente trascurato di prendere in considerazione. È fuor di dubbio che, in queste condizioni, il testo elementare elaborato dai nostri bravi studiosi marxisti apparirebbe a molti, di primo acchito, meno «documentato» e meno «persuasivo» della Storia d'Italia, putacaso, di Benedetto Croce, che si fonda su di una tradizione e su di un apparato scientifico, erudito, personale, organizzativo già costituito e consolidato, cristallizzato magari, nella più accurata ricerca della precisa data di nascita di quella cantante napoletana del '600: di cui non vogliamo punto contestare l'utilità, ma che non esaurisce certo, oggi, i compiti della nuova storiografia. Eppure...
Eppure, proprio l'esperienza dei dibattiti storiografici che si svolsero allora e dopo in Unione sovietica ci dimostra che quella scelta nel 1934 è la sola via adeguata allo sviluppo della nuova storiografia dell'umanità socialista. E non a caso, pochi anni dopo, il Breve corso di storia del Partito comunista (bolscevico) dell'URSS — anch'esso un libro elementare, se pur di tanto superiore all'altro per la sua precisione scientifica e per la sua genialità rinnovatrice — ci veniva a confermare che la via dello sviluppo della storiografia nuova è quello della educazione storiografica di massa nello' spirito del marxismo-leninismo, nello spirito di una concezione scientifica coerente, di avanguardia; una via che va dal basso in alto, che assicura all'elaborazione dei problemi storiografici la partecipazione attiva e cosciente di milioni di uomini. E già oggi si può dire che libri come quelli citati — e particolarmente la Storia del Partito bolscevico — hanno educato tutta una generazione dei popoli sovietici e creato una tradizione, un apparato, un personale storiografico di massa: sicché, fin d'oggi, la nuova storiografia sovietica si afferma non solo superiore a quella borghese per le sue impostazioni ed orientamenti metodologici, ma già sovente più ricca, più precisa, più elaborata per il suo apparato erudito.
E siamo giunti al termine della nostra esposizione, nella quale ci siamo sforzati di chiarire il senso più generale della rivoluzione culturale che oggi si vien compiendo nel paese del socialismo: un senso che, in quanto nasce da nuovi rapporti umani già conquistati, è di per se stesso evidente agli uomini dell'umanità nuova, socialista; ma necessariamente si presenta dapprima come «scandalo» ai «figli del secolo» a noi, umanità ancora impigliata e irretita e dilacerata dai rapporti della società capitalistica. Ma non sarà stato inutile il nostro dibattito, se quella che, per gli uomini del vecchio secolo, resta solo «pietra di scandalo», per noi tutti, figli del bisogno e della lotta, diverrà pietra miliare: che ci indirizzi e ci guidi alla lotta per la conquista di un'umanità anche nostra, che c'insegni ad intendere, nella lotta e per la lotta, i valori nuovi e superiori che l'umanità socialista già elabora per tutti gli uomini.
 
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