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view post Posted: 23/1/2024, 22:46 Famiglia tradizionale? Il vero socialismo la difende - Articoli dei membri della Scuola quadri

Famiglia tradizionale? Il vero socialismo la difende


di Francesco Alarico della Scala



Quasi due secoli or sono un retrogrado maschilista, impensierito dall’ascesa delle donne in carriera che stava corrodendo le basi del patriarcato, esclamò con mesta rassegnazione: «Eppure questa situazione che svirilizza l’uomo e toglie alla donna la sua femminilità, senza riuscire a dare all’uomo una vera femminilità e alla donna una vera virilità, questa situazione che nel modo più infame degrada i due sessi e con loro l’umanità, è la conseguenza ultima della nostra tanto decantata civiltà, l’ultimo risultato di tutti gli sforzi compiuti da innumerevoli generazioni per migliorare le loro condizioni e quelle dei loro discendenti!». Era questo un velenoso aforisma uscito dalla penna del misogino Nietzsche? O piuttosto la tirata reazionaria di qualche bigotto esponente della tradizione cattolica? Nossignori: avete appena letto le parole di Friedrich Engels, fondatore assieme a Marx del socialismo scientifico, scritte in nero su bianco nel libro “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, ove si appresta a soggiungere che il predominio maschile va criticato proprio alla luce del suo rovescio nella «supremazia della donna sull’uomo, che inevitabilmente è provocata dal sistema [capitalistico] di fabbrica» [1]; quindi il peggior torto del maschilismo fu quello d’aver generato il femminismo quale sua primitiva e meccanica antitesi! Forse questi rilievi desteranno lo stupore e lo sconcerto delle femministe che da tempo immemore hanno saccheggiato la più nota opera di Engels sull’”Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, in cerca d’un appiglio su cui fondare le loro teorie dissolutrici. Ma anche qui il nostro, nel descrivere i sostanziali mutamenti della famiglia nel futuro socialista, si limita a prevedere la socializzazione del lavoro domestico, trasformato in un mestiere come gli altri, e la presa in carico dell’educazione dei figli (e delle relative spese) da parte dello Stato; e chiarisce che l’uguaglianza tra i due sessi «agirà in una misura infinitamente maggiore nel far divenire effettivamente monogami gli uomini, che nel far divenire poliandriche le donne» [2]: – l’esatto contrario del singolare connubio di promiscuità ed ipergamia femminile fiorito in Europa e in America a seguito della cosiddetta “rivoluzione sessuale”, che dietro la facciata progressista ed emancipativa ha ridotto il sesso a grezzo valore di mercato, alterando l’equilibrio demografico della società e perpetuando il truce meccanismo dell’alienazione capitalistica. Dopodiché il vecchio Engels rimetteva all’effettiva prassi di vita avvenire l’elaborazione dei dettagli del caso. È a questa prassi che occorre dunque rivolgersi per avere un’idea conforme alla realtà e scevra dagli stereotipi del “cultural Marxism” di moda in Occidente.
Gli inizi furono invero turbolenti e contraddittori: nella Russia della Nep la coesistenza di diverse classi antagonistiche e dei rispettivi sistemi economici si rifletteva, sul piano culturale, in una pluralità d’indirizzi di pensiero che coinvolgeva anche la questione famigliare. Nessuno aveva esperienza del cammino da percorrere, per cui si sperimentava di tutto: dall’abolizione dell’alfabeto cirillico al modernismo nell’arte filmica e teatrale, dall’inversione dei rapporti d’autorità tra insegnante e alunno nella scuola al tentativo di forgiare una nuova “cultura proletaria” dal nulla, fino alle misure per il superamento della famiglia. Pertanto ai numerosi diritti concessi alla donna dai codici del 1918 e del 1926 (divorzio, aborto, ecc.) non si accompagnò un’altrettanto univoca e netta indicazione dei nuovi doveri imposti dalla rivoluzione socialista; e questa momentanea incertezza di prospettive trovò eco nella popolarità di cui godettero allora le teorie del “libero amore”. Tuttavia Lenin non faceva mistero della sua profonda ostilità a simili tendenze sinistroidi, a prima vista molto innovative e “progressiste” ma in ultima analisi nocive alla causa del socialismo. Già nelle sue lettere del gennaio 1915 ad Ines Armand il padre del bolscevismo annoverava fra le «rivendicazioni borghesi» in tema d’amore non soltanto la libertà di adulterio e di scarsa serietà relazionale, ma altresì la libertà dalla procreazione [3]. E nella sua lunga conversazione del 1920 con Clara Zetkin egli rimarcò la necessità di «tracciare una linea chiara e indelebile di distinzione tra la nostra politica e il femminismo» sottolineando «i legami indissolubili che esistono tra la posizione sociale e quella umana della donna».
Lenin colse l’occasione per formulare una critica serrata delle teorie sessuali libertarie, all’epoca legate soprattutto alla volgarizzazione della psicoanalisi, secondo cui nella società comunista soddisfare le pulsioni sarebbe stato facile quanto bere un bicchier d’acqua: «Io considero la famosa teoria del “bicchier d'acqua” come non marxista e antisociale per giunta. Nella vita sessuale si manifesta non solo ciò che noi deriviamo dalla natura ma anche il grado di cultura raggiunto, si tratti di cose elevate o inferiori. […] La tendenza a ricondurre direttamente alla base economica della società la modificazione di questi rapporti, al di fuori della loro relazione con tutta l’ideologia, sarebbe non già marxismo, ma razionalismo. Certo, la seta deve essere tolta. Ma un uomo normale, in condizioni ugualmente normali, si butterà forse a terra nella strada per bere in una pozzanghera di acqua sporca? Oppure berrà in un bicchiere dagli orli segnati da decine di altre labbra? Ma il più importante è l’aspetto sociale. Infatti, bere dell’acqua è una faccenda personale. Ma, nell’amore, vi sono interessate due persone e può venire un terzo, un nuovo essere. È da questo fatto che sorge l’interesse sociale, il dovere verso la collettività. Come comunista, io non sento alcuna simpatia per la teoria del “bicchier d’acqua”, benché porti l’etichetta del “libero amore”» [4]. A ragion veduta, era soltanto questione di tempo perché il partito bolscevico si accingesse a correggere la rotta e a purificare dalle idee ostili anche il campo dei rapporti famigliari, di contro alla leggenda metropolitana di un “bolscevismo libertario delle origini tradito da Stalin”, tipica della cattiva storiografia trockista. Lo stesso decreto del 18 novembre 1920 che legalizzò l’aborto precisava come si trattasse di una concessione provvisoria, valida solo «fino a quando le sopravvivenze morali del passato e le gravi condizioni economiche del presente costringeranno ancora una parte delle donne a decidersi per quest’operazione» [5]; – con buona pace dei presunti filo-sovietici odierni che, a rimorchio del politicamente corretto, spacciano quella misura d’emergenza per una grande conquista civile anziché un male necessario.
Le radici del male furono estirpate negli anni ’30, attraverso la liquidazione delle classi sfruttatrici e della loro mefitica influenza ideologica sull’opinione pubblica, attraverso i giganteschi mutamenti sociali innescati dalla collettivizzazione agricola e dai piani quinquennali. Da un lato milioni di donne entrarono nel mondo del lavoro, conquistando l’uguaglianza con gli uomini sul solido terreno dell’economia, dall’altro il socialismo prese a svilupparsi sulla propria base e poté risolvere i problemi morali e demografici senza compromessi, attenendosi ai propri princìpi. Si arrivò così al fatidico ukaz del 27 giugno 1936, che autorizzava l’aborto soltanto se indispensabile a tutelare la salute della donna e del bambino, subordinava il divorzio al consenso di ambedue i coniugi e in generale le decisioni dei genitori ai diritti dei figli. Questi sviluppi smentirono non solo le utopistiche vedute degli estremisti di sinistra, che si auguravano la scomparsa della famiglia come cellula fondamentale della società, ma anche i foschi presagi dei conservatori che per lo stesso motivo – la differenza è unicamente valutativa – osteggiavano il lavoro femminile: «L’attivo lavoro sociale delle donne di casa – scriveva allora B. Svetlov sul Bolshevik, – non soltanto non ha disgregato la famiglia, ma l’ha rafforzata, aiutando la donna a liberarsi dal carattere individualistico, piccolo-borghese della famiglia e a coltivare nei figli la concezione comunista, l’eroismo e l’abnegazione nella difesa della patria» [6]. Nello stesso anno si verificò un importante episodio nella storia dell’arte sovietica: la stroncatura ufficiale della celebre “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Šostakovič. L’opera, tratta da una novella di Leskov, metteva in scena la vicenda di Katerina Izmajlova, giovane benestante costretta a vivere un matrimonio infelice, che s’innamora di un servo e in combutta con questi uccide il marito ed il suocero. «La mercantessa rapace, che ha raggiunto ricchezze e potere attraverso omicidi, viene rappresentata come “vittima” della società borghese», constatava con disappunto la Pravda del 28 gennaio. E per una simile interpretazione “antiborghese”, di denuncia dell’ipocrisia morale prerivoluzionaria, propenderebbe qualsiasi medio esponente della sinistra nostrana. Ma non era questo il caso del Comitato centrale del partito, che con la penna del suo anonimo portavoce sentenziò: «L’autore cerca con tutti i mezzi espressivi, sia musicali che drammatici, di attirare la simpatia del pubblico verso le aspirazioni e le azioni grossolane e volgari di Katerina Izmajlova», poiché «non ha tenuto conto dell’esigenza della cultura sovietica di scacciare da tutti gli angoli del costume sovietico la grossolanità e la crudeltà» [7]. Parole che lasciano intendere quali fossero le priorità del gruppo dirigente sovietico sul fronte famigliare.
Nel suo discorso del 1º ottobre 1938 a una riunione di propagandisti, Stalin si permise addirittura di colmare le lacune storiche dell’opera di Engels – che la espongono alle strumentalizzazioni femministe di cui sopra, – confrontando i vecchi studi di Bachofen con le più recenti ricerche antropologiche che dimostravano come il matriarcato non fosse l’ordinamento famigliare originario della specie umana. Inoltre egli criticò una formula contenuta nella prima prefazione al libro: «Ci sono fatti che l’indagine e la teoria di Engels mettono sullo stesso piano: le strutture familiari e le forme della produzione su un piano di uguaglianza. Marx non fu mai d’accordo con questo punto di vista» [8]. In quanto sede della riproduzione della forza-lavoro, la famiglia è compresa nei rapporti di produzione e ad essi subordinata: rilievo questo che, si noti, esclude in linea di principio le “famiglie LGBT” e l’annesso romanticismo che fa violenza alla teoria. “L’utero è mio e lo gestisco io”, proclamano le femministe. No – risponde il socialismo scientifico, – la procreazione non è un semplice fenomeno naturale, che soggiace ai soli desideri dell’individuo, bensì un processo sociale regolato in funzione delle esigenze della collettività. Ed è bene che sia così: l’“uomo naturalizzato” è anch’esso un prodotto storico, peraltro di qualità assai più scadente, generato dal sistema capitalista che aliena le vocazioni sociali degli uomini e ne stimola il retaggio belluino. D’altra parte, la famiglia non è un mero contratto economico e neppure un fugace legame sentimentale, ma un’istituzione chiamata a garantire la stabilità e la continuità della vita associata, un imprescindibile anello nella catena dei rapporti sociali; «la famiglia è la cosa più seria che esista nella vita» [9], scriveva la Pravda nel maggio 1936.
Commentando la riforma scolastica del 1943, Stalin fece il bilancio del lavoro svolto dal potere sovietico sulla questione femminile e tracciò le prospettive di sviluppo della famiglia sovietica: «Nella fase che è passata, lo Stato sovietico ha pienamente e speditamente eliminato dalle menti della gente ogni idea dell’ineguaglianza sociale dei sessi e ogni espressione di quest’idea dalla vita quotidiana. Ora noi affrontiamo un nuovo e non meno importante compito. Esso è, soprattutto, quello di rafforzare la nostra primaria unità sociale, la famiglia socialista, sulla base del pieno sviluppo delle caratteristiche maschili e femminili nel padre e nella madre, come capi della famiglia con eguali diritti. L’istruzione nelle nostre scuole fu nel passato coeducazionale allo scopo di superare, il più velocemente possibile, l’ineguaglianza sociale dei sessi, radicata nei secoli. Ma ciò che noi dobbiamo ora costruire è un sistema attraverso cui la scuola sviluppi ragazzi che saranno buoni padri ma soprattutto combattenti per la patria socialista e ragazze che saranno madri intelligenti idonee ad allevare le nuove generazioni» [10]. La legislazione degli anni ’30 fu consolidata dall’editto di famiglia del 1944, che riaffermò il divieto di aborto ingiustificato e allungò l’iter per il divorzio, accrebbe i sussidi statali per consentire alle madri di dedicarsi esclusivamente alla crescita dei figli nei primi cinque anni, ecc., onde risanare le enormi perdite di vite maschili nella Grande Guerra Patriottica. Questa tendenza proseguì immutata fino alla metà del decennio successivo, quando con la morte di Stalin ebbe inizio un generale indebolimento della disciplina socialista che interessò anche la sfera famigliare.
Naturalmente il modello sovietico dell’età staliniana non fu replicato alla lettera in tutti gli altri paesi socialisti. Anzi, esistono realtà dall’ordinamento sociale affine che in questo campo hanno seguìto strade molto diverse, ieri la Germania dell’Est e oggi Cuba, benché di regola simili aperture si accompagnino a concessioni ideologiche e culturali al capitalismo. Ma esiste altresì un paese tetragono a qualsivoglia compromesso ideale, che ha fatto della coerenza e della fedeltà ai princìpi socialisti il proprio marchio di fabbrica e ha stupito il mondo intero con l’eccezionale longevità del suo sistema: la Corea del Nord. Quando i comunisti liberarono il paese, reduce dal dramma delle comfort women sfruttate dalle truppe coloniali giapponesi, la società coreana vegetava nel passato feudale. Pertanto una delle prime riforme attuate dal nuovo regime fu la promulgazione della Legge sull’uguaglianza dei sessi, datata 30 luglio 1946, che pose fine alla tradizionale subordinazione della donna, da sempre confinata entro le mura domestiche, priva di diritti sociali e politici, relegata alla funzione di moglie e talvolta di concubina dei signori. Tuttavia i movimenti di liberazione della donna in Corea non seguirono né la strada del femminismo occidentale né, forti dell’esperienza sovietica, quella dei progetti antifamigliari “di sinistra”. A porre i paletti fu proprio una donna: la compagna Kim Jong Suk, moglie del Presidente Kim Il Sung e madre del Generale Kim Jong Il, nonché veterana della guerriglia antigiapponese. Nella primavera del 1946 ella si accinse a ripulire le organizzazioni femminili dalle «scorie del femminismo borghese»: nel riconoscimento dei diritti umani delle donne vedeva tutt’al più «lo slogan del femminismo borghese che, malgrado la presunta difesa delle donne nella società capitalistica, non implica la loro emancipazione per come intesa dalla classe operaia». Chissà cosa avrebbe pensato delle battaglie civili per il free bleeding! Il diritto di voto, ai suoi occhi, era «una rivendicazione per far partecipare le donne alla politica parlamentare, che quindi non ha nulla a che vedere con i diritti politici di cui devono beneficiare le donne lavoratrici». Altro che “quote rosa”!
L’eroina rivoluzionaria prendeva risolutamente le distanze non soltanto dal «programma del femminismo borghese», fatto di garanzie formali ed insignificanti pretese soggettive, bensì pure dal «programma di emancipazione delle donne proletarie un tempo proclamato dalle femministe socialiste», che prevedeva un puro e semplice miglioramento delle condizioni di vita materiali delle donne e ignorava invece la dimensione sociale-normativa della loro esistenza [11]. Si prospettava così una rottura totale con il femminismo di ogni possibile sfumatura. Il 23 ottobre 1947, visitando la Scuola rivoluzionaria che tutt’oggi porta il suo nome, Kim Jong Suk rispose alle affermazioni del direttore politico aggiunto che proponeva un’educazione indifferenziata per maschi e femmine: «Voi credete? Ma le ragazze, oltre alle qualità generali, devono possedere anche quelle proprie del loro sesso, comprese l’arte culinaria e la sartoria. Non si devono trascurare simili discipline» [12]. Nessuna “lotta agli stereotipi di genere”, dunque. Negli anni ’50 e ’60 le donne coreane assolsero un ruolo chiave nella ricostruzione postbellica del paese e nello slancio del movimento Chollima, grazie alla capillare rete di asili e giardini d’infanzia creati dal regime socialista per prendersi cura dei loro figli, all’accesso gratuito all’istruzione di massa e all’attivo coinvolgimento nella vita attiva delle organizzazioni di partito, cui erano particolarmente idonee – a giudizio del caro leader – perché «in genere dolci per natura» e refrattarie al burocratismo [13]. Questa modernizzazione posticipò leggermente il matrimonio, ma il ciclo di vita della famiglia non era affatto in discussione: «Noi non ci opponiamo a che le donne si sposino e mettano al mondo dei figli. È la natura stessa dell’essere umano» [14], specificava Kim Il Sung.
Conclusa l’impegnativa edificazione di un forte Stato socialista industriale, negli anni ’70 e ’80 fu la volta del consolidamento dei nuclei famigliari, indicati da Kim Jong Il come il più sicuro baluardo contro la “furia del dileguare” di hegeliana memoria e la fonte primigenia del patriottismo socialista: «Alcuni pensano che i rivoluzionari comunisti siano persone disumane che si preoccupano unicamente della rivoluzione, ignorando persino le proprie famiglie. Si sbagliano. Amare e rispettare i propri genitori è un obbligo fondamentale dell’uomo. Chi non ama i propri genitori, la propria consorte e i propri figli, che formano i legami di parentela più stretti, non può amare il proprio paese e i propri connazionali» [15]. Le garanzie materiali non mancano: come previsto da Engels, in Corea del Nord le casalinghe sono equiparate agli altri lavoratori e pertanto vengono rifornite di generi alimentari, a titolo pressoché gratuito, dal sistema di distribuzione pubblica; le lavoratrici in maternità dispongono di 150 giorni (240 dall’estate del 2015) di congedo a salario pieno e, al momento del ricovero in ospedale a carico dello Stato, ricevono cospicui premi in denaro; quelle con tre o più figli lavorano per sole 6 ore al giorno; e in ogni caso le donne vanno in pensione a 55 anni e possono dedicarsi interamente alla famiglia [16]. La mentalità popolare trova riflesso nella recente risposta dei novelli sposi Ri Ok Ran e Kang Sung Jin alla domanda di Wong Maye, giornalista dell’Associated Press, su quali fossero i loro obiettivi nella vita: «Avere molti bambini in modo che possano servire nell’esercito e difendere e sostenere il nostro Paese, per molti anni nel futuro» [17].
Ma cosa pensano i nordcoreani del palese declino dell’istituto famigliare e dei suoi valori fondativi in Occidente? L’anziano Presidente Kim Il Sung notava con apprensione nelle sue memorie: «Al giorno d’oggi l’epicureismo si propaga come una malattia contagiosa dall’altro emisfero del nostro pianeta. Questo eccesso d’egoismo, che spinge a ricercare solo il proprio benessere, senza curarsi dei posteri, affligge l’animo d’innumerevoli persone. Alcuni si esimono dal generare discendenti, perché sono un cruccio. Altri rinunciano perfino a contrarre matrimonio. Certo, ognuno è libero di non sposarsi o di non avere figli. Ma che gusto c’è a vivere senza eredi?» [18]. A cavallo tra i due secoli il filosofo Jo Song Baek sottoscriveva le tesi di Zbigniew Brzezinski sulla crisi morale della società americana, lamentando come perfino la Corea del Sud fosse «divenuta una regione priva d’amore autentico, una regione sterile» in seguito al pernicioso influsso della cultura yankee. Le basi ideologiche di questo degrado erano additate nell’indebita “naturalizzazione” dei rapporti coniugali: «L’amore prediletto dal freudismo è un amore inumano, vile e depravato, che si fonda sull’istinto sessuale animalesco». E i legami fra uomo e donna, «se si considera soltanto l’aspetto sessuale, non possono essere autenticamente umani e solidi» [19]. Ce n’è abbastanza per mettere in imbarazzo chi critica l’anarchia del mercato ma si nutre della cultura decadente da esso generata, chi del socialismo reale apprezza l’economia ma non l’etica, chi suol arguire che parole come quelle citate poc’anzi appartengono a uomini del secolo scorso, succubi di convenzioni arretrate, che adesso i tempi sono cambiati e che perfino la Corea si “aprirà” a quel fatuo “progresso” – evocato alla stregua d’una formula magica, – che prima o poi riconduce tutti i popoli nell’alveo della (in)civiltà liberale.
Simili profezie sono perfettamente analoghe, nella forma e nel contenuto, alle gufate di chi da decenni attende invano il crollo del sistema socialista, e ogni giorno ricevono le stesse brutali smentite dalla realtà. «Nessuno può sostituire le madri nel ruolo che svolgono nella formazione dei protagonisti del futuro della patria. Il nome intimo e tenero di madre racchiude il rispetto sociale e la grande speranza riposta nelle donne che circondano i bambini d’amore e d’affetto, sopportando tutte le fatiche del mondo senza batter ciglio. Senza donne non può esserci né famiglia, né società, né avvenire della patria»: – così si legge nella lettera inviata dal giovane leader Kim Jong Un al VI Congresso dell’Unione democratica delle donne di Corea (17 novembre 2016), ove si accenna altresì alla necessità di «instaurare la disciplina morale fra le donne» e ai loro doveri di «padrone di casa», per poi chiudere in bellezza: «La natalità è un importante fattore che influisce sull’avvenire del paese e della nazione. Bisogna incoraggiarla» [20]. Un autentico florilegio di “bigottismo patriarcale”, a detta dei feticisti della novità fine a se stessa, che pure si tengono pervicacemente aggrappati alla vecchia ipotesi sulla “famiglia autoritaria” come luogo di riproduzione della psicologia borghese, ormai obsoleta da circa cinquant’anni a questa parte. La logica del capitale non conosce senso del limite e, come intuì Marx, tende a “sciogliere tutti i corpi solidi”, primo fra tutti il vincolo famigliare. «Con l’individualismo estremo come base morale e spirituale – incalza il Rodong Sinmun del 18 novembre 2016 – nei paesi capitalistici non di rado il marito uccide la moglie, i figli uccidono i genitori e i nipoti uccidono i nonni» [21]: le esplosioni più fragorose fanno luce sul tacito logoramento quotidiano. La liberalizzazione dei costumi contrabbandata dalle sinistre sessantottine non è che l’abito ideologico, mistificante per definizione, di un processo connaturato al declino della metropoli imperialista.
In un paper pubblicato il 13 agosto 2015 sul sito dell’Università Kim Il Sung di Pyongyang, a firma del professor Kim Hong Il, la moda dei “diritti civili” viene derubricata a sintomo della putrefazione del capitalismo: «La decadenza politica e culturale degli Stati Uniti porta con sé la discriminazione razziale, le frodi e gli inganni delle organizzazioni politiche, la criminalità, il divorzio, la gravidanza minorile, il matrimonio omosessuale e l’aborto, “cancri sociali” propri di un’America che ha tempo abdicato alle sane ragioni della società umana» [22]. La Corea del Nord è forse l’unico paese socialista a non aver mai criminalizzato l’omosessualità, riconosciuta come un tratto genetico i cui portatori vanno rispettati e protetti dalle discriminazioni, ma nondimeno si oppone fermamente alla promiscuità e all’esibizionismo della cultura Gay occidentale, alle egoistiche rivendicazioni del matrimonio e delle adozioni, perché incompatibili con le idee socialiste sulla famiglia e sulle sue funzioni sociali [23]. L’aborto non è concepito come un “diritto individuale” di cui valersi a piacimento, bensì come una misura eugenetica al servizio della collettività. «Tutta la medicina è gratuita in Corea del Nord – spiega Alejandro Cao de Benós – e si può ricorrere all’aborto solo previa raccomandazione medica, qualora si verifichi una malformazione fetale, o la vita della madre sia messa a repentaglio, o il bambino non nasca correttamente. […] Non per scelta o per motivi economici» [24]. Il divorzio è certo libero e legale, senonché le tradizioni nazionali – gelosamente difese dal regime socialista sebbene mondate dalle incrostazioni classiste del confucianesimo – lo contemplano come extrema ratio per cui optare preferibilmente d’accordo con i parenti, i quali peraltro condividono l’onta degli ex coniugi per non aver saputo stringere un legame a prova delle temporanee contingenze del sentimento [25]. Come ricorda lo scrittore Davide Rossi, numerose opere letterarie coreane celebrano la ricomposizione dei conflitti sorti in seno alle famiglie, in nome del superiore interesse proprio, dei figli e del paese, e col provvidenziale aiuto del partito [26].
Queste circostanze hanno forgiato in Corea i nuclei famigliari più coesi e stabili del globo terrestre, con 2.000 sole pratiche di separazione avviate in media ogni anno. Quest’ultimo dato è emerso allorché il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne prese di mira la Corea del Nord, il cui Codice Penale non sanziona il vago reato di “molestie” che – come attestano gli eventi degli ultimi mesi – si presta ad interpretazioni soggettive tali da minare le garanzie basilari dello Stato di diritto. Al dibattito dell’8 novembre 2017 i delegati nordcoreani furono costretti a ribadire parecchie ovvietà, ad esempio che le donne possono accedere alle posizioni sociali più elevate qualora superino l’iter necessario, e non mediante la forzata immissione di “quote rosa” negli apparati, oppure che se un superiore le chiede favori sessuali in cambio di promozioni o con minaccia di trasferimento la donna è libera di rifiutare e che il reato di stupro si configura solo in seguito ad un successivo rapporto non consensuale; e conclusero la meritata lezione di buon senso impartita agli accusatori con queste significative osservazioni: «Nella Repubblica popolare democratica di Corea violenza sessuale, molestie sessuali, violenza domestica o stupro coniugale sono parole alquanto strane, la gente non capisce cosa significhino semplicemente perché quei fenomeni non si verificano di frequente e non costituiscono problematiche di rilevanza sociale» [27]. In Corea non si verificano fenomeni come la campagna #MeToo, menzionata in un articolo di Song Jong Ho sul Pyongyang Times del 9 marzo scorso, che sottolinea con gusto le contraddizioni di un Occidente in cui il femminismo è destinato a rimanere uno sterile «wishful thinking», incapace di offrire alle donne una vera emancipazione, malgrado l’unanime sostegno delle istituzioni, dei media e del mondo accademico [28].
In compenso, abbandonato il focolare domestico, le donne sono entrate appieno nei circuiti dello sfruttamento e del consumismo, le relazioni affettive e sessuali sono asservite al denaro e ai volubili capricci dell’egoismo, lo stile di vita frivolo e decadente ha corroso e sciupato le tradizionali qualità femminili, i rapporti fra i sessi sono precari come posti di lavoro e il saldo demografico è compromesso. La superiorità del socialismo si coglie proprio nello stridente contrasto con le donne nordcoreane, delle quali il presidente della KFA ci ha fornito uno splendido ritratto che funge da chiusura ideale per la nostra rassegna: «[…] potrei descrivere la donna coreana come soffice quanto la seta ma anche rigida quanto l’acciaio. Hanno un carattere molto delicato, molto gentile, molto ospitale… Sono davvero come porcellana, sembrano ragazze di porcellana, vero? Ma poi, quando si tratta di correre dei rischi, quando si tratta di prendere un piccone e spaccare la pietra o di impugnare un lanciagranate, sono disposte a farlo in qualunque momento. Così hanno questo duplice profilo, che è molto curioso perché normalmente una donna o ragazza dotata di personalità più forte del solito la manifesta. Ma non in Corea. In Corea dolcezza e cortesia totali verso l’esterno si accompagnano a grande robustezza e ad una spiritualità molto forte, dove l’ideologia è ciò che conta. Per una donna coreana non l’aspetto fisico o il denaro, come nella maggioranza dei paesi capitalistici, bensì l’ideologia è la cosa più importante» [29].

(di Francesco Alarico della Scala, articolo scritto per il sito "Oltre la Linea" il 15 giugno 2018)

Note

[1] K. Marx-F. Engels, Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 375.

[2] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma, 1963, p. 109.

[3] V. I. Lenin, Opere complete, vol. XXXV, Edizioni Rinascita, Roma, 1955, p. 119.

[4] Riportato in C. Zetkin, Lenin e il movimento femminile, 1925: www.marxists.org/italiano/zetkin/lenin.htm.

[5] Legislazione internazionale: leggi, decreti, progetti di legge, Istituto di studi legislativi, Roma, 1937, p. 265.

[6] Pubblicato ne Lo Stato operaio, voll. XII-XIII, 1938-39, Feltrinelli Reprint, Milano, 1966, p. 356.

[7] In G. Vinay, Storia della musica, vol. X, parte 1, Edizioni di Torino, 1978, pp. 154-155.

[8] Disponibile online in italiano: www.pmli.it/articoli/2017/20171018_...riapartito.html.

[9] Cit. in C. Carpinelli, Donne e famiglia nella Russia Sovietica dagli anni Venti agli anni Quaranta: www.resistenze.org/sito/te/cu/ur/cuut3n21.htm. Vedi la medesima fonte per le notizie generali sulla politica famigliare sovietica.

[10 ]Cit. in M. Tsuzmer, Soviet War News, n. 6, novembre 1943, p. 8.

[11 ]Biografia di Kim Jong Suk, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 2002, pp. 274-276.

[12] Ibid., pp. 322-323.

[13] Kim Jong Il, Per la formazione d’un maggior numero di quadri femminili, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1988, p. 2.

[14] Kim Il Sung, Opere scelte, vol. III, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1971, pp. 254-255.

[15] Kim Jong Il, Opere scelte, vol. IX, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1997, p. 63.

[16] Informazioni tratte dal dossier La Corea contemporanea, redatto dalla KFA – Italia: https://web.archive.org/web/20120128121849...age2/page2.html.

[17] www.corriere.it/esteri/17_giugno_2...4bfb-bc_4.shtml.

[18] Kim Il Sung, Attraverso il secolo, vol. III, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1993, pp. 337-338.

[19] Jo Song Baek, La filosofia della leadership di Kim Jong Il, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1999, pp. 189, 183.

[20] Kim Jong Un, Intensifichiamo ulteriormente il lavoro dell’Unione delle donne sotto la bandiera della trasformazione di tutta la società sulla base del kimilsungismo-kimjongilismo, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 2017, pp. 11-13.

[21] Rodong Sinmun: la corruzione morale è un prodotto inevitabile della società capitalistica, KCNA, 18 novembre 2016.

[22] www.ryongnamsan.edu.kp/univ/success/social/part/47

[23] Cfr. https://web.archive.org/web/20120128142859...e17.html#link18.

[24] Intervista a Infovaticana, 16 marzo 2015: https://infovaticana.com/2015/03/16/entrevista-cao-de-benos/.

[25] Cfr. Kim Jong Il, Opere scelte, vol. XV, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 2014, p. 296.

[26] Davide Rossi, Pyongyang, l’altra Corea, Edizioni Mimesis, Milano, 2012, pp. 71-72.

[27] www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/D...=22373&LangID=E.

[28] https://kcnawatch.co/newstream/1520596839-...t-around-world/.

[29] Intervista a Berlunes, 27 maggio 2014: http://berlunes.com/entrevista-alejandro-cao-benos.
view post Posted: 23/1/2024, 22:45 Hegel? Si, ma non troppo - Articoli dei membri della Scuola quadri

Hegel? Si, ma non troppo


Francesco Alarico della Scala



In tempi come i nostri, pensatori della caratura di Costanzo Preve si contano sulla punta delle dita, soprattutto nell’ambiente filosofico, dominato, nel suo settore accademico, dal relativismo assoluto che pone sullo stesso piano tutte le “opinioni” (fuorché le voci di protesta contro la naturalizzazione e la eternizzazione dello status quo, beninteso) e si preclude pertanto la via ad ogni ricerca della verità, dalla falsa oggettività ideologica del politicamente corretto mirata a far apparire come “oggettivi”, neutrali, super partes fenomeni sociali e politici storicamente relativi e superabili, in primis lo stesso modo di produzione capitalistico. Preve condusse sempre una lotta tenace contro queste e consimili tendenze della filosofia accademica, svuotata del suo significato genuino e declassata al rango di ancella dello stato di cose presente. Tale orientamento lo fece pervenire a riflessioni estremamente preziose e ad efficaci critiche del pensiero debole, del relativismo assoluto, delle innumerevoli richieste di riconoscimento relative del proletariato (vale a dire della base teorica del socialriformismo), della desocializzazione del pensiero filosofico e della sua storia e delle altre ideologie oggi imperanti. In questo campo il contributo di Preve va certamente sottoscritto e apprezzato: l’acutezza delle sue critiche dell’ideologia contemporanea ha aperto gli occhi a molti, facilitandone l’uscita dal tunnel della degenerazione irreversibile della “sinistra” radicale. Diversamente stanno le cose per quanto riguarda l’interpretazione del pensiero di Marx avanzata da Preve, la sua concezione del marxismo, la quale – come egli stesso più volte ammise – sarebbe tutt’oggi rifiutata dalla gran parte dei marxisti.
La chiave di volta di questa concezione risiede nella sostanziale assimilazione della scienza filosofica di Karl Marx a quella di Hegel e di Fichte. Non si tratta di una nuova versione del noto “hegelo-marxismo” di chi pone l’accento sul retaggio hegeliano nel pensiero di Marx, bensì di una rivendicazione dell’identità della scienza filosofica marxiana ed hegelo-fichtiana: Marx, al pari dei due idealisti, è ritenuto da Preve un filosofo intento all’indagine dell’assoluto, anch’egli idealista. Conveniamo perfettamente con Preve nella sua opposizione all’antipatia sociale verso Hegel, espressione concreta dell’ostilità della classe dominante a qualsivoglia tentativo di dialettizzare, di mettere in discussione l’odierno sistema sociale. È infinitamente preferibile l’opera di chi rivaluta Hegel rispetto a quella di chi lo demonizza in quanto “falso profeta” e fautore del totalitarismo. Tuttavia non è di questo che qui si tratta: la posta in gioco è lo statuto filosofico del marxismo, una questione di principio che va dibattuta lasciando da parte le considerazioni tattiche.
Preve procede nella sua dimostrazione rilevando che Marx, a differenza dei teorici riformisti che reclamano il riconoscimento relativo del proletariato senza mettere in discussione il modo di produzione capitalistico, rivendica il suo riconoscimento assoluto, il superamento del capitalismo e il passaggio ad un nuovo sistema sociale in cui i due poli contraddittori – borghesia e proletariato – siano liquidati come tali. Pertanto quella di Marx è una scienza filosofica avente per oggetto l’assoluto, analogamente a quella di Fichte e di Hegel, una scienza filosofica propriamente detta, in cui la conoscenza e il giudizio morale, la ragion pura e la ragion pratica, i discorsi assertivi e quelli precettivi formano un tutt’uno logicamente inseparabile e indistinguibile. Un siffatto carattere distingue il marxismo dalla scienza galileiano-newtoniana e dalla teoria humeana della fallacia naturalistica da essa presupposta, come pure dal criticismo kantiano e dalla sociologia positiva di Max Weber [1]. Indubbiamente Marx si riteneva materialista, prosegue Preve, ma in lui il termine “materialismo” assume sempre un significato metaforico, anzi quattro distinti significati non letterali: esso è metafora dell’ateismo, della contrapposizione della libertà reale (economicamente fondata) alla libertà formale garantita dal diritto borghese, dello strutturalismo dialettico (preminenza della struttura sulla sovrastruttura nel loro rapporto reciproco) e, infine, della prassi rivoluzionaria [2]. Particolare rilevanza riveste quest’ultimo significato, in quanto la prassi rivoluzionaria di Marx non è altro che una riproposizione della teoria di Fichte sul rapporto tra Io e non-Io: l’Io è in Marx il «soggetto rivoluzionario razionale complessivo, magari sotto direzione comunista e proletaria», un soggetto la cui attività pratico-rivoluzionaria trasforma il mondo, il non-Io, il quale – è bene precisarlo – non è qualcosa di oggettivo, di esterno al soggetto, bensì «l’insieme degli ostacoli che l’umanità [il soggetto], nella sua storia, pone sempre davanti a se stessa» [3].
Sin qui, per sommi capi, l’ipotesi interpretativa di Preve. Egli avverte però subito la difficoltà rappresentata dalla scansione della storia in modi di produzione, scoglio teorico che si fatica a far rientrare nel paradigma suesposto, e formula l’istanza di una suddivisione del pensiero marxiano in critica dell’economia politica, scienza filosofica e materialismo storico, scienza positiva non filosofica [4]. Tuttavia, anche circoscrivendo la sua ipotesi alla sola scienza filosofica, Preve si accorge dell’esistenza, al suo interno, di un “corpo estraneo”: la necessità storica. «Per quanto riguarda invece la necessità, o meglio il giudizio apodittico di necessità, egli [Marx] riteneva che fosse necessario che il capitalismo, sviluppando dialetticamente le sue determinazioni, si rovesciasse ad un certo punto in comunismo, che diventava a questo punto un vero e proprio “sillogismo del capitale”» [5], constata Preve, precisando poi che a suo avviso questa tesi marxiana «non tiene assolutamente» e che va sostituita da quella sulla possibilità del passaggio dal capitalismo al socialismo – passaggio che, in quanto opera del soggetto rivoluzionario, non può esser previsto con certezza prescindendo dall’attività di tale soggetto, giacché il suo esito dipende appunto dalla capacità soggettiva di prender coscienza dello status quo e di sovvertirlo. Elidendo il concetto di necessità storica, secondo Preve, non si altera la sostanza della filosofia di Marx, essendo tale concetto inessenziale e perfino incoerente con una scienza filosofica – quale si presume essere quella marxiana – incentrata sul soggetto; perciò egli spiega l’importanza attribuita da Marx a quel concetto con una contaminazione positivistica ed escatologica del suo pensiero [6]. Spiegazione plausibile nell’ambito della Storia della filosofia di Preve, ma a nostro avviso insufficiente: anche assumendo che una simile contaminazione abbia realmente afflitto il pensiero di Marx, non è chiaro come egli abbia potuto inserirla proprio all’interno di una scienza filosofica in cui essa manca di qualunque fondamento. Possibile che il pensatore di Treviri abbia preso un abbaglio tanto macroscopico? La risposta a questo interrogativo non può essere che una: quella della necessità storica è un’istanza dell’oggetto, non del soggetto, il quale ultimo non può in alcun modo fondarla.
Per quanto suggestiva possa apparire l’analogia col programma della “Dottrina della scienza” (ed. del 1794) di Fichte, per quanto “rivoluzionaria” possa sembrare l’attività dell’Io per riappropriarsi del non-Io, una scienza filosofica siffatta risulta unilaterale e inadatta all’uso pratico se non viene debitamente integrata da una teoria dell’oggetto, da una teoria che fondi ontologicamente l’esistenza della materia, riabilitata in tutte le sue proprietà e in tutta la sua importanza. L’attività pratica del soggetto è cieca se non prende le mosse dal riconoscimento dell’esistenza oggettiva della materia e non si conforma alle sue caratteristiche. Resosene conto, già il giovane Marx prendeva risolutamente posizione contro il «mistico Soggetto-oggetto o Soggettività prevaricante l’oggetto» di hegeliana memoria [7]. Eppure è proprio questo il modello teorico propostoci da Preve, rafforzato dall’equazione ch’egli stabilisce tra la dialettica hegeliana e quella marxiana; Marx non avrebbe affatto rovesciato la dialettica di Hegel, l’avrebbe bensì applicata così com’era. Svalutata la “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” del 1843 col semplicistico argomento che Hegel, in quanto idealista storico, sarebbe al riparo dai processi di ipostatizzazione [8], Preve accoglie di fatto tali processi viziosi dell’idealismo hegeliano nella propria concezione del marxismo: l’oggetto viene concepito non come tale, bensì come non-Io di cui l’Io deve ora riappropriarsi in seguito alla scissione dell’unità originaria (presupposta), scambiando perciò l’empiria in speculazione. Ma con l’oggetto, lo si voglia o no, si entra necessariamente in relazione, si deve tener conto delle sue caratteristiche, specie in un processo come la prassi rivoluzionaria; si verifica pertanto, quasi per contrappasso dantesco, una tacita reintroduzione della materia nella teoria, ma in forma non mediata, acritica, superficiale, ossia uno scambio della speculazione in empiria [9].
In altri termini, quella che Preve trae da Hegel non è affatto una filosofia “vuota”; al contrario, essa è viziosamente piena, ripiena di una realtà che vi si riflette in maniera approssimativa, incompleta, astratta, poiché ci si è preventivamente privati degli strumenti teorici necessari ad indagarla criticamente. Si sconta, insomma, la mancata distinzione iniziale tra soggetto e oggetto. Per chiarire il contenuto della nostra critica, esaminiamo ora alcuni casi concreti in cui, a nostro avviso, i limiti della filosofia di Preve si palesano con maggior evidenza. Prenderemo come esempio la trattazione previana della categoria di materia, del concetto di classe sociale e delle coppie di opposti filosofia-ideologia e critica-concezione del mondo.

1) Attorno alla definizione della categoria di materia si gioca la partita decisiva tra idealismo e materialismo. Respingendo il materialismo, Preve ha scritto: «…io personalmente non conosco alcuna nozione filosofica di materia realmente credibile. Se esiste, ciò è a mia insaputa. Certo, ho letto molte definizioni storiche di questa nozione in opere ed in dizionari filosofici, ma se si presta bene attenzione si scoprirà che si tratta sempre e soltanto o di polemiche ideologiche contro la religione, oppure di trascrizioni di definizioni scientifiche di materia fisiologicamente sorte sul terreno dell’astronomia, della fisica, dell’astrofisica, della chimica, della biologia e della genetica. Queste definizioni scientifiche di materia, spesso diverse l’una dall’altra come è normale che sia, sono tratte esclusivamente dalla pratica scientifica specifica, ed ogni raddoppiamento filosofico in termini di sostrato unico materiale non aggiunge e non toglie nulla, se non una dichiarazione ideologica di principio. Leggere per credere» [10]. Abbiamo citato estesamente questo passo per mostrare come Preve eluda l’essenziale, come egli, fra le varie definizioni di materia, tralasci proprio quella leninista con cui è necessario confrontarsi se s’intende criticare il materialismo dialettico. Tale classica definizione caratterizza la materia come ciò che esiste indipendentemente dalla coscienza e si riflette in essa, in contrasto non tanto con la tradizione religiosa (la cui variante cattolica, per esempio, ha sempre difeso il postulato dell’oggettività del mondo esterno contro i solipsisti) quanto piuttosto con l’idealismo soggettivo e senza alcun legame con le definizioni particolari delle singole scienze naturali.
2) Quello di classe è uno dei concetti fondamentali del materialismo storico, attorno al suo rigore scientifico si gioca in gran parte la validità complessiva della teoria. È noto che nelle definizioni classiche esso si configura come un concetto esclusivamente economico. Preve dissente da questa tradizione, tacciandola di economicismo, e ritiene necessario distinguere la classe operaia – economico-sociologica – dalla classe proletaria – storico-filosofica [11]. Quest’ultima classe, sulla quale è bene concentrare l’attenzione onde evitare l’economicismo, è definita da variabili non solo economiche, ma anche culturali, storiche, morali, ecc. Lo stesso vien detto a proposito della borghesia: l’odierno capitalismo è postborghese e postproletario, giacché: «In senso storico, sia la borghesia che il proletariato sono veramente esistiti (nell’Ottocento), si sono a poco a poco trasformati fino all’estinzione (nel Novecento)…» [12]. Qui più che altrove le parole pesano come macigni. Introdurre variabili extraeconomiche nella determinazione dell’appartenenza di classe e, anzi, focalizzare l’attenzione su di esse, come fa Preve, significa non solo scardinare un’impalcatura scientifica dalle fondamenta, con tutti gli annessi “rischi di crollo”, ma anche – e soprattutto – privare il concetto di classe della sua riscontrabilità empirica, della sua riconducibilità a determinate variabili oggettive (economiche) chiaramente rintracciabili e verificabili; significa, in fin dei conti, rinunciare alla precisione scientifica di tale concetto.
Definizioni come “capitalismo postborghese” inquadrano indubbiamente una realtà – quella del passaggio del capitalismo dal codice morale tradizionale, sintetizzato nella formula Dio-Patria-Famiglia, ad un nuovo codice edonistico e decadente – ma la riflettono in modo deformato, viziato dall’equivoco concettuale di fondo: la borghesia, in quanto classe proprietaria dei mezzi di produzione e sfruttante la manodopera salariata, pur con varie differenziazioni interne, sopravvive oggi più forte che mai, benché abbia messo in soffitta i valori di cui un tempo si era fatta portatrice. Di più: il ragionamento da cui Preve prende le mosse nella sua critica dell’economicismo esemplifica a dovere gli effetti collaterali della “dialettica discendente”. Si parte da una premessa condivisibilissima: sarebbe prova d’unilateralità prestar attenzione esclusivamente all’aspetto economico; la dialettica esige che si prendano in considerazione tutti i fattori in gioco nella società. Tesi generale corretta e della massima importanza nella visione complessiva, dalla quale si deduce però la necessità di “dissolvere” la determinatezza dei concetti specificamente economici, introducendovi ogni sorta di “correttivi” esterni. S’intende che questo salto mortale logico, da una proposizione generale ad una estremamente particolare e determinata, è del tutto gratuito e nocivo all’accuratezza scientifica della teoria.
3)La contraddizione tra filosofia e ideologia occupa un posto rilevante nella produzione teorica di Preve. Esaminando il pensiero dei filosofi del passato, egli ha distinto al suo interno gli elementi filosofici, dal contenuto veritativo e dunque di portata universale, e gli elementi ideologici, espressione di determinati interessi di classe, particolaristici, cristallizzati nella falsa coscienza necessaria. Impostazione senza dubbio utile e interessante, che tuttavia Preve contrappone al principio leninista della partiticità in filosofia. Egli ha aspramente criticato la “riduzione dello spazio filosofico a spazio ideologico” operata da Lenin, come pure la creazione di un “fronte filosofico” e la riduzione della filosofia ad espressione di determinati interessi di classe[13]. La lettura dei testi parrebbe dargli ragione: in Lenin i termini “filosofia” e “ideologia” sono di fatto quasi interscambiabili, per cui sembrerebbe ch’egli riduca tutta la filosofia a falsa coscienza. Tuttavia, questa “stupefacente” circostanza ha ragioni filologiche ben precise: “L’Ideologia tedesca”, com’è noto, non fu data alle stampe da Marx ed Engels e comparve solo nel 1932; per cui Lenin – e con lui la gran parte dei marxisti, – non avendo avuto accesso al testo in questione, parlava di ideologia non come falsa coscienza, bensì come sinonimo di una generica visione del mondo, a prescindere dal suo contenuto veritativo o meno. In ciò egli fu seguito dalla tradizione del marxismo sovietico successivo e non solo. Col termine “ideologia” Lenin e Preve esprimono concetti differenti, ma quest’ultimo pare non accorgersene. Ripetiamo: la distinzione operata da Preve può rivelarsi utile e feconda, ma non è certo ammissibile fondare una critica del leninismo su di un semplice equivoco filologico, erigere un edificio teorico su di un’indebita sovrapposizione semantica.
4) Passiamo ora ad un’altra dicotomia, quella tra Weltanschauung e Kritik. Qui non abbiamo invero a che fare con Preve, bensì con Diego Fusaro, il quale è però sostanzialmente fedele al maestro per quanto attiene all’interpretazione del pensiero di Marx. Sottoscrivendo la distinzione previana tra pensiero marxiano e pensiero marxista, egli lamenta «la pretesa di essere una teoria onnipotente e onnipervasiva, in grado di fare luce su tutto», propria del secondo, «il suo carattere dogmatico di “visione del mondo” (e non di “critica”)» [14]. La critica, asserisce Fusaro, è in contraddizione insanabile con ogni visione del mondo, a causa del carattere dogmatico connaturato a quest’ultima. Come conciliare tuttavia questa opinione con la rinuncia alla conoscenza della verità assoluta e con la necessità di modificare la forma del materialismo ad ogni scoperta rivoluzionaria nelle scienze naturali, rivendicate da Engels, uno dei principali bersagli polemici di Fusaro? Di fatto la Weltanschauung risulta dogmatica soltanto qualora non accolga queste capitali istanze engelsiane, che implicano un costante adattamento della teoria alla prassi ed escludono ogni dogmatismo. Quella individuata da Fusaro si rivela dunque essere una contraddizione fittizia, puramente formale e incapace di produrre uno sviluppo concettuale. Egli non ha fatto altro che prendere due concetti diversi (ma non differenti! Si ricordi la distinzione aristotelica!), quello di visione del mondo e quello di critica, e sviluppare una contraddizione che non trova in essi il proprio fondamento e vi è quindi introdotta arbitrariamente dall’esterno. Procedimento tutto sommato accettabile per la dialettica mistificata di Hegel, ma radicalmente incompatibile con la dialettica scientifica.

Questo libero excursus critico nel pensiero previano illustra bene gli esiti di una dialettica mistificata, di marca hegeliana, applicata all’analisi di questioni concrete. Si sarebbe potuto adocchiare qualunque altro “incidente filologico” e ricavarne una teoria, si sarebbe potuta scegliere un’altra coppia qualsiasi di concetti diversi e sviluppare tra di essi una “contraddizione” insussistente nella pratica, e così via, con lo stesso fondamento cui possono pretendere le tesi previane enumerate poc’anzi. Tali sono necessariamente i frutti di una dialettica incontrollabile quale quella hegeliana, di una dialettica i cui risultati non possono esser oggetto di controllo puntuale e rigoroso, di “verifica sperimentale”, in quanto affidati, di fatto, all’arbitrio del “mistico soggetto-oggetto”. Come osserva il Della Volpe, «è la questione dell’incontrollabilità della dialettica hegeliana che… può condurci a una conclusione critica su tale dialettica»[15], a rigettarne l’impostazione discendente e aprioristica. Cosa che Preve ha scelto di non fare, e per giunta in totale coerenza con procedimenti arbitrari del genere di quelli documentati sopra, dei quali il “guscio mistico” della dialettica hegeliana rappresenta la legittimazione teorica. Finora il nostro discorso ha investito i problemi prettamente filosofici, ma non si tratta affatto di una disputa accademica; esso ha significative ripercussioni anche sulle scelte politiche, sull’azione pratica. Sono note le prese di posizione di Preve e di chi si richiama in varia forma al suo pensiero a favore del Front National francese, della Lega Nord, dell’eurasiatismo di Dugin, ecc., che hanno scatenato accese polemiche. Non è nostra intenzione entrare nel merito della questione ed emettere un giudizio politico su Preve, né, tanto meno, etichettarlo come “fascista” o con altri epiteti demenziali. Vogliamo invece rintracciare la radice teorica di queste prese di posizione e analizzarla alla luce della nostra critica generale.
Discutendo della natura sociale della Cina contemporanea, Preve ha scritto: «Losurdo ha ragione nel rilevare che oggi la contraddizione principale non è quella di tipo “capitalistico” (l’esistenza di strutture di classe in paesi che ufficialmente dichiarano di essere socialisti), ma è quella di tipo “imperialistico”. Oggi bisogna fermare il monopolio militare degli USA. Questo è il 95% del problema del mondo, il resto è importantissimo, ma viene dopo. Nel linguaggio di Mao, questo si chiama distinguere la contraddizione principale da quelle secondarie. Su questo punto (la gerarchizzazione corretta delle contraddizioni) mi considero tuttora un allievo di Mao Tse Tung» [16]. Al di là del risvolto concreto (da noi condiviso) di quest’affermazione, c’interessa la sua base teorica, vale a dire il modo in cui si perviene alla conclusione che bisogna sostenere la Cina contro l’imperialismo americano. Come suggerisce l’uso della metafora matematica, siamo in presenza di una disamina quantitativa del reale, di un’analisi della correlazione delle forze in campo sull’arena mondiale, il calcolo del cui rapporto determina quale sia la “contraddizione principale” e quale sia la posizione da assumere in relazione ad essa. Una logica pragmatica, attenta ai fenomeni reali e pertanto assai attraente agli occhi di chi si occupa di politica; una logica che funzionava piuttosto bene nel contesto della Cina semifeudale e coloniale in cui fu originariamente concepita da Mao, ma che rivela tuttavia le sue aporie nei paesi a capitalismo avanzato, ove le forze interne al modo di produzione capitalistico assumono più complesse sfaccettature e differenziazioni nella cui selva è difficile orientarsi con la metodologia maoista, quantitativa. Forse il metodo contrastivo sarà d’aiuto nello svelare i limiti di tale impostazione, perciò riportiamo per esteso un esempio di un approccio alternativo al problema:

«Certo, il fatto che il potere del capitale sia dominante nei moderni Stati borghesi in forme politiche diverse non esclude la necessità che il rapporto del proletariato vari come fa la forma del dominio politico borghese. Le repubbliche democratico-borghesi e il regime di rappresentanza parlamentare, il suffragio più ampio e il suffragio più limitato, il regime fascista o il regime democratico borghese – questi non sono problemi indifferenti al proletariato, che deve differenziare la costruzione della sua politica in riferimento agli Stati borghesi. Sotto il capitalismo il proletariato è estremamente interessato alle «libertà» democratico-borghesi e ai «diritti civili», che facilitano il processo di organizzazione dei suoi ranghi e di direzione dei suoi alleati. «Senza il parlamentarismo, senza le elezioni, questo sviluppo della classe operaia sarebbe stato impossibile» (Lenin). Il proletariato è interessato al movimento della società borghese in avanti, non a ritroso. Il fascismo trascina questa società a ritroso dalla democrazia borghese allo Stato feudale d’illegalità e al medievalismo, perpetuando la schiavitù della classe lavoratrice e condannandola all’estinzione e all’eterno servaggio. Gli interessi della classe operaia e di tutti i lavoratori richiedono quindi una battaglia decisiva contro lo Stato «totalitario» del fascismo e col fascismo nel suo complesso. Ciò non deroga, tuttavia, all’importanza di caratterizzare ogni tipo di Stato borghese – anche il più «democratico» – come una macchina per schiacciare e reprimere i lavoratori, come un randello nelle mani degli sfruttatori e contro gli sfruttati.»
(Andrej Vyšinskij, The Law of the Soviet State, Macmillan, New York, 1948, pp. 11-12)

È qui superato ogni riduzionismo quantitativo: la scelta politica di supportare le rivendicazioni democratico-borghesi è determinata non tanto dal rapporto di forze esistente fra due tipi di Stati – ugualmente imperialisti ed ostili al comunismo – quanto piuttosto dal carattere progressivo che tali rivendicazioni assumono in rapporto al fascismo. La lotta contro quest’ultimo è prioritaria non in ragione della “superiorità numerica” delle sue forze, bensì in quanto esso costituisce la variante più retrograda di Stato borghese, in cui la classe dominante si è liberata delle ingombranti e fastidiose garanzie democratiche che un tempo le erano state utili. Il piano dell’analisi è palesemente qualitativo, attento non soltanto alla consistenza numerica delle varie forze politiche ma altresì alla loro funzione storica (nel dato contesto) e al loro carattere di classe. Benché si avverta il bisogno di ridefinire numerose categorie (fascismo, democrazia, ecc.) e di ripulirle dal ciarpame ideologico associatole dal pensiero politically correct, la metodologia proposta da Vyšinskij consente tutt’oggi di orientarsi nel burrascoso mare delle contraddizioni nei paesi capitalistici sviluppati, evitando compromessi politici discutibili. Essa valorizza la lezione del giovane Marx [17] che nel 1843 mise in guardia contro la tendenza dell’idealismo hegeliano ad affidarsi alla cattiva, volgare empiria, a soffermarsi sui lati più superficiali e immediati della realtà, senza approfondirne l’indagine critica – la quale necessita degli strumenti teorici di cui ci si è pregiudizialmente privati circoscrivendo la dialettica ai pensieri puri e all’attività del soggetto, di cui l’oggetto non è che un’estrinsecazione, sprovvista di dignità ontologica propria.
La dialettica mistificata, sebbene inizialmente ne rifugga, deve infine fare i conti con la realtà. E quale approccio alla politica reale meglio del pragmatismo estremo, del tatticismo, si concilia con l’arbitrio e l’unilateralità che contraddistinguono una simile dialettica? Il freddo calcolo delle proporzioni delle forze in campo, la conseguente scelta spregiudicata e indiscriminata degli “alleati”, la subordinazione delle esigenze programmatiche a quelle tattico-strategiche, presuppongono un’analisi alquanto povera della realtà socio-politica, che ne coglie solo gli aspetti più superficiali e visibili, quantitativi, senza addentrarsi in profondità. Per praticare una simile politica non serve neppure far riferimento a Marx: il buon vecchio Machiavelli basta e avanza. Concludendo questo breve saggio, nel quale abbiamo cercato di mettere a fuoco alcuni di quelli che sono a nostro avviso i punti deboli del retaggio filosofico di Costanzo Preve, vorremmo abbozzare una soluzione alternativa al problema dell’unità dell’indagine e della critica nella scienza filosofica marxiana. L’esistenza di questa unità è indubbia: Marx non è solo uno scienziato intento alla fredda analisi dei meccanismi della riproduzione capitalistica, ma anche il più severo critico del capitalismo in quanto sistema sociale oppressivo e alienante per l’uomo e, di conseguenza, il propugnatore di una lotta politica per affossarlo.
Di primo acchito ciò sembrerebbe legittimare l’arbitrio soggettivo: il capitalismo “deve” esser superato in forza del giudizio di valore negativo espresso da chicchessìa. Ma allora come spiegare le parole d’elogio riservate da Marx al capitalismo in ascesa, nonostante i traumi provocati dall’accumulazione primitiva e la resistenza dei lavoratori all’introduzione delle macchine? L’unica risposta plausibile ci pare esser quella dellavolpiana: il capitalismo viene bollato come “negativo” da superare non in forza di considerazioni morali, ma sulla base dell’analisi del presente storico, dei suoi tratti specifici e della sua origine, che ci conduce a conoscere le esigenze di questo presente e i problemi che abbisognano di risoluzione, determinando così le contraddizioni risolventi sulle quali occorre insistere [18]. In tal modo ogni residuo di soggettivismo risulta espunto dalla teoria; il che non significa affatto che i singoli marxisti non possano liberamente esprimere giudizi morali sul capitalismo ed esser spinti all’azione da considerazioni soggettive. È probabile che per lo stesso Marx fosse così, in quanto, come Preve ha avuto il merito di rimarcare, la coscienza ideologica è una forma necessaria del rispecchiamento quotidiano del reale, cui nessuno può sottrarsi in toto. Il discorso a questo punto si allargherebbe al problema della necessità delle leggi storiche, ma i limiti di spazio c’impongono di rimandarne la trattazione ad altra sede.
Costanzo Preve ha lasciato in eredità un inestimabile patrimonio filosofico che deve essere valorizzato e accuratamente analizzato, evitando sia le sciocche demonizzazioni che le esaltazioni acritiche – parimenti metafisiche – e conservando quanto vi è di utile e di fecondo nel suo contributo, in particolare il lodevole tentativo di dedurre le categorie filosofiche per via storico-sociale, in contrapposizione alle storie della filosofia meramente dossografiche e desocializzate attualmente di moda. Auspichiamo che la discussione aperta con questo articolo prosegua con profitto.

Note

[1]Cfr. C. Preve, ”Una nuova storia alternativa della filosofia” Editrice Petite Plaisance, 2013, pp. 297-305.
[2] Cfr. C. Preve, ”Marx lettore di Hegel e… Hegel lettore di Marx”, Editrice Petite Plaisance, 2009, pp. 16-18.
[3] C. Preve, op. cit., pp. 18 e 13.
[4] Cfr. C. Preve, ”Una nuova storia alternativa della filosofia”, cit., p. 305
[5] Ibid., p. 311.
[6] Ibid., p. 312.
[7] K. Marx, ”Opere filosofiche giovanili”, Editori Riuniti, 1950, p. 274.
[8] Cfr. C. Preve, ”Proposta di interpretazione, metodologia e periodizzazione per la storia della filosofia marxista” (1839-2002), p. 7.
[9] Cfr. G. della Volpe, ”Logica come scienza storica”, Editori Riuniti, 1969, pp. 129-132.
[10] C. Preve, ”Ludovico Geymonat”, p. 18.
[11] Cfr. C. Preve, ”Note critiche sul bordighismo”, p. 20.
[12] C. Preve, ”Invito ad una discussione radicale sul marxismo”, p. 5.
[13] Cfr. C. Preve, ”A ottanta anni dalla morte di Lenin” (1924-2004), p. 7.
[14] D. Fusaro, ”Bentornato Marx!”, Bompiani, 2009, p. 38.
[15] G. della Volpe, op. cit., p. 122.
[16] C. Preve, ”Il maoismo”, p. 19.
[17] Lezione profondamente assimilata e recepita da Vyšinskij, come si evince dall’ampio spazio riservato alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico nella sua ricostruzione del pensiero giuridico marxiano (cfr. AA.VV., ”Teorie sovietiche del diritto”, a cura di U. Cerroni, Giuffrè, 1965, pp. 277-278).
[18] Cfr. G. della Volpe, op. cit., pp. 321-322.
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La genesi del revisionismo moderno nell'Unione Sovietica e nel movimento comunista internazionale


«Oggi il nostro popolo accelera con vigore la costruzione di un potente Stato socialista, in lotta contro ogni genere di tendenze ideologiche reazionarie, con il grande kimilsungismo-kimjongilismo come principio guida. L’esperienza storica della nostra rivoluzione mostra vivamente che possiamo tener fermi i princìpi rivoluzionari e i princìpi di classe ed avanzare senza esitazioni sulla strada socialista solo quando innalziamo la nostra vigilanza contro le idee borghesi e il revisionismo, in particolare il revisionismo contemporaneo, ed intensifichiamo la lotta contro di essi. Il revisionismo moderno affonda le sue radici nell’ideologia borghese e nacque sullo sfondo della nuova epoca storica e della situazione prevalente. Il compagno Kim Jong Il, grande leader, insegnava: «Il revisionismo contemporaneo, apparso a metà degli anni ’50, ha recato immenso pregiudizio al movimento comunista internazionale per svariate decine di anni e lascia una seria lezione» (Opere scelte, vol. X, Edizioni in lingue estere, Pyongyang 1999, p. 259).
Il revisionismo moderno si originò e diffuse in una serie di Paesi socialisti dopo la Seconda Guerra Mondiale. A metà degli anni ’50 emerse come scuola di pensiero indipendente e causò enormi danni alla costruzione socialista. Il revisionismo contemporaneo si originò nei partiti della classe operaia al potere come opportunismo reazionario di destra che rincorre la degenerazione del socialismo e la transizione al capitalismo abbandonando i princìpi rivoluzionari della classe operaia nel periodo della costruzione socialista e si conforma alla politica borghese. Il revisionismo moderno, radicato nell’ex Unione Sovietica, emerse come nuova corrente ideologica internazionale sullo sfondo delle condizioni storiche in cui il socialismo si trasformava in un sistema mondiale. Quando Stalin era in vita, Chruščëv cantava le sue lodi come il «Lenin di oggi», il «cervello e cuore del partito», il «più grande genio dell’umanità» e il «grande maresciallo invincibile». Dopo la sua morte, si impadronì del potere nel partito e nello Stato con metodi cospirativi. Poi chiese di stabilire la cosiddetta «nuova linea», dicendo che la linea politica di Stalin andava riesaminata con il pretesto che «i tempi sono cambiati». Questa «nuova linea» era la linea revisionista. In politica economica, contro la superiorità essenziale e le caratteristiche transitorie della società socialista, ignorava gli elementi politici e ideologici ed evidenziava unilateralmente solo i fattori materiali ed economici, incline a politiche di onnipotenza materiale. Al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, convocato nel febbraio 1956, Chruščëv fissò la sua linea revisionista, la «coesistenza pacifica» fra Stati con diversi sistemi sociali, come linea generale della politica estera. Formulò e promosse linee revisioniste che contraddicevano i princìpi rivoluzionari della classe operaia, come la «transizione pacifica» al socialismo e il «disarmo».
L’origine del revisionismo contemporaneo ha certe radici costanti. Nelle condizioni in cui esistono le influenze borghesi e la pressione degli imperialisti, possono emergere coloro che vi soccombono. Quando questa gente appare nel movimento operaio internazionale, il revisionismo è destinato a sorgere. I soggetti succubi delle influenze borghesi e cedevoli alla pressione dell’imperialismo possono spuntare nei Paesi capitalistici e anche all’interno dei partiti al potere nei Paesi socialisti. Non c’è garanzia che il revisionismo non alzi la testa solo perché un partito detiene il potere o conduce la rivoluzione da molto tempo. La sorgente del revisionismo moderno nel partito al potere dell’ex Unione Sovietica, con una lunga rivoluzione alle spalle, è, in primo luogo, la soggezione dello stesso Chruščëv alle influenze borghesi. Dopo aver scalato le gerarchie del partito e del governo con astuti metodi di doppio gioco, si stancò della rivoluzione ininterrotta e, invece di portare avanti la rivoluzione, era pervaso dall’idea di godersi l’ozio e il piacere con i traguardi già conseguiti. Le idee borghesi di Chruščëv si rafforzarono con la sua visita negli Stati Uniti dopo la presa di potere. Visitando gli Stati Uniti nel settembre 1959, Chruščëv venne affascinato dal mondo capitalista e girò per dieci giorni le fabbriche di razzi balistici intercontinentali, le piantagioni di mais nell’Iowa, le acciaierie ed altri stabilimenti. Questa fascinazione presto lo indusse a fantasticare sul capitalismo. Quando gli imperialisti blateravano di «fine della Guerra Fredda» negli anni ’60 ed esageravano nei buoni propositi delle politiche di «pace» e «cooperazione», Chruščëv nutriva illusioni sul loro conto e chiacchierava di «imperialismo ragionevole». L’ex Partito Comunista dell’Unione Sovietica divenne profondamente imbevuto di idee borghesi perché non riuscì a stanare quelli come Chruščëv, prigionieri delle influenze borghesi, in maniera tempestiva. Alla fine, voltò le spalle ai princìpi rivoluzionari e s’incamminò sul sentiero del revisionismo.
La sorgente del revisionismo contemporaneo è, in secondo luogo, la resa alla pressione dell’imperialismo. La pressione degli imperialisti contro il socialismo si fece ancora più subdola dopo la Seconda Guerra Mondiale. Gli imperialisti manipolavano svariate organizzazioni economiche internazionali al fine di bloccare economicamente i Paesi socialisti. Nel mentre proibivano l’esportazione di «beni strategici» nei Paesi socialisti e stringevano il controllo sui beni esportati in generale. Terrorizzato dal ricatto nucleare degli imperialisti, dalle minacce militari e dal blocco economico, Chruščëv si avviò sul cammino della resa. Il suo capitolazionismo venne palesato durante la «crisi dei Caraibi», quando ritirò in fretta i missili e gli aerei che aveva dispiegato a Cuba. Alla fine, l’ex Partito Comunista dell’Unione Sovietica si arrese alle pressioni imperialiste e adottò pubblicamente il revisionismo in politica dopo l’ascesa al potere di Chruščëv.
Il fattore decisivo nella genesi del revisionismo moderno risiede nell’incapacità dell’ex Unione Sovietica di indicare correttamente il successore del leader. Le idee rivoluzionarie del leader e la causa della rivoluzione sono assimilate e sviluppate di generazione in generazione solo quando il leader seleziona il successore e il suo sistema direttivo viene insediato come si deve. Stalin non riuscì tuttavia a designare il giusto successore. Di conseguenza, traditori e intriganti come Chruščëv annullarono con perfidia le conquiste del leader e fomentarono sfacciatamente il revisionismo. Anche dopo la destituzione di Chruščëv in seguito all’incapacità di eleggere regolarmente il successore del leader e di radicare il suo sistema direttivo, il partito e il governo sovietico non furono in grado di sfuggire al pantano del revisionismo creato da Chruščëv per mancanza di solidi princìpi rivoluzionari e di un profondo spirito di lotta di classe. L’esperienza storica mostra chiaramente che il fattore decisivo nella genesi del revisionismo contemporaneo risiede nell’incapacità di selezionare il successore del leader e di mettere a punto il relativo sistema di leadership. Tutti i membri del partito e i lavoratori dovranno essere al corrente della tossicità del revisionismo moderno, innalzare la vigilanza perché nessun genere di tendenze ideologiche reazionarie si infiltri da noi e combattere attivamente per modellare tutta la società sul kimilsungismo-kimjongilismo.»

Kyongje Yongu, n. 3, 2018, pp. 58–59.
view post Posted: 23/1/2024, 22:43 I comunisti coreani sullo sciovinismo da grande potenza di Krusciov e Brežnev - Opere dei dirigenti e documenti storici

I comunisti coreani sullo sciovinismo da grande potenza di Krusciov e Brežnev


«L’importanza dell’autosufficienza nell’economia nel forgiare il destino di un Paese, della nazione e del popolo può trasparire dalla questione del Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon) che era oggetto di dibattito rovente nel periodo in cui esisteva il campo socialista. Con l’avvento del revisionismo moderno nei Paesi socialisti, gli sciovinisti da grande potenza costrinsero tutti i Paesi socialisti a unirsi al Comecon sulla base delle teorie della “divisione internazionale del lavoro” e di una “economia integrata”, disattendendo l’esigenza basilare del popolo che plasma il suo destino con lo Stato nazionale come unità. Nei primi tempi dell’edificazione del socialismo, anche la RPDC era sotto la pressione degli sciovinisti da grande potenza. In considerazione del livello di sviluppo economico del Paese, che era inferiore a quello dei Paesi socialisti d’Europa, era ovvio che la RPDC non sarebbe mai stata benestante e che sarebbe stata posta in subordine, se avesse vissuto della vendita di carbone, d’oro e d’altre risorse minerarie ponendo la sua linfa vitale economica nelle mani altrui. Il Presidente Kim Il Sung, che aveva invariabilmente considerato il principio d’indipendenza come la linfa vitale della rivoluzione e della costruzione, respinse la pressione degli sciovinisti da grande potenza per l’entrata del Paese nel Comecon, partendo dall’esigenza d’indipendenza del popolo coreano, e scelse il sentiero non battuto dell’edificazione di un’economia nazionale indipendente senza esitazione. Il socialismo nei Paesi che avevano acceduto al Comecon in conformità con l’intento e l’esigenza altrui si sono disintegrati in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma la RPDC, che aveva edificato un’economia nazionale autosufficiente in stretta aderenza agli interessi del Paese e del popolo, è rimasta una fortezza dell’indipendenza malgrado lo scompiglio politico del mondo, un’eloquente testimonianza del significato dell’autosostentamento in economia nello scolpire il destino di un Paese, della nazione e del popolo.»
(Il destino dell’uomo e l’idea del Juché, Casa Editrice in Lingue Estere, Pyongyang, 2012, pp. 54-55)

«Il partito di un certo Paese affermava di essere il "centro" del movimento comunista internazionale e ordinava agli altri partiti di far questo o quello. Esso agiva senza esitare a far pressione sugli altri partiti e ad interferire nei loro affari interni se si rifiutavano di seguire la sua linea, anche se era sbagliata. Di conseguenza, l’unità ideologica e gli amichevoli rapporti di cooperazione tra i partiti comunisti furono grandemente indeboliti, e ciò rese loro impossibile contrastare l’imperialismo come una forza unita. I partiti di alcuni Paesi si piegarono alla pressione delle grandi potenze ed agirono sotto il bastone altrui, e il risultato di ciò fu che essi accettarono docilmente il revisionismo quando i grandi Paesi giunsero al revisionismo ed accettarono la "riforma" e la "ristrutturazione" quando gli altri lo fecero. Pertanto, nell’Unione Sovietica e nell’Europa orientale il socialismo ha subito uno scacco, e questo è uno stato di cose alquanto serio.»
(Kim Jong Il, Discorso ai membri anziani del Comitato Centrale del Partito del Lavoro di Corea, 3 gennaio 1992)

«Lottare per la difesa del campo socialista e per la sua unità è un sacro dovere di tutti i comunisti. Questi non devono ammettere alcun atto suscettibile di indebolire l’unità del campo socialista. Non si deve né includere nel campo socialista i rinnegati della rivoluzione né espellere in modo arbitrario questo o quel Paese. [...] L’integrazione del gruppo jugoslavo di Tito nel campo socialista e nel movimento comunista internazionale, costituirebbe un indebolimento dell’unità del primo e della coesione del secondo. Questo gruppo ha tradito il marxismo-leninismo, si è allontanato dal campo socialista e dal movimento comunista internazionale, si oppone alle Dichiarazioni delle Conferenze dei rappresentanti dei partiti comunisti e operai ed opera allo scopo di minare il movimento rivoluzionario internazionale. Già da molto tempo esso ha moralmente perduto, per colpa di questi atti, il diritto di accesso al campo socialista e al movimento comunista internazionale. [...] L’atteggiamento sbagliato che viene adottato nei confronti della Jugoslavia, così come una serie di altre questioni, oggi ostacolano la restaurazione dell’unità del campo socialista e della coesione del movimento comunista internazionale.»
(Kim Il Sung, La situazione attuale e i compiti del nostro partito, 5 Ottobre 1966, Op. Scelte Vol. IV)

«Il Comecon era un'organizzazione per la cooperazione economica istituita nel gennaio 1949 dall'Unione Sovietica e da altri Paesi est-europei per far fronte al blocco economico degli imperialisti tramite sforzi congiunti. I revisionisti, tuttavia, tramarono per ridurlo a un mezzo volto a mantenere economicamente soggiogati i primi a partire dalla metà degli anni '50. Se la RPDC fosse entrata nel Comecon sarebbe stata incapace di costruire un'economia nazionale indipendente, incatenata da Paesi stranieri come una componente dell'"economia integrata” e ridotta quindi a un giocattolo nelle mani dei grandi Paesi. Essa rigettò decisamente la richiesta dei revisionisti moderni di entrarvi a far parte, sostenendo che fosse pienamente conforme ai principi internazionali per la RPDC costruire appropriatamente il Socialismo coi suoi sforzi senza unirsi al Comecon, e mantenne fermamente la linea di costruire un'economia nazionale indipendente senza entrare nel Consiglio. La RPDC si attenne anche al principio di autosufficienza nella difesa. A quei tempi i revisionisti sollecitarono la RPDC a firmare il Patto di Varsavia, con l'intento di impedirle di avanzare lungo la via della difesa autosufficiente. Il Patto di Varsavia era un patto siglato dall'Unione Sovietica e dai Paesi socialisti est-europei nel maggio 1955 per difendere la pace e la sicurezza in Europa e le conquiste del socialismo, dal momento che si istituì l'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (NATO) nell'Europa occidentale, sorgendo così il pericolo di un'altra guerra mondiale. Il patto, tuttavia, fu relegato a un mero strumento di subordinazione dei paesi socialisti, contrariamente alla sua missione iniziale e ai suoi doveri, sull'onda della comparsa del revisionismo kruscioviano».
(Choe Su Nam, Pak Kum Il, RPDC: sette decenni di creazioni e cambiamenti, Edizioni in Lingue Estere, Pyongyang 2018, pagg. 51-52 ed. ing.)

«Subito dopo che il popolo coreano si era accinto alla ricostruzione postbellica tirando la cinghia, a Chruščëv, allora primo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, venne in mente l’idea di affiliare la Repubblica popolare democratica di Corea al Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon). Elogiava la sua idea come un «piano benefico per l’interesse e la prosperità delle nazioni povere». Accampando una «borsa di seta piena di benefici» intendeva trascinare nel Comecon la RPDC, una forte nazione antimperialista e antirevisionista dal solido spirito d’indipendenza, e «tener in pugno le redini» del campo socialista. E tuttavia sapeva bene che Kim Il Sung, dirigente della RPDC, era circondato da alto rispetto e prestigio nell’arena internazionale, dunque evitò di entrare subito nel merito del problema dell’ingresso del Paese nel Comecon. Profuse grandi sforzi nell’elaborazione di un piano per attirare la Corea nel Comecon. Kim Il Sung si fermò a Mosca nel giugno 1956, in viaggio verso l’Europa orientale per una visita ai Paesi fratelli. In quell’occasione Mikojan, primo vicepresidente del Consiglio dei ministri sovietico, sollevò la questione dell’entrata della Corea nel Comecon.
Parlando della situazione economica del Paese negli anni del dopoguerra, egli si affannò a spiegare i possibili vantaggi della proposta adesione. Kim Il Sung declinò cortesemente la sua «offerta». Fallito il tentativo di raggiungere il suo obiettivo usando Mikojan, Chruščëv mobilitò allora la vecchia Germania Est, poi la ex Cecoslovacchia e le altre nazioni del Comecon, ma ancora invano. E quando Kim Il Sung si fermò a Mosca, di ritorno dalla sua visita nei Paesi socialisti dell’Europa orientale, Chruščëv intonò personalmente la melodia dei «benefici dell’entrata nel Comecon». Il leader coreano formulò argomentazioni logiche per confutare la sua teoria sofistica della «specializzazione internazionale» e dell’«assistenza reciproca fraterna. Disse quanto segue: «Noi non siamo contrari alla specializzazione internazionale dei Paesi socialisti in quanto membri del Comecon.Riteniamo inoltre comprensibile che alcune nazioni ad alto sviluppo industriale chiedano aiuto reciproco, cooperazione e specializzazionefra i Paesi socialisti perché sono a corto di materiali e di mercati. Ma noi ci troviamo in una posizione diversa. Come sapete, la nostra industria non è ancora così sviluppata da farsi carico di un settore specifico, della produzione in massa di macchine e del rifornimento agli altri Paesi. Lo stesso dicasi per l’agricoltura. Giacché non abbiamo ancora nemmeno riempito i crateri delle bombe o ultimato i progetti d’irrigazione, non possiamo ancora produrre abbastanza cibo per il nostro fabbisogno interno. Pertanto, sapete, difficilmente potremmo occuparci dell’agricoltura anche per il Comecon. Al momento dipendiamo dalle importazioni di riso dall’Unione Sovietica e dalla Cina e, ovviamente, non possiamo assumerci il compito della produzione risicola per l’organizzazione internazionale. Non possiamo neanche gestire la produzione di frutta. Come potremmo mai stare nella medesima classe noi e voi, quando noi frequentiamo l’asilo e voi l’università? Mi piacerebbe proprio sentire la vostra risposta! Faremmo meglio ad estrarre i minerali di ferro da soli, a produrre metallo fuso, a costruire pompe idrauliche e a coltivare la terra per sfamarci. Allora non saremo più in posizione di mendicare da voi questo o quello, e ciò allevierà i vostri oneri. Anzi, può esser interpretato come il nostro aiuto internazionale nei vostri confronti, non è vero? È consigliabile che non ci sproniate a entrare nel Comecon finché non ne siamo all’altezza. Che ne dite di prendere in considerazione il vostro suggerimento dopo che noi avremo raggiunto un livello idoneo edificando un’economia nazionale indipendente?»
Le parole di Kim Il Sung fluivano con gentilezza e cortesia, ma erano così logiche che Chruščëv si scoprì incapace di muovere ulteriori obiezioni. Ma, rifiutando di abbandonare il proposito di includere la Corea nell’organizzazione internazionale a guida sovietica, Chruščëv seguitò a perseguire il suo piano con pervicacia, senza lesinare gli sforzi, malgrado i suoi ripetuti fallimenti. Così decise di fare un ultimo e disperato tentativo. Nel gennaio 1963 inviò Andropov, allora segretario del Comitato centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, a Pyongyang in missione speciale. Quando fu ricevuto da Kim Il Sung, disse che Chruščëv l’aveva incaricato di spiegare la posizione del partito sovietico verso il problema della «specializzazione internazionale» fra le nazioni socialiste. Allora articolò un lungo argomento, dicendo: «Sta alla libera scelta delle singole nazioni unirsi alla specializzazione internazionale e alla cooperazione oppure no. Non è stata l’Unione Sovietica, ma l’Ungheria, la Cecoslovacchia e altre piccole nazioni a proporre la specializzazione internazionale. Se reputate vantaggiose la specializzazione e la cooperazione internazionale, potete partecipare ma, se no, vi è permesso di restare fuori dal programma. Esiste un principio stabilito nel 1956 che consente ai membri di sviluppare il settore che si rivela proficuo per loro, anche quando sono coinvolti nella specializzazione internazionale. Se questo principio viene interpretato meccanicamente, temo, voi potreste pensare che l’Unione Sovietica, la Germania democratica, la Cecoslovacchia ed alcuni altri Paesi debbano sviluppare solo le industrie mentre gli altri debbano occuparsi unicamente di agricoltura. Questo è lungi dalle idee del partito sovietico». La posizione di Chruščëv propugnata da Andropov era alquanto flessibile. Ma dietro quel gentile consiglio, Kim Il Sung notò immediatamente il subdolo piano di Chruščëv per conseguire l’obiettivo che non era riuscito a raggiungere in modo coercitivo e opprimente. Allora cominciò ad esprimersi. Disse: «Quando il vostro partito avanza un’opinione giusta noi la sosteniamo e seguiamo la vostra stessa via; quando esponete un punto di vista a noi sfavorevole, lo evitiamo e andiamo per la nostra strada. Certo, quando noi affermiamo la necessità di edificare un’economia nazionale indipendente, non significa che non abbiamo bisogno di aiuto dall’Unione Sovietica e dal campo socialista. Finora abbiamo utilizzato al meglio l’aiuto dei Paesi socialisti per accelerare la costruzione socialista e, di conseguenza, siamo ora in grado di reggerci sulle nostre gambe. Crediamo di dover dare la precedenza all’esercizio delle nostre forze in qualunque lavoro piuttosto che all’aiuto degli altri Paesi. Soltanto allora riusciremo a purificare il pensiero del nostro popolo dall’idea di dipendere unicamente dall’assistenza altrui e ad armarlo dello spirito di autonomia. Alcuni individui nei Paesi stranieri non comprendono questo principio e pensano che vogliamo edificare la nostra economia in solitudine. Quando diciamo di voler costruire una economia nazionale indipendente, non intendiamo dichiararci contrari alla specializzazione internazionale.»
Kim Il Sung fece una breve pausa e poi riprese: «Al momento alcuni giovani dirigenti del vostro Paese ci rivolgono misteriose osservazioni. Certo, non pensiamo che questa sia la politica del vostro partito, ma parlano come se il nostro partito dovesse proprio copiare ogni cosa dal partito sovietico e non ci fosse consentito di seguire alcuna via diversa. Il che va contro le nostre idee. Francamente parlando, i funzionari dell’ambasciata sovietica nel mio Paese non sembrano granché lucidi. Credono che quando loro attaccano con "A” noi dobbiamo proseguire con “B” ma non con “T”. Ho sentito che un corrispondente sovietico ha sparlato di uno slogan che sollecitava a costruire una economia nazionale indipendente quando l’ha letto durante una visita a una fabbrica nel nostro Paese. Si è permesso di dire: “Provate pure, se ci riuscite”. È questa la buona educazione?» Andropov disse: «Il corrispondente sovietico sbagliava quando ha parlato male dello slogan del partito coreano sull’edificazione di una economia nazionale indipendente; è un insulto al popolo coreano. Vi chiedo scusa». Kim Il Sung, sfoggiando un sorriso generoso, disse: «La costruzione di una economia nazionale indipendente non appartiene affatto al nazionalismo, ma all’internazionalismo. Come ho detto a Chruščëv in precedenza, non dovremo più importare grano dall’Unione Sovietica quando avremo messo in piedi una economia nazionale indipendente e mietuto un ricco raccolto. Questo potrebbe essere un aiuto internazionalista all’Unione Sovietica da parte nostra. Autonomia significa reggersi sulle proprie gambe. Che cosa c’è di male nella nostra posizione autonoma? Nulla.» Il segretario del partito sovietico annuì, dicendo: «Noi saremmo lieti se tutte le nostre nazioni sorelle sviluppassero la propria economia con i propri sforzi come fanno i coreani. Chi, se non uno sciocco, potrebbe mai opporsi alla costruzione di una economia nazionale autosufficiente? Apprezzo l’impegno del partito coreano nell’edificazione di un’economia nazionale indipendente. Penso di avere raggiunto una perfetta comprensione della politica del partito coreano». Di ritorno a Mosca, Andropov riferì immediatamente le dichiarazioni di Kim Il Sung a Chruščëv parola per parola. La lunga e annosa controversia sulla questione dell’ingresso della Corea nel Comecon era finalmente giunta al termine.»
(Kim Myong Suk, Echi del XX secolo, Edizioni in lingue estere, Pyongyang 2014, pp. 22-28)
view post Posted: 23/1/2024, 22:40 In difesa della scienza sovietica - Articoli dei membri della Scuola quadri
Poiché l’articolo del sottoscritto è in realtà una critica ad un altro articolo, verranno qui postati entrambi gli articoli, in modo da rendere molto più comprensibili le critiche trattate nell’articolo di risposta. In ordine, verranno qui riportati prima l'articolo confutato dal sottoscritto, e poi l'articolo di risposta. Coloro che leggeranno l'articolo di risposta sono pregati di diffonderlo quanto è più possibile, poiché il sottoscritto ritiene che sia importante far conoscere a tutti i termini del dibattito, soprattutto per contribuire alla diffusione della verità storica su un tema così dimenticato, eppure allo stesso tempo di così grande importanza. Buona lettura.

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Stalin, il Big Bang e la fisica
quantistica


E' un dato di fatto che la scienza in Unione Sovietica ha fatto progressi e ha contribuito ad approfondire conoscenze in molti campi, soprattutto a fini militari, al fine di contrastare la superiorità occidentale. Ma, come Leonardo da Vinci, Galileo e molti altri inventori ci insegnano, la ricerca militare è un modo per studiare la scienza e per ottenere facilmente fondi per futuri progressi e scoperte. Allo stesso tempo, soprattutto durante l'era staliniana, l'ideologia ha svolto un ruolo fondamentale nella scienza, bloccando spesso l’inventiva e le ricerche degli scienziati. Allo scopo di aderire alla linea del partito, le ricerche nell’Unione Sovietica talvolta sconfinano nel ridicolo. Questo fenomeno (sviluppo contro parossismo) è stato ben studiato da Alexei B. Kojevnikov, ricercatore dell'Istituto di Storia della Scienza e della Tecnologia presso l'Accademia Russa delle Scienze a Mosca, che lo ha definito "il principale paradosso della scienza sovietica".

La dottrina Zhdanovshchina
La manifestazione più famosa di questo parossismo e di questa assurdità è stata la dottrina detta “Zhdanovshchina” (1946-1953). Nel 1946 Andrej Zhdanov, nuovo ideologo della politica culturale sovietica nominato personalmente da Stalin, svelò i principi che avrebbero modellato la vita culturale e scientifica dell'Unione Sovietica fino al 1953. La Zhdanovshchina, questo è il nome della dottrina, stabiliva che gli artisti, gli scienziati e gli intellettuali avrebbero dovuto uniformare le loro opere, ricerche e studi in conformità alla linea del partito. Milovan Djilas, il consigliere di Tito, incontrò Zhdanov nel 1948, durante il famoso viaggio a Mosca che allontanò la Jugoslavia dal Comintern: "Era ben educato ed era considerato un grande intellettuale all’interno del Politburo. Nonostante la sua ben nota ristrettezza di vedute e il suo dogmatismo, direi che le sue conoscenze non erano trascurabili, ma anche se aveva una certa conoscenza di ogni cosa, persino della musica, non direi esistesse un singolo campo che conosceva a fondo. Era un tipico intellettuale che si era fatto conoscere e aveva sviluppato le nozioni di altri campi attraverso la letteratura marxista." Zhdanov, che era il padre del genero di Stalin e avrebbe dovuto succedergli alla guida dell’URSS, morì però in circostanze sospette nel 1948, quando il suo tutore lo aveva già scaricato a favore di Malenkov. Nonostante la scomparsa del suo fondatore, la Zhdanovshchina continuò a dettare le linee guida del lavoro artistico e scientifico del paese sino alla morte di Stalin e fu accettata da quasi tutti gli intellettuali sovietici. Solo pochi artisti e scienziati osarono lavorare in modo indipendente; uno di loro fu il musicista Dmitri Shostakovich, che scrisse una cantata satirica Il piccolo paradiso anti formalista in cui ridicolizzava la Zhdanovshchina (l'opera fu presentata al pubblico solo nel 1989 dal violoncellista e direttore d'orchestra Rostropovich). La maggior parte dei problemi nella scienza giungono quando un politico completamente all'oscuro di cultura scientifica, impone limiti e leggi ai ricercatori scientifici. E allora, spesso, i problemi si trasformano in tragedia e ridicolaggine, come noi sappiamo molto bene dalla nostra storia occidentale (e non solo da quella).

Il Big Bang, la meccanica quantistica e la teoria della relatività
Le leggi scientifiche “oggettive” devono essere sottomesse alle idee del Partito. Tra queste leggi i bersagli più mirati furono il Big Bang, la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein. Il 24 giugno 1947 Andrej Zhdanov allargò la sua politica di controllo ideologico anche nei campi dell’astronomia e della cosmologia, sostenendo che queste scienze avrebbero dovuto essere purificate dalle idee borghesi, base di menzogne e illusioni. L’obiettivo era di sottomettere le leggi scientifiche alle idee del partito. La teoria quantistica fu rifiutata perché, con la teoria della dualità onda-particella, essa non descrive la materia come una struttura unica e reale, negando così a prima vista il materialismo. Nel saggio "Contro l'idealismo nella fisica moderna", pubblicato nel 1948, la teoria della relatività fu bollata come "idealista" e la "la dottrina derivata da Einstein" avrebbe dovuto essere eliminata. La teoria relativistica di un universo finito in espansione fu descritta come un "tumore canceroso che corrode la teoria astronomica moderna ed è il principale nemico ideologico della scienza materialista". La teoria più controversa e discussa fu comunque il Big Bang, che, a quel tempo, molti scienziati, anche nel mondo occidentale, non avevano ancora accettato. Ma, mentre nel mondo occidentale il rifiuto del Big Bang da parte della comunità scientifica fu confutato prevalentemente perché non c’erano chiare prove che potessero dimostrare tale teoria, in Unione Sovietica il rifiuto era puramente ideologico in quanto politicamente scorretto. La cosmologia “staliniana” dichiarava che l'universo fosse infinito (nessun limite di spazio o di materia), eterno (senza inizio e senza fine, nel tempo) e la materia fosse solo una manifestazione materiale di movimento e di energia (non veniva contemplato alcun dualismo onda-particella). Lo spostamento verso il rosso delle galassie, scoperto da Vesto Slipher nel 1912, non indicherebbe che lo spazio si stia espandendo, così tutte le teorie dovrebbero adattarsi alla filosofia materialista e dialettica. Il Big Bang, non fu accettato dall’intellighenzia sovietica in quanto teorizzava una creazione che, a parere degli inesperti tutori ideologici, assomigliava troppo alla Genesi biblica. Così, il Big Bang venne bollato come teoria pseudo-scientifica e idealistica.

I contrasti con la comunità scientifica
Questo accadde anche perché il principale teorico del Big Bang era il fisico e cosmologo belga Georges Lemaître, che era anche un gesuita. Poco importava se più tardi la stessa teoria fu trasformata in un modello fisico dell'universo primordiale dal fisico nucleare russo-americano George Gamow – che era ateo - e dai suoi collaboratori Ralph Alpher e Robert Herman. L'eminente astrofisico sovietico Boris Vorontzoff-Velyaminov attaccò Gamow definendo la sua teoria "non scientifica" perché inventata da un "apostata americanizzato", un ex cittadino sovietico fuggito negli Stati Uniti d'America. L'opposizione di Stalin al Big Bang si verificò anche a partire dal fatto che papa Pio XI stesso sostenne la teoria della cosmologia relativistica. In realtà né Lemaître né Gamow concepivano il Big Bang come una creazione, ma le inadeguate conoscenze fisiche e della terminologia scientifica utilizzata da Zhdanov e Stalin li indussero a commettere errori dozzinali. Lemaître stesso fu sempre molto attento nel distinguere "principio" e "creazione" del mondo. Secondo Lemaître, la sua versione del modello del Big Bang "resta del tutto fuori da ogni questione metafisica o religiosa e lascia il materialista libero di negare qualsiasi Essere trascendente". Pressoché tutti i fisici condividono la frase del gesuita belga sostenendo che per spiegare la cosmologia del Big Bang non è necessaria l'idea di un creatore. E dal 1951 il Papa non ha mai usato il Big Bang per esprimere la scientifica dimostrazione dell'esistenza di Dio. Nonostante queste considerazioni, Zhdanov accusò "gli scienziati reazionari Lemaître, Milne e altri (...) di rafforzare opinioni religiose sulla struttura dell'universo. Questi scienziati erano 'falsificatori della scienza che vogliono far rivivere la favola dell’origine del mondo dal nulla. (...) Un altro fallimento della 'teoria' in questione consiste nel fatto che essa ci porta all'atteggiamento idealista di credere che il mondo sia finito".

La teoria dello stato stazionario
La Zhdanovshchina guidò per un decennio gli studi della cosmologia in URSS. Gli scienziati furono costretti a trovare altri modi per spiegare la nascita e le leggi che governano l’universo. Fu il vicolo cieco della scienza sovietica, dal momento che il Big Bang e, più in generale, la teoria della relatività furono formalmente banditi. Nella loro ignoranza scientifica, Zdhanov e Stalin non solo marchiarono il Big Bang come una "favola" e come "idealismo astronomico che aiuta il clericalismo", ma anche la “contro-teoria” del Big Bang, quella dello stato stazionario di Fred Hoyle, Hermann Bondi e Thomas Gold fu considerata politicamente scorretta e fu bandita. La loro teoria “dello stato stazionario” spiega l'Universo come eterno (esso non ha inizio, né fine) e immutabile, introducendo l’idea della continua creazione di materia per mantenere costante la densità dell'universo. I fisici e i cosmologi che non seguirono le linee guida del Partito furono aspramente criticati e emarginati: Lev Landau (premio Nobel per la Fisica nel 1962) e Abram Ioffe (Premio Stalin nel 1942 e Premio Lenin post mortem nel 1960) furono accusati di "strisciare di fronte all'Occidente"; Peter Kapitsa (premio Nobel per la fisica nel 1978) fu accusato di propagandare "apertamente il cosmopolitanismo"; Iakov Frenkel e Moisei Markov furono accusati di "accettare acriticamente le teorie fisiche occidentali e propagandarle nel nostro Paese". La Zhdanovshchina fu ufficialmente la politica culturale e scientifica del regime fino alla morte di Stalin, nel 1953.

Priorità alla bomba atomica
Nel 1949 la Conferenza Generale dell’Unione Sovietica dei Fisici stava per essere organizzata dal ministero dell'Istruzione Superiore e dall'Accademia delle Scienze: vennero invitati 600 fisici. La conferenza era pensata per imporre i dogmi della nuova fisica, respingendo una volta per tutte le teoria "anti-materialistica" della relatività e la meccanica quantistica. C'era solo un problema: Igor Kurchatov, direttore del programma della bomba nucleare, disse a Beria, capo del Commissariato governativo NKVD e responsabile del progetto - la cui ignoranza in fisica era pari solo alla sua arroganza, come Kapitsa era solito affermare -, che se la teoria della relatività e la meccanica quantistica fossero state respinte, anche la bomba nucleare avrebbe seguito la stessa fine. Beria riferì tale conversazione a Stalin e aggiunse di essere preoccupato per l'inaffidabilità ideologica dei fisici. La bomba nucleare era in cima alle priorità del governo sovietico, così, cinque giorni prima dell'inizio della conferenza, Stalin la annullò. Cinque mesi più tardi, il 29 agosto 1949, la prima bomba nucleare sovietica venne testata a Semipalatinsk, nel Kazakistan. Lev Landau, col suo solito piglio ironico e sarcastico affermò che la sopravvivenza dei fisici sovietici fu "il primo esempio di deterrenza nucleare che ebbe successo".

Fonte: www.balcanicaucaso.org/aree/Russia...ntistica-176560

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In difesa della scienza sovietica


Una critica alle argomentazioni liberali circa la
repressione scientifica nell'URSS di Stalin


di Sojuz Koba 1961



Non molto tempo fa, è stata affrontata da parte di chi scrive la lettura di un articolo intitolato “Stalin, il Big Bang e la fisica quantistica”, assai critico nei confronti delle politiche scientifiche dell’Unione Sovietica d'epoca staliniana, il quale accusa Il Partito Bolscevico di aver imposto le proprie visioni agli scienziati limitando così la libertà d'indagine in ambito scientifico. Tale articolo, inoltre, si scaglia assai ferocemente contro la figura di Andrej Ždanov, accusandolo di ogni sorta di infamie. Quantunque l'articolo tratti anche dei risvolti culturali della prassi Ždanoviana, in questo scritto analizzeremo solo la veridicità delle affermazioni inerenti alle questioni scientifiche dimostrandone l'infondatezza e la superficialità alla luce delle opere degli stessi scienziati, filosofi e dirigenti di Partito sovietici, al fine di smentire una delle voci più fastidiose (almeno per lo scrivente) che circolano in tutti gli ambienti antisovietici, financo fra molti compagni, ovvero l’idea che nell'Unione Sovietica di Stalin il materialismo dialettico e la scienza fossero utilizzati a fini politici e di controllo, come un mezzo per tenere a freno il dissenso e al fine di imporre le visioni del Partito in tutti i settori, a costo di ignorare dati acquisiti. Procediamo, dunque, all'analisi dell'articolo interessato.

Il Partito Bolscevico imponeva le proprie visioni agli scienziati?

Come abbiamo già detto all’inizio, l’articolo interessato accusa il Partito Bolscevico di aver imposto aprioristicamente le proprie visioni agli scienziati e di aver piegato la scienza ai capricci dei dirigenti sovietici, in nome di una presunta superiorità del materialismo dialettico rispetto alle altre scienze e in nome di un presunto dottrinarismo dogmatico. Questa, invero, è un’accusa assai ricorrente, ripresa molto spesso non solo negli ambienti dichiaratamente anticomunisti, ma anche in quelli della cosiddetta Sinistra Comunista (i bordighisti) al fine di screditare l’Unione Sovietica di Stalin e far passare i dirigenti del Partito come portatori di chissà quale deformazione del marxismo.
La verità è ben altra. L'affermazione secondo cui il materialismo dialettico fosse considerato al di sopra di tutte le altre scienze e che tutte le altre discipline scientifiche dovessero piegarsi ad esso è completamente fuorviante e priva di qualsivoglia riscontro oggettivo, nonché basata su una cattiva, cattivissima interpretazione delle posizioni sovietiche circa il rapporto fra il materialismo dialettico e le scienze naturali. Lo stesso Andrej Ždanov, a cui viene attribuita una simile concezione, in realtà sosteneva esattamente le posizioni opposte di quelle che gli vengono falsamente attribuite: «La filosofia marxista, a differenza dei precedenti sistemi filosofici, non è una scienza sopra le altre scienze, ma costituisce uno strumento d’indagine scientifica, un metodo che penetra tutte le scienze della natura e della società e si arricchisce dei risultati di queste scienze nel corso del loro sviluppo» [1]. Peraltro, lo stesso Ždanov ammonì in numerose occasioni i filosofi sovietici, invitandoli a non commettere l'errore di coloro che cercano di piegare la realtà oggettiva alla propria visione del mondo: «I creatori dei sistemi filosofici del passato, i quali pretendevano che si potesse conoscere la verità assoluta in una istanza definitiva, non potevano tuttavia favorire lo sviluppo delle scienze naturali, poiché le imprigionavano nei loro schemi, tentavano di mettersi al di sopra della scienza, imponevano alla viva conoscenza umana conclusioni dettate non dalla vita reale ma dalle esigenze di un sistema» [2]. Appare dunque evidente che, ben lungi da quanto affermato nell’articolo, i dirigenti sovietici (in particolare proprio lo stesso Ždanov) consideravano il materialismo dialettico non come una dottrina nei confronti della quale le altre scienze avrebbero dovuto piegarsi, ma viceversa come un metodo d’indagine che, arricchendosi grazie alle continue scoperte delle scienze naturali, di fatto si piega alle realtà oggettive. Ci appare evidente come lo scrittore dell’articolo non abbia affatto compreso le posizioni sovietiche (e comuniste in generale) circa il rapporto fra il materialismo dialettico e le scienze naturali. Se lo avesse fatto, di certo si sarebbe risparmiato la castroneria sul PCUS che cercava di piegare le Scienze naturali alle proprie interpretazioni del mondo, perché chiunque dotato di un minimo di conoscenza sull'argomento è perfettamente in grado di smentire questa falsità. Dal materialismo dialettico non si deducono una fisica, una biologia, una chimica ecc. Al contrario, compito della filosofia marxista è generalizzare i dati delle scienze positive, trarne le deduzioni gnoseologiche necessarie e su questa base perfezionare se stessa fino a raggiungere il rigore delle scienze positive stesse, e non imporre a queste ultime determinate conclusioni a priori. Chi accusa il PCUS di aver voluto piegare la scienza a conclusioni prestabilite, evidentemente, non conosce l’ideologia propugnata da quel partito.
Dal momento che l’articolo cita non solo Ždanov, ma anche Stalin come uno degli artefici della repressione scientifica, ci sembra doveroso soffermarci brevemente anche su di lui, sottolineando come lo stesso Stalin riconobbe a più riprese la necessità della libertà di critica e di discussione negli ambienti scientifici, criticando risolutamente coloro che applicavano metodi simili a quelli che vengono a lui attribuiti dallo scrittore dell’articolo: «In quale senso verranno risolti i problemi della linguistica, sarà chiaro alla fine della discussione. Ma si può dire fin d'ora che la discussione è stata molto proficua. La discussione ha rivelato, in primo luogo, che negli organismi linguistici, sia al centro che nelle repubbliche, dominava un regime non adatto alla scienza e agli uomini di scienza. La minima critica alla situazione esistente nella linguistica sovietica, finanche i più timidi tentativi di criticare la cosiddetta "nuova dottrina" della lingua erano perseguitati e stroncati dai circoli linguistici dirigenti. Per aver avuto un atteggiamento critico verso l'eredità di N. Marr o per la più piccola disapprovazione della dottrina di N. Marr, valenti studiosi e ricercatori nel campo della linguistica sono stati allontanati dal loro posto o retrocessi. Gli studiosi di linguistica sono stati chiamati a posti di responsabilità non per riconoscimento del loro lavoro, ma per la incondizionata accettazione della dottrina di N. Marr. Si riconosce generalmente che nessuna scienza può svilupparsi e fiorire senza lotta delle opinioni, senza libertà di critica. Ma questa norma riconosciuta da tutti è stata ignorata e calpestata nel modo più sfacciato. Si è costituito un ristretto gruppo di dirigenti infallibili, che, essendosi assicurato contro ogni possibile critica, si è messo ad agire arbitrariamente e scandalosamente» [3]. Citazione, questa, che espone limpidamente e chiaramente quali fossero le posizioni di Stalin e del Partito circa la scienza e la libertà di discussione in ambito scientifico. Una citazione, insomma, che non lascia adito a congetture o interpretazioni. La verità è che coloro che hanno agito in modo arbitrario, burocratico e repressivo non sono certo stati Stalin e Ždanov, bensì altri dirigenti minori, che lo stesso Stalin ha prontamente stigmatizzato per il loro comportamento. Se si vuole accusare qualcuno, dunque, non sono certo Stalin e Ždanov a dover ricoprire il ruolo degli imputati!
In base alle citazioni riportate in precedenza, dovrebbe essere chiaro ad ogni persona di buon senso come l'idea secondo cui il PCUS imponesse le proprie visioni agli scienziati sia basata sul nulla. Ma nel caso in cui qualcuno dovesse ancora avere dei dubbi, si porterà come dimostrazione un caso emblematico, un caso citato da molti come esempio lampante di repressione scientifica e di piegamento della scienza alle visioni del PCUS, ma che in realtà dimostra esattamente il contrario: il caso Lysenko. Difatti la ricostruzione occidentale del caso Lysenko è estremamente forzosa e viziata da un'interpretazione distorta dei fatti realmente accaduti. Nella propaganda occidentale Lysenko viene dipinto come uno dei protetti di Stalin, contro i cui oppositori il Partito ha scagliato la sua repressione, in quanto presumibilmente le teorie biologiche avverse a quelle lysenkoiste sarebbero state ritenute eretiche e non in linea con i dettami del materialismo dialettico. La verità è assai diversa: molti dirigenti di Partito, tra cui lo stesso Stalin, vedevano di buon occhio le teorie biologiche di Lysenko e aderivano alla visione neolamarckiana della biologia evoluzionista, tuttavia non sono mai stati presi provvedimenti amministrativi contro coloro che sostenevano teorie biologiche differenti, tant'è vero che lo stesso Ždanov (e questa è una cosa che curiosamente lo scrittore dell'articolo si è "dimenticato" di citare) sosteneva le visioni dei fautori della genetica mendeliana. Inoltre, pur condividendo le idee biologiche neolamarckiane di Lysenko, lo stesso Stalin non risparmiò a quest'ultimo le proprie critiche, dirette contro l'erronea concezione di Lysenko secondo cui le scienze avessero un carattere di classe e che quindi il Partito avrebbe dovuto adoperarsi affinché la scienza fosse purificata dalle visioni "eretiche" (proprio la concezione che viene attribuita a Stalin ed il PCUS!). A tal proposito citeremo ciò che scrisse Roj Medvedev (non certo accusabile di simpatie staliniste) nel suo libro Stalin sconosciuto: «Per anni Lysenko tenne nel suo ufficio il rapporto con le correzioni manoscritte di Stalin, a volte mostrandolo ai visitatori. Dopo la morte di Stalin, Lysenko mandò il testo originale agli archivi del partito, conservando per sé solo una copia. Nel 1991-93 due ricercatori dell'Istituto di storia e dell'Istituto di storia delle scienze naturali e della tecnologia, V. Esakov e K.O. Rossijanov, hanno trovato il documento originale negli archivi e hanno pubblicato un'analisi di quello che aveva scritto Stalin. Va detto che Stalin aveva fatto un ottimo lavoro di editing, migliorando il testo di Lysenko, eliminandone le contraddizioni e ammorbidendone il tono antioccidentale, e aveva anche espunto dal testo la falsa dicotomia tra scienza sovietica e occidentale. Al tempo stesso, però, approvava pienamente l'adesione di Lysenko alla teoria lamarckiana. Stalin eliminò la parola “sovietica” dal titolo del rapporto; a suo parere “Sulla situazione delle scienze biologiche” era una formulazione più corretta del tema in discussione. Tutte le quarantanove pagine erano state esaminate meticolosamente. Tagliò la seconda sezione del rapporto, “La falsa base della biologia borghese”, e dove Lysenko aveva affermato che “ogni scienza ha una base di classe”, aveva scritto: “Ah, ah, ah [...] e la matematica? E Darwin?” [...] In tutto il testo Stalin espunse il termine “borghese”, per esempio la “visione del mondo borghese” divenne “visione del mondo idealista”; “genetica borghese” diventò “genetica reazionaria”. In un'altra sezione, Stalin aggiunse un intero capoverso da cui risulta chiaro che aveva conservato le convinzioni lamarckiane della sua giovinezza, esemplificate nel suo saggio del 1906, Anarchismo o socialismo. Nella parte dove Lysenko insisteva sulla base assolutamente scientifica della teoria di Lamarck sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti, Stalin aggiunse una frase: “Non si può negare che nel dibattito sempre piu acceso nel primo venticinquennio del Ventesimo secolo tra weissmaniani e lamarckiani, questi ultimi erano più vicini alla verità in quanto sostenevano gli interessi della scienza, mentre i weissmaniani abbandonarono la scienza per abbracciare il misticismo”. Le modifiche e le aggiunte di Stalin al testo segnalavano un decisivo allontanamento dalla dottrina che aveva dominato tutti i dibattiti degli anni venti e trenta: che la scienza avesse una base di classe.» [4]
Oltre a quanto già esposto, inoltre, occorre sottolineare anche il fatto che, come ricordò Jurij Ždanov (figlio di Andrej) nelle sue memorie, nel 1951 Stalin ruppe il monopolio delle istituzioni scientifiche da parte dei seguaci di Lysenko (che lo detenevano dal 1948), perché costoro, a differenza dei fautori della genetica mendeliana, non si erano mai occupati degli effetti delle radiazioni sugli esseri viventi [5]. È perciò oltre modo ironico il fatto che molti di coloro che esprimono idee simili a quelle espresse nell'articolo citino proprio il caso Lysenko, dal momento che questo caso dimostra l’esatto contrario di quello che essi pretendono che dimostri. Il caso Lysenko infatti dimostra che le critiche che vengono mosse al Partito, a Stalin e a Ždanov sono del tutto infondate, e che i motivi per i quali lo scrittore dell’articolo critica Stalin e Ždanov sono proprio gli stessi motivi per i quali gli stessi Stalin e Ždanov criticarono altre persone, che commisero per davvero gli errori in questione e agirono per davvero in modo arbitrario, coprendosi dietro lo scudo del “carattere di classe della scienza”, teoria che come abbiamo visto è addebitata a Stalin e al PCUS dallo scrittore dell'articolo ma che, curiosamente, risulta essere proprio una delle teorie che Stalin e il PCUS criticarono con maggior fermezza e risolutezza.

La Teoria della Relatività in Unione Sovietica

L’articolo che stiamo trattando riprende un’idea molto diffusa negli ambienti scientifici occidentali, cioè l’idea che la Teoria della Relatività di Einstein fosse stata soggetta a proscrizioni di ogni tipo negli ambienti accademici sovietici, i quali erano spinti dalle pressioni del Partito Bolscevico a ripudiarla, in quanto “incompatibile col materialismo dialettico”. Si tratta di un’idea, come dicevamo, molto diffusa, ma che non trova assolutamente riscontri nei documenti disponibili. Già negli anni Trenta (ben prima degli anni di cui l’articolo tratta), il filosofo Grigorij A. Gurev, nella sua opera Lo spazio dell’Universo è infinito? (1932), sottolineava come la Teoria della Relatività di Einstein avesse avuto il merito storico imperituro di aver mostrato il rapporto di dipendenza dello spazio dalla materia, dimostrando così la veridicità dei postulati del materialismo dialettico. Tuttavia, in quell’opera il filosofo sovietico criticava Einstein per esser giunto alla conclusione che l’Universo fosse finito, poiché «il riconoscimento della finitezza ha sempre un carattere metafisico, antidialettico: non conduce mai a una conoscenza scientifica, ma alle fantasticherie dei clericali. Non sorprende perciò che i teisti e i loro ausiliari secolari siano incantati dalle idee di Einstein e dalla sua cosmogonia rielaborata secondo il gusto creazionista.» Non vi fu dunque una condanna della Teoria della Relatività in quanto tale, piuttosto una critica alle conclusioni filosofiche cui lo stesso Einstein era giunto, interpretazioni filosofiche ritenute idealiste ed errate, le quali sostenevano la finitezza dell’Universo nel tempo e nello spazio. Non si trattò quindi di una critica alla giustezza dei dati ricavati da Einstein (quali per esempio l’eclissi del 1916), quanto piuttosto di una critica dell’interpretazione filosofica di questi dati fatta dallo stesso Einstein.
A rafforzare ulteriormente questa interpretazione è il Dizionario Sovietico di Filosofia del 1946, il quale afferma esplicitamente che:

«Quella della Relatività è una teoria fisica contemporanea, i cui caratteri più importanti offrono la moderna teoria dello spazio e del tempo. La teoria della Relatività emise tutta una serie di nuove idee che costituiscono una conquista indiscutibile del pensiero avanzato dell'umanità. Questa teoria nacque all'inizio del XX secolo, nel periodo di rottura dei vecchi concetti e rappresentazioni della meccanica classica che ha origine in Newton. Verso la fine del XIX secolo, la fisica classica incontrò una serie di fenomeni in natura, in particolare i problemi dell'elettrodinamica dei corpi in movimento dei quali non era in grado di dare una spiegazione soddisfacente. La fisica classica richiedeva la presenza obbligatoria di un mondo materiale speciale, l'etere, in relazione al quale doveva essere effettuato il movimento dei corpi. Ma gli esperimenti intrapresi per determinare il movimento della terra rispetto a tale etere, non hanno prodotto alcun risultato: non si è riusciti a rivelare alcun etere. Sorse allora la teoria della Relatività (1905), creata fondamentalmente da Einstein. Per spiegare le difficoltà legate alla negazione dell'etere, la teoria della Relatività modificò radicalmente le antiche rappresentazioni della fisica classica sullo spazio e sul tempo. Nel creatore della meccanica classica, Newton, il tempo e lo spazio appaiono come entità autonome, separate dalla materia e separate tra loro. La teoria della Relatività stabilisce la stretta connessione reciproca dello spazio e del tempo e quella di entrambi con il movimento della materia. Nel movimento si rivela il carattere relativo dello spazio e del tempo.
La Relatività dello spazio e del tempo non nega il loro carattere oggettivo ed assoluto nel senso filosofico, come forme oggettive di esistenza della materia che non dipendono da nessuna misura, che indicano , come lo stesso Einstein sottolineò, ciò che realmente avviene in natura. Ciò è già stabilito nella cosiddetta teoria della Relatività Ristretta che esamina il movimento relativo uniforme e rettilineo dei corpi. La teoria della Relatività Generale, formulata da Einstein nel 1916, esamina ogni movimento dei corpi materiali, ampliando così le conclusioni della teoria della Relatività Ristretta. La teoria della Relatività Generale offre una nuova tesi sulla gravitazione, diversa da quella di Newton. La nuova teoria nega l'azione a distanza attraverso lo spazio "vuoto"; al contrario in base ad essa tutto lo spazio universale appare pieno di campi gravitazionali materiali. La nuova teoria gravitazionale formulata da Einstein riesce a dare una convincente spiegazione di molti fenomeniche la fisica classica non riusciva a spiegare. Le osservazioni, fondamentalmente ma non sempre in modo sufficientemente esatto, confermano la correttezza dei calcoli della Relatività Generale circa lo spostamento delle orbite dei pianeti (precisamente lo spostamento costante del perielio del pianeta Mercurio).
In generale, la teoria della Relatività rappresenta l'ultimo passo importante verso lo sviluppo delle conoscenze umane. Ma, come ogni teoria, anche questa non è un sistema assoluto di conoscenza e ancora non può spiegare tutta una serie di fenomeni. Le idee fondamentali, essenziali, della teoria della Relatività sono profondamente scientifiche. Ma i filosofi borghesi, tra cui lo stesso Einstein, traggono da questa teoria deduzioni errate, cioè deduzioni che da essa non derivano necessariamente, deduzioni idealiste e pseudoscientifiche. Già nel 1922 Lenin scriveva che "alla teoria di Einstein [...] si aggrappa già un'enorme massa di rappresentanti degli intellettuali borghesi" che si sono preoccupati molto di travisarla, in particolare per quanto riguarda i problemi cosmologici. Si fanno deduzioni reazionarie, infondate, sulla finitezza del mondo nello spazio e nel tempo, il che porta a riconoscere un mondo spazialmente e temporalmente finito e, per logica conseguenza, l’esistenza di un creatore. D'altra parte, la filosofia borghese travisa la teoria della Relatività, sostituendo la relatività dei fenomeni nel senso fisico con la loro relatività nel senso filosofico, cioè predica il relativismo filosofico che nega il carattere oggettivo ed assoluto del movimento, dello spazio, del tempo; il valore oggettivo delle nostre conoscenze.»
[6]

D’altronde lo stesso Lenin, nella sua opera Materialismo ed empiriocriticismo affermò le stesse identiche cose, esprimendo le stesse posizioni esposte nel Dizionario Sovietico di Filosofia e nell’opera di G. A. Gurev, criticando Einstein non tanto per le sue teorie, ma per l’interpretazione filosofica che egli ed altri davano di queste stesse teorie. Curiosamente, anni dopo lo stesso Einstein abbandonò le proprie posizioni filosoficamente idealiste e si avvicinò al materialismo (nonché al Socialismo stesso). E si potrebbe andare avanti all’infinito, citando per esempio anche il caso del matematico Alexander Davidovič Alexandrov, il quale nelle sue opere si occupò proprio di dimostrare l’assoluta compatibilità fra la Teoria della Relatività ed il materialismo dialettico, senza per questo esser mai stato fatto oggetto di repressioni e vessazioni da parte del Partito e dello Stato: «Secondo la teoria della relatività un corpo in moto dalla velocità vicina a quella della luce ha una determinata lunghezza dal punto di vista di un osservatore che si muove insieme ad esso, e ne ha un’altra rispetto a un osservatore in quiete. Dunque, la lunghezza viene percepita in modo diverso da osservatori diversi; e ciò vale non soltanto per la lunghezza del corpo in movimento, ma anche per la traiettoria, la massa, la durata, ecc. Gli esponenti dell’idealismo soggettivo interpretarono tutto ciò come una conferma della loro tesi, secondo cui il soggetto (l’osservatore umano) modifica in qualche modo l’oggetto osservato o almeno ne ha un’immagine distorta dalla propria attività. [...] In realtà, questa interpretazione è viziata da una confusione di fondo tra i concetti di «relativo» e di «soggettivo» e tra quelli, ad essi complementari, di «assoluto» e di «oggettivo». La soggettività attiene alla coscienza umana. Ora, nell'esempio sopracitato, l’intervento della coscienza non è affatto necessario, poiché la relatività delle determinazioni (massa, lunghezza, traiettoria, durata, ecc.) non è legata alla presenza di diversi osservatori umani, ma di diversi sistemi di riferimento; le determinazioni risulterebbero diverse in rapporto a diversi sistemi di riferimento, indipendentemente dalla presenza di soggetti umani che «si trovino presso di questi». Questa considerazione, la cui paternità appartiene al matematico sovietico A. D. Aleksandrov (Matematico sovietico che contribuì a confutare le obiezioni dei filosofi Maksimov e Kuznetsov alla teoria della relatività, mostrando la compatibilità di quest'ultima col materialismo dialettico), ci consente di confutare la tesi degli idealisti soggettivi e di difendere il materialismo dialettico, ammettendo ad un tempo la relatività degli enti materiali e la loro oggettività» [7]. Da questo importante caso si evince in maniera eloquente come non solo la Teoria della Relatività non fosse soggetta ad alcuna proscrizione, ma che al contrario essa fosse sostenuta da molti scienziati e matematici. Questo caso inoltre dimostra come nel mondo accademico sovietico fosse in corso un ampio e costante dibattito fra i sostenitori della Relatività e i suoi detrattori (esattamente come in Occidente), scenario ben lontano dal grigiore e dall'omologazione forzata descritti dalla propaganda capitalista occidentale.
Andrej Ždanov, nel corso di questo dibattito a cui accennavamo poc’anzi, si schierò sulle stesse identiche posizioni di G. A. Gurev e del Dizionario Sovietico di Filosofia del 1946, difendendo quindi i postulati fondamentali della Teoria della Relatività, ma criticando al contempo Einstein dal punto di vista filosofico. Possiamo rintracciare chiaramente questa sua posizione nel suo discorso agli scienziati sovietici del 24 giugno del 1947: «Senza capire il corso dialettico della conoscenza, il reciproco rapporto tra verità assoluta e verità relativa, molti seguaci di Einstein, trasferendo i risultati dell’indagine delle leggi del movimento dal campo finito, limitato dell’universo a tutto l’universo infinito, discutono della finitezza del mondo, della sua limitatezza nel tempo e nello spazio. L’astronomo Milne ha perfino “calcolato” che il mondo è stato creato due miliardi di anni fa. A questo scienziato inglese si possono forse applicare le parole del suo grande conterraneo, il filosofo Bacone, il quale diceva che gli scienziati trasformano l’impotenza della loro scienza in una calunnia contro la natura.» Come possiamo qui osservare chiaramente, Ždanov, esattamente come la maggioranza degli scienziati sovietici d’epoca staliniana, non mette in discussione la teoria di Einstein nel suo complesso (non nega cioè l'equivalenza massa-energia, la costanza della velocità della luce, l'esistenza dello spazio-tempo ecc.), bensì solo l’idea einsteiniana di un Universo inteso come spazialmente finito e con un’età ben determinata, criticando quindi le visioni filosofiche di Einstein, considerate errate ed ostili al materialismo.
Da tutto ciò emerge quindi come il quadro dipinto dallo scrittore dell’articolo di una Relatività “bandita” entro le frontiere sovietiche sia totalmente fuorviante, privo di qualsiasi fondamento e basato sul nulla più assoluto. Non riteniamo che sia più necessario continuare su questo punto, poiché le fonti sin qui riportate ci sembrano sufficenti, essendo una di esse, fra l’altro, un dizionario ufficiale commissionato proprio dal Partito. Come ultimo appunto, è bene sottolineare anche che nell’articolo viene citata un’opera intitolata “Contro l’idealismo nella fisica moderna”. Ebbene, sarebbe d'uopo che lo scrittore dell’articolo ci ragguagliasse con maggiori informazioni circa quest’opera, poiché pur avendo provato a cercarla (anche in russo) non siamo riusciti a risalire a nulla con quel titolo. Ci interesserebbe perciò sapere quali siano le fonti specifiche a cui lo scrittore fa riferimento, poiché, e lo diciamo con spirito costruttivo e sincero, non siamo riusciti a rintracciarle.

La Teoria del Big Bang in Unione Sovietica

Su di una cosa l’articolo ha ragione: la Teoria del Big Bang nell’URSS di Stalin ricevette aspre critiche da parte degli scienziati, dei dirigenti di Partito e dei filosofi. Prima di chiarire quali furono i motivi di una simile condanna però, è necessario fare una premessa fondamentale: è doveroso cioè ricordare che, secondo la concezione materialistico-dialettica, “materia” è tutto ciò che esiste indipendentemente dalla nostra coscienza e che, esistendo indipendentemente dalla nostra coscienza, esercita su di essa un qualsiasi tipo di influenza. Ne risulta pertanto che tutto ciò che rientra in questi specifici parametri per il materialismo dialettico rientra nella categoria di “materia, indipendentemente da ciò di cui si sta parlando. Il marxismo-leninismo quindi opera una netta distinzione fra la definizione fisica di materia e quella filosofica: laddove la definizione fisica è quella che tutti conosciamo, la definizione filosofica è quella che abbiamo poc’anzi accennato. Dunque, nonostante nella definizione fisica un fascio di luce rientra nella categoria di energia (e non di materia),nella definizione materialistico-dialettica anch’esso rientra nella categoria di materia, poiché è un qualcosa che esiste indipendentemente dalla nostra coscienza, e che può esercitare su di essa un’influenza specifica a seconda del rapporto che abbiamo con esso.
Dopo questa doverosa premessa, possiamo ora occuparci delle motivazioni che spinsero i sovietici a ripudiare la Teoria del Big Bang. Le motivazioni sono molto semplici, ed è lo stesso Ždanov a fornirle nello stenogramma del suo discorso agli scienziati del 1947:«Gli scienziati reazionari Lemaître, Milne e altri utilizzano il “redshift” per rafforzare le concezioni religiose sulla struttura dell'Universo. I falsificatori della scienza vogliono far rivivere la favoletta dell’origine del mondo dal nulla.» Ed è qui che risiede il problema: il problema non è tanto la Teoria del Big Bang in quanto tale, bensì il fatto che gli scienziati occidentali, riconoscendo solo la definizione fisica di materia e disconoscendo quella filosofica, attraverso la Teoria del Big Bang giunsero a concezioni idealistiche, metafisiche e religiose circa il mondo e le sue origini. Se gli scienziati occidentali avessero analizzato la Teoria del Big Bang secondo i parametri del materialismo dialettico, sarebbero giunti alla conclusione che l’Universo non è nato dal nulla, bensì è semplicemente passato da uno stato di materia all’altro, restando nella sua interezza infinito nel tempo e nello spazio, poiché anche laddove non esiste la materia fisicamente intesa continua ad esistere materia filosoficamente intesa. Ed è anche questa la ragione della critica Ždanoviana alle concezioni di Einstein: egli, utilizzando solo la definizione fisica di materia, iniziò a sostenere che l’Universo fosse finito nel tempo e nello spazio, laddove se avesse utilizzato la definizione materialistico-dialettica sarebbe giunto alla conclusione che l’Universo, indipendentemente dalla teoria cosmologica presa in esame, continua ad essere infinito nel tempo e nello spazio. E se l’Universo è in espansione, significa che deve aver avuto un inizio. E che cosa c’era prima di questo inizio? Il nulla. E che cosa succede se l’Universo è nato dal nulla? Ma è chiaro, deve per forza esser stato creato da un essere trascendente, supremo e onnipotente, dicevano (e dicono) i religiosi. Ed ecco, per sommi capi, le ragioni ultime della critica sovietica all’impostazione occidentale del problema, che utilizzando i dati sul redshift (e quindi sull’espansione dell’Universo) è giunta a conclusioni filosoficamente del tutto errate, antimaterialiste e idealistiche.
Prova di quanto sin qui affermato è il fatto che la Chiesa approfittò sin da subito dell'occasione che le si era presentata, utilizzando il modello cosmologico del Big Bang per sostenere che la scienza avesse provato l'esistenza di Dio. Eloquenti sono a tal proposito le parole pronunziate da Papa Pio XI il 22 novembre del 1951: «È innegabile che una mente illuminata ed arricchita dalle moderne conoscenze scientifiche, la quale valuti serenamente questo problema, è portata a rompere il cerchio di una materia del tutto indipendente e autoctona, o perché increata, o perché creatasi da sé, e a risalire ad uno Spirito creatore. […] Pare davvero che la scienza odierna, risalendo d’un tratto milioni di secoli, sia riuscita a farsi testimone di quel primordiale “Fiat lux”, allorché dal nulla proruppe con la materia un mare di luce e di radiazioni, mentre le particelle degli elementi chimici si scissero e si riunirono in milioni di galassie. [...] La moderna teoria fisica ha allargato e approfondito considerevolmente il fondamento empirico su cui quell’argomento si basa, e dal quale si conclude alla esistenza di un Ens a se, per sua natura immutabile. Inoltre essa ha […] additato il loro inizio in un tempo di circa 5 miliardi di anni fa, confermando con la concretezza propria delle prove fisiche la contingenza dell’universo e la fondata deduzione che verso quell’epoca il cosmo sia uscito dalla mano del Creatore.» [8]. Dunque non si trattava affatto di una fissa dei sovietici come vorrebbe farci pensare lo scrittore dell’articolo, ma di una vera e propria mossa da parte degli esponenti dell’idealismo metafisico (prescindendo da quale fosse la loro opinione specifica sulla religione cristiana) per cercare di dimostrare, tramite le teorie cosmologiche, l’esistenza di Dio. Ed il fatto che il Papa non pronunciò mai più frasi del genere dopo il 1951 (come sottolinea l’articolo) non dimostra assolutamente nulla, giacché ancora oggi, ai giorni nostri e ben dopo la morte di Papa Pio XII, esistono persone che continuano a farsi scudo delle teorie cosmologiche per sostenere che la scienza abbia provato l’esistenza di Dio e smentito il materialismo.
L’articolo poi fa un gran parlare degli astronomi sovietici, che presumibilmente sarebbero stati costretti a trovare spiegazioni alternative per il redshift delle galassie, scoperto da Hubble nel 1929 e attribuito all’espansione dell’Universo. Ebbene, nonostante sia vero che all'interno della comunità scientifica sovietica d'epoca staliniana andassero per la maggiore teorie alternative al Big Bang e che spiegavano il redshift delle galassie tramite spiegazioni diverse da quella cinematica, non esiste nessuna prova del fatto che il Partito abbia imposto alcunché a nessuno. Difatti occorre sottolineare che simili spiegazioni alternative all’epoca circolavano anche in Occidente, ebbero moltissimo seguito e continuarono a farlo per molti anni (ancora oggi c’è chi - tra cui il sottoscritto - sostiene che il redshift possa essere spiegato con l'ausilio di teorie differenti rispetto a quelle convenzionali). Non capiamo dunque quale sia il problema, e soprattutto non vediamo nessuna dimostrazione del fatto che gli astronomi fossero stati costretti a trovare spiegazioni alternative al fenomeno del redshift che escludessero l’espansione effettiva dell’Universo, a parte ovviamente casi isolati, presi fuori contesto e comunque non riconducibili ad imposizioni da parte del Partito e dello Stato, quali quelli citati nell’articolo. In nessun caso critiche fatte da scienziati ad altri scienziati possono essere prese per critiche o imposizioni fatte dal Partito o dallo Stato verso chicchessìa, a prescindere da quale sia la natura di queste critiche. Il sottoscritto, comunque, ammette di aver molta simpatia per gli astronomi Boris Vorontzov-Velyaminov, Victor Ambartsumian e per tutti gli altri scienziati dell’epoca che, oltre ad opporsi all’interpretazione occidentale della Teoria del Big Bang si opponevano anche alla teoria in sé, ritenendola non scientifica. Ma questa è un’opinione del tutto personale (legata all’ostilità dello scrivente nei confronti della Cosmologia Standard) e perciò non collegata a fatti oggettivi avvenuti nell’URSS dell’epoca.
Qual è dunque la conclusione che possiamo trarre? Semplicemente che, anche in questo caso, lo scrittore dell’articolo è stato assai superficiale nelle proprie ricerche, non approfondendo a sufficienza i motivi della critica sovietica nei confronti della Teoria del Big Bang, e non riportando fonti e dati oggettivi che dimostrino l’imposizione agli astronomi della ricerca di spiegazioni alternative al fenomeno del redshift.

La meccanica quantistica e il programma atomico sovietico

Alla meccanica quantistica nel corso dell'articolo si fa solo un piccolo accenno, e qui come nel resto della speculazione pseudo-storica a cui siamo davanti si comprende la disonesta ignoranza dello scrittore dell'articolo sul piano filosofico e scientifico. Difatti in nessuno scritto sovietico si è mai parlato di un ripudio della teoria dei quanti (di cui vennero, come nel caso della Relatività e del Big Bang, rifiutate solo ed esclusivamente le interpretazioni filosofiche idealistiche degli scienziati occidentali, cioè della scuola di Copenhagen) né tantomeno di un rifiuto del dualismo-onda particella. Il fisico e filosofo Mikhail Omel'anovskij spiega eloquentemente che «Come è noto, la meccanica quantistica si basa sulle scoperte della discontinuità della radiazione e sulle proprietà ondulatorie della materia. Queste scoperte portarono a una scomposizione dei corrispondenti concetti di base e delle disposizioni della fisica classica, procedendo dal riconoscimento della sola continuità dei fenomeni di radiazione e alla discrezionalità della materia. Questa ripartizione implicava la necessità di applicare la dialettica materialistica alla fisica, perché allo stesso tempo le proprietà corpuscolari e ondulatorie della radiazione o degli elettroni indicano che le radiazioni e gli elettroni non sono particelle, non onde, ma una formazione dialettica di entrambi gli "opposti".» [9]. Anche Sergej Ivanovič Vavilov espone con immensa chiarezza questo concetto, scrivendo che «La natura di certe unità dialettiche scoperta nella nuova fisica è estremamente peculiare: le nature reciprocamente esclusive degli opposti sembrano all'osservazione celare la loro unità. Così, malgrado siano passati vent'anni dalla scoperta dell'unità tra particelle e onde, il fisico e specialmente il neo-fisico, è incapace di individuare entrambe le proprietà nell'unica immagine di una corrente di elettroni o di un fascio di luce. Eppure i due sono indubbiamente uno, come dimostrano gli esperimenti sulla diffrazione degli elettroni o sulla sensazione visiva della luce a bassa intensità.» [10]. Ricapitolando, non si evince la benché minima traccia di quanto spacciato per le "tesi ufficiali" del PCUS e del mondo accademico sovietico negli scritti stessi degli scienziati sovietici, ed anzi andando ad analizzarli vi troviamo tesi diametralmente opposte!
A questo punto si arriva al programma atomico sovietico, dicendo che secondo la presunta ortodossia dogmatica sovietica vigente all'ora sarebbe stato impossibile sviluppare una visione materialistica della fisica quantistica. Peccato che, come abbiamo appena visto, gli scienziati e i filosofi sovietici riuscirono perfettamente a farlo e ciò non inficiò minimamente lo sviluppo delle armi atomiche sovietiche, difatti il primo test del 29 Agosto 1949, conosciuto anche col nome di bomba nucleare RDS-1, ebbe una potenza esplosiva pari a 22 chilotoni di TNT, e tramite il successo del primo lancio poi si ebbero altri tentativi, come il 18 ottobre 1950 quando gli scienziati sovietici sperimentarono il lancio di una atomica a 380 km d'altezza, al punto che 15 anni più tardi tutte le categorie delle forze armate sovietiche erano munite di armi nucleari [11]. Dopodiché l'articolo cita una presunta conferenza dei fisici sovietici che stava per essere organizzata nel 1949, ma che successivamente ai presunti rapporti di Berija sull'"inaffidabilità ideologica dei fisici" sarebbe stata annullata, in quanto in questa presunta conferenza i fisici avrebbero parlato della meccanica quantistica e della Teoria della Relatività. Come nel caso dell'opera "Contro l'idealismo nella fisica moderna ", anche in questo caso non siamo riusciti a trovare assolutamente nessuna Fonte che corrobori simili speculazioni, pur avendole cercate non solo in italiano ma anche in russo. Sarebbe d'uopo quindi che l'autore, esattamente come nel caso dell'opera sopracitata, ci ragguagliasse sulle fonti da lui utilizzate. Inoltre, non si capisce come Kurchatov abbia potuto riferire a Berija che se la Relatività fosse stata respinta allora anche la costruzione della bomba atomica avrebbe dovuto essere abbandonata, dal momento che, come abbiamo visto, la Relatività non fu affatto respinta in nessuno scritto sovietico, al massimo v'erano singoli scienziati che vi si opponevano (come in Occidente), ma non vi fu mai nessun rifiuto generalizzato (anzi, dal momento che la Teoria della Relatività è citata positivamente In un dizionario filosofico ufficiale commissionato dal Partito, è assolutamente logico supporre che gli anti-relativisti nell'URSS di Stalin fossero addirittura una minoranza!).
Dunque, anche in questo caso siamo costretti a rilevare come lo scrittore dell'articolo non abbia compiuto delle ricerche sufficientemente approfondite, poiché consultando gli scritti dei fisici e dei filosofi sovietici di allora nonché ragionando con la propria testa, si arriva ad uno scenario esattamente opposto a quello da lui descritto: la teoria dei quanti non fu soggetta ad alcun "bando" ed il programma atomico sovietico non risentì affatto dell'ideologia propugnata dal PCUS.

Conclusioni

Riteniamo di esser riusciti a smentire le parti più importanti dell’articolo da noi analizzato e le dicerie occidentali da esso propagandate come fatti acquisiti e verità assolute, con l’ausilio di fonti di prima mano. L'Unione Sovietica è stato il Paese che, più di tutti, si è dedicato allo studio delle scienze ed ha ottenuto grandi progressi, che verranno sempre ricordati da tutta l’umanità, essa è stata il primo Paese che ha cercato di diffondere una cultura realmente e organicamente scientifica nel mondo, e tutti gli scienziati seri ed amici del progresso non potranno far altro che riconoscerlo. A nessuno deve essere permesso di strumentalizzare indebitamente l'esperienza sovietica e i traguardi scientifici da essa raggiunti per i propri fini propagandistici, né di mentire spudoratamente su fatti e personaggi, distorcendo la realtà delle cose. L’analisi di questo articolo si è rivelata però oltremodo utile, poiché ha fornito la dimostrazione pratica del fatto che la propaganda capitalista non si ferma solo all’economia e alla politica dei Paesi socialisti. Essa, al contrario, si addentra anche in settori “di second’ordine” come la scienza, cercando di minare in tutti gli aspetti possibili l’immagine del Socialismo realizzato agli occhi del proletariato dei Paesi imperialisti.

Fonti

[1] A. Ždanov, "Intervento nella discussione sulla storia della filosofia dell’Europa occidentale di G. F. Alexandrov", "Politica e ideologia", Edizioni Rinascita, Roma 1949
[2] Ibidem
[3] J. V. Stalin, “Il marxismo e la linguistica”, traduzione di Palmiro Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma 1952
[4]. R. Medvedev, “Stalin sconosciuto”, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 216-217
[5] Le memorie di Jurij Ždanov, disponibili qui: http://webcache.googleusercontent.com/sear...t&client=ubuntu
[6] M. M. Rosental e P. F. Iudin, Dizionario Sovietico di Filosofia, 1946, pp. 297-298
[7] F. A. della Scala, introduzione all'opera di Jurij Ždanov "Contro il soggettivismo nelle scienze naturali" scritta per il sito di Noicomunisti è disponibile qui: http://noicomunisti.blogspot.com/2013/11/a...unisti.html?m=1
[8] Papa Pio XII, Discorso pronunciato alla Pontificia Accademia delle Scienze il 22 novembre 1951
[9] Mikhail Erazmovič Omel'anovskij, "La lotta del materialismo contro l'idealismo nella fisica moderna<", in AA.VV., "Questioni del materialismo dialettico", Edizione Accademia delle Scienze dell'URSS, Mosca 1951, pp. 143-147, traduzione mia
[10] Sergej Ivanovič Vavilov, "Lenin e la fisica moderna", "Rinascita" n° 3, 1949, p. 118
[11] Pagine di storia: 29 agosto 1949. Test della prima bomba atomica sovietica

Si rivolge un ringraziamento speciale al compagno Pier Giorgio Corriero per l'aiuto offerto nella stesura del paragrafo dedicato alla meccanica quantistica e allo sviluppo del programma atomico sovietico.
view post Posted: 23/1/2024, 22:36 Il pensiero di Nikolaj Černyshevskij - Precursori

Il pensiero di Nikolaj Černyshevskij


Il pensiero di Nikolaj Černyshevskij è stato il costante punto di riferimento ideologico del movimento populista della seconda metà del XIX secolo, che ebbe in Narodnaja volja la sua espressione più compiuta e drammatica, e ha continuato ad agire da elemento catalizzatore anche dopo, in figure centrali della Rivoluzione d'Ottobre come Lenin. Intellettuale versatile, poliglotta, grande erudita, dovette spesso consegnare alle sole forme di scrittura che gli furono consentite dalla censura zarista, quali la critica letteraria e il romanzo, le sue riflessioni di carattere prevalentemente politico e sociale, formatesi in antitesi netta con l'allora dominante pensiero idealistico. La riflessione che Černyshevskij portò avanti specialmente dalle pagine del Sovremennik, toccò i vari campi del sapere, e se da un lato questo fatto testimonia la ricchezza dei suoi studi, dall'altro ciascuno di essi finiva con il conclamare la necessità di una nuova morale, di modo che la battaglia che quasi solitario lo vide opporsi all'autocrazia può dirsi riconducibile a quest'unico fine, che rappresenta il suo interesse più autentico e quasi assoluto. La sua opera più nota è il romanzo "Che fare?".

L'estetica

"I rapporti estetici tra arte e realtà" è il titolo della tesi che Černyshevskij, per conseguire il titolo accademico di dottore (in russo: magistr nauk;, cioè dottore in scienze) [1 iin Scienze storiche e filologiche presso la facoltà di Filosofia, scrisse entro il 1853, ma che discusse e pubblicò solo due anni dopo, quando, morto lo zar Nicola I, sembrarono aprirsi spiragli di libertà maggiori e conclusioni ardite, quali quelle proposte dal candidato, potevano essere esposte pubblicamente. Lo studio sovverte le basi ideologiche della teoria estetica allora dominante, di derivazione hegeliana, e dichiara la realtà più importante della rappresentazione artistica. Alla pretesa idealistica secondo cui la realtà deve conformarsi a un'idea astratta di bellezza, Černyshevskij replica che la misura del sublime non risiede in una superiore realtà spirituale, bensì nella natura stessa, e che lungi dall'essere assoluta, è storicamente e socialmente determinata. Come esempio Černyshevskij assume il modello di bellezza femminile: se gli strati alti della società considerano piacente la donna pallida e sottile, quelli bassi propendono per il tipo robusto e dalle guance vermiglie, vedendo nell'immagine precedente una persona malata invece che attraente. L'ideale di bellezza è dunque influenzato dalla vita reale delle persone, sono le condizioni e le modalità in cui la vita si sviluppa a creare il sentimento estetico. Esso deve soddisfare non l'ideale, ma il reale, non il «surrogato» della vita, quanto la vita medesima, mai perfetta e nondimeno sempre più ricca e luminosa del mero prodotto dell'immaginazione. In fondo si tratta di distinguere l'artificioso dal reale, la menzogna dalla verità, e il criterio per avere la certezza di non sbagliare è l'esperienza, «somma rilevatrice di inganni, che disincanta non solamente nelle questioni pratiche, ma anche negli affari di cuore e di pensiero».[2].
Protetto dal paravento dell'estetica, Černyshevskij affrontava invero altre questioni. Ciò che più gli premeva era esortare il lettore a rinunciare alle fantasticherie romantiche, frutto di una misera realtà, ad abbandonare i sogni che nascono sempre quando una persona si pone in una «falsa posizione», a non lasciarsi abbacinare dalle irrilevanti perfezioni dello stile, e a lavorare per costruirsi, al contrario, una «concezione pratica» della vita, più utile dei vani discorsi intorno alla letteratura per crescere come individuo.[3]. «L'apologia della realtà in confronto della fantasia, la tendenza a mostrare che le opere d'arte non possono assolutamente sostenere il confronto con la viva realtà, ecco la sostanza di questa dissertazione. Ma parlare così dell'arte non significa abbassare l'arte? Sì, se dimostrare che l'arte è inferiore alla vita reale per perfezione artistica delle sue opere, significa abbassare l'arte; ma insorgere contro i panegirici non vuol dire ancora essere un denigratore. La scienza non pensa di essere al di sopra della realtà, e questa non è per lei una vergogna. Neppure l'arte deve pensare di essere superiore alla realtà; ciò non è per essa umiliante. Che nemmeno l'arte si vergogni di riconoscere che il suo scopo è di riprodurre secondo le forze, questa preziosa realtà e di spiegarla per il bene dell'uomo» [2].

La critica letteraria

Černyshevskij non aveva mai voluto creare una nuova estetica, ma semplicemente dichiararne l'irrilevanza, a fronte, invece, della grande funzione che riconosceva alla letteratura come fattore di attrazione della vita intellettuale del paese. Depurata dalle insignificanti questioni estetiche, la letteratura doveva riempirsi di contenuto, militare al servizio degli interessi popolari, interpretare al meglio il proprio ruolo educativo in un sistema politico repressivo, che non consentiva altri veicoli per la trasmissione delle idee: «Nelle nazioni dove la vita spirituale e sociale ha raggiunto un alto sviluppo esiste, se ci si può così esprimere, una divisione del lavoro tra i vari rami dell'attività mentale, mentre noi ne conosciamo solo uno, la letteratura» [4]. La responsabilità di educare il popolo imponeva ai rappresentanti della cultura di non celebrare il folklore popolare come elemento genuino nato dal suo seno e quindi espressione di una tradizione tutta nazionale, giacché «i barbari son tutti simili tra di loro, mentre ciascuna delle nazioni colte si distingue per una personalità nettamente disegnata». Che i motivi ricorrenti nel folklore siano comuni a tanti popoli è verità scoperta dai fratelli Grimm dopo anni di studi nei quali avevano cercato di dimostrare l'originalità dei tedeschi rispetto ai francesi, per poi arrendersi all'evidenza che il carattere veramente nazionale non passa dalle tradizioni popolari [5]. Non che Černyshevskij si accontenti di denunciare l'assenza di una tradizione autenticamente nazionale nella produzione popolare, per togliere agli slavofili l'argomento prediletto in favore del culto da loro professato del popolo, in quanto chiarisce che questo genere di esaltazione non fa altro che «confinare il popolo in un piano di cultura inferiore», mentre era necessario sprovincializzarlo e renderlo partecipe di un movimento di pensiero più ampio e formativo.
Le idee sviluppate nella tesi di dottorato concorsero alla nascita di una nuova critica letteraria, di stampo «realista», che avrebbe dovuto dare precedenza, nell'analisi dei testi, all'esposizione dei bisogni autentici degli esseri umani, come il desiderio di amore, di giustizia, di una vita migliore per sé e per gli altri, molto più sentiti dell'aspirazione al bello. Ne i Saggi del periodo gogoliano della letteratura russa, del 1856, Černyshevskij fa la storia della critica del suo Paese in quel momento cruciale che furono gli anni '40, segnati da Belinskij, un maestro per le future generazioni, colui che aveva avvicinato la letteratura nazionale all'Occidente, sostenendo senza paura che era meglio imitare l'Europa piuttosto che continuare ad esaltare, sulla scia degli slavofili, le tradizioni popolari. Quindi Černyshevskij indica in Gogol' l'esempio più alto di autore in grado di portare una profonda riflessione sulla realtà sociale della Russia, assistito da un linguaggio peculiare, sempre in bilico tra il comico e il tragico, e pertanto di fare della letteratura un mezzo per comprenderla. Nel medesimo anno, il 1856, Černyshevskij scriveva il saggio "Aleksandr Sergeevič Pushkin: la sua vita e le opere", nel quale tenta la difficile operazione di rinnovare l'immagine del grande poeta, ferma all'epoca, non essendo di pubblico dominio la produzione libertaria e i suoi rapporti con i decabristi, a quella di splendido «cantore della "beltà eterna" della natura e della grazia femminile», mettendone in rilievo il vero valore.
« Sulle prime i lettori furono colpiti dalle doti artistiche delle poesie e dei poemi..., ma in seguito, a poco a poco cominciarono ad appassionarsi a un'altra qualità delle sue opere. Questa qualità importantissima era costituita dal fatto che per primo Pushkin prese a descrivere i costumi e la vita dei diversi ceti del popolo russo manifestando sorprendente veridicità e acume. Cosa che prima di lui nessuno aveva mai fatto. I suoi predecessori molto raramente avevano scelto a oggetto dei propri racconti la vita russa e, comunque, l'avevano descritta in modo innaturale e impreciso». Pushkin aveva preparato il terreno per l'avvento di Gogol' e non era né, come sosteneva Družinin, il campione dell'arte pura né, come ritenuto dai liberali, in riferimento all'Onegin, un assertore dell'indifferentismo sociale. La convinzione che la letteratura fosse, in un paese arretrato, lo strumento migliore atto a garantirne la crescita spirituale, è ribadita da Černyshevskij nella biografia incompiuta, pubblicata a puntate sul Sovremennik, di Lessing, cui viene riconosciuto il merito di aver dato alle lettere tedesche «la forza di essere il centro della vita nazionale», e di aver così contribuito ad accelerare l'ingresso della Germania nella modernità [6]. Questo lavoro del 1857 non fu ultimato perché l'attenzione del suo autore si era spostata sulla riforma contadina avviata dallo zar in un clima di relativa libertà d'espressione, circostanza che gli consentì di abbandonare la critica letteraria e di lasciare quella che per lui era sempre stata un'occupazione di ripiego alla penna corrosiva del giovane amico Dobroljubov.

La difesa dell'obshčina

Černyshevskij prese a farsi paladino della comune contadina sul Sovremennik, nei numeri 9 e 11 del 1857, in un saggio dal titolo "Sulla proprietà fondiaria", dove critica le posizioni liberali di economisti quali Jean-Baptiste Say e Frédéric Bastiat, che ritengono la proprietà privata lo stadio superiore e ultimo del processo storico, richiamandosi ad Adam Smith che, nel terzo libro de "La ricchezza delle nazioni", spiega come dopo la caduta dell'Impero romano, il passaggio da una forma all'altra dei rapporti di occupazione della terra (servitù, colonia parziale, affittanza) era stato determinato dal sempre maggior grado di interesse manifestato dal coltivatore nell'accrescimento della produttività del suolo. Ora — osserva Černyshevskij — nei paesi europei in cui il capitalismo si era ormai affermato, ossia la Francia e l'Inghilterra, questo principio non era rispettato. In Francia, dove era assai diffusa la piccola proprietà terriera, i contadini non avevano risorse sufficienti da investire nelle migliorie e la redditività non poteva crescere; mentre in Inghilterra, dove era dominante il sistema del farmer a contratto, si arrivava al paradosso che, se la produzione saliva, grazie al lavoro del contadino che pure vi aveva impiegato suoi capitali, al momento di firmare un nuovo contratto, questi si trovava a dover pagare un canone superiore al precedente, in proporzione all'avvenuto potenziamento dello sfruttamento del terreno. Ne conseguiva che il contadino a contratto non poteva avere un reale interesse nel far sì che la terra fruttasse di più, considerando che dei benefici veniva a goderne il proprietario e non lui. Quanto poi alla maggioranza della popolazione agraria, era costituita da miseri braccianti [7]. Sul tema Černyshevskij sarebbe tornato con il saggio "Critica dei pregiudizi filosofici contro la proprietà comunitaria della terra", pubblicato un anno dopo il precedente sul numero 12 del Sovremennik, facendo la teoria della superiorità del modo di produzione collettivistico della terra in reazione ai fautori della proprietà privata. Non che intendesse porsi nel solco degli slavofili, alfieri acritici dell'obshčina come di un’istituzione da preservare solo perché parte della tradizione popolare, volendo egli difendere il principio del lavoro comune senza mitizzare l’organizzazione reale «di tali vestigia dell’antichità primitiva» [8]. Lo scopo era andare oltre gli slavofili e i liberali per avvalorare l’inevitabilità di un terzo stadio di sviluppo, capace di «unire il vantaggio dell'agricoltore al miglioramento della terra e all'ottimizzazione della produzione».
Nel saggio, la difesa della comunità agraria su basi scientifiche procede attraverso la formulazione di due assiomi che Černyshevskij, con l’abituale ironia, cerca di rendere d’immediata comprensione, non tanto all'avveduto lettore quanto all'avversario liberale dalla scarsa sagacia, corredandoli con una serie di esempi tratti dalle diverse branche del sapere e sfere della vita. Il primo assioma, la cui struttura è un’esposizione del processo dialettico triadico hegeliano, è così enunciato: «In quanto alla forma, lo stadio superiore dello sviluppo è analogo al momento iniziale da cui ha avuto origine». Relativamente alla questione agraria, quindi, a un primo stadio che vide presso tutti i popoli primitivi, pressoché nomadi e privi di solidi legami con un apprezzamento specifico, il possesso comunitario della terra, ne è succeduto un secondo, fondato sulla proprietà privata, che ha contribuito ad aumentare la produzione attraverso investimenti mirati di denaro e lavoro, cui dovrà subentrarne un terzo in grado di conciliare gli interessi del lavoratore con la crescita della produzione. Nel riproporre la forma collettivistica del primo stadio, il terzo se ne discosterà tuttavia nel contenuto, caratterizzato da un'incomparabile maggiore crescita. Tra gli esempi portati da Černyshevskij a supporto della sua tesi, citiamo: in biologia, la massa cerebrale si presenta gelatinosa nella forma, a somiglianza dello stadio inferiore della vita animale rappresentato dai molluschi, mentre il secondo vede la preminenza della carne come «elemento principale del regno animale» [9]. In filologia, tutte le lingue partono da una condizione in cui sono assenti coniugazioni e declinazioni e le parole non subiscono modificazioni di sorta in relazione alla loro funzione grammaticale, poi appaiono e si incrementano le flessioni, finché non si torna alla semplificazione originaria, e infatti nell'inglese moderno, come nella lingua cinese, simile a quelle arcaiche, «io vado a casa», si dice allo stesso modo, «io andare casa» [10]. il commercio, presso le tribù primitive era libero dai dazi doganali, poi per proteggere lo sviluppo dell’industria nazionale fu introdotto il protezionismo, ed ecco che economisti del calibro di Robert Peel rilanciavano di nuovo la libertà di scambio [11]. Sempre quindi ricompare la forma primitiva, solo che le ragioni che decidono il suo ritorno «al termine dello sviluppo e le cause che ne hanno determinato l’esistenza al suo inizio sono diametralmente opposte. Raggiungendo un certo grado di intensità, quelle stesse circostanze che, ad un grado inferiore, erano contrarie alla forma primitiva, si trasformano inevitabilmente in condizioni del suo ripristino» [12].
Il secondo assioma recita: «Sotto l’influenza dell’alto livello di sviluppo che un dato fenomeno della vita sociale ha raggiunto nei popoli progrediti, questo fenomeno può, presso gli altri popoli, godere di un rapido sviluppo ed elevarsi dal grado inferiore direttamente al superiore, evitando i momenti logici intermedi». Per chiarire il suo pensiero, Černyshevskij illustra il lungo processo che in natura porta il legno alla combustione: umidità, decomposizione, fermentazione, essiccazione, formazione del carbone nero, sua modificazione in carbone ardente, apparizione della fiamma. Ciascuno stadio è un momento logico del processo di combustione. Ma la modernità conosceva il fiammifero di fosforo, e questa scoperta consentiva il salto dal primo stadio direttamente all’ultimo, senza dover superare i gradi intermedi. È ovvio che una volta inventato il fiammifero, nessuno per accendere il fuoco avrebbe atteso il compiersi del processo naturale di combustione del legno. Precisamente, il fiammifero avrebbe agito da fattore di accelerazione. Lo stesso poteva dirsi per i fenomeni della vita individuale e sociale. Un popolo arretrato che non aveva cognizione dello sviluppo industriale, doveva farne per forza esperienza diretta e tollerarne gli effetti negativi quando, avendo dimostrato la veridicità del primo assioma, tale sistema sarebbe stato abbandonato per tornare al modello comunitario primitivo? Questo popolo doveva necessariamente affrontare tutte le fasi del processo storico? No, non doveva, perché avrebbe agito su di esso come forza di accelerazione il contatto con il popolo progredito, che aveva già compiuto l'intero percorso [13]. In sintesi, conclude Černyshevskij, «la storia come una nonna, ama straordinariamente i nipotini più piccoli», e a loro non dà semplici ossa, ma quelle del midollo spinale [14]. Furono così poste da Černyshevskij le basi teoriche, poi acclamate e fatte proprie dal movimento populista coevo e successivo all'andata nel popolo, del passaggio rapido della Russia al socialismo, beneficiando delle conquiste tecniche del capitalismo senza che i lavoratori ne dovessero subire per forza i drammatici contraccolpi. Il ruolo del fiammifero, ovvero il fattore di accelerazione nella contingenza specifica, sarebbe stato rappresentato dalla rivoluzione contadina.

Il pensiero economico e l'ideale socialista

All'inizio del 1860 Černyshevskij si dedicò allo studio dell'economia politica che lo portò a concludere come il capitalismo fosse uno stadio transitorio e innaturale del processo produttivo. Non approfondì le dinamiche della produzione capitalistica, ma ne colse l'essenziale, gli elementi di progresso e quelli negativi. Bersaglio privilegiato della sua polemica sono i liberali che, fautori del laissez-faire, non vogliono l’intervento dello Stato in economia. Ma in Russia — fa notare Černyshevskij — l'economia era nelle mani dello Stato e discutere se dovesse o meno intervenire nelle questioni economiche era una perfetta perdita di tempo. In linea di principio egli stesso non era contrario al laisser faire, tuttavia solo in caso di elevata produttività e di alto rendimento del lavoro, cioè di benessere reale goduto dalla manodopera, fatto che avrebbe reso superflua l'ingerenza statale in economia. In generale però lo Stato doveva prendere provvedimenti per abbattere i monopoli, concepiti al fine di contrastare la concorrenza, e per garantire una divisione più equa della ricchezza. Nel caso particolare poi della Russia, l'azione del governo era indispensabile per assicurare la sopravvivenza della comune contadina, essendo l'agricoltura la principale voce produttiva del paese. In "Capitale e lavoro", Černyshevskij oppone al libero mercato l'economia razionale del socialismo, estrinsecazione degli interessi del popolo lavoratore che prende coscienza di essere altro dal ceto medio. Tale riflessione si puntualizzò nel 1861 quando Černyshevskij iniziò la traduzione dei "Principi dell'economia politica" di John Stuart Mill, fermandosi al primo libro corredato da un apparato di note, in cui circostanziava il proprio pensiero, mentre gli altri quattro si limitò a commentarli attraverso una scelta di brani. Il capitalismo gli appare un sistema ingiusto e contraddittorio, che sfrutta l'aumento della produzione per l'esclusivo vantaggio del capitale, serbando al lavoratore i soli mezzi atti a garantirne la sopravvivenza. La miseria così generata è considerata da Černyshevskij un ostacolo all'ulteriore sviluppo della produzione, in perenne balìa delle fluttuazioni del mercato.
Al modo di produzione capitalista doveva succedere quello socialista che, nella sua visione, è regolato dai bisogni reali, precedentemente definiti. I produttori avrebbero lavorato tanto quanto occorreva a soddisfarli, quindi ogni lavoratore sarebbe venuto a godere, in egual misura, dei benefici conseguenti l'aumento della produzione [15]. La comunità rurale in ambito agricolo e il cooperativismo in quello industriale e manifatturiero avrebbero combinato lo sviluppo della produzione su larga scala con il benessere delle classi lavoratrici. Il socialismo così inteso può essere definito utopistico solo nell'accezione marxista del termine, che vede nel proletariato la classe deputata a realizzare la rivoluzione, giacché, diversamente dai massimi esponenti di questa dottrina come Fourier e Owen, per Černyshevskij la trasformazione della società su basi egualitarie non può avvenire da sé, senza il rovesciamento dell'ordine costituito. Occorre infine sottolineare che, grazie all'obshčina, i contadini russi erano ideologicamente più affini al proletariato, nel rivendicare il possesso comune dei mezzi di produzione, che ai propri pari europei, maggiormente sensibili all'idea della proprietà privata, e che pertanto la rinascita morale e sociale del Paese, mediante un atto rivoluzionario, poteva a ragione essere fondata su di loro [16].

Il materialismo e il principio etico dell'egoismo razionale

Desiderando contrapporsi sia alla metafisica tradizionale che al meccanicismo di stampo cartesiano, il quale inserisce nella realtà il dualismo della res cogitans e della res extensa, Černyshevskij afferma, sulla scia dei lavori di Jacob Moleschott, la perfetta unità della materia, organica e inorganica. In una lettera scritta da Viljujsk ai figli, sintetizza il suo materialismo in questi termini: «Tutto ciò che esiste è materia. La materia possiede delle qualità [17]. La manifestazione delle qualità sono le forze [18]. Tutto ciò che definiamo leggi di natura sono i modi di agire di queste forze». Černyshevskij sviluppò la propria concezione filosofica in un saggio edito nel 1860 sui numeri 4 e 5 del Sovremennik, dal titolo "Il principio antropologico in filosofia", che aveva l'aspetto di una recensione poco lusinghiera al libro di Lavrov, "Saggi su questioni di filosofia pratica" (Očerki voprosov praktičeskoj filosofii), accusato di eclettismo e, in ultima analisi, di andare a raccogliere impressioni da ogni dove senza poter proporre al pubblico un pensiero coerente. Al di là dell'immediato — e ingannevole — spirito polemico, nonché dello stile prolisso che sembra non voler mai giungere al nocciolo della questione, lo scritto è il maggior contributo reso in ambito filosofico da Černyshevskij, quello in cui porta a compimento la protesta contro la morale ufficiale, rea di mortificare l'individuo e di comprimerne le spinte ideali entro gli angusti limiti di un ordine religioso e poliziesco, per fondare una nuova etica che fosse congrua alla sfida di radicale rinnovamento imposta dai tempi. Il materialismo inteso in senso monistico gli consentiva di poter trasferire nel campo delle scienze morali lo stesso determinismo presente nelle scienze naturali, e in questo precisamente si compone il significato del principio antropologico: «Il lettore ha potuto capire in cosa consiste tale principio... consiste nel fatto che l'uomo deve essere ritenuto un essere unico che ha una sola natura, per non scindere la vita umana in due metà che appartengono a differenti nature e per considerare ogni aspetto dell'attività umana come un'attività di tutto il suo organismo dalla testa ai piedi inclusi» [19]. Feuerbach aveva già restituito all’uomo, liberato da ogni pastoia divina, il suo spazio autonomo in filosofia, ma Černyshevskij intende andare oltre e fare della morale una scienza come la fisica.
Analizzando le motivazioni che stimolano le azioni dell'uomo, egli le riconduce tutte al solo principio dell'interesse personale. Il recupero del concetto di egoismo non è in sé originale, avendo compiuta la stessa operazione Herzen, sebbene solamente per affermare il diritto della persona alla piena realizzazione della propria natura. Černyshevskij, invece, allarga questo concetto dall'individuo al tessuto socio-economico in cui vive, caratterizzato dalla rapida espansione impressa alla produzione dal capitalismo. Dopo aver spiegato che l'interesse guida l'uomo alla ricerca di ciò che gli procura piacere e a rifuggire ciò che cagiona dolore, definisce cosa utile quella che assicura un piacere duraturo e bene, «il grado superlativo dell'utilità». A questo punto parrebbe che l'etica di Černyshevskij si configuri come utilitaristica, ma le conclusioni del suo ragionamento sono diametralmente opposte, in quanto l'utile di cui parla non è personale bensì generale. Poiché l'interesse conduce ad abbracciare il vantaggio più grande e a tralasciare il più piccolo, presto l'uomo avrebbe compreso che l'interesse collettivo è superiore a quello individuale, in quanto al vertice di un'ipotetica gerarchia di beni riposano quegli atti che recano il massimo di utilità (lo stesso nel linguaggio di Černyshevskij che bene, vantaggio, piacere) possibile al maggior numero di persone. Questa presa di coscienza era al momento patrimonio di una minoranza di uomini nuovi, ma presto lo sarebbe stata di tutti, grazie al progresso delle conoscenze scientifiche e alla diffusione della cultura. Appare dunque evidente quale ruolo rivesta l'intelligencija come forza in grado di diffondere il sapere nel popolo, di mostrargli cosa sia il bene e come procurarselo. Le persone che si accostano alla cultura, non possono non riconoscere la superiorità dell'interesse generale su quello individuale, dopo l'affermazione dell'iniquo sistema produttivo capitalista.
Černyshevskij salda così in un tutt'uno in evoluzione l'economia, la morale, la cultura. All'uomo nuovo, ossia all'intellettuale di estrazione popolare, il cosiddetto raznočinec [20] era affidato il compito di conciliare l'interesse individuale con quello sociale, favorendo la formazione di una coscienza collettiva che facesse comprendere alla gente l'urgenza di assicurare il benessere alla maggioranza del popolo in un momento di grandi mutamenti economici, che rischiava di aggravare le condizioni di vita proprio dei più disagiati [21]. Černyshevskij tornerà a riaffermare l'insostituibile funzione dell'intelligencija nell'avanzamento del sapere presso le classi lavoratrici, cui era demandata l'opera di ricostruzione della società, in uno degli ultimi articoli scritto prima della morte, "Il carattere generale degli elementi che promuovono il progresso", dove scrive: «Se noi uomini di cultura di una nazione qualunque, desideriamo il bene dei nostri connazionali... dobbiamo far loro conoscere ciò che è buono e sforzarci di crear loro le possibilità di assimilarlo... Quando solo l'ignoranza di ciò che è buono è di ostacolo al trionfo del bene sul male, il nostro desiderio di portare dei miglioramenti nella vita dei nostri connazionali può facilmente esser portato a compimento... Fatta eccezione per... pochi individui dalla morale perversa, il resto dei semplici, come degli uomini di cultura, desidera comportarsi bene; e se costoro conducono un'esistenza malvagia è solo perché condizioni di vita vessatorie li costringono a tanto»» [22].

Note

1) Si tratta del titolo più alto conferito da un'università all'epoca dell'Impero russo.
2) "I rapporti estetici tra arte e realtà" (dissertazione), su n-g-chernyshevsky.ru. URL consultato il 6 dicembre 2016.
3) F. Venturi, p. 258.
4) F. Venturi, p. 260.
5) F. Venturi, pp. 260-261.
6) M. Natalizi, pp. 45-50.
7) M. Natalizi, pp. 56-57.
8) N. G. Černyshevskij, p. 73.
9) N. G. Černyshevskij, p. 77.
10) N. G. Černyshevskij, pp. 80-81.
11) N. G. Černyshevskij, p. 86.
12) N. G. Černyshevskij, pp. 87-88.
13) N. G. Černyshevskij, pp. 92-99.
14) N. G. Černyshevskij, p. 101.
15) M. Natalizi, op. cit., pp. 76-80.
16) "La dottrina socialista di N. G. Černyshevskij", su ekoslovar.ru. URL consultato il 20 aprile 2017.
17) Lo stesso che dire proprietà, capacità.
18) Così, ad esempio, se la materia possiede la qualità della combustibilità, la combustione è la forza per mezzo della quale la suddetta proprietà si manifesta.
19) N. G. Černyshevskij, p. 223.
20) Letteralmente il termine raznočinec significa: persona di ceto eterogeneo.
21) N. G. Černyshevskij, pp. 214-226.
22) N. G. Černyshevskij, "Il carattere generale degli elementi che promuovono il progresso", su scicenter.online.

Fonte: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Pensiero_d...C5%A1evskij
view post Posted: 1/2/2020, 10:39 Onore all'inedita esperienza socialista dei Gulag - Scritti di altri autori

Onore all'inedita esperienza socialista dei Gulag


La storia dei Gulag
Le origini del Gulag, abbreviazione di Glavnoje upravlenije lagerej (Amministrazione generale dei campi di lavoro correttivi), termine assunto nel 1930 per ribattezzare la riorganizzazione del dipartimento speciale per i campi dell'Urss, sono da ricondursi al 1919, quando un decreto del Commissariato del popolo per gli interni della Russia socialista stabilì le modalità di organizzazione dei campi di lavoro nei quali dovevano essere convogliate persone arrestate e condannate dai tribunali. Esso suggeriva che ogni capoluogo di regione allestisse un campo per non meno di trecento persone ai "confini delle città o in edifici dei dintorni come monasteri, proprietà terriere, fattorie ecc.". Prevedeva una giornata lavorativa di otto ore, mentre gli straordinari e il lavoro notturno erano autorizzati solo "in conformità al codice del lavoro". Già nell'estate del 1918 Lenin aveva chiesto che gli elementi inaffidabili venissero rinchiusi in campi fuori dalle città più importanti; ci finirono aristocratici e commercianti. Il primo decreto bolscevico sulla corruzione emanato nello stesso anno recitava: "Se una persona colpevole di accettare o pagare tangenti appartiene alla classe agiata e si avvale della corruzione per mantenere o acquisire privilegi legati ai diritti di proprietà, dovrebbe essere condannata ai lavori forzati più gravosi e improbi e le andrebbero confiscate tutte le sue proprietà". Nel febbraio 1919 Dzerzinski, a capo della Ceka (Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione, al sabotaggio e alla speculazione) pronunciò un discorso, ispirato dallo stesso Lenin, in cui spiegò la funzione dei campi nella rieducazione ideologica della borghesia. Queste nuove istituzioni dovevano "sfruttare il lavoro dei detenuti; dei signori che vivono senza lavoro; di tutti coloro che non sono capaci di lavorare senza una certa costrizione; o se prendiamo le istituzioni sovietiche, questo castigo dovrà essere applicato nei casi di lavoro poco coscienzioso, poco zelante, quando si verificano ritardi. Ciò che si propone, dunque, è la creazione di una scuola di lavoro". Nel 1921 c'erano 84 campi di prigionia disseminati in 43 province. Come detto, il sistema sovietico di rieducazione basato sul lavoro prese corpo alle Solovetsky, nel campo istituito nel 1920. Tanto che nel 1930, quattro anni dopo l'avvio ufficiale delle nuove regole, a una riunione di partito alle Solovetsky il dirigente locale Uspenski, riportando le sensazioni di Stalin e del Partito comunista, dichiarò: "l'esperienza di lavoro dei campi sulle Solovetsky ha convinto il Partito e il governo che il sistema carcerario deve trasformarsi in tutta l'Unione sovietica in un sistema di campi correzionali di lavoro". Sarà il poeta Gorki a far conoscere al mondo questa inedita esperienza. Nel suo saggio, scritto subito dopo la sua visita personale alle Solovetsky del 20 giugno 1929, descrivendo le condizioni di vita e di lavoro dimostra ai lettori che i campi di lavoro sovietici non equivalgono affatto ai campi di lavoro capitalistici o a quelli dell'epoca zarista, ma sono un tipo di istituzione completamente nuovo. "Se una società europea cosiddetta colta - scriverà Gorki - osasse effettuare un esperimento come questa colonia e se questo esperimento desse dei frutti come ha fatto il nostro, tale paese darebbe fiato a tutte le sue trombe per vantarsi dei propri successi. Solo la modestia dei dirigenti sovietici ha impedito di farlo prima". Fu l'immensa opera del canale del Mar Bianco a dimostrare quanto fosse vincente la politica dei Gulag.
Con questa opera la rotta dal Mar Bianco ai porti commerciali del Baltico poteva essere compiuta senza un viaggio di migliaia e migliaia di chilometri nel Mar Glaciale artico, circumnavigando la grande penisola scandinava. Stalin fu il principale promotore del canale del Mar Bianco e desiderava esplicitamente che fosse posto in opera per mezzo del lavoro coatto dei rieducandi. Quando il canale fu finito, nell'agosto del 1933, i suoi direttori dei lavori gli attribuirono il merito di aver dimostrato "ardimento" nell'intraprendere la realizzazione del "mastodonte idrotecnico" e l'"impresa meravigliosa di non averlo fatto con la manodopera tradizionale". Lo stesso Gorki affermerà: "Stalin è stato l'artefice delle comunità di lavoro e di una politica di recupero attraverso il lavoro. E' stato Stalin a lanciare l'idea di costruire il canale tra il Mar Bianco e il Baltico con l'impiego di detenuti, poiché solo sotto la sua guida era possibile un tale metodo di recupero dei pregiudicati". Se in America c'erano voluti 28 anni per costruire il Canale di Panama, lungo 80 km, e in Asia la costruzione del Canale di Suez, lungo 160 km, aveva richiesto 10 anni, il Belomorkanal, lungo 227 km, era stato costruito in meno di due anni! Oltre all'emulazione socialista, come avveniva in tutta la società sovietica, le autorità del campo introdussero anche la figura dell'udarnik, il lavoratore d'assalto. In seguito essi furono ribattezzati stachanovisti, in onore di Aleksej Stachanov, un minatore efficentissimo e molto produttivo. Gli udarnik e gli stachanovisti erano rieducandi che avevano superato la norma e perciò ricevevano un supplemento alimentare e altri privilegi. Gli operai più efficienti venivano anche rilasciati in anticipo; per ogni tre giorni di lavoro in cui la norma veniva realizzata al 100% ogni detenuto riscattava un giorno di pena. Quando poi il canale fu completato in tempo, vennero liberati 12.484 rieducandi. Molti altri ricevettero medaglie e premi. Sempre in questo periodo con il contributo decisivo del lavoro coatto vennero creati grandi centri industriali negli Urali, nel Kuzbass e sul Volga; le città di Magnitogorsk e Komsomolsk sull'Amur sorsero su terre vergini. Nella Kolyma, in Siberia, il Gulag a poco a poco portava la civiltà. Venivano costruite strade dove prima c'erano solo foreste, sorgevano case nelle paludi. Nuove tecnologie furono portate nelle remote terre del Kazakhstan e del Caucaso. Fu costruita la gigantesca diga del Dnepr, che triplicò la produzione di energia elettrica. La stessa splendida e funzionale metropolitana di Mosca fu costruita grazie al lavoro dei rieducati del Gulag. I Gulag si espandevano dunque a macchia d'olio. L'Uhtpeclag produceva petrolio, la Kolyma oro, i campi della regione di Arcangelo legname.

La rieducazione socialista
I rieducandi si sentivano comunque parte integrante della cittadinanza sovietica, tanto più dalla fine degli anni '30 in poi, allorché venne applicato il principio secondo cui essi dovevano essere utilizzati in base alle loro particolari capacità e specializzazioni. Basti ricordare che lo stesso Tupolev, padre dell'aeronautica sovietica, iniziò a dare i suoi contributi lavorando nei Gulag e dopo aver pagato il suo tributo alla giustizia sovietica rientrò tranquillamente al suo posto di progettatore. Dopo il soggiorno nella Kolyma Sergej Korolev diresse il programma spaziale sovietico. Il generale Gorbatov, rieducato, fu uno dei comandanti dell'Armata Rossa che sferrò il glorioso attacco finale a Berlino. Come ha affermato nelle sue memorie egli non ebbe mai un attimo di esitazione all'idea di rientrare nelle forze armate sovietiche e neppure a combattere per conto del Partito comunista che lo aveva arrestato. Gorbatov scrive anche con orgoglio delle armi sovietiche di cui i suoi uomini potevano disporre "grazie all'industrializzazione del nostro paese" a cui avevano dato un contributo importante i rieducandi dei Gulag. Dopo la vittoria sul nazifascismo diversi ex detenuti furono insigniti del titolo di eroi dell'Unione Sovietica, la massima onorificenza militare dell'Armata Rossa, moltissimi altri ricevettero medaglie e premi, nonché passaggi di grado nell'esercito e ammissione al Partito comunista. Lo slogan "Tutto per il fronte! Tutti per la vittoria!" aveva suscitato un'eco calorosa nel cuore di chi lavorava nei Gulag, la cui produzione industriale contribuì enormemente allo sforzo bellico. Nei limiti del possibile ai rieducandi veniva offerto quello a cui aveva diritto tutto il popolo: istruzione, scuola di Partito, asili nido per le detenute con prole, rappresentazioni teatrali, lettura e pubblicazioni di giornali. Il "Perekovka" (Rieducazione) ad esempio era scritto e pubblicato dai detenuti del canale Moscova-Volga, un progetto partito sulla scia del successo del canale del Mar Bianco, e vi si trovavano anche rubriche di dibattito e di proteste allo scopo di migliorare le condizioni di vita dei campi e la loro direzione.
Dopo la morte di Stalin il caos e la disorganizzazione presero a dilagare nei Gulag. A Beria, che per assecondare il rinnegato e traditore Krusciov avallò l'idea dell'inutilità del lavoro collettivo coatto, la situazione sfuggì ben presto di mano. Rivolte e scioperi si susseguirono in tutti i campi del Paese, tanto che ci fu il ricorso ripetuto all'uso delle armi fino all'impiego dei carri armati contro gli insorti. I detenuti più attivi nelle sommosse erano quelli antisovietici: "fratelli della foresta" baltici, militanti nazionalisti ucraini, soldati dell'armata del generale Vlasov (che aveva collaborato attivamente con Hitler), membri di sette religiose. Con Krusciov i Gulag persero il loro significato originale. Non avevano più uno scopo rieducativo ma unicamente repressivo, gestiti con metodi arbitrari e clientelari. Il rilascio dei prigionieri politici iniziò nel 1954 e si diffuse, accompagnandosi alle riabilitazioni di massa, dopo il colpo di Stato di Krusciov al XX Congresso del PCUS del 1956. Ufficialmente i Gulag furono soppressi dall'ordinanza del 25 gennaio 1960 del ministero degli interni sovietico.

Applicazione errata della giusta linea dei Gulag
Era naturale che nel corso di un'esperienza talmente inedita quale fu il Gulag venissero commessi degli errori. Questo lo avevano messo in conto Lenin prima e Stalin poi. Tuttavia in Urss si ripropose ciclicamente un'applicazione errata della giusta linea dei Gulag. Niente di particolarmente diverso da quanto avveniva nella società socialista sovietica, dove imperava ancora la lotta di classe tra proletariato al potere e borghesia spodestata, tra rivoluzionari e controrivoluzionari. Già nel 1926 gruppi di detenuti meno privilegiati nel campo pilota delle Solovetsky nelle loro lettere al presidium del CC del PCUS denunciavano il "caos e la violenza" imperanti nel Gulag. Tanto che nel 1929 i dirigenti locali della Carelia furono richiamati all'ordine dai loro superiori perché ancora non avevano "capito l'importanza del lavoro coatto come strumento di difesa sociale e la sua utilità per lo Stato e la società". Di fatto nei primi tempi la negligenza, il caos, la disorganizzazione, fattori come la carestia, provocarono molte vittime. Dopo le punte raggiunte nel 1933 il tasso di mortalità calò decisamente, quando la carestia smise di essere acuta e i campi furono organizzati meglio. Non bisogna mai dimenticare comunque come la rapidità dell'industrializzazione, la mancanza di pianificazione e la penuria di specialisti esperti rendevano inevitabili incidenti e sprechi. Durante la costruzione del canale del Mar Bianco Jagoda, allora a capo dell'OGPU, il dipartimento di polizia segreta a cui facevano riferimento i Gulag, su insistenza di Stalin esortava i comandanti dei campi a trattare meglio i lavoratori coatti, a "provvedere in modo scrupoloso a fornire ai detenuti l'alimentazione, l'abbigliamento e la protezione adeguati". Matvej Berman, capo del Gulag dal 1932 al 1937 fu accusato di aver diretto "un'organizzazione trotzkista di destra per il terrorismo e il sabotaggio" che aveva creato "condizioni privilegiate" per i detenuti dei campi, indebolito di proposito la "preparazione militare e politica" delle guardie (da cui il grande numero di evasioni) e sabotato i progetti edilizi del Gulag (da cui la lentezza dei loro progressi).
Aleksandr Izrailev, vicecapo del Gulag di Uhtpeclag fu condannato per aver "ostacolato lo sviluppo dell'estrazione di carbone". Aleksandr Polisonov, un colonnello che lavorava nella divisione delle guardie armate del Gulag, fu accusato di aver creato per i suoi subordinati "condizioni impossibili". A Mihail Goskin, capo della sezione costruzioni ferroviarie del Gulag, venne imputato di aver "elaborato progetti irrealistici" per la linea ferroviaria Volocaevka-Komsomolec. Isaak Ginzburg, capo della divisione medica del Gulag, fu ritenuto responsabile dell'alto tasso di mortalità tra i prigionieri e lo accusarono di aver concesso privilegi ad altri detenuti controrivoluzionari, facendo in modo che venissero rilasciati in anticipo per motivi di salute. Alcuni di questi furono condannati a morte, altri si videro commutata la pena da scontare nei campi. Molti dei primi amministratori del Gulag subirono lo stesso destino. Fedor Ejhmans, capo del dipartimento speciale dell'OGPU venne fucilato nel 1938. Lazar Kogan, secondo capo del Gulag, nel 1939. Il successore di Berman alla direzione del Gulag, Izrail Pliner, mantenne la carica per un anno appena, poi venne fucilato nel 1939. Una situazione denunciata francamente da Stalin. Al XVIII Congresso del Pcus del marzo 1939 Stalin affermò che l'epurazione nella società come nei campi era stata accompagnata da "più errori di quanto ci si sarebbe potuti aspettare". Indicò alcune carenze dell'operazione, come le procedure d'indagine abbreviate, la mancanza di testimoni e di prove a conferma. Jagoda, a cui era stata affidata la responsabilità dell'espansione del sistema dei campi, venne processato e fucilato nel 1938, anche se in una lettera indirizzata al Soviet supremo aveva implorato che lo risparmiassero. "E' duro morire. Mi butto in ginocchio di fronte al popolo e al Partito e chiedo loro di perdonarmi, di salvarmi la vita". Stessa fine per il suo successore Ezhov, che nonostante le premure dello stesso Stalin per farne un quadro proletario rivoluzionario, fu destituito nel '38 e fucilato nel '40 dopo aver implorato anche lui la grazia: "Dite a Stalin che morirò con il suo nome sulle labbra".
Prima del 1937 le percosse ai rieducandi nei campi erano proibite. Ex dipendenti del Gulag hanno confermato che nella prima metà degli anni Trenta erano illegali. Nel '37-'38, periodo più acuto nella lotta contro i controrivoluzionari e sabotatori del socialismo, l'impiego della tortura fisica si diffuse sopra le righe, tanto che all'inizio del '39, lo stesso Stalin fu costretto a diramare una direttiva ai dirigenti della NKVD regionali confermando che "dal 1937 il Comitato centrale consentiva l'impiego della pressione fisica sui prigionieri nell'ambito delle procedure dell'NKVD". Ma spiegò che era permesso "soltanto con nemici del popolo così manifesti da approfittare dei metodi di indagine umani per rifiutare senza ritegno di tradire i cospiratori, con coloro che per mesi rifiutano di testimoniare e cercano di impedire lo smascheramento dei cospiratori ancora in libertà". Tuttavia Stalin ammetteva che talvolta era stata impiegata con "persone oneste arrestate per caso" e che tali casi andavano stigmatizzati e puniti i responsabili. Dal 1939 sotto la direzione di Beria le cose sembrarono migliorare. Gran parte dei condannati in base ad accuse poi rivelatesi infondate furono liberati. Dai Gulag uscirono più di 300 mila rieducandi. Tuttavia nel marzo 1942 l'amministrazione del Gulag a Mosca fu costretta a inviare una lettera furibonda a tutti i comandanti dei campi, ricordando loro la norma per cui "ai prigionieri deve essere consentito di dormire non meno di otto ore". La lettera spiegava che molti comandanti avevano ignorato questa regola, concedendo ai loro detenuti solo quattro o cinque ore di sonno per notte. Perciò, sostenevano i dirigenti, "i prigionieri stanno perdendo la loro capacità di lavorare e stanno diventando 'lavoratori deboli' e invalidi". Per tutta la durata dell'aggressione nazi-fascista e della guerra di Liberazione la giornata lavorativa era stata giustamente aumentata in tutto il Paese. La produzione doveva eroicamente supportare lo sforzo bellico della gloriosa Armata Rossa, ma ciò non poteva e non doveva essere preso a pretesto per abusi e vendetta personali, nel Gulag come in tutta la società. Nel 1945 Vasilij Cernysev, allora dirigente del Gulag diramò una circolare a tutti i comandanti dei campi e ai capi regionali del NKVD manifestando il proprio disagio per lo scarsissimo livello delle guardie armate dei campi, tra cui si riscontrava un'alta frequenza di "suicidi, diserzioni, perdita e furto delle armi, ubriachezza e altri atti immorali", oltre a frequenti "violazioni delle leggi rivoluzionarie". Ancora nel 1952 un anno prima della sua morte, quando furono scoperti casi di corruzione ai massimi livelli della polizia segreta, la prima reazione di Stalin fu di esiliare gran parte dei principali responsabili.

Falsità e menzogne sui numeri
Un gran baccano velenoso viene sollevato artatamente sul numero dei detenuti nei Gulag, sposando cifre fantasiose di decine e decine di milioni avanzate da controrivoluzionari e anticomunisti storici russi e non solo. In realtà nel 1921 erano 70 mila su una popolazione di oltre 135 milioni e nel momento della massima espansione, all'inizio degli anni '50, i detenuti furono all'incirca 2 milioni e mezzo su una popolazione di più di 200 milioni. Basti pensare che dopo l'implosione dell'Urss nel '91 il numero dei detenuti delle colonie penitenziarie non ha smesso di aumentare e supera oggi il milione nella sola Federazione russa, assai meno popolata dell'Urss di Stalin. I borghesi e gli anticomunisti non prendono volutamente in considerazione che dal 27 giugno 1929 il Politbjuro dell'Urss adottò il significativo provvedimento per cui tutti i detenuti condannati a una pena superiore ai tre anni sarebbero stati trasferiti, da quel momento in avanti, nei campi di lavoro collettivi. E nemmeno che la collettivizzazione delle campagne e relativa lotta di classe contro i kulaki, portò nel 1930 300.000 contadini ricchi antisovietici nel Gulag. Eppure per le teste d'uovo della borghesia anticomunista, fra cui spicca il "maoista" pentito, professore inglese nonché funzionario del ministero degli Esteri britannico a Sofia e New York, Robert Conquest, ben 6 milioni e 500 mila kulaki sarebbero stati "massacrati" nel corso della collettivizzazione forzata delle campagne. 5 milioni di internati politici nei Gulag, all'inizio del 1934, (in realtà erano tra i 127 mila e i 170 mila) più sette milioni arrestati durante le cosiddette "purghe" del 1937-1938 facevano dodici; Conquest aggiunge poi un milione di giustiziati e due milioni di morti per cause diverse durante quei due anni. Sempre per costui ci sarebbero stati 9 milioni di detenuti politici nel 1939 "senza contare quelli comuni". Ma al 1° gennaio di quell'anno (vedi tabella pubblicata a parte) i rieducandi del Gulag erano poco più di 1.600.000! Anche per Medvedev, ideologo del rinnegato e traditore Gorbaciov, "c'erano, quando Stalin era vivo, dai dodici ai tredici milioni di persone nei campi". Sotto Krusciov, che avrebbe fatto "rinascere le speranze di democratizzazione", le cose "andavano molto meglio" visto che nel "Gulag non c'erano più di 2 milioni di criminali comuni". Per gli storici della borghesia ci sarebbero stati una media annua di 8 milioni di detenuti nei campi. In realtà, il numero dei detenuti politici oscillò tra un minimo di 127.000 nel 1934 e un massimo di 500.000 durante i due anni di guerra, nel 1941 e nel 1942. Dunque le cifre reali sono state moltiplicate di ben 16 volte. Tra il 1937 e il 1938 i campi sarebbero straripati di 7 milioni di "politici", e ci sarebbero stati oltre 1 milione di esecuzioni e 2 milioni di morti. In realtà, dal 1936 al 1939, il numero dei detenuti nei campi aumentò di 477.789 persone (passando da 839.406 a 1.317.195). Un fattore di falsificazione pari a 14 volte. In due anni i decessi furono 115.922 e non 2.000.000. Là dove 116.000 persone erano morte per cause diverse, i denigratori del socialismo aggiungono 1.884.000 "vittime dello stalinismo". Secondo Conquest e compagnia, tra il 1939 e il 1953, nei campi di lavoro ci fu il 10% di decessi all'anno, per un totale di 12 milioni di morti. Una media di 855.000 morti all'anno. In realtà, il numero reale, in tempi normali, era di 49.000. Solo durante i quattro anni di guerra, quando la barbarie nazista imponeva delle condizioni insopportabili a tutti i sovietici, la media dei decessi salì a 194.000.
Una delle calunnie più ricorrenti afferma che l'epurazione dei controrivoluzionari mirava a eliminare la "vecchia guardia bolscevica". Secondo lo storico russo anticomunista Brzezinski nel 1934 c'erano 182.600 "vecchi bolscevichi" nel Partito, cioè membri che vi avevano aderito al più tardi nel 1920. Nel 1939 se ne contavano 125.000. La grande maggioranza, il 69%, era quindi rimasta nel Partito. C'era stata, durante quei cinque anni, una perdita di 57.000 persone, cioè il 31%. Alcuni erano morti per cause naturali, altri erano stati espulsi, altri ancora giustiziati. E' chiaro che i "vecchi bolscevichi" cadevano, durante l'epurazione, non perché fossero "vecchi bolscevichi", ma a causa del loro comportamento politico revisionista, controrivoluzionario e antisocialista.
E' evidente come l'attacco ai Gulag è l'attacco al socialismo realizzato. Sì perché dietro alle cifre menzognere non c'è niente di "scientifico", c'è l'odio viscerale contro il socialismo e contro coloro che l'hanno elaborato e realizzato. Finché fu vivo Stalin, la borghesia interna e internazionale non ebbe alcun spazio in Urss e nel movimento comunista internazionale, fu denudata, sbugiardata, umiliata e sconfitta e visse nel terrore del suo tramonto storico, lei che si ritiene eterna e universale, mentre la realtà sovietica quotidiana mostrava quanto essa fosse superflua e inferiore rispetto alla nuova classe proletaria giunta al potere dell'economia, dello Stato e dell'intera società. E' stato grazie ai rinnegati Krusciov, Breznev fino a Gorbaciov e Eltsin in Urss e all'esperienza storica del PCI revisionista in Italia che la borghesia internazionale e nazionale ha potuto rialzare la testa e vomitare tutta la bile accumulata contro l'esperienza socialista realizzata da Lenin e Stalin in Urss e da Mao in Cina. C'è altresì una differenza profonda tra gli errori di Stalin - alcuni dei quali da egli stesso denunciati e corretti - che riconosciamo anche noi marxisti-leninisti e gli errori presunti denunciati dai nemici di classe e dai loro lacché. Noi li riconosciamo per salvaguardare la linea marxista-leninista, essi lo fanno per attaccare, stravolgere e abbattere tale linea. Il problema vero allora è tanto sapere individuare gli errori veri da quelli presunti, quanto di saper ricercare le cause degli errori per imparare la lezione e per evitare di ricommetterli, quanto di sapere se sono stati commessi in buona fede (Lenin e Stalin) o con l'intenzione malevola di nuocere alla causa del proletariato e del socialismo (Jagoda, Ezhov e Beria). E' con questo spirito marxista-leninista che oggi rendiamo onore all'inedita esperienza socialista dei Gulag, denunciandone i casi di applicazione errata della sua giusta linea.

Fonte: www.pmli.it/gulag80anniversario.htm

Edited by Sojuz Koba 1961 - 23/1/2024, 22:37
view post Posted: 31/1/2020, 01:13 Mandel’stam: vittima di Stalin o dell’eversione antistalinista ed antisovietica? - Scritti di altri autori

Mandel’stam: vittima di Stalin o dell’eversione antistalinista ed antisovietica?


di Luca Baldelli



La vicenda di Osip Emil’evic Mandel’stam rappresenta ancora oggi, dopo ottant’anni, un buco nero in cui quasi nessuno ha inteso accendere la luce della chiarezza. Chi nomina il grande poeta e scrittore sovietico, rinnovellando le fasi della sua vita, fino alla morte, avvenuta in un campo di lavoro, lo fa sempre e comunque dando per scontata una pretesa volontà da parte di Stalin di eliminarlo, in quanto inflessibile, caustico fustigatore del suo “regime”, in versi e in rima. Le cose stanno davvero così, o anche in questo caso si è data la stura al solito meccanismo della calunnia antisovietica e antistaliniana in particolare? Vediamo di mettere in fila i fatti, nella loro oggettività. Osip Emil’evic Mandel‘stam, poeta, prosatore e saggista sovietico, nato a Varsavia da famiglia ebraica nel 1891, sotto lo zarismo, diventa ben presto uno dei maggiori cantori dell’epopea rivoluzionaria e bolscevica, senza però mai venir meno alla suggestione del verso tradizionale, all’ispirazione lirica che si abbevera alla fonte della tradizione, secondo i canoni seguiti anche, tra gli altri, dai “neoclassici” ucraini (Zerov, Draj – Khmara, Rilskij, solo per citarne alcuni). “Tristia”, “Secondo libro”, “Il rumore del tempo”, “Fedosia”, sono solo alcune opere che proiettano il nome di Mandel’stam nell’empireo della letteratura sovietica negli anni ‘20 – ‘30. Accusato di plagio nel 1929, per un errore (così pare) del suo editore, si difende con passione e parte alla volta dell’Armenia, ricavando da questa esperienza di viaggio una mole di impressioni, emozioni, pensieri, messi nero su bianco in “Viaggio in Armenia” (1930). Le sue relazioni di amicizia e intesa spaziano dal poeta Pasternak al dirigente politico Bucharin, impegnato in una dura lotta contro l’industrializzazione dell’Urss e in un’azione costante, sotterranea e subdola di sabotaggio alla realizzazione degli obiettivi economici e sociali sanciti dal Partito, solo alternata ad opportunistiche tregue. Il Partito comunista dell’Urss non è negli anni ’30, né lo sarà mai dopo, la monarchia assoluta da sempre raffigurata nell’oleografia della propaganda borghese: in esso si confrontano varie tendenze e Stalin più volte finisce in minoranza, oppure fa autocritica e corregge il tiro su alcuni eccessi; nel gruppo dirigente, almeno fino a metà degli anni ’30, le divergenze vengono discusse e, ove possibile, appianate grazie al confronto. C’è chi difende legittimamente posizioni differenti dalla maggioranza e chi, invece, se ne fa scudo, come dimostreranno i Processi di Mosca (1), per sovvertire l’ordinamento socialista e indebolire il Paese. Il Paese vive un entusiasmo, un fervore, una passione collettiva trascinante, nella realizzazione del socialismo: tutti si sentono mobilitati, spinti a dare il meglio di se stessi, in una scalata al cielo che vuol dire liberazione dai secolari ceppi dello sfruttamento e dell’arretratezza, fondazione di un nuovo ordine di liberi ed eguali per la prima volta sulla Terra. In poco tempo, l’Urss conquista traguardi di progresso ed emancipazione che i Paesi borghesi e capitalisti mai avevano conseguiti o, se li avevano ottenuti, ciò era avvenuto nell’arco di secoli. In questo quadro, le spinte centrifughe, le resistenze, i sabotaggi frapposti dal vecchio mondo ormai irrimediabilmente anacronistico, non solo non cessavano, ma si facevano vieppiù aggressivi e trovavano terreno fertile in tutta una serie di ambienti, circoli e apparati. Tra gli intellettuali, forte è la corrente che vede nel nuovo mondo socialista un universo spalancato sulla possibilità di creare nuove opere, finalmente al servizio della collettività, delle sue aspirazioni; l’Uomo nuovo fiorisce nei versi, nelle prose, nei lavori teatrali, nelle opere cinematografiche. Accanto a questo filone, però, esiste tutto un mondo che si mostra titubante, schivo, diffidente, timoroso di perdere i propri privilegi fondati sul possesso del sapere e della cultura da parte di pochi, come strumenti di sottomissione e dominio. Mandel’stam non è un uomo organico a questo vecchio mondo, no, ma ne subisce l’influenza e viene a trovarsi, per così dire, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo. Egli è il prototipo dell’intellettuale che aderisce alla Rivoluzione, nella sostanza, ma con un piede anche nella staffa del vecchio universo borghese ormai ben oltre il crepuscolo; vuole cantare le trasformazioni sociali e l’uomo nuovo, vuole inondare i propri versi della luce del fuoco prometeico, ma al tempo stesso non sa staccarsi dalle ombre della reazione, del solipsismo, della diffidenza verso il massiccio, tumultuoso processo di irruzione delle masse nella cultura, nell’arte, nella scienza. Nel 1933, i suoi sentimenti verso la guida del Partito sono ben illustrati nei versi, rimasti nella storia, dell’epigramma dedicato a Stalin:

“Viviamo senza fiutare il paese sotto di noi,
i nostri discorsi non si sentono a dieci passi
e dove c’è spazio per un mezzo discorso
là ricordano il montanaro caucasico.
Le sue dita tozze sono grasse come vermi
e le parole, del peso di un pud (2), sono veritiere,
ridono i baffetti da scarafaggio
e brillano i suoi gambali.
E intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,
si diletta dei servigi di mezzi uomini,
chi fischia, chi miagola, chi frigna
appena apre bocca e alza un dito.
Come ferri di cavallo forgia decreti su decreti
a chi da’ nell’inguine, a chi sulla fronte,
a chi nelle sopracciglia, a chi negli occhi
ogni morte è per lui una cuccagna
e l’ampio petto di ossetino”.

Versi che si commentano da soli, frutto non tanto del sentimento spontaneo di Mandel’stam, quanto della campagna d’odio diretta contro Stalin, invidiato per le sue capacità, la sua fermezza, la sua onestà, il suo rifiuto di ogni compromissione con la borghesia, da una parte tutt’altro che trascurabile del vertice del VK (b) P, parte con la quale Mandel’stam intratteneva contatti e relazioni. In quei versi, possiamo vedere, in filigrana, una trama ben più complessa ed articolata della semplice ispirazione lirica di Mandel’stam: innanzitutto, si fa chiaramente cenno alle origini ossetine di Stalin, una speculazione, questa, non comprovata da alcun fatto o documento, ma fatta ampiamente circolare dagli ambienti anticomunisti e trockisti, al fine di incrinare l’ampio consenso di cui godeva il “Piccolo Padre” tra i georgiani, oltre che tra i sovietici tutti, e anzi distruggere il vanto, l’orgoglio dei georgiani per Stalin, riconducendo le radici dell’albero genealogico degli Dzhugashvili alle montagne dell’Ossezia. Un’ “intossicazione” disinformante, questa, alla quale, in sede storica, ha contribuito in particolare I. Iremashvili, compagno di studi di Stalin prima a Gorj poi a Tiflis e suo acerrimo avversario politico, menscevico convinto, emigrato in Germania (casualità…), dove nel 1932 darà alla luce il suo libro di memorie dal titolo “Stalin e la tragedia della Georgia” (“Stalin und die Tragoedie Georgiens”), edito da Verfasser. Il dileggio, la caricaturizzazione degli aspetti fisici, veri o presunti, di Stalin, gli alti lai verso il suo presunto (e, nei fatti, inesistente) strapotere, facevano parte dello stile di certi avversari politici, annidati nella burocrazia partitica e negli apparati dell’OGPU (assorbita nel 1934 dal Ministero degli Affari Interni o NKVD), ambienti nei quali, a dispetto della mendace storiografia ufficiale borghese e revisionista, Stalin, amatissimo dal popolo, dalle persone oneste e laboriose del Paese, non sarà mai visto di buon occhio se non da una minoranza. Che poi i vari Jagoda, Ezhov, Bucharin e compagnia, opportunisticamente, abbiano fatto sfoggio ufficiale di devozione al Segretario del VK (b) P, con l’ampollosità e la retorica tipiche degli ipocriti e dei cospiratori, e con intensità e continuità variabili, questo faceva parte al massimo grado del gioco diretto contro Stalin, abilmente orchestrato da centrali interne ed esterne. Tornando ai versi sopra riportati, occorre ricordare che, quando Mandel’stam li lesse all’amico poeta Boris Pasternak, quest’ultimo, assurto poi a vestale dell’anti – stalinismo da tutto un filone apologetico e mistificatorio, affermò di dissociarsi da quello che, a suo dire, rappresentava “un suicidio”, “un fatto che nulla aveva a che spartire con la letteratura, con la poesia”. Il ruolo pilatesco di Pasternak, però, emergerà ancor più chiaramente dopo l’arresto di Mandel’stam, avvenuto nel maggio del 1934. La vulgata anti – stalinista, borghese e revisionista, ha sempre ricondotto al leggendario “strapotere” di Stalin le infelici sorti di Mandel’stam, ma, come sempre, si tratta della solita disinformazione e distorsione storica, che fa strame di fior di documenti ed evidenze attestanti l’esatto opposto. La verità è una: Stalin non solo non volle l’arresto di Mandel’stam, ma fece tutto quanto era in suo potere per annullare i provvedimenti repressivi adottati nei confronti del poeta. E sì, suonerà strano ad alcuni “studiosi”, ma in Urss vigeva la più rigorosa e montesquieana divisione dei poteri! Stalin non ebbe mai alcun potere sulla magistratura e poca influenza esercitò – mi si lasci dire, purtroppo! – sull’apparato poliziesco, almeno fino al 1940. Rispetto al Governo, poi, Stalin non rivestì, negli anni ‘30, alcuna carica apicale, essendo Molotov, dal 1930 al 1941, il Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo dell’Urss (ossia, il Capo del Governo). Molotov era uno con la schiena diritta, non un pupazzo, come ha teso a rappresentarlo la storiografia che, purtroppo, va per la maggiore e che scambia la fedeltà al Partito e al socialismo negli anni ‘30 per fedeltà personale al legittimo Segretario del VK (b) P, amato per la sua grinta, per le sue capacità e per la dedizione al popolo, non certo per imposizioni a suon di decreti e fantastici provvedimenti autoritari/repressivi varati a tutto spiano.
Nel 1933/34, a reggere le fila dell’OGPU (Direzione Politica Generale dello Stato, quella che comunemente si indica come polizia segreta), poi riassorbita nell’NKVD (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni) furono prima Vjaceslav Rudol’fovic Menzhinskij, leale verso Stalin ed il Partito, ma gravemente malato negli ultimi tempi, quindi Genrikh Grigor’evic Jagoda, Commissario del Popolo agli Affari Interni a partire dal luglio del 1934. Jagoda era legatissimo a Bukharin ed all’opposizione di destra, ma non disdegnava neppure intese con Trockij e con i suoi portabandiera. Sotto la copertura di un’inesistente fedeltà e subordinazione allo Stato, al Governo e al Partito, Jagoda portò avanti una linea di subdola diversione e di complotto contro l’ordinamento socialista, in maniera diabolicamente furba e scaltra: egli arrivò al punto di addebitare ad altri deviazioni e abusi che, invece, erano stati commessi interamente da lui stesso e dalla sua cricca. Deviazioni ed abusi che, colpendo cittadini innocenti, o anche colpevoli, ma in misura sproporzionata, miravano a provocare l’odio popolare contro il socialismo, contro Stalin e il Partito, ad accendere focolai di ribellione ed insurrezione. Se nulla di ciò accadde, fu per la pronta vigilanza del Partito, dello Stato e del popolo sovietico, che seppero individuare e colpire i nemici comunque mascherati e infiltratisi in numerosi organi e livelli del potere sovietico. Una di queste deviazioni fu, senza dubbio, l’arresto di Mandel’stam. Un ruolo importante, in questo avvenimento, lo ebbe il giornalista bulgaro N.Kh.Shivarov, legato a doppio filo all’apparato spionistico di Jagoda e condannato a pena detentiva nel 1938 (lo stesso anno in cui Jagoda venne fucilato), per il suo ruolo di eversore, di spia e delatore a danno di innocenti. Mandel’stam era sicuramente un intellettuale non organico, anzi percorso da nevrosi e bizzarri impulsi, anche reazionari; credulone e ingenuo, si prese una passione per la “tragedia” dei kulaki (3), non comprendendo che essa, lungi dal rappresentare un’ecatombe, era l’inizio della fine dello sfruttamento per milioni di poveri contadini diseredati, costretti a mendicare un pezzo di terra per loro stessi e le proprie famiglie. Ciò detto, non è possibile, nemmeno oggi, rintracciare una motivazione valida per il suo arresto, al di fuori dei maneggi della cricca antistaliniana e dei suoi oscuri disegni. Stalin, per quanto poté, si prodigò fino alla fine per venire in aiuto del poeta e della sua consorte Nadezhda, esiliati a Cherdyn, nella Regione di Perm. Allorché Bukharin scrisse a Stalin per informarlo dell’avvenuto arresto, con successiva deportazione, del poeta (a riprova di quanto Stalin controllasse e anzi ordinasse determinate misure!), il Segretario del VK(b)P rispose senza mezzi termini ed in maniera laconica: “Chi ha dato loro il diritto di arrestare Mandel’stam? Tutto ciò è vergognoso!”. In queste parole, brilla chiara come il sole l’innocenza di Stalin, la sua totale mancanza di responsabilità in ordine alla vicenda del poeta. Non altrettanto si può dire di Bukharin, “eroe” dell’antistalinismo, che definì Mandel’stam un poeta “tramontato”, appartenente al passato, trascurabile nella sua produzione. Aggiungiamo poi che, non appena riuscì a prendere contatti con gli organi afferenti al Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, all’interno dei quali poteva contare su una certa quota di “amici”, persone oneste e ligie al dovere, Stalin perorò apertamente la causa di Mandel’stam e ottenne addirittura la possibilità, per lui, di scegliere un nuovo luogo di insediamento; il poeta optò per Voronezh, centro dove si dedicò intensamente ai suoi interessi letterari e dal quale, poi, si trasferì a Mosca nel maggio 1937, libero, non più soggetto a misure restrittive. Nelle avversità, Mandel’stam, dopo aver scontato il mancato appoggio dell’ “amico” Pasternak da libero, dovette subire un rinnovato disinteresse da arrestato ed esiliato, come abbiamo accennato sopra: infatti, ad una telefonata di Stalin che chiedeva lumi su Mandel’stam e sulla sua condotta, al fine di stimolare una presa di posizione capace di condizionare positivamente l’evolvere delle sue sorti, Pasternak rispose, in sostanza, fregandosene bellamente e spostando la discussione, vilmente, su un piano “metafisico” beffardo, inopportuno, pieno di ignavia. Ecco il resoconto di quella comunicazione telefonica:

“Stalin: ‘Come mai voi, Boris Leonidovic, non vi siete attivato presso le organizzazioni degli scrittori, o con me personalmente, per intercedere in favore di Mandel’stam? Se io fossi un poeta e ad un mio amico capitasse una disgrazia, mi arrampicherei sui muri per andargli in soccorso!’.
Pasternak: ‘Le organizzazioni degli scrittori non si preoccupano più di questo dal 1927. Se io non mi fossi dato da fare, voi non sapreste nulla di questa faccenda! Del resto, Mandel’stam non è propriamente un mio amico’.
Stalin: ‘Ma è un vero artista questo vostro Mandel’stam?’.
Pasternak: ‘Questo non ha importanza’.
Stalin: ‘E che cosa ha importanza?’.
Pasternak: ‘Vorrei incontrarvi e parlarvi’.
Stalin: ‘Di cosa?’.
Pasternak: ‘Della vita e della morte’.

Tanta sollecitudine e volontà di capire in Stalin, tanto menefreghismo e cinismo in Pasternak! Questo, però, l’enciclopedia delle “verità ufficiali” non ce l’ha mai detto. Stalin conosceva senz’altro la poesia a lui “dedicata” da Mandel’stam, e la considerava alla pari di un divertissement, certo non gradevole ma nemmeno tale da far meritare a qualcuno il Gulag. Patetico il tentativo di alcuni di dipingere la telefonata come un trabocchetto da parte di Stalin, visti soprattutto i precedenti: nel 1930, Stalin, che stimava sinceramente i poeti e li proteggeva da incursioni “inquisitoriali” improprie e controproducenti, aveva alzato un’altra volta la cornetta per parlare direttamente a Bulgakov, il quale si era lamentato degli attacchi continui della stampa nei suoi confronti ed aveva indirizzato una lettera di protesta alle massime autorità statali. In quell’occasione, Stalin aveva invitato il grande scrittore sovietico a soprassedere rispetto alle sue intenzioni di emigrare (“davvero siamo stati così cattivi?”) e a rivolgere nuove richieste al Teatro d’Arte, presso il quale aveva manifestato l’intenzione di lavorare. Ebbene, Bulgakov non era finito né in prigione né in un Gulag! Seguendo i consigli di Stalin, sensibilizzato, al pari di altri, dalla lettera di protesta dello scrittore, il celebre autore de “Il Maestro e Margherita” aveva inoltrato ancora domande al Teatro d’Arte, ricevendo poi, in breve tempo, un impiego a lui confacente, che gli aveva consentito di non aver più alcun cruccio di ordine economico e di potersi dedicare serenamente alla sua attività intellettuale. Il “mostro” Stalin, assieme ad altri, aveva evitato l’emigrazione di un talento vero, prestigioso, e, allo stesso tempo, aveva aperto una breccia nelle “cricche” accademiche e culturali, sempre pronte a difendere i propri privilegi invocando, abusivamente, inesistenti avalli del Partito e dello Stato alle loro scelte autoreferenziali, conformiste e filistee, penalizzanti i veri geni. Scelte che, è bene ricordarlo, avevano concorso in maniera determinante al suicidio di Majakovskij, sempre, vergognosamente, attribuito al clima creato da Stalin nel Paese, con sfrontatezza e sprezzo per la verità storica documentata. Mandel’stam potette godere di un respiro profondo per un anno e mezzo circa, dal 1937 al 1938. Pur non potendo risiedere a Mosca, di fatto visse continuativamente nella Capitale, coltivando anche relazioni che, nonostante la sua buona fede, risulteranno per lui fatali: attirato in una “trappola” per la sua ingenuità, la sua totale assenza di malizia e la sua naturale disposizione d’animo positiva verso gli altri, fu posto da alcuni suoi amici a contatto con nemici del popolo dichiarati, con personaggi ostili per principio al sistema sovietico, quali lo scrittore leningradese Valentin Iosifovic Stenic, figlio di un ricco uomo d’affari e collezionista, mentre negli anni precedenti aveva frequentato il letterato ex socialista di sinistra e trockista Viktor L’vovic Kibalcic, poi emigrato in Messico. In un’atmosfera densa di sospetti e di intrighi, nella primavera del 1938, Mandel’stam viene tratto di nuovo in arresto, visitato, riconosciuto affetto da pensieri e fantasie ossessivi e spedito in un campo dell’Estremo Oriente, vicino Vladivostok, presso il quale trova la morte nel dicembre dello stesso anno. A determinare il suo arresto, oltre al clima di sospetti talvolta esagerati che stringono d’assedio la vita politica e sociale dell’Urss nel 1937/38, anche una precisa lettera indirizzata al Commissario del Popolo per gli Affari Interni Nikolaj Ivanovic Ezhov (altro mestatore, poi individuato come spia giapponese, autore di un progetto di eliminazione fisica di Stalin e fucilato), dal Segretario dell’Unione degli Scrittori dell’Urss Vladimir Petrovic Stavskij, il quale, con evidente esagerazione, e forse ignorando una poesia celebrativa di Stalin scritta da Mandel’stam, qualificò le sue liriche come “oscene”, senza alcun discernimento e senza alcuna analisi seria della sua produzione. Lo stesso Stavskij, tuttavia, citò nella sua missiva, quali appassionati difensori di Mandel’stam (e lo furono davvero!), i letterati Valentin Petrovic Kataev e Iosif Prut. Né l’uno né l’altro, è bene sottolinearlo, subirono mai persecuzioni!
In quel 1937/38 vennero fatti oggetto di provvedimenti restrittivi molti nemici e cospiratori annidati negli apparati dello Stato, ma alcuni innocenti finirono nel tritacarne e fu grazie a Stalin, Molotov e altri (non dimentichiamo il Capo dello Stato, l’autorevolissimo Kalinin) se ad un certo punto si pose fine ad iniziative giudiziarie che stavano debordando nettamente verso l’abuso, come era avvenuto in passato con Jagoda! Ancora una volta, il potere sovietico si mostrava saldo e pronto ad impedire l’estendersi dell’arbitrio. Ricordiamo pure, a beneficio della verità, che le riabilitazioni più rilevanti e numericamente consistenti si ebbero proprio in questo periodo, non certo sotto Krusciov, il quale riabilitò i nemici del popolo, non i cittadini onesti: grazie a Stalin e al gruppo dirigente sovietico, tantissimi casi furono revisionati e moltissime persone uscirono dalle prigioni e dai Gulag in cui le avevano gettate sgherri senza onore e senza morale che si coprivano di lodi a Stalin, al Partito e all’NKVD per meglio fare i loro comodi, al soldo o meno di potenze straniere desiderose di distruggere l’Urss. Ricordiamo anche che il cosiddetto “Grande Terrore” non fu affatto tale: una netta minoranza della popolazione ne fu coinvolta, comprendendo in questa anche chi, in maniera del tutto giusta, finì a sua volta “represso” per i suoi abusi a danno dei cittadini. In tutto, qualche centinaio di migliaia di persone, cifra che certo impallidisce dinanzi ai milioni di detenuti, persone soggette a provvedimenti restrittivi di vario grado, negli Usa di quegli anni, per non parlare delle dittature fasciste. Mandel’stam, in questo quadro, viene a situarsi come un “vaso di coccio tra vasi di ferro”: buono d’animo, forse un po’ troppo emotivo e percorso da fremiti irrazionali (sulla sua perizia medica ci asteniamo, per rispetto verso la figura e le controversie alla quale essa dà adito), egli non seppe riconoscere i suoi reali amici e i suoi autentici nemici, anzi li confuse e, per così dire, li “scambiò”. In un contesto di massima vigilanza e azione per la difesa dell’Urss da una minaccia golpista, bonapartista, sapientemente manovrata dalle potenze fasciste ed imperialiste, per interposti militari (vedi Tukhacevskij), con il ricordo vivo e bruciante delle altre cospirazioni trockiste, bukhariniane e zinovieviane, non era facile orientarsi nel sottile discrimine tra ingenuità, colpevolezza e concorso attivo alla sedizione. Come non era facile individuare, subitaneamente, chi conduceva indagini in maniera corretta e garantista e chi, invece, faceva di ogni erba un fascio, oppure utilizzava le inchieste per vibrare colpi al potere sovietico (da una certa fase in poi, Ezhov fu tra questi!). Per tutti questi motivi, la vicenda di Mandel’stam andò a finire in un certo modo. Addebitare a Stalin la colpa di queste vicende è infondato sul piano storico, vigliacco e sleale sul piano umano. Purtroppo, la malafede anima tutti i cantori prezzolati dell’antistalinismo, i quali sono assolutamente trasversali a tutti gli schieramenti: un’operazione di restaurazione della verità storica dovrà pertanto farsi strada tra mille ostacoli, montagne di menzogne vendute per fatti reali, documenti fasulli spacciati per autentici. Qui sta il problema, ma qui sta anche la nostra sfida, per rendere giustizia a chi non l’ha mai avuta o ha visto il proprio nome infangato dai calunniatori, dai bugiardi, dai mistificatori.

Fonti:
www.nnre.ru/istorija/stalin_i_pisateli_kniga_pervaja/p5.php
https://lombradelleparole.wordpress.com/20...uio-telefonico- tra-boris-pasternak-e-stalin-nel-1934-a-cura-di-antonio-sagredo-avente-ad- oggetto-il-destino-di-osip-mandelstam/#_ftn3
http://lit.1september.ru/article.php?ID=200304205 www.poslednyadres.ru/news/news134.htm
www.corriere.it/cultura/eventi/2012...-polese-pronto- bulgakov_5b6bd8be-3e2a-11e2-ab02-9e37f2f89044.shtml

Note:
1) Per una corretta informazione su Processi di Mosca e la cosiddetta “repressione di massa”vedasi: http://noicomunisti.blogspot.it/2012/09/sc...-la-quinta.html, http://noicomunisti.blogspot.it/2014/02/st...onsabilita.html, http://noicomunisti.blogspot.it/2012/11/tr...i-di-mosca.html, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...di-grover-furr/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/09...ij-e-i-nazisti/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...io-di-m-gorkij/. https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...morte-di-gorkj/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...credeva-hitler/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...della-sentenza/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...-sulle-falsita- delle-rivelazioni-dellera-khrushcev/,
https://noicomunisti.wordpress.com/2016/11...kov-mondorosso/ https://noicomunisti.wordpress.com/2016/12...io-di-pjatakov/ https://noicomunisti.wordpress.com/2016/12...sioni-di-massa/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/11...ti-in-un-gulag/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/11...niera-di-bugie/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...rita-su-stalin/, https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...urr-e-vladimir- bobrov/,
https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...-38-cio-che-le- prove-mostrano-di-grover-furr/,
2) PUD: unità di misura russa, equivalente a 16,3805 kg
3) Per saperne di più, vedasi:
https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...dio-in-ucraina/ https://noicomunisti.wordpress.com/2016/06...ata-in-ucraina/ https://noicomunisti.wordpress.com/2016/09...vietica-in-pdf/
view post Posted: 31/1/2020, 01:09 Riflessioni sulla dodecafonia - Musica e cinema
Posto qui le importanti considerazioni di un musicista circa la tecnica compositiva dodecafonica. Tali critiche alla dodecafonia, sebbene di origine non ideologica e non marxista-leninista, riecheggiano molto le critiche mosse dagli esponenti del Realismo Socialista a tale tecnica, ritenuta, in Unione Sovietica e negli altri Paesi socialisti, portatrice di caos e disordine all'interno delle opere musicali. Ritengo che sia importante far conoscere simili critiche da parte degli addetti ai lavori, in particolar modo poiché ciò dimostra che nel mondo della musica esistono persone che, pur non conoscendo le critiche realiste socialiste a determinate tendenze della musica occidentale, ne condividono (ovviamente senza saperlo) i precetti basilari.

Riflessioni sulla dodecafonia


Spero vivamente che questa piccola riflessione non provochi risentimenti nei miei confronti. Si tratta in effetti di un pensiero personale che può tranquillamente essere o non essere condiviso. L’idea di scrivere questo pensiero è nata dal fatto che spesso, confrontandomi con colleghi o parlando del più e del meno con compositori, il discorso è confluito sul tema della dodecafonia, sulla musica nata e maturata sulla scia di questa scuola e sul problema se in relazione a tale filone compositivo si possa parlare di una forma d’arte a tutti gli effetti. Dopo un lungo riflettere, personalmente sono giunto alla conclusione che non si possa definire come una forma d’arte pura. Questa mia affermazione (ovviamente opinabile) deriva dal fatto che ritengo tali composizioni artificiali e artificiose in quanto, sovvertendo totalmente il principio armonico della musica tonale, si da vita ad una musica basata su dissonanze, su intervalli dissociati in cui non esiste armonia e che danno luogo a una miriade di suoni che hanno l’effetto di creare più che della buona musica una serie interminabile di rumori e caos. Come è ben noto, la musica tonale si fonda sul principio armonico della successione di accordi (armonie per l’appunto); tali armonie sono ricavate dalla produzione simultanea di determinati gradi della scala tonale, in modo tale da determinare un risultato estetico gradevole all’udito. I modelli di tali accordi sono in realtà un numero esiguo e la loro struttura interna rimane pressoché inalterata come tra l’altro le leggi che regolano la loro successione; tutto ciò crea le leggi fondamentali sulle quali si basa il sistema armonico. Estetico è ciò che è bello naturalmente; Kant nel 1790 trattando la teoria dell’arte bella nella sua “Critica del giudizio” applica il termine di estetica al giudizio di valore relativo del bello e un suo erede definisce come teoria del bello la perfezione percepita attraverso i sensi. I difensori della scuola viennese di A. Schonberg, A. Webern e A. Berg, della cosiddetta “nuova musica”, prenderanno a difesa delle loro teorie il Tristano di R.Wagner eseguito per la prima volta nel 1864. E’ vero che questo lavoro rappresenta una specie di rivoluzione all’interno del mondo compositivo e un trampolino di lancio per nuove idee compositive, ma è pur sempre una composizione che è saldamente legata nel suo aspetto complessivo alle norme fondamentali della musica e dell’estetica. D’altronde, se è ormai cosa nota che tale musica provoca davvero scarso entusiasmo presso il pubblico, credo sia il caso che i musicisti stessi si pongano delle domande e non si riducano ad osservare l’affermazione di Schonberg secondo il quale “…l’arte non deve abbellire ma deve essere vera…” ; io personalmente preferisco quella di Mozart per il quale “…la musica non deve offendere l’udito, ma risultare gradevole per chi l’ascolta: in altre parole, non deve mai cessare di essere musica…”. Poi, come diceva il Manzoni, “…ai posteri l’ardua sentenza…”.

Fonte: www.adolfocapitelli.it/it/riflessioni-su-la-dodecafonia/
view post Posted: 31/1/2020, 01:08 Pascoli, poeta ribelle? - Letteratura e poesia

Pascoli, poeta ribelle?


Analogamente a Carducci, Pascoli è una figura complessa. La politica non è certo al centro della sua vita, né delle sue opere. Tuttavia, risulta interessante analizzare il contesto ed il rapporto che questo autore (allievo di Carducci) ha avuto con la politica nella sua vita. Proprio come il suo maestro, si può parlare quasi di un “tradimento”. Dovuto, nel caso di Pascoli, alla vigliaccheria ed all’utilitarismo. Quest’ultimo frequenta i circoli repubblicani e socialisti emiliani, viene arrestato nel 1879 per “attività sovversive” e trascorse 3 mesi in carcere. Un’esperienza che lo segnerà vita, che metterà la parola fine alla sua vita politica. Ma prima di questo, all’inizio degli anni ’70 dell’ottocento, Pascoli si era invece mostrato come attivista politico a tutti gli effetti. Strinse infatti amicizia con Andrea Costa, esponente di spicco dell’internazionalismo emiliano, con il quale parteciperà alla manifestazione studentesca del 1876 contro l’allora ministro dell’educazione Bonghi. Fu solo grazie a Carducci che poté riavere il suo lavoro all’università, oltre ad avere una borsa di studio. A chi parla di Pascoli come “sovversivo” (ci si riferisce spesso ad una sua frase durante un processo ad Imola nel ’79 in cui disse “Viva la Comune! Viva l’Internazionale! Viva i malfattori, avanti i vigliacchi sgherri”, verrà assolto poi per oltraggio e grida sediziose), sarebbe meglio sottoporre la poesia che egli scrisse dopo l’ uccisione del Re nel 1900: l’inno Re Umberto infatti è una celebrazione del sovrano, in cui esalta la casa reale. Ma non solo, nel 1911 con l’invasione della Libia egli dirà “la grande proletaria (l’Italia) si è mossa” esponendosi a favore dell’avventura coloniale. Pascoli quindi rappresentò, in età più giovanile, gli ideali rivoluzionari ma nella parte finale della sua vita incarnó i valori più reazionari e sabaudi. Non certo un esempio per chi, nel caso, volesse ritrovare in lui un poeta rivoluzionario.

Fonte: www.giovineitalia.org/pascoli-poeta-ribelle/
view post Posted: 9/11/2019, 23:03 La verità sulla liberazione del Tibet - Scritti di altri autori

La verità sulla liberazione del Tibet


La questione del Tibet è stata creata ad arte dalla cricca reazionaria e semifeudale tibetana istigata e sostenuta dall'imperialismo e dalla sua politica aggressiva contro l'allora Cina socialista



Della nauseabonda orgia anticomunista scatenata dalla borghesia e dall'imperialismo che vomitano altro veleno e calunnie sul socialismo nel tentativo di cancellarlo definitivamente dalla mente del proletariato e dissuadere le nuove generazioni dall'aprire i libri del socialismo e del marxismo-leninismo-pensiero di Mao per spingerle ad abbandonare definitivamente l'aspirazione a trasformare il mondo, abbattere la società borghese e conquistare il socialismo fa parte a pieno titolo il film filobuddista, anticomunista e antiMao di Martin Scorsese, "Kundun"; il film riporta una parte della vita dell'attuale Dalai Lama, il XIV, dalla nascita alla fuga dal Tibet nel 1959, con la pretesa di raccontare la "vera storia" della questione tibetana. Scorsese legge la storia con le lenti della borghesia, della reazione e dell'imperialismo, deforma o nasconde in parte la realtà di come si sono svolti i fatti, per portare chi va a vedere il film a pensare, come Bobbio, che il comunismo per sua natura è dispotico e che si è imposto dovunque col terrore. Solo che ha sbagliato completamente esempio. La liberazione del popolo tibetano dalle catene della schiavitù feudale, la partecipazione della minoranza nazionale tibetana nel pieno rispetto dei suoi costumi e tradizioni allo sviluppo della società socialista nella Cina di Mao poteva essere un fatto compiuto in breve tempo; all'Esercito popolare di liberazione sarebbero bastati pochi giorni nel 1950 per spazzare via dal potere il governo reazionario tibetano e il pugno di nobili e ecclesiastici che opprimevano la popolazione, quella parte cioè dei circa 60 mila componenti - la classe superiore - che sfruttava i restanti quasi 1,2 milioni di tibetani tenuti in condizioni di schiavitù. Come bastava un semplice ordine affinché il Dalai Lama fosse arrestato nel suo palazzo, il Norbou Linka, per impedirne la fuga in India. Il governo popolare centrale poteva prendere sotto il suo controllo non solo le questioni di politica estera e non lasciare intatto il sistema politico e sociale, l'esercito e la moneta, in attesa che il governo locale e il popolo tibetano decidessero da soli i tempi e i modi delle riforme. Tutto ciò non è avvenuto. L'esercito popolare non si è comportato in Tibet come un esercito occupante, è stato autosufficiente e autonomo per non pesare sulla popolazione; non ha represso e arrestato gli elementi reazionari istigati dall'imperialismo, che pure dal 1951 al 1959 hanno organizzato bande armate e compiuto violenze in varie parti della regione, lasciando il compito al governo locale nonostante che nella sua maggioranza fosse il centro interno della controrivoluzione; non ha sparato il primo colpo ma solo reagito una volta aggredito nella insurrezione controrivoluzionaria del 1959. Il governo centrale ha sottoscritto e mantenuto accordi affinché la trasformazione politica ed economica del Tibet avvenisse gradualmente e soprattutto col pieno consenso e la cooperazione degli strati superiori del Tibet. L'accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet sottoscritto dal governo centrale e quello locale il 23 maggio 1951 traccia questa linea. Nelle parti riguardanti la riorganizzazione dell'esercito e le riforme ancora nel 1959, dopo otto anni, era al punto di partenza per il boicottaggio dei reazionari tibetani, eppure il governo popolare centrale aveva concesso altri anni di tempo affinché maturassero le condizioni per una sua piena applicazione. Si realizzeranno con la sconfitta delle forze reazionarie tibetane, costruita con le loro stesse mani. Ciò rispondeva alla lungimirante e corretta politica del governo popolare centrale, della Cina socialista guidata da Mao, verso le minoranze nazionali, applicata alla specifica situazione del Tibet, per far sì che il popolo tibetano e la regione autonoma del Tibet occupassero degnamente il loro posto nella Repubblica popolare. Diversa è oggi la situazione nella Cina guidata dai rinnegati dirigenti revisionisti di Pechino che morto Mao hanno fatto molta strada sulla via del tradimento di Mao e del socialismo e della restaurazione del capitalismo. Ma questa è un'altra storia. Quella della liberazione pacifica del Tibet parla da sola; deve essere naturalmente letta con gli occhi del proletariato, una lettura di classe con la lente del marxismo-leninismo-pensiero di Mao, opposta a quella spacciata dalla borghesia, dal Dalai Lama, da Scorsese.

I legami storici tra il Tibet e la Cina
I legami storici tra il Tibet e la Cina sono inizialmente costruiti con matrimoni tra principesse cinesi spose a re tibetani. Nell'800 scoppiano dissensi tra il re e alti ecclesiastici che lo assassinano; seguiranno 400 anni di divisioni e scontri tra le tribù feudali. Nel 1253 l'armata dell'imperatore cinese ristabilisce l' unità della regione che è incorporata nell'impero. La struttura politica e religiosa del Tibet fu determinata gradualmente dai successivi governi imperiali. Nel 1275 l'imperatore Kubilai Khan (dinastia Yuans) conferì al capo della setta buddista di Sakyapa il titolo di referente per l'impero unificando il potere temporale e spirituale nella figura del Dalai Lama. Alle successive cerimonie di investitura dei nuovi Dalai, compreso l'ultimo il XIV, saranno sempre presenti inviati del governo centrale. I cambiamenti delle dinastie reggenti in Cina non portano modifiche alla struttura di potere tibetana. La nuova dinastia imperiale dei Tsings, conferma il potere del Dalai nel 1653. Il governo locale (kacha) è definito come compiti, struttura e funzioni come organo amministrativo, composto da 4 kaloons, dignitari d'alto rango inferiori solo al reggente che risponde al Dalai Lama. La struttura sociale di tipo feudale che vede sul gradino più alto poche centinaia di famiglie di nobili, gli alti ecclesiasti e i membri del governo possedere tutte le ricchezze della regione si manterrà sostanzialmente fino al 1959.

Le invasioni colonialiste
Il declino della dinastia Tsings è segnato dalle aggressioni colonialiste alla Cina, ivi compresi i territori del Tibet che sono invasi dagli imperialisti britannici nel 1886. Le truppe inglesi si scontrano con una dura resistenza del popolo tibetano. Una seconda invasione inglese si ha nel 1904. Il popolo tibetano sconfitto sul piano militare proseguiva l'opposizione tanto che gli inglesi non poterono annettere la regione alle loro colonie. Cercarono così di provocare la disgregazione interna del Tibet appoggiandosi su un pugno di reazionari della classe superiore che rivendicavano la fine dell'oppressione dell'impero cinese per staccare il Tibet dalla Cina e portarlo sotto il controllo dell'imperialismo inglese. Una occasione capitò con la rivoluzione repubblicana in Cina nel 1911 contro la dinastia mancese. I gruppi di reazionari tibetani scatenarono una rivolta contro il residente imperiale a Lhasa ma anche contro i tibetani patrioti;, molti di loro furono assassinati, il IX Pantchen Erdeni fu costretto a fuggire dal Tibet per evitare l'assassinio. Gli inglesi convocarono la conferenza di Simla, nel 1913, tra Cina, Gran Bretagna e Tibet con lo scopo di definire un accordo per inglobare il Tibet nella loro colonia indiana. L'opposizione del popolo tibetano costrinse la delegazione cinese a non firmare l'accordo. Anche un secondo tentativo inglese nel 1918 fallì.

Morte del XIII Dalai e reggenza Rabchen
Alla morte del XIII Dalai (1933), in attesa del nuovo, la gestione dell'amministrazione degli affari tibetani spettò al reggente Rabchen, interprete dei sentimenti patriottici della popolazione ecclesiastica e laica del tibet che si opponeva alle mire separatiste e filo colonialiste dei gruppi reazionari tibetani. Rabchen appoggia la guerra contro gli invasori giapponesi condotta dalle forze comuniste dirette da Mao. Il successore del Dalai, l'attuale XIV, fu trovato dal governo locale nel 1938 e insediato nel palazzo di Potala a Lhasa il 22 febbraio 1940 con una cerimonia a cui parteciparono come sempre inviati del governo centrale, allora del Kuomintang. I gruppi reazionari tibetani tornarono all'attacco nel 1947; finita la vittoriosa guerra contro l'occupazione giapponese infuriava in Cina lo scontro tra l'esercito popolare guidato da Mao e le truppe reazionarie del Kuomintang sostenute dall'imperialismo americano, che in Asia era affiancato dagli imperialisti britannici, francesi e olandesi per reprimere movimenti indipendentisti nelle colonie e per contenere "l'avanzata del comunismo". Già nel 1943 il governo locale del Tibet aveva annunciato la costituzione di un proprio ufficio per gli affari esteri. Nel 1947 un gruppo di reazionari tibetani organizzarono un complotto, arrestarono il reggente Rabchen, assassinato in carcere, e diversi patrioti fra cui il padre del Dalai Lama e presero il potere manifestando l'intenzione di separare il Tibet dalla Cina e trasformarlo in una colonia imperialista, secondo la teoria, esposta dagli inglesi della necessità di creare uno stato cuscinetto tra India e Cina. Gli inglesi convocheranno nel marzo 1947 una conferenza asiatica a Nuova Delhi alla quale il Tibet fu invitato come paese indipendente. A fianco delle ingerenze inglesi sul Tibet si schierarono gli Usa che nel mese di ottobre del 1947 invitarono nel loro paese una "missione commerciale tibetana". La missione arriverà negli Usa nel luglio 1948. La città indiana di Kalimpong diventa il centro esterno di base per l'aggressione imperialista al Tibet. Nel luglio 1949 a fronte della disfatta oramai in vista delle forze reazionarie del Kuomintang il governo locale del Tibet invita i rappresentanti del Kuomintang a lasciare Lhasa, per "prevenire l'infiltrazione comunista in Tibet". Nell'agosto del 1949 sulla stampa americana appaiono articoli che difendono la separazione del Tibet dalla Cina, il suo ingresso alle Nazioni Unite e chiedono al governo di aiutare militarmente il governo locale del Tibet. Gli imperialisti americani e inglesi vista fallita l'operazione di sostegno al Kuomintang cercano di sottrarre alla Cina socialista perlomeno il Tibet. Ma falliscono.

Nascita della Repubblica popolare cinese e progetto di liberazione pacifica del Tibet
Il primo ottobre 1949 Mao proclama la nascita della Repubblica popolare cinese; tutta la Cina è liberata ad eccezione del Tibet e di Taiwan. Il 24 novembre 1949 da Pechino il Panchen Erdeni lancia un appello per la liberazione del Tibet. Il ministero degli esteri cinese denuncia le manovre imperialiste contro il Tibet il 20 gennaio 1950. Il governo cinese conferma la volontà di una liberazione pacifica del Tibet e nel luglio invia in Tibet il budda vivente Garda, un patriota tibetano vicepresidente del governo popolare provinciale del Sikang (la zona confinante col Tibet), a prendere contatto col governo locale e negoziare la liberazione pacifica della regione. Al suo arrivo a Tchamdo è bloccato dai reazionari tibetani organizzati da un agente britannico (Robert Webster Ford) che il 21 agosto lo fa arrestare e assassinare. Il governo popolare centrale dà perciò l'ordine all'Esercito popolare di liberazione (Epl) di entrare in Tibet. I reazionari in seno al governo locale tibetano ordinano la resistenza a Tchamdo. Il 19 ottobre 1950 l'Epl libera Tchamdo. Il 1° novembre 1950 il segretario di Stato americano Acheson urla all'aggressione cinese al Tibet e annuncia pesanti conseguenze. Il governo indiano denuncia l'invasione del Tibet da parte della Cina. Perciò i reazionari tibetani guidati dal reggente Tagcha portano il Dalai a Yatung, da dove contano di spostarlo in India. Ma i tre principali monasteri e le masse popolari tibetane si oppongono, diversi consiglieri del Dalai disapprovano la fuga verso l'India e sono per aprire negoziati col governo popolare centrale. Nella primavera del 1951 Tagcha è costretto a dimettersi e il Dalai nomina 5 plenipotenziari incaricati di condurre per conto del governo locale i negoziati con il governo popolare centrale. Falliscono così le manovre imperialiste per staccare il Tibet dalla Cina.

L'accordo in 17 punti
I negoziati sotto la condotta diretta del Cc del Pcc e di Mao si conclusero il 23 maggio 1951 con la firma dell'accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet. In seguito alla firma dell'accordo il Dalai lascia Yatung e torna a Lhasa il 17 agosto 1951, dove il 26 ottobre l'esercito popolare entra acclamato calorosamente dalla popolazione. I reazionari tibetani per sabotare l'accordo dettero vita a una "assemblea popolare" per chiedere il ritiro dell'Epl dal Tibet, circondarono il comando dell'Epl a Lhasa e lanciarono attacchi armati contro patrioti tibetani. Il 27 aprile 1952 il governo locale allontanò dalle loro funzioni gli animatori dell'assemblea e ne ordinò il 1° Maggio lo scioglimento. L'atteggiamento della Cina di Mao come si comprende dall'accordo in 17 punti è di estremo rispetto delle specificità della situazione tibetana, non viene toccata l'organizzazione del governo locale e la struttura sociale, sono rispettate le credenze religiose, le usanze e i costumi locali, qualsiasi riforma è subordinata all'accettazione del governo locale. Da parte sua l'Esercito popolare secondo le direttive di non pesare nemmeno per uno spillo sulle spalle della popolazione tibetana si autorganizza. In una direttiva interna del Cc del Pcc sul lavoro nel Tibet del 6 aprile 1952 si afferma: "Dobbiamo fare ogni sforzo e usare metodi appropriati per conquistare il Dalai e la maggioranza dei suoi strati superiori, isolare la minoranza dei cattivi elementi e arrivare in molti anni, gradualmente e senza spargimento di sangue, alla trasformazione politica ed economica del Xizang (Tibet). (...) Se le cose andranno per le lunghe non ne avremo grandi danni, al contrario, ne trarremo dei vantaggi. Lasciamo che essi (i reazionari che si opponevano all'accordo in 17 punti, ndr) commettano ogni genere di atrocità insensate contro il popolo, noi ci occuperemo solo della produzione, del commercio, della costruzione di strade, della medicina e del fronte unito (unità con la maggioranza e educazione paziente) e di altre cose buone, con lo scopo di conquistare le masse e aspettare che maturi la situazione per trattare di nuovo il problema dell'applicazione dell'accordo. Se essi trovano che istituire le scuole elementari non sia conveniente possiamo anche smettere di farle". Il governo popolare centrale promuove lo sviluppo del Tibet con la costruzione di strade, ponti, ospedali, scuole, fabbriche e fattorie. Risolve le questioni della frontiera con l'India che aveva ancora sul territorio della regione installazioni postali e telegrafiche installate durante l'aggressione inglese del 1904; il trattato firmato il 29 aprile 1954, basato sui cinque principi della coesistenza pacifica, riguarda il commercio e le comunicazioni fra la regione del Tibet e la Cina e l'India. Con questo accordo l'india di Nehru riconosce la sovranità cinese sul Tibet. Il Dalai partecipa con la delegazione tibetana nel settembre 1954 alla prima Assemblea popolare nazionale cinese che si tiene a Pechino. Ambienti reazionari cercano di cogliere l'occasione per fomentare disordini. Il 9 marzo 1955 il governo popolare centrale approva la costituzione della regione autonoma del Tibet che sarà costituita in base ai lavori di un apposito comitato preparatorio costituito nell'aprile del 1956, con il Dalai Lama come presidente e il Panchen Erdeni vicepresidente. Per l'opposizione dei settori reazionari tibetani i lavori del comitato non fanno passi in avanti. Come pure due punti importanti dell'accordo del 1951 quali la riorganizzazione dell'esercito tibetano nell'esercito popolare e la riforma del sistema sociale di servitù. Il governo centrale nonostante questi limiti nell'applicazione dell'Intesa non vuole mettere furia al governo locale tibetano e anzi alla fine del 1956 lo informa che per altri 6 anni non saranno introdotte riforme democratiche nella regione e che il momento della loro introduzione sarà discusso e deciso tra i dirigenti tibetani e le masse popolari del Tibet. I reazionari tibetani con l'aiuto dell'imperialismo e dei reazionari cinesi di Taiwan preparano una sommossa allorché il Dalai si recherà in India alla fine del 1956 per le celebrazioni del 2500° anniversario del budda ma i loro tentativi di scatenare una sollevazione a Lhasa falliscono. Nel maggio e giugno del 1958 organizzano bande armate in diverse zone della regione, grazie ai rifornimenti in armi di Taiwan, dirette dal comando installato nella città indiana di Kalimpong poco oltre la frontiera. Queste bande si rendono responsabili di sabotaggi alle vie di comunicazione, violenze e saccheggi contro la popolazione. All'inizio del '59 ritennero giunto il momento per un nuovo tentativo di sollevazione e concentrarono un certo numero di controrivoluzionari armati a Lhasa.

La sollevazione controrivoluzionaria del '59
Il Dalai aveva deciso di assistere il 10 marzo ad una rappresentazione artistica all'auditorium del comando della regione militare del Tibet dell'Esercito popolare a Lhasa. Il gruppo reazionario tibetan, dicendo che l'invito dell'Esercito popolare era una trappola per sequestrare il Dalai, scatena una rivolta nella capitale. Il rappresentante ad interim del governo centrale e commissario politico del comando della regione militare del Tibet con una lettera invita il Dalai a non recarsi al comando per non avere difficoltà in seguito alle provocazioni degli ambienti reazionari nella capitale. Gruppi armati mobilitati dal gruppo reazionario circondano la sede del quartier generale dell'Esercito popolare e dei rappresentanti del governo centrale a Lhasa. Assassinano varie personalità tibetane che si opponevano alla sollevazione separatista fra cui un membro del comitato preparatorio della regione autonoma e un membro del governo locale, organizzano posti di blocco armati lungo le principali vie di comunicazione. Il Dalai in uno scambio di corrispondenza col rappresentante del governo centrale a Lhasa, il generale Tan, afferma di essere stato impedito dai suoi consiglieri di recarsi alla rappresentazione teatrale, condanna la cricca reazionaria che ha violato la legge e che compromette le relazioni tra il governo centrale e locale, dice di voler mettere fine agli atti illegali. Condanna nella lettera del 12 marzo un attacco armato di soldati tibetani sulla strada per Tsinghai. Comunica che ha ordinato la dissoluzione immediata della illegale "assemblea popolare" entrata in clandestinità dopo lo scioglimento deciso il 1° Maggio 1952 e denuncia l'introduzione di elementi reazionari nella sua residenza di Norbu Linka. Nella lettera del 15 marzo il generale Tan esprime la sua preoccupazione per la sicurezza personale del Dalai e lo invita, se lo ritiene necessario, a ricorrere per un breve tempo alla protezione presso il comando della regione militare. Nella risposta del 16 marzo il Dalai comunica di volersi impegnare a tracciare una netta linea di demarcazione tra gli elementi progressisti e quelli controrivoluzionari e non appena avrà chiarito su quanti saranno a suo fianco si recherà segretamente al comando della regione militare. Ma nella notte del 17 marzo il Dalai fugge da Lhasa verso l'India e due giorni dopo i reazionari lanciano un attacco su larga scala contro l'esercito popolare. L'Epl reagisce e aiutato dalla popolazione, dagli ecclesiastici e dai laici patriottici sconfigge in due giorni i controrivoluzionari.

La vittoria del popolo tibetano
Il 28 marzo il primo ministro Zhou Enlai allo scopo di salvaguardare l'unità del paese e l'unione delle nazionalità ordina al comando della regione militare del Tibet di sconfiggere completamente la ribellione in tutta la regione, di sciogliere il governo locale che l'ha fomentata e di conferire le funzioni e i poteri del governo locale al comitato preparatorio della regione autonoma del Tibet. Di questo organismo da cui sono espulsi 18 elementi reazionari che avevano organizzato o appoggiato la ribellione è nominato presidente il Pantchen Erdeni. La veloce repressione del moto controrivoluzionario è possibile dato che, degli oltre 1,2 milioni di tibetani dalla parte dei controrivoluzionari, si sono schierati solo 20 mila uomini tra cui molti arruolati a forza e diversi provenienti da fuori il Tibet. La maggioranza della popolazione tibetana composta da contadini e allevatori aspira a liberarsi del sistema feudale di servitù che li costringe all'estrema povertà. Anche nello strato superiore, fra i possessori di terre e ecclesiastici vi sono numerosi patrioti che si sono schierati contro la ribellione e sostengono il processo di riforme democratiche del loro sistema sociale. Sono queste le basi che permettono la vittoria rapida dell'Epl e la sconfitta dei piani dei reazionari e degli imperialisti. Con l'imperialismo americano che strepita contro il "barbaro intervento contro il popolo tibetano" mentre il Dalai dalla città indiana di Tezpur diffonde il 18 aprile una dichiarazione a sostegno dell'indipendenza del Tibet, contro l'accordo del 1951 a suo dire non negoziato ma "imposto" dal governo centrale, per sostenere che i primi a sparare sono state le truppe dell'Epl il 17 marzo. La versione dei fatti sposata da Scorsese in "Kundun". Il film si chiude con il Dalai che dal rifugio in India osserva col cannocchiale le alte vette tibetane. Non riesce a vedere però le manifestazioni di massa a Lhasa e nelle altre città con le quali il popolo oppresso esprimeva il suo appoggio alla repressione della controrivoluzione. Non vede il milione di schiavi che si levava ad accusare i membri reazionari del governo locale, fra gli ecclesiastici e i nobili, dei loro crimini, che spezzava le catene della schiavitù abolendo la proprietà fondiaria e il sistema di servitù. Adesso non erano più bestie da soma ma padroni del loro destino, protagonisti della storia del Tibet, non più centrata su re e nobili, a fianco delle altre nazionalità della Cina socialista, nella Regione autonoma del Tibet che sarà formalmente proclamata nella prima sessione della prima Assemblea popolare del Tibet tenuta a Lhasa dal 1° al 9 settembre del 1965.

(Articolo de "Il Bolscevico" n. 17 - 30 aprile 1998)
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Il grande capolavoro di Mao: la rivoluzione cinese e l'edificazione del socialismo in Cina


Riflessioni sul 50° Anniversario della Repubblica popolare cinese



Cinquanta anni fa, il 1° Ottobre 1949, in piazza Tienanmen a Pechino si tenne la cerimonia per la fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc). "Il popolo cinese si è alzato in piedi... nessuno ci insulterà più" affermava Mao che alla direzione del Partito comunista cinese (Pcc) aveva guidato il popolo cinese a liberarsi dalle catene del feudalesimo, dell'imperialismo e del capitalismo burocratico attraverso la rivoluzione armata più lunga e complessa della storia. Ma lo stesso Mao pochi mesi prima aveva chiarito che la vittoria in tutto il paese era solo il primo passo di una lunga marcia, il breve prologo di una lunga opera; la fondazione della Rpc, un avvenimento straordinario per il popolo cinese e per tutto il mondo che resterà incancellabile nella storia, segnava la vittoria della rivoluzione di nuova democrazia e nello stesso tempo l'inizio della lotta ancora più complessa e ardua per l'edificazione del socialismo in Cina. La rivoluzione cinese e l'edificazione del socialismo in Cina rappresentano per i marxisti-leninisti il grande capolavoro di Mao che resterà in eterno a ispirare la lotta del proletariato per la conquista del potere politico e per la costruzione della società socialista. Quantunque dopo la sua morte i rinnegati revisionisti e imbroglioni Deng, Jiang e Zhu abbiano distrutto il socialismo e restaurato il capitalismo in Cina. Un capolavoro scaturito dall'esperienza e dall'elaborazione teorica e politica dei 28 anni della rivoluzione di nuova democrazia (1921-1949), contrassegnati dalla prima guerra civile rivoluzionaria (1924-1927), dalla seconda guerra civile rivoluzionaria (1927-1937), dalla guerra di resistenza contro il Giappone (1937-1945) e dalla terza guerra civile rivoluzionaria (1945-1949) e dei successivi 27 anni di rivoluzione socialista e di edificazione del socialismo, di cui gli ultimi dieci marcati dalla Grande rivoluzione culturale proletaria.

La fondazione del Pcc nel 1921

Le cannonate della Rivoluzione d'Ottobre portarono il marxismo-leninismo in Cina, fino ad allora sconosciuto all'avanguardia del proletariato cinese che se ne impossessò e mise in pratica il primo insegnamento organizzativo: per fare la rivoluzione ci vuole un partito rivoluzionario. L'1° luglio 1921 al congresso di fondazione del Pcc, cui Mao partecipò, erano presenti 12 delegati in rappresentanza di poco più di una cinquantina di membri. La direzione del partito è inizialmente nelle mani degli opportunisti di destra, che privilegiavano la collaborazione col Guomindang e sostenevano la lotta legalitaria e delle graduali riforme, e successivamente di "sinistra" che rifiutavano la politica dell'alleanza con i contadini, del fronte unito e sostenevano l'immediata insurrezione nelle città della classe operaia per il socialismo. Costoro causarono pesanti sconfitte al proletariato cinese. Mao lavorava per sviluppare la lotta di classe, all'organizzazione delle lotte operaie, contadine e studentesche nello Hunan; per far assumere al proletariato il ruolo dirigente nella rivoluzione e per costruire la fondamentale alleanza tra operai e contadini. Seguiva il principio di lavorare nelle campagne per accerchiare le città e lavorava alla costruzione del primo embrione dell'esercito rosso che assumerà la denominazione di "1ª divisione della 1ª armata degli operai e dei contadini", i cui successi permetteranno l'instaurazione del potere dei primi soviet nelle zone controllate e di dare avvio alla fase della seconda guerra civile rivoluzionaria. Mao aveva fatto propri i principi universali del marxismo-leninismo sui quali non transigere, ed era riuscito a integrarli perfettamente nella pratica concreta della rivoluzione nel suo paese. Quando questo fondamentale insegnamento si affermerà nel Pcc la rivoluzione cinese imboccherà decisamente la strada della vittoria.
Nell'ottobre del 1934 Mao compie uno dei suoi capolavori politici e militari più importanti e decisivi per le sorti della rivoluzione cinese, l'epica impresa mai vista nella storia della Lunga Marcia per sfuggire alle campagne di annientamento del Guomindang; una marcia lunga 12.500 chilometri dallo Jiangxi allo Shaanxi che si concluderà il 20 ottobre 1935. E proprio durante la Lunga Marcia, nella riunione del gennaio 1935 a Zunyi, Mao si guadagna la massima carica nel Partito; un avvenimento che costituisce il trionfo della linea marxista-leninista di Mao su quelle revisioniste di destra e di "sinistra". Questa vittoria non mise fine alla lotta tra le due linee all'interno del Partito; altre e più dure seguiranno in tutte le fasi della rivoluzione cinese e della costruzione del socialismo quale riflesso inevitabile della lotta di classe esistente nella società, fino all'ultima, poco prima della morte di Mao, contro la banda revisionista e fascista di Deng Xiaoping.

La rivoluzione di nuova democrazia

Negli anni seguenti Mao dirige il Partito, il proletariato e il popolo cinesi nella guerra di resistenza contro il Giappone, allorché l'imperialismo nipponico a partire dal 1937 cerca di impadronirsi di tutta la Cina, e dal 1945 nella terza guerra civile rivoluzionaria contro Jiang Jieshi e il Guomindang, sostenuti dall'imperialismo, fino alla vittoriosa conclusione della rivoluzione di nuova democrazia e alla fondazione della Rpc. L'esperienza dei primi 28 anni di rivoluzione sarà così sintetizzata nel 1949 da Mao: "All'interno del paese bisogna risvegliare le masse popolari. Ciò significa che bisogna unire la classe operaia, i contadini, la piccola borghesia urbana e la borghesia nazionale per formare un fronte unito sotto la direzione della classe operaia e da questo passare alla costituzione di uno Stato che sia una dittatura democratica popolare diretta dalla classe operaia e fondata sull'alleanza degli operai e dei contadini. All'esterno del paese bisogna unirsi in una lotta comune con tutte le nazioni disposte a trattare con noi su basi di uguaglianza e con i popoli di tutti i paesi. Questo vuol dire che dobbiamo unirci con l'Unione sovietica, con le democrazie popolari e con il proletariato e le larghe masse popolari di ogni paese per formare un fronte unito internazionale" (Sulla dittatura democratica popolare, 30 giugno '49, vol. IV pag 423). Il proletariato ha così avuto in eredità un modello di rivoluzione valido in quei paesi del Terzo mondo coloniali e semicoloniali che devono anzitutto sbarazzarsi dell'imperialismo e del sistema feudale per poter aprire la fase della lotta per il socialismo.

L'edificazione del socialismo

Alla vigilia dell'ingresso vittorioso a Pechino, Mao, nel rapporto presentato alla Seconda sessione plenaria del VII Comitato centrale del Pcc, traccia la linea politica per la fase suuccessiva alla conquista del potere politico e indica che la contraddizione principale all'interno del paese sarebbe stata la contraddizione fra la classe operaia e la borghesia e mette in guardia contro le "pallottole ricoperte di zucchero" della borghesia che sarebbero diventate il pericolo maggiore una volta conquistato il socialismo. In altre parole indica che dalla rivoluzione di nuova democrazia occorreva passare subito alla rivoluzione socialista e getta i primi germi della teoria della continuazione della rivoluzione nelle condizioni della dittatura del proletariato che esploderà successivamente nella Grande rivoluzione culturale proletaria. I primi anni sono segnati dalla completa sconfitta delle forze del Guomindang che ancora occupavano il sud della Cina e dalla riorganizzazione dell'economia nazionale a partire dalla confisca delle grandi industrie private trasformate in imprese statali; dalla mobilitazione delle masse nella riforma agraria per la confisca delle terre possedute al 70% dai proprietari fondiari e dai contadini ricchi, nella repressione dei controrivoluzionari, nella resistenza all'aggressione americana e per l'aiuto alla Corea. Occorre realizzare gradualmente l'industrializzazione socialista della Cina e la trasformazione socialista dell'agricoltura, dell'artigianato e del commercio capitalisti da parte dello Stato, indica Mao nel 1953, affinché si realizzi la proprietà socialista dei mezzi di produzione. Contando sulle proprie forze e sull'aiuto dell'Urss di Stalin la Cina riuscì a costruire una sua base industriale, a mobilitare 500 milioni di contadini per la trasformazione socialista dell'agricoltura, a provvedere ai bisogni essenziali del popolo cinese.

Il Grande balzo in avanti

Nel 1956 la Cina aveva sostanzialmente terminato la trasformazione socialista della proprietà dei mezzi di produzione. Ciò fece gridare alla cricca di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping (che già si era opposta al passaggio dalla rivoluzione di nuova democrazia alla rivoluzione socialista) che in Cina la contraddizione fra il proletariato e la borghesia era stata fondamentalmente risolta. Tale posizione otterrà la maggioranza all'VIII Congresso nazionale del Pcc nel settembre 1956. I revisionisti cinesi rialzavano la testa forti degli esiti del nefasto XX Congresso del Pcus, svoltosi nel febbraio del 1956, che rinnegava il socialismo e dava il via alla restaurazione del capitalismo nei paesi dell'allora campo socialista. Davanti a Mao e al proletariato cinese si poneva il problema di come continuare la rivoluzione socialista e rafforzare la dittatura del proletariato proprio nel momento in cui il primo paese socialista cadeva sotto i colpi del revisionismo al servizio della borghesia e del capitalismo. La controffensiva di Mao fu potente e determinante per la difesa del marxismo-leninismo, il proletariato, la rivoluzione e il socialismo. A partire dall'intervento al Comitato centrale del 15 novembre 1956 col discorso in difesa delle due spade, Lenin e Stalin, spezzate dal rinnegato Krusciov denunciò con forza il revisionismo moderno, gli agenti della borghesia e dell'imperialismo travestiti da comunisti che sabotavano dall'interno il movimento operaio internazionale e la rivoluzione mondiale. La battaglia contro il revisionismo si sviluppa anche all'interno del Pcc. Nel discorso alla III sessione plenaria allargata dell'VIII Comitato centrale Mao afferma che "la contraddizione tra proletariato e borghesia, tra via socialista e via capitalista: questa è oggi senza il minimo dubbio, la contraddizione principale della nostra società. Adesso il nostro compito è diverso da quello del passato. Un tempo la cosa principale per il proletariato era guidare le grandi masse popolari contro l'imperialismo e il feudalesimo; quel compito è già finito. Qual è allora la contraddizione principale di oggi? Oggi siamo alla rivoluzione socialista, la punta di lancia è diretta contro la borghesia e, nello stesso tempo, bisogna cambiare il regime della piccola produzione ossia realizzare la cooperazione: la contraddizione principale è quella tra socialismo e capitalismo, tra collettivismo e individualismo, in breve, tra via socialista e via capitalista. Questo problema non è menzionato nella risoluzione dell'VIII Congresso del partito. In quella risoluzione c'è un passaggio in cui si dice che la contraddizione principale sarebbe quella tra regime socialista avanzato e forze produttive sociali arretrate. Questa formulazione è sbagliata. Alla II sessione plenaria del VII Comitato centrale dicemmo che, dopo la vittoria su scala nazionale, la contraddizione principale all'interno del paese sarebbe stata quella tra classe operaia e borghesia, e all'esterno quella tra la Cina e l'imperialismo" (Essere di stimolo alla rivoluzione, 9 ottobre 1957, vol V pag 675-676). Sul piano economico Mao formulò nel 1958 la linea generale consistente nell'edificare il socialismo secondo il principio di adoperare appieno tutte le energie, di mirare in alto e di quantità, rapidità, qualità e economia. Essa stabiliva di prendere l'agricoltura come base e l'industria come fattore guida, di sviluppare contemporaneamente l'industria e l'agricoltura, l'industria leggera e quella pesante. Nelle zone rurali si crearono le comuni popolari. Tale processo di sviluppo doveva essere guidato dal Partito, i cui quadri dovevano diventare "rossi e esperti". Era la politica del Grande balzo in avanti che doveva assicurare lo sviluppo del socialismo e dell'economia socialista; la Cina doveva contare sulle proprie forze, stretta fra l'embargo decretato dall'imperialismo e la fine degli aiuti voluta dai revisionisti sovietici in rivalsa delle posizioni di Mao dopo il XX congresso del Pcus. Il proletariato, i contadini, le masse popolari cinesi parteciparono con entusiasmo al Grande balzo in avanti e alla lotta politica contro gli elementi revisionisti che vi si opponevano. Ne sono protagoniste non secondarie le donne che spinte da Mao si liberano dai lavori di casa e partecipano alle attività produttive e sociali; si calcola che nel 1958 iniziano per la prima volta un lavoro esterno circa 40 milioni di casalinghe. Già nel 1929 Mao aveva sostenuto che "le donne sono una forza che deciderà la vittoria o la sconfitta della rivoluzione". La politica del Grande balzo in avanti è resa ufficiale alla seconda sessione dell'VIII Congresso nazionale del Pcc, nel maggio 1958, dove Mao ribadisce il concetto che "bisogna osare pensare, osare parlare, osare agire (...) basandosi sul marxismo-leninismo". Nell'agosto successivo il Pcc promuove la costituzione delle comuni popolari in tutto il paese. Nel 1960 nella "Nota alla Carta del complesso siderurgico di Anshan" Mao critica i sistemi di gestione sovietici affermando che gli operai devono partecipare alla gestione, i quadri alla produzione; bisogna promuovere la triplice unione di operai, quadri e tecnici, sviluppare il movimento di massa e la rivoluzione tecnologica. Dopo una visita di tre giorni al complesso siderurgico e i colloqui con i lavoratori scriverà la Carta di Anshan per l'industria socialista, che si contrapponeva alla Carta per l'industria di Liu Shaoqi. La lotta tra le due linee nel Pcc si replica alla decima sessione plenaria dell'VIII Comitato centrale nell'agosto 1962 dove Peng Dehuai, appoggiato da Liu e Deng attacca il Grande balzo e le comuni. Mao risponde lanciando la parola d'ordine "non dimenticare mai la lotta di classe" e stabilisce la linea fondamentale del socialismo: "La società socialista abbraccia un periodo storico molto lungo, nel corso del quale esistono ancora le classi, le contraddizioni di classe e la lotta di classe, esiste la lotta tra le due vie, il socialismo e il capitalismo, ed esiste il pericolo di una restaurazione del capitalismo. Dobbiamo comprendere che questa lotta sarà lunga e complessa, aumentare la vigilanza e svolgere un lavoro di educazione socialista. Dobbiamo comprendere e risolvere in modo giusto le contraddizioni di classe e la lotta di classe, distinguere le contraddizioni fra il nemico e noi e le contraddizioni in seno al popolo e dare ad esse una giusta soluzione. Altrimenti un paese socialista come il nostro si trasformerà nel suo opposto, cambierà natura e si avrà la restaurazione. D'ora in poi dobbiamo parlare di questo problema ogni anno, ogni mese e ogni giorno, in modo da averne una comprensione abbastanza chiara e seguire una linea marxista-leninista". La linea marxista-leninista che seguirà Mao porterà alla Grande rivoluzione culturale proletaria.

La Grande rivoluzione culturale proletaria

La Grande rivoluzione culturale proletaria iniziata con la Circolare del 16 maggio 1966 e la Decisione in 16 punti dell'8 agosto successivo, redatte sotto la direzione personale di Mao e adottate dal Comitato centrale, era la corretta risposta marxista-leninista per dare nuovo impulso alla rivoluzione; lo sbocco inevitabile e conseguente della teoria della continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato, la teoria elaborata da Mao che ha sviluppato il marxismo-leninismo. Una rivoluzione proletaria vera e propria diretta contro la borghesia, con la caratteristica che si svolgeva in un paese socialista, un avvenimento che non ha precedenti nella storia. Fino ad allora infatti in nessun paese socialista si era mai pensato in quei termini che fosse necessario proseguire la rivoluzione per annientare i nemici di classe e salvaguardare e sviluppare il socialismo. Ci ha pensato Mao dando un contributo enorme alla teoria e alla pratica del marxismo-leninismo, perché si affida in prima persona alle larghe masse, e non solo al Partito e allo Stato, il compito di difendere il socialismo dagli assalti della borghesia spodestata e della nuova borghesia che si crea nel socialismo. Dove si trovano lo spiega la Circolare del 16 maggio: "I rappresentanti della borghesia infiltrati nel Partito, nel governo, nell'esercito e nei diversi ambienti culturali, formano un'accozzaglia di revisionisti controrivoluzionari. Se si presentasse l'occasione, prenderebbero il potere e trasformerebbero la dittatura del proletariato in dittatura della borghesia. Abbiamo scoperto alcuni di questi individui; altri non sono ancora stati scovati; altri ancora, per esempio gli individui tipo Krusciov, godono ancora della nostra fiducia, vengono formati come nostri successori e si trovano attualmente in mezzo a noi". La Rivoluzione culturale aveva lo scopo di schiacciare il revisionismo, riprendere quella parte di potere usurpata dai rappresentanti della borghesia, consolidare e sviluppare la base economica ed esercitare la dittatura totale del proletariato nella sovrastruttura, cioè la politica, l'ideologia, la cultura, l'insegnamento, l'arte e le istituzioni statali. E l'obiettivo concreto di risolvere gradualmente le contraddizioni tra industria e agricoltura, città e campagna, lavoro intellettuale e lavoro materiale. Trasformare la coscienza delle masse secondo la concezione proletaria del mondo e formare ed educare milioni di successori della causa rivoluzionaria proletaria era l'obiettivo finale. "Perché ci sia la garanzia che il Partito e il Paese non cambino colore - rileva Mao - dobbiamo non solo avere una linea e una politica giuste ma anche formare ed educare milioni di successori della causa della rivoluzione proletaria. In ultima analisi, formare i successori della causa rivoluzionaria del proletariato vuol dire decidere se ci sarà o no chi può portare avanti la causa della rivoluzione marxista-leninista iniziata dalla vecchia generazione di rivoluzionari proletari, se la direzione del nostro Partito e dello Stato resterà o no nelle mani dei rivoluzionari proletari, se i nostri discendenti continueranno o no ad avanzare lungo la giusta strada tracciata dal marxismo-leninismo o, in altre parole, se riusciremo o no a prevenire la nascita del revisionismo kruscioviano in Cina. In breve, si tratta di una questione di estrema importanza, una questione di vita o di morte per il nostro Partito e il nostro Paese. è una questione di fondamentale importanza per la causa rivoluzionaria proletaria nei prossimi cento, mille o diecimila anni". La Rivoluzione culturale dà pieno sfogo alla carica rivoluzionaria delle masse e al loro entusiasmo verso il socialismo. I traditori e i rinnegati vengono smascherati, denunciati e destituiti in grandi dibattiti pubblici e con i dazibao, i grandi manifesti scritti a mano. Milioni di studenti partecipano al movimento delle Guardie rosse al fine di estromettere la borghesia dall'insegnamento e dare a questo un carattere proletario e rivoluzionario; grandi movimenti di massa sostengono la politica che "l'agricoltura impari da Dazhai e l'industria da Daqing", due esperienze modello allo scopo di sviluppare l'agricoltura e l'industria socialiste. Le masse popolari mobilitate su larga scala sotto la direzione del proletariato e del suo Partito nel corso della lotta tra le due linee, le due classi e le due vie, fanno nuove esperienze e si assumono nuove responsabilità dirigenti attraverso propri rappresentanti nei Comitati rivoluzionari, nuovi organi di governo. Durante la Rivoluzione culturale si svolgono le ultime tre lotte fra le due linee nel Pcc. La cricca di Liu e Deng è battuta al IX Congresso nazionale del Partito nell'aprile 1969, quella di Lin Biao al X Congresso nell'agosto 1973. L'ultima contro la cricca di Deng è rimasta aperta per la sopraggiunta morte di Mao; in particolare Deng si opponeva alla direttiva di Mao secondo cui "la lotta di classe è l'asse attorno a cui ruota tutto il resto". Egli era stato destituito da tutte le sue funzioni all'interno e all'esterno del Partito e posto in condizione di membro in osservazione con la risoluzione del 7 aprile 1976 dell'Ufficio politico del Pcc.

Oggi la Cina non è più un paese socialista perché il socialismo dopo la morte di Mao è stato distrutto dalla cricca revisionista di Deng; un'opera continuata dopo la sua morte nel 1997 dai successori Jiang Zemin e Zho Rongji. Le parole d'ordine sono: largo all'economia privata, l'arricchimento, la competitività, l'apertura ai capitalisti stranieri che sono tornati in forze, con in testa le multinazionali americane, a sfruttare il popolo cinese. Le comuni sono smantellate, l'industria statale segue la stessa sorte, privatizzazioni e licenziamenti di massa colpiscono i lavoratori; disoccupazione e povertà aumentano di pari passo con l'arricchimento di un pugno di sfruttatori, dilagano la corruzione e il nepotismo. La loro nera opera però nulla toglie al grande capolavoro di Mao rappresentato dalla rivoluzione cinese e dall'edificazione del socialismo in Cina. Per esso valgono le stesse parole che Marx pronunciò sulla Comune nel marzo 1871 mentre si combatteva ancora a Parigi: "Se la Comune fosse distrutta, la lotta sarebbe semplicemente rinviata. I principi della Comune sono eterni e indistruttibili; essi si ripresenteranno continuamente fino al momento in cui la classe operaia avrà conquistato la sua emancipazione".

Partito Marxista-Leninista Italiano, 1° ottobre 1999
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Stato e rivoluzione di Lenin; Stato e trasformismo di Losurdo


Amedeo Curatoli



Nel confutare la teoria marxista leninista dello Stato, confutazione presente in diversi suoi scritti, Losurdo è solito citare, in modo strumentale (e arbitrario) Marx e Engels. Nel saggio di cui ci occupiamo ora con molti anni di ritardo -ma….meglio tardi che mai- «Antonio Gramsci, dal liberismo al comunismo ‘critico’ » egli usa Gramsci per portare acqua al mulino delle sue argomentazioni intese a rigettare -ripetiamo- la teoria comunista dello Stato. Eleva Gramsci alle stelle e arriva a dire che il rivoluzionario sardo, nella polemica contro l’anarchismo «va ben al di là di Marx e Engels» (pag.198). Con questa operazione strumentale Losurdo si lega alla tradizione di Togliatti e degli intellettuali togliattiani che acconciarono gli scritti del carcere di Gramsci alla via “italiana" al socialismo. Ma c’è una differenza: il Pci togliattiano ha sempre fatto riferimento palesemente, costantemente, dichiaratamente, ossessivamente si potrebbe dire, a Lenin (manipolandolo e falsificandolo in ogni modo, ovviamente) ma questo riferimento a Lenin comunque obbligava la linea revisionista ad una maggiore e più astuta cautela. Losurdo, invece, dall’alto della sua cattedra procede a testa d’ariete.
Prima di soffermarci su tali critiche-accuse, è utile richiamare alla mente, in sintesi, il clima storico nel quale sono vissuti Marx e Engels e nel quale hanno formulato la teoria dello Stato. Essi vissero in un’epoca di grandi rivoluzioni, di vere rivoluzioni, di battaglie combattute armi alla mano, fra il popolo insorto e le truppe regie in diversi Stati europei. Per citare solo le più importanti: nel 1830, la rivoluzione repubblicana che eresse le barricate a Parigi, causò la morte di almeno 800 insorti e 200 fra i soldati dell’esercito regio. L’ondata rivoluzionaria contro le monarchie assolute che scosse tutta l’Europa nel 1848, iniziò in Sicilia ai primi di gennaio contro i Borbone, si propagò immediatamente a Napoli dove vi fu una vera e propria battaglia campale nel largo antistante il Palazzo reale e nelle vie adiacenti che causò almeno 2.000 morti fra gli insorti (che combatterono con strenuo coraggio) e qualche centinaio fra i soldati che erano agli ordini di un colonnello fiammingo, mercenario dei Borbone. A febbraio insorse Parigi facendo cadere la monarchia. Il Governo rivoluzionario provvisorio che ne venne fuori proclamerà la Repubblica tre mesi dopo. Il successivo governo non più “provvisorio” ma ormai ufficializzato dalle elezioni (ovviamente non a suffragio universale) mostrò alla luce del sole il suo carattere borghese controrivoluzionario e anti-operaio: esso non intese soddisfare nessuna delle rivendicazioni della classe operaia parigina. Contro quel governo insorse nuovamente il popolo, e furono 4 giorni di accaniti combattimenti in cui vennero uccisi 1.600 soldati governativi e 5.500 tra caduti nelle barricate e fucilati sul posto dal boia Cavaignac (a cui è intestata una strada nell’attuale Parigi borghese). Dovunque, a Vienna (capitale dell’ultrareazionario impero Austro-Ungarico), in Boemia, in Croazia, in Germania, nel Lombardo-Veneto (dove gli insorti diedero vita alle famose Cinque giornate di Milano e a Venezia si costituì la Repubblica di San Marco) queste rivoluzioni furono soffocate nel sangue. «Per i borhghesi che si trovavano ancora al governo dello Stato -disse Engels di quelle rivoluzioni- il disarmo degli operai era il primo comandamento”.
In Stato e Rivoluzione, per sgombrare il campo da tutti gli accumuli di opportunismo che nascondevano la sostanza rivoluzionaria della teoria marx-engelsiana dello Stato, Lenin ci conduce passo dopo passo, attraverso lunghe citazioni da Marx e Engels, alle successive loro approssimazioni teoriche che derivavano dall’analisi meticolosa (compiuta “con la precisione propria delle scienze naturali”) delle rivoluzioni del loro tempo. Non si inventarono niente, “non vi è in essi”, come disse Lenin, “un briciolo di utopismo”ma semplicemente (per così dire!) fecero un bilancio storico delle rivoluzioni di cui furono diretti testimoni (e in Germania attori) e ne trassero insegnamenti che si riveleranno poi preziosi per i bolscevichi e per le rivoluzioni proletarie che via via faranno seguito a quella bolscevica.

Primo passo (1848): nel Manifesto del Partito comunista che fu scritto nel periodo che precede immediatamente la rivoluzione del 1848, si definisce lo Stato socialista che nascerà dalla rivoluzione come “l’organizzazione del proletariato come classe dominante”, come “la conquista della democrazia”;
Secondo passo (1852): “Il problema dello Stato -dice Lenin- nel Manifesto del Partito comunista era posto in modo ancora troppo astratto, in nozioni e termini dei più generici. Qui(cioè in una lunga citazione del “18 brumaio di Luigi Bonaparte” in cui Marx fa un bilancio della controrivoluzione bonapartista), il problema è posto concretamente e la conclusione è ancora più precisa, ben definita, praticamente tangibile: tutte le rivoluzioni precedenti non fecero che perfezionare la macchina dello Stato, mentre bisogna spezzarla, demolirla. Questa è la cosa essenziale della dottrina marxista dello Stato”(Stato e rivoluzione). Quindi l’apparato statale borghese deve necessariamente essere distrutto, non deve più rimanerne pietra su pietra.
Terzo passo (1871): con che cosa bisognava sostituire lo stato borghese distrutto? La risposta a tale quesito la diede la Comune di Parigi che era stata la prima rivoluzione proletaria vittoriosa. Della Comune di Parigi Marx sostenne che “fu la forma positiva che non avrebbe dovuto solo eliminare la forma monarchica del dominio di classe ma lo stesso dominio di classe” . Quali furono i principali insegnamenti della Comune? 1) La soppressione dell’esercito permanente e la sostituzione di esso con il popolo armato; 2) eleggibilità e revocabilità di tutti i funzionari pubblici a cui andava come retribuzione il salario corrente di un operaio (rendendo concreto il leit-motiv demagogico della borghesia, sempre sbandierato e mai realizzato, sullo “Stato a buon mercato” – quello che vorrebbe fare oggi Grillo da noi); 3) la soppressione del parlamentarismo e la sostituzione di esso con un organismo di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo….”

Sono occorsi millenni prima che i due grandi filosofi rivoluzionari tedeschi strappassero i veli di inganni e mistificazioni che hanno sempre avvolto lo Stato durante tutta la storia del genere umano e ne svelassero finalmente la natura e l’essenza. lo Stato -essi hanno affermato- è ed è sempre stato l’organizzazione della violenza della minoranza sulla maggioranza della popolazione. Questo è davvero il grande capolavoro di Marx e Engels, il loro principale merito storico, è la pietra miliare che ha indicato per il passato e indica nel prossimo futuro alla classe operaia e ai popoli oppressi, fino a quando esisteranno gli Stati classisti, la strada da intraprendere, cioè la distruzione dello Stato classista come elemento preliminare della rivoluzione, per poi sostituirlo con un altroapparato. “Per quarant’anni -disse Lenin- dal 1852 al 1891, Marx e Engels insegnarono al proletariato che esso deve spezzare la macchina dello Stato”(Stato e rivoluzione). Ed è proprio questo insegnamento che distingue i rivoluzionari dagli opportunisti. Non ci sarà mai possibilità di mediazioni e di imbrogli, o si sta con la teoria di Marx e Engels sullo Stato o la si tradisce, non esistono terze vie. Essi hanno anche detto che quando il proletariato, per via rivoluzionaria, distruggerà completamente lo Stato borghese e sostituirà l’esercito permanente e la polizia con il popolo in armi, il nuovo Stato proletario, essendo divenuto, a differenza di quanto era sempre accaduto nei secoli precedenti, lo strumento di oppressione della maggioranza sulla minoranza espropriata, per questo specifico motivo non era da considerarsi più uno Stato concepito nei termini tradizionali, ma uno Stato di tipo diverso, uno Stato che nel momento stesso in cui nasceva cominciavaad estinguersi. Ed è contro quest’idea di estinzione dello Stato che insorge Losurdo. Marx e Engels godevano di una tale autorità presso la socialdemocrazia tedesca, che quest’ultima non osò contrastare, anzi fece sua, l’idea dell’estinzione dello Stato. Ma con un piccolo particolare: i capi socialdemocratici opportunisti non dicevano di quale Stato si trattasse, di modo che la frase migliaia di volte ripetuta dell’estinzione dello Stato (senza aggettivi) equivaleva, come disse Lenin “alla scomparsa se non la negazione, della rivoluzione”. Sulla stessa linea degli opportunisti della socialdemocrazia tedesca all’epoca di Marx si colloca Losurdo, con un’aggravante, però: che mentre quelli ammettevano l’estinzione dello Stato (sia pure senza aggettivi), Losurdo la respinge. La sua formula è “lo Stato (anche qui è uno Stato senza aggettivi) non si estingue”. Se mettiamo insieme i losurdiani tempi lunghi della rivoluzione e “lo Stato non si estingue” non abbiamo forse il diritto di sospettare che l’attuale Stato borghese (criminale, corrotto, schifoso, da abbattere quanto prima possibile) ce lo dovremmo sorbire in una prospettiva straziante che si protrarrebbe nel corso dei futuri saecula saeculorum? Se tagliassimo via la teoria dello Stato che cosa resterebbe in vita del marxismo se non una scuola superiore di retorica(che, del resto, già opera a pieno ritmo nelle università del mondo imperialista)? In questo attacco al marxismo su una questione di così eccezionale rilievo Losurdo, come dicevamo, tira in ballo Gramsci, il quale, dal liberalismo sarebbe approdato al “comunismo critico” (sarà mai passato per il marxismo leninismo, per la rivoluzione?): «Conviene non perdere di vista un dato di fatto biografico -dice Losurdo- che è al tempo stesso di grande rilievo sul piano teorico. Si tratta di un autore e dirigente politico che ha vissuto la tragedia della sconfitta del movimento operaio e della vittoria del fascismo e proprio per questo è stato costretto a rompere con le speranze di rapida e definitiva palingenesi rivoluzionaria per approfondire l’analisi del carattere complesso e contraddittorio dei tempi lunghi del processo di trasformazione politica e sociale» (pag. 137). Qui Losurdo rilascia a Gramsci, per così dire, un certificato di pusillanimità, dice che di fronte alla sconfitta della rivoluzione, il rivoluzionario sardo abbandona l’idea di rapida e definitiva “palingenesi” rivoluzionaria (solo un professore piccolo borghese può sarcasticamente definire la rivoluzione “rapida e definitiva palingenesi” nessun rivoluzionario serio ne parlerebbe in questi termini caricaturali) per votarsi ai “tempi lunghi” non della rivoluzione, badate, ma della trasformazione. Non risulta a Losurdo che in Italia si sia svolta sotto i nostri occhi una rivoluzione armata antifascista che sarebbe potuta sfociare, se ci fosse stata una direzione marxista leninista, in socialismo, come avvenne in mezza Europa? Non gli risulta che la Guerra di Resistenza confuta, comunque sia andata a finire, i suoi ‘tempi lunghi’? Ma ammettiamo per un attimo che Gramsci abbia fatto la fine ignominiosa che gli attribuisce Losurdo, cioè la fine del rivoluzionario che si converte al riformismo dei cosiddetti tempi lunghi. Che dire allora del “dato di fatto biografico” di Lenin che, insieme al partito bolscevico e alla classe operaia subì la cocente sconfitta della rivoluzione del 1905? Dopo quella sconfitta lo zarismo celebrò i fasti sanguinari della vendetta: il gruppo socialdemocratico alla Duma (il Parlamento zarista) composto di 65 deputati (di cui facevano parte bolscevichi e menscevichi ancora uniti nel medesimo partito), fu arrestato in blocco e deportato in Siberia e molti di essi morirono di stenti e di torture; gli sbirri zaristi si sguinzagliarono in una persecuzione sistematica contro operai e contadini ammazzandone a migliaia e diedero la caccia a Lenin per assassinarlo. Lenin che viveva illegalmente in Finlandia fu costretto, fra mille pericoli a riguadagnare l’emigrazione per sfuggire alla morte. Ebbene ci fu allora chi, come Plekhanov, disse che i bolscevichi non avrebbero dovuto impugnare le armi. Come reagì Lenin? Che bisognava impugnarle con maggiore decisione audacia e determinazione. Il “dato biografico” di ogni grande rivoluzionario, e Gramsci era uno di questi, diversamente da quanto afferma Losurdo, è che le sconfitte temprano, insegnano a ripiegare in buon ordine e a non cedere alla disperazione, a non smarrire la via della rivoluzione e imboccare quella della “trasformazione”. Afferma Losurdo che «secondo Gramsci, il passaggio dal capitalismo alla ‘società regolata’, cioè al comunismo, ‘durerà probabilmente dei secoli’» (pag.137). Questo è davvero troppo. E’ toccato a Gramsci un destino particolarmente amaro e crudele: dopo aver subito dieci anni di torture fasciste che lo hanno portato alla morte, i revisionisti vecchi e nuovi, senza un minimo di pudore e di pietà, si sono scorciate le maniche e hanno affondato le grinfie nei suoi scritti in carcere per ricavarne qualche buona citazione al fine di dare maggior credito e nobiltà alle loro tesi anti-marxiste. Ecco un caso di citazione strumentale e arbitraria, come dicevamo all’inizio. Riportiamo per intero ciò che scrisse Gramsci: “Graziadei….pone Marx come unità di una serie di grandi scienziati. Errore fondamentale: nessuno degli altri ha prodotto una originale e integrale concezione del mondo. Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità), (superata) da concezione della libertà)”.(Q. dal carcere pag.882) Gramsci, in questo passo, si pone sul terreno della più strenua e intransigente difesa di Marx (tale è l’aspetto principale di questa sua nota), dice che non è comparabile ad altri scienziati, che è unico al mondo perché dà inizio ad un’età che durerà forse secoli, e che il marxismo -lo dice evidentemente con accentuazione polemica- non perderà di attualità (per secoli, appunto) fino a quando l’umanità non trapasserà dal mondo della necessità a quello della libertà. Losurdo ha ridotto questa esaltazione di Marx da parte di Gramsci alla frase: “per il comunismo occorreranno dei secoli” il che conferma il nostro sospetto sugli angosciosi tempi secolari (o millenari) della losurdiana “trasformazione”. Sentiamo ora che cosa dice di Marx: «Conviene prendere le mosse da Marx, presso il quale è possibile sorprendere almeno due, diverse e contrastanti, versioni della teoria della rivoluzione» (pag. 138). Quali sarebbero queste diverse e contrastanti teorie che Losurdo ha “sorpreso” in Marx?

Prima versione della “teoria della rivoluzione” Cita (pag. 138) un celeberrimo, meraviglioso brano del Capitale che anche noi riportiamo per la sua bellezza: «La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiunge un livello in cui essa diventa inconciliabile col suo involucro capitalista. Questo involucro vien fatto saltare via. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati» Ebbene? Losurdo afferma che questa analisi è «gravemente meccanicistica» perché «vede la rivoluzione socialista come conseguenza immediata e automatica (???) del compiersi del processo di accumulazione capitalistica». Un po’ dopo rincara la dose: «oltre che meccanicistica, questa versione marxiana della teoria della rivoluzione è tendenzialmente eurocentrica». «E’ chiaro -conclude altezzosamente- che tale teoria è inservibile per spiegare una qualunque rivoluzione storicamente determinata».
Seconda versione della “teoria della rivoluzione” «Altrove Marx fa discendere invece dall’acutizzarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione non una singola rivoluzione, bensì ‘un’epoca di rivoluzione sociale’» (ibid.). Ora, dire che Marx ha fornito due o più versioni della teoria della rivoluzione è una falsità. No, Marx era non solamente uno scienziato ma anche un rivoluzionario, egli diede una definizione della società borghese che certamente Losurdo non condividerebbe: disse che la società borghese grondava sangue e fango da tutti i pori, dalla testa ai piedi. Ha scritto migliaia di pagine in saggi storici e filosofici, articoli, lettere, per non parlare del Capitale e ha costruito, insieme a Engels, la teoria della rivoluzione socialista a cui si sono ispirati russi, cinesi, europei dell’est, nordcoreani, vietnamiti, cubani nella loro marcia vittoriosa per la conquista del potere e l’instaurazione del socialismo. E alla teoria marxista della rivoluzione si ispireranno inevitabilmente tutti i popoli del mondo ancora non liberati, fino a quando l’imperialismo non sarà definitivamente distrutto. Mettersi con la matita rossa e blu a sottolineare le differenze (che non sono differenze ma approssimazioni successive) nelle varie formulazioni di Marx e Engels nel loro percorso sulla via della definizione di una teoria rivoluzionaria è davvero indice di smisurata presunzione.
Ancora, Losurdo per dare forza alla confutazione dell’estinzione dello Stato cerca di cogliere in contraddizione Marx e Engels i quali, proprio su questo punto cardine della loro teoria avrebbero subito una «tormentata evoluzione» (pag. 182). Nella sua opera La situazione della classe operaia in Inghilterra Engels -ci ricorda Losurdo- ha scritto che «la libera concorrenza non vuole limitazioni, non vuole controlli statali, tutto lo stato le è di peso, essa si troverebbe al massimo grado di perfezione in un assetto totalmente privo si Stato, dove potesse a suo piacimento sfruttare gli altri» (ibid.). Qual è il senso di questa citazione? Che lo Stato (borghese) può anche avere il compito di ridurre i guasti prodotti da una libera concorrenza senza alcun freno: quindi che senso ha, intende dire Losurdo, parlare dell’estinzione dello Stato se esso può assolvere anche funzioni positive? Innanzitutto, Engels sta parlando dello Stato borghese che deve pure, non certo per amore della classe operaia ma per necessità di sopravvivenza, cercare di smussare i contrasti di classe per non renderli irriducibilmente antagonistici e fare così avanzare i processi rivoluzionari. Questa è una cosa talmente ovvia che non occorre padroneggiare la filosofia della storia per capirlo. Lo Stato che “si estingue”, invece, è lo Stato che nasce dalla distruzione di quello borghese, che Marx e Engels hanno chiamato dittatura del proletariato la quale, essendo l’organo della violenza della maggioranza sulla minoranza (per la prima volta nella storia umana – ripetiamolo), comincia a non essere più Stato inteso in senso tradizionale. Ma ecco un altro argomento di Losurdo per rigettare la teoria dell’estinzione dello Stato: «Mentre liberisti e borghesi denunciano come “statalista” il movimento operaio e socialista, quest’ultimo, soprattutto quello di ispirazione marxista, viene a trovarsi in una situazione per certi versi (?) imbarazzante (?). Per un futuro più o meno remoto agita la parola d’ordine dell’ “estinzione dello Stato”, in sintonia su questo punto con l’anarchia, per quanto riguarda invece l’agitazione concreta quotidiana il movimento operaio è costretto (??) a rivendicare l’intervento del potere politico nella sfera economica…» (pag. 183). E’ chiaro che in regime capitalistico il movimento operaio rivendica dal governo (borghese) una tutela contro la libera concorrenza che affama e licenzia gli operai (come accadeva all’epoca di Engels e come accade anche oggi). Ma dove sta la contraddizione fra una concreta rivendicazione di tipo sindacale rivolta al governo borghese e l’estinzione dello Stato? Come si fa a dire simili enormità? Non è questo un modo ‘artato’ per creare confusione? E poi….associare ancora (come insistentemente fa Losurdo) l’anarchismo alla teoria marxista dello Stato è davvero una plateale forzatura, un imbroglio, una falsificazione. E’ noto che da prima ancora del Manifesto del Partito comunista Marx e Engels hanno ingaggiato un’ aspra lotta, una lotta senza quartiere contro l’anarchismo, contro Proudhon, contro gli “antiautoritari”, contro Bakunin. Se il socialismo marx-engelsiano divenne egemone nella Prima Internazionale è proprio perché l’idea di socialismo fu liberata da ogni incrostazione utopistica piccolo-borghese la cui variante principale era costituita proprio dall’anarchismo. “Enunciando la sua celebre tesi “lo Stato si estingue” - dice Lenin- Engels si affretta a precisare che essa è diretta contro gli opportunisti e contro gli anarchici” (Stato e rivoluzione).
Losurdo attacca anche Lenin: «Oltre al fine dell’estinzione dello Stato, marxismo leniniano e anarchismo sembrano avere in comune anche la visione meccanicistica dell’ordinamento giuridico e politico moderno come semplice (!!!) sovrastruttura dell’economia capitalistica e del dominio borghese» (pag. 199). Ora, il “marxismo leniniano” esattamente come il “marxismo marxiano” è -secondo Losurdo- altrettanto “meccanicistico” e cede anch’esso all’anarchismo. Affermare che l’ordinamento giuridico e politico “moderno” sia una sovrastruttura dello Stato borghese (come afferma il marxismo), è troppo “semplice” dice Losurdo, è un’idea meccanicistica! Egli, che come Kautsky e Plekhanov, ha un superstizioso rispetto per lo Stato, non ha capito la grandissima lezione sullo Stato che viene dalle rivoluzioni proletarie e dal marxismo leninismo che ne ha fatto il bilancio storico. La sintesi di questo bilancio storico è: “la repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo”. Perché è il migliore “involucro”? Perché ha portato ad un elevatissimo grado di sofisticazione (mai prima raggiunto dalle classi dominanti) la propria dittatura di classe attraverso un complesso “ordinamento giuridico e politico”. Tale ordinamento “moderno”, complesso quanto si vuole, è, in ultima analisi, uno specchietto per le allodole, è l’inganno dello “Stato di diritto”, della libertà di manifestare contro il governo, della libertà di esprimere la propria opinione (parlate, parlate, ma se andate oltre ci pensiamo noi – dicono i prefetti e i questori); è lo Stato della “legalità democratica”, del Parlamento eletto a “suffragio universale”, della Costituzione scritta dai “padri costituenti” che va messa in una teca di cristallo e adorata come un totem (partiamo dalla Costituzione! difendiamo la Costituzione! ripetono i fessi senza crederci più nemmeno loro!); è l’esca a cui abbocca il benpensante, il piccolo-borghese rispettoso delle ‘regole del gioco’ della democrazia, rispettoso e timoroso dello Stato ritenuto lo “Stato di tutti”. Ora, questo “involucro politico” che è la repubblica democratica ha subito un’evoluzione nell’epoca dell’imperialismo. «L’imperialismo -dice Lenin- mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato» (Stato e rivoluzione). E a distanza di un secolo il fatto che la macchina statale borghese sia ancora, ieri come oggi, completamente infognata nel pantano del militarismo e della burocrazia famelica e persecutoria è sotto gli occhi di tutti. Quanto all’estinzione dello Stato proletario, Lenin dice che bisogna lasciare «assolutamente in sospeso la questione del momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa estinzione avverrà poiché non abbiamo dati che ci permettano di risolvere simili questioni» (Stato e rivoluzione). Noi, “qualche dato in più” lo abbiamo: da quando Lenin scriveva queste cose, l’imperialismo si è ulteriormente sviluppato, si è armato di bombe termonucleari, la sua macchina repressiva poliziesca, attraverso l’elettronica, riesce a seguire e a spiare ogni cittadino dello Stato. Al crollo dell’Unione Sovietica ha fatto riscontro una superfetazione dell’imperialismo che pone gli Stati Uniti al numero uno irraggiungibile nella gerarchia militare imperialista. Di questo bisogna tener conto quando definiamo ancora oggi realistica e concreta la prospettiva che lo Stato socialista comincia ad estinguersi. Quanto durerà il processo di estinzione? Quello che si può dire con sufficiente approssimazione è che l’estinzione dello Stato proletario è strettamente connessa ai destini dell’imperialismo che incessantemente minaccia di distruzione i paesi socialisti e li sabota in ogni modo. E’ intuitivo che, all’indomani della scomparsa dell’imperialismo, in tutti gli Stati socialisti esistenti e in quelli che nasceranno dalla distruzione dell’imperialismo medesimo il processo di estinzione dello Stato subirà un’accelerazione notevole, dal momento che non sarà più necessario tenere in vita costosissimi sistemi di armamenti per difendersi da attacchi militari termonucleari, sistemi gestiti da uno Stato che è obbligato, dall’imperialismo appunto, a porsi sulla via di una forte centralizzazione. Quando lo Stato entrerà nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo, come disse Engels, allora le masse umane, non le minoranze, padroneggeranno il loro destino. Per Losurdo l’estinzione dello stato è inconcepibile, è del tutto irrealistica: nella sua visione ristretta, pessimistica, la scomparsa dello Stato equivale al disordine, al caos, all’anarchia. La grande frase di Engels (che -si potrebbe dire- ha il rilievo di una sentenza scolpita sul marmo): al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose non è capita da Losurdo, è vista con scetticismo, è giudicata escatologismo, millenarismo, palingenesi, utopia, è una frase da cui “bisogna prendere le distanze” perché lo Stato è sempre esistito e sempre esisterà (ricordiamo a tal proposito che il celebre passo in cui è contenuta la suddetta frase di Engels, Lenin lo considerò “straordinariamente ricco di idee”). La questione dello Stato che si estingue la si comprende solo se viene percepita da un punto di vista storico, cioè dal punto di vista del profondo, sconvolgente cambiamento che subirà il mondo all’indomani della definitiva scomparsa dell’imperialismo. Senza questa rivoluzionaria fiducia nel futuro e nelle capacità creative degli operai e delle classi oppresse si cade nella negazione della teoria marx-engelsiana dell’estinzione dello Stato che è il cuore e l’anima del marxismo leninismo . Il governo “sulle persone” è il potere politico che esercita lo Stato (anche se c’è un’abissale differenza tra potere borghese e potere proletario, fra Stato borghese e Stato proletario), ma è pur sempre un potere politico cioè un “governo sulle persone”. L’estinzione dello stato, vale a dire il momento dell’ “amministrazione delle cose” non significa che ogni ordine cesserà, che non vi sarà più, per esempio, una sanità pubblica organizzata, un’istruzione pubblica organizzata, un sistema pensionistico ecc. Il marxismo non è anarchismo, non è utopismo.: «Noi non siamo degli utopisti -dice lenin- Non “sogniamo” di fare a meno.. di ogni amministrazione, di ogni subordinazione » (Stato e rivoluzione), ma se restiamo ancorati alla definizione che lo Stato è, in estrema sintesi, l’organizzazione della violenza e non altro, ebbene, quando verranno meno i presupposti che rendono indispensabile la violenza, allora lo Stato cesserà di esistere.

OLTRE LOSURDO…

È sistematicamente accaduto che le formule rivoluzionarie di Marx e Engels siano state apparentemente fatte proprie dagli opportunisti ma da questi edulcorate e depotenziate, rivoltate come un calzino fino a diventare qualcosa di diverso e opposto. lo Stato, dicono Marx e Engels, è il prodotto degli antagonismi inconciliabili tra le classi. La versione opportunista di questa formulazione è diametralmente diversa: lo Stato è l’organo della conciliazione fra le classi, lo Stato è al di sopra delle classi, lo Stato è di tutti. Noi italiani ne abbiamo un grande esempio: la meravigliosissima “repubblicanatadallaresistenza” al cui ossequio e superstizioso rispetto sono stati educati (diseducati) milioni di operai. Marx e Engels dicono che la frase altisonante “La legge è uguale per tutti” è un inganno, una falsità. Significa che una norma di questa presunta ‘legge uguale per tutti’ viene applicata a persone non identiche, non uguali, perché appartenenti a classi fra loro antagoniste, l’una detentrice del potere economico e politico, l’altra esclusa dal potere economico e politico, emarginata, sfruttata, assoggettata alle leggi darwiniane del capitalismo e su cui sono puntate le armi dell’apparato repressivo dello Stato borghese: esercito permanente, polizia e magistratura. L’eguale diritto, dice Lenin, equivale ad una violazione dell’uguaglianza e della giustizia. Gli opportunisti, i revisionisti educano invece le masse (cioè le diseducano) all’idea che bisogna rendere “effettiva” l’eguaglianza del diritto (cosa impossibile in uno stato borghese). Sono trascorsi 65 anni dalla promulgazione della Costituzione borghese italiana e ancora oggi, a distanza di 65 anni queste figure imbelli di “costituzionalisti” e sindacalisti di “sinistra” legalitari, rinunciatari, complici delle maggioranze sindacali capitolazioniste, che nel corso dei decenni trascorsi hanno svenduto tutto agli interessi padronali e non sono stati capaci di difendere i diritti primari economici e normativi conquistati dalle lotte operaie, riescono a persuadere migliaia di povera gente a seguirli in inutili cortei diffondendo illusioni (ancora e ancora!) sul “rispetto della Costituzione” borghese che, in quanto tale, si è sempre fatta beffe dell’eguaglianza e del diritto. Ed è e sarà sempre così. Finché esisterà lo Stato borghese non può essere diversamente da così.
view post Posted: 9/11/2019, 22:56 La cinica strumentalizzazione riformista di Antonio Gramsci - Scritti di altri autori

La cinica strumentalizzazione riformista di Antonio Gramsci


Amedeo Curatoli



“Nulla, nel Gramsci politico del decennio legale(cioè prima dell’arresto avvenuto nel 1926) induce a ritenere che egli si ponga il problema della democrazia in termini diversi da quelli correnti nella Terza Internazionale, che egli cioè intraveda un regime di democrazia politica, rappresentativa, come terreno storico su cui avanzare verso il socialismo. Siamo nel 1916-1926 e non nel 1936-46 né converrà dare a Gramsci quanto è di Togliatti”. (Spriano, in: “Gramsci, scritti politici”, Editori Riuniti, pag. XXXIV). Anche noi siamo propensi a distinguere nella vita politica di Antonio Gramsci, il decennio della libertà e il decennio della carcerazione fascista, ma la facciamo, questa distinzione, per motivi opposti a quelli di Spriano. Prima dell’arresto, dice Spriano, Gramsci era leninista, completamente allineato alle posizioni della III Internazionale, ancora non “intravedeva” la “democrazia rappresentativa” come “terreno di avanzamento verso il socialismo”. Siccome è Togliatti il teorico della democrazia rappresentativa come terreno di avanzamento verso il socialismo, stiamo attenti, avverte -Spriano- a tener ben separati Gramsci (prima della carcerazione) da Togliatti, non “converrà” dare a Gramsci quanto è di Togliatti. Però… durante la carcerazione avviene il miracolo: Gramsci assume le vesti di padre spirituale della via italiana al socialismo e Togliatti ne è il suo esecutore testamentario. Ecco, questa è la più cinica e truffaldina delle malefatte revisioniste del Migliore alla quale hanno partecipato, coralmente tutti i teorici togliattiani di spicco, da Natoli a Spriano, da Platone a Gerratana, da Gullo a Gruppi. Ritornando a Spriano, vediamo come egli ci descrive la trasfigurazione politico-ideologica di Gramsci nel periodo della carcerazione: “Pare possibile affermare che mentre in Lenin la coscienza del carattere decisivo che assumono..l’elemento di direzione dall’alto, la funzione del partito come massimo organizzatore e propulsore delle masse è nettissima, prevalente, in Gramsci l’aspetto dell’aggressione (??) dal basso dello Stato nemico, del processo molecolare per cui si arriva a creare un dualismo di potere, la ricerca di nuovi istituti e articolazioni delle masse ..sono non meno prevalenti e costanti.. semmai la differenziazione verrà accettata storicamente da Gramsci non come un punto di allontanamento dal leninismo ma come sua applicazione a società politiche e civili quali quelle occidentali, che richiedono una più complessa articolazione della strategia rivoluzionaria” (op. cit. pag. XVI) In questo brano, ridotto alla sua essenza, il revisionista Spriano (si noti con quanta doppiezza, astuzia e cautela), con un linguaggio contorto e ai limiti della comprensibilità, afferma due cose: A) Lenin parlava chiaramente di rivoluzione armata diretta dall’alto, dal partito “massimo propulsore e organizzatore delle masse”;B) Gramsci, invece, prediligeva l’attacco (!!) dal basso. Ma che cos’era questo attacco dal basso? Era forse qualcosa che assomigliasse a una rivoluzione? No, era un processo molecolare (?), era la ricerca di nuovi istituti(?) e articolazioni delle masse (??). Però attenzione : questa paccottiglia che Spriano ha l’insolenza di attribuire a Gramsci non costituiva una differenziazione rispetto al leninismo ma una sua applicazione a diverse e più complicate situazioni. Spriano ci vuole dire che una “semplice” e “facile” rivoluzione va bene in Russia, va bene in Oriente, ma in Italia non va bene, siamo meno rozzi, noi. In Italia occorre una più complessa articolazione della strategia, la strategia dei “processi molecolari”, dei “nuovi istituti” e delle “articolazioni delle masse”…Non è questa tutta immondizia “teorica” che il revisionista Spriano, va a scavare dal cassonetto della socialdemocrazia notoriamente nemica della rivoluzione? Se lo meritava Gramsci che questi imbroglioni revisionisti lo declassassero da grande comunista rivoluzionario a uno che andava alla ricerca di non meglio identificati “nuovi istituti”?
Andiamo anche noi a vedere che cos’era il “Gramsci politico del decennio legale”. A settembre del ’25, da Milano, dove risiedeva in un ammezzato dell’edificio che ospitava la società editrice de “L’Unità”, Gramsci si trasferì a Roma, a casa di Togliatti in cui furono stese, sottola sua direzione, le Tesi per il III Congresso del Partito che si sarebbe tenuto clandestinamente, a Lione. La Tesi 23 recitava: "Il partito si trova oggi nella fase della preparazione politica della rivoluzione. Il suo compito fondamentale può essere indicato da questi tre punti: 1) organizzare e unificare il proletariato industriale e agricolo per la rivoluzione; 2) organizzare e mobilitare attorno al proletariato tutte le forze necessarie per la vittoria rivoluzionaria e per la fondazione dello Stato operaio; 3) porre al proletariato e ai suoi alleati il problema della insurrezione contro lo Stato borghese e della lotta per la dittatura proletaria e guidarli politicamente e materialmente alla soluzione di esso attraverso una serie di lotte parziali". Nella seconda quindicina del gennaio 1926 passò clandestinamente la frontiera francese per recarsi a Lione, e quell’espatrio fu irto di pericoli e faticoso per le lunghissime camminate sulla neve delle Alpi. Da quel Congresso, dove c’erano delegati da tutta l’Italia, venne fuori la sconfitta di dimensioni “plebiscitarie” dell’ala ultrasinistra di Bordiga (9,2%) e la vittoria di Gramsci (90,8%)

La Carcerazione

A Roma, la sera dell’8 novembre 1926, nonostante l’immunità parlamentare in quanto deputato, Antonio Gramsci fu arrestato. Aveva 35anni. La carcerazione fascista rappresentò per questo grande uomo un infernale calvario di tortura freddamente pianificata per fiaccarne la forza fisica, intellettuale e morale. Fu un decennio di crimine continuato che ancora grida vendetta, perché oggi, ai vertici delle istituzioni e al governo del nostro paese ci sono i fascisti Fini, La Russa e Gasparri . Con il pretesto di accertarsi che le sbarre della sua cella non fossero segate, le guardie carcerarie andavano a verificarle più volte, nel cuore della notte, facendo scorrere sulle sbarre una mazza di ferro, per impedirgli di dormire.
Agosto 1932: “Sono giunto a un punto tale che le mie forze di resistenza stanno per crollare completamente, non so con quali conseguenze. In questi giorni mi sento così male come non sono mai stato; da più di otto giorni non dormo più di tre quarti d’ora per notte e intere notti non chiudo occhio. E’ certissimo che se l’insonnia forzata non determina essa alcuni mali specifici, li aggrava però talmente e li accompagna con tali malesseri concomitanti, che il complesso dell’esistenza diventa insopportabile” (Fiore, Vita di Gramsci, Laterza, pag. 310)
Luglio 1931: “Da qualche mese soffro molto di smemoratezza. Non ho avuto più da un pezzo delle forti emicranie come nel passato (emicranie che chiamerei ‘assolute’), ma in contraccambio mi risento di più, relativamente, di uno stato permanente che può essere indicato come uno svaporamento di cervello; stanchezza diffusa, sbalordimento, incapacità di concentrare l’attenzione, rilassatezza della memoria ecc.” (ibid. pag. 306).
Sette giorni dopo questa lettera, all’una del mattino ebbe un’emottisi che successivamente così descrisse: “Non si trattò di una vera e propria emorragia continuata, di un flusso irresistibile come ho sentito descrivere da altri: sentivo un gorgoglio nel respirare come quando si ha del catarro, seguiva un colpo di tosse e la bocca si riempiva di sangue…ciò durò fino alle quattro circa e in questo frattempo cacciai fuori 250-300 grammi di sangue” (ibid. pag. 306). Ma la cosa più terribile della trappola fascista in cui lo seppellirono vivo dovette essere per Gramsci la totale impossibilità, per lui che era il capo del partito comunista, di poter comunicare con i compagni e avere un minimo di possibilità di uscire dal totale isolamento, gli impedirono anche di vedere la moglie e i due figli in tenera età. Le torture fisiche e morali a cui fu sottoposto non riuscirono a fiaccare le sue poderose capacità intellettuali. Ma non può esservi dubbio sul fatto che lo stato di prostrazione e di malessere fisico, unito al sentimento di vedersi tagliato fuori dal centro dirigente mondiale del comunismo, di cui egli fece parte per due anni, a Mosca, lo indussero ad una visione pessimistica, alla sopravvalutazione della persistenza del riflusso reazionario e della stabilità del fascismo. Date queste premesse egli delinea una nuova, possibile strategia rivoluzionaria che prevedeva tempi più lunghi per la presa delpotere, espressa in queste celeberrime parole: “Mi pare che Ilici (Lenin) aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente (in Russia) nel ’17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente”. E più avanti:”In Oriente, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente, tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale”. E’ su queste parole, strumentalmente accolte come leggi mosaiche al di là della storia e al di là del mondo, che si è cercato di dare dignità a una nuova versione della revisione del marxismo. Non la farsesca rifondazione di Bertinotti, ma quella che compì Togliatti fu il vero dramma del comunismo italiano, perché su quelle casematte egli, dal 1956 in poi, in una immobile e artificiosa guerra di posizione da fiction, ha tenuto definitivamente bloccata la classe operaia nel miraggio della via italiana, la quale via, invece di condurre al socialismo, ha prodotto la catastrofe ideologica e anche morale incarnata dai liquidatori del partito comunista, gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni, la cui radicale trasformazione in elementi anticomunisti è pari soltanto alla metamorfosi kafkiana in immondi insetti accomodatisi nei ranghi delle élites politiche della borghesia monopolistica italiana.

La vera eredità di Gramsci

Di Gramsci ci resta la grande figura di un comunista rivoluzionario riconosciuto tale dalla Terza Internazionale che lo volle segretario generale del PCd’I, comunista di testa, comunista di cuore, che presumibilmente, di fronte alla rivoluzione antifascista (perché tale è stata la Resistenza, lotta armata per la distruzione del fascismo e per regolare successivamente i conti con la borghesia italiana – come avvenne in mezza Europa) non sarebbe rimasto affezionato, dogmaticamente, alla sua idea dei “tempi lunghi” delle casematte, perché proprio quella rivoluzione ha rappresentato la negazione delle casematte e della guerra di posizione ma è stata pienamente guerra di movimento, cioè autentica rivoluzione. Scriveva Secchia sull’Unità (gennaio 1945): “Il terrore nazifascista deve essere stroncato dall’azione generale dei lavoratori e delle masse popolari, deve essere stroncato da un’azione spietata di rappresaglia da parte dei partigiani. Bisogna scioperare, manifestare, avventarsi con qualsiasi arma sulla canaglia “repubblicana”, colpire a morte. Non più disarmi ma esecuzioni sommarie dei fascisti e dei tedeschi che ci capitano fra le mani. Bisogna dare la caccia a queste belve, colpirle e sterminarle senza pietà. Nessun fascista e tedesco deve sentirsi sicuro né in casa né per la strada, né nel luogo di gozzoviglia, né negli antri più nascosti. Tutti sono responsabili, tutti devono pagare”. Nella direttiva del PCI n.16 per l’insurrezione si legge: “Nelle città i GAP (Gruppi di azione patriottica) e i Sap (Squadre di azione patriottica) devono attaccare e abbattere senza pietà quanti gerarchi fascisti possono raggiungere, quanti agenti e collaboratori dei nazifascisti che continuano a tradire la patria (questori, commissari, alti funzionari dello Stato e dei Comuni, industriali e dirigenti tecnici della produzione asserviti ai tedeschi) quanti fascisti e repubblichini che restano sordi all’intimazione della patria di arrendersi o perire. Azioni più ampie devono senz’altro essere iniziate nelle città per la liquidazione dei posti di blocco, di sedi fasciste e tedesche, di commissariati di polizia ecc. ecc.". Quindi l’obiettivo era di spezzare, distruggere l’apparato statale fascista. Questa distruzione avveniva e doveva avvenire a vari livelli, da quello del prestigio fino al piano fisico. Il metodo: la guerra civile, la giustizia proletaria, che è tanto più perfetta nelle grandi svolte della storia quanto più è rapida, completa, scoperta, giustificata non dal cavillo giuridico ma dalla volontà delle masse che la compiono. Dalle rovine dello Stato fascista nasceva, come formazione transitoria, un nuovo Stato nel cui seno si sarebbe svolta una lotta che ne avrebbe deciso il destino di Stato borghese o operaio.

Rivoluzione Facile in Oriente, difficile in Occidente?

La storia infinita, infinitamente ripetuta dai revisionisti di tutte le specie, della presunta maggiore difficoltà delle rivoluzioni in paesi più sofisticati e complessi della Russia (ah, se Lenin non avesse mai pronunciato quella frase..!), è stata sconfessata dalle rivoluzioni socialiste vittoriose di mezza Europa: Romania, Albania, Jugoslavia , Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Bulgaria. Oppure pensiamo che quei paesi non fossero Europa? O che quelle non fossero vere rivoluzioni ma semplici imposizioni dell’Armata Rossa per accordi sottoscritti a Yalta? E se prendiamo la Cina? L’apparato egemonico di quel grande paese dalle civilissime millenarie tradizioni non era forse un apparato egemonico di tutto rispetto? Se noi abbiamo Cristo e la burocrazia loro non avevano Confucio e i mandarini? Ebbene in quell’antico paese asiatico è penetrato il marxismo leninismo come arma di liberazione del popolo e i comunisti cinesi hanno fatto trenta anni di guerra di movimento, hanno rigettato la pratica e la teoria della guerra di posizione e sono giunti al potere. Come si può ripetere miliardi di volte la vecchia frase che in Oriente, rispetto all’Occidente “avanzato” è piùfacile prendere il potere? In Cina, distruggere il vecchio Stato dei grandi proprietari terrieri e della borghesia compradora è stato difficile, niente affatto facile, sono occorsi 30 anni di Guerre civili e di Liberazione nazionale dirette dal partito comunista per raggiungere quell’obiettivo. Quindi tutta l’impalcatura artatamente costruita dai revisionisti sulle casematte e la guerra di posizione si è rivelata una scenografia teatrale, un trompe l’oeil, e noi marxisti leninisti italiani, se ancora oggi, continuassimo a ritenere ciò il lascito testamentario del grande Gramsci, diventeremmo complici dell’operazione malefica e truffaldina compiuta da Togliatti, che ha spregiudicatamente usato il pensiero e il prestigio politico, teorico e morale di Antonio Gramsci per dare maggiore credibilità e consistenza alla sua creatura di cartapesta, la via italiana al socialismo. “L’immagine del ‘ partito di Gramsci e di Togliatti’, di Togliatti fedele allievo di Gramsci, suo erede e continuatore, sapientemente costruita da Togliatti… ha avuto lo scopo fondamentale di legittimare con il ricorso strumentale a Gramsci lo smantellamento del partito leninista, la costruzione del ‘partito nuovo’, l’elaborazione della strategia revisionista e riformista della ‘via italiana al socialismo’…In tutto il periodo post bellico Gramsci è dipinto da Togliatti non solo come il ‘profeta’ della ricostruzione e salvezza nazionale, ma anche come ‘un grande intellettuale’, erede di tutta la tradizione progressista della cultura italiana, da Boccaccio a De Sanctis, in una interpretazione che non solo cancella il Gramsci dirigente rivoluzionario, ma anche il rapporto della cultura con la lotta delle classi, l’essere Gramsci un ‘intellettuale organico’ del proletariato (nel senso rivoluzionario che Gramsci stesso dava all’espressione). Non è un caso che ai Quaderni dal Carcere (pubblicati nel dopoguerra in volumi in cui le note sono raccolte e raggruppate per temi, devastando l’ordine cronologico di stesura) siano stati dati personalmente da Togliatti titoli di tipo storico-culturale: ‘Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce’ ‘Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura’ ecc. La stessa definizione di partito come ‘intellettuale collettivo’, attribuita a Gramsci ma che non si trova né nei Quaderni né in altri scritti di Gramsci serve egregiamente allo scopo” (Michele Martelli su ‘Unità Popolare” coop. Editrice “Gino Palmisano”, Napoli,1980, pag. 90 e pag. 94).
Gramsci morì il 27 aprile 1937, aveva 46 anni. Il Comitato Esecutivo della Terza Internazionale diede la notizia della morte in questi termini: "La classe operaia italiana e il proletariato mondiale perdono nella persona di Gramsci uno dei loro migliori capi, uno dei migliori rappresentanti della generazione dei bolscevichi educata nelle file dell’Internazionale Comunista".

Edited by Sojuz Koba 1961 - 11/11/2019, 14:27
view post Posted: 9/11/2019, 22:54 L'obbrobriosa manipolazione ai danni di un grande rivoluzionario - Scritti di altri autori

L'obbrobriosa manipolazione ai danni di un grande rivoluzionario


Amedeo Curatoli



Il grande comunista di cui parliamo è Antonio Gramsci, leninista della prima ora, leninista nel senso di fautore della lotta armata come unico mezzo per rovesciare la dittatura borghese. In Cina nel 1983 la Casa editrice del Popolo ha pubblicato i Quaderni del Carcere. In una successiva antologia di scritti gramsciani (1992) si dice: “Gramsci fu il teorico della rivoluzione proletaria in Italia e applicò con reale impegno il marxismo-leninismo in Italia”. Sì, Gramsci fu questo. Egli capì immediatamente la rivoluzione russa, e capì profondamente la linea di Lenin prima che i bolscevichi prendessero il potere. Appoggiò e propagandò questa linea nei suoi articoli sul Grido del popolo e sull’Avanti (sezione torinese). Quando, il 13 agosto 1917 il governo provvisorio di Kerensky inviò in Italia suoi rappresentanti, Gramsci organizzò a Torino una manifestazione di massa con 40.000 dimostranti che gridavano a gran voce lo slogan: "viva Lenin!". Lo stesso accadeva a Firenze, Milano, Bologna. La settimana successiva lo sciopero iniziato in alcune fabbriche si trasformò in sciopero generale insurrezionale. L’esercito dovette usare i carri armati e le mitragliatrici pesanti per domarlo. Rimasero sul terreno della battaglia 21 lavoratori uccisi. Gli operai insorti riuscirono ad abbattere solo tre poliziotti, vi furono centinaia di feriti e 1500 arresti. Gramsci aveva allora 26 anni e fu in quel grandioso clima rivoluzionario che si formò come dirigente leninista. La marea rivoluzionaria continuava a salire, fino a giungere, a Torino, all’occupazione generalizzata delle fabbriche dove gli operai si asserragliavano armati di tutto punto e pronti allo scontro finale contro il capitalismo e contro il dominio borghese. Il Primo Maggio del 1919 Gramsci fondò il settimanale L’Ordine Nuovo che gettava benzina sul fuoco. I riformisti del suo partito (militava nel Psi) lo temevano, e lo temeva anche il governo, che sottoponeva a censura i suoi scritti. Quello che passerà alla storia col nome di Biennio Rosso (1919-1920) fu contemporaneo all’instaurazione della Repubblica Sovietica in Ungheria e seguì di poco la Rivoluzione tedesca del 1918; c’era in Europa un fermento rivoluzionario dappertutto. Sulle cause della sconfitta del Biennio Rosso e dell’ascesa del fascismo citeremo fra poco un documento della III Internazionale Comunista. Il 16 maggio del 1925, in qualità di parlamentare, e già capo riconosciuto e temuto dalla reazione (aveva trentaquattro anni) Gramsci pronunziò alla Camera un discorso antifascista eroico e commovente. Tutti i deputati fascisti e lo stesso Mussolini lo interruppero continuamente per tentare di spezzare il filo del suo ragionamento,ma non vi riuscirono. Egli concluse questo suo primo intervento rivoluzionario dalla tribuna parlamentare (che fu anche l’ultimo) con le seguenti parole: “Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi”. Parole profetiche,che i marxisti leninisti considerano il testamento e l’impegno per la futura rivoluzione proletaria in Italia. L’anno successivo (1926), le tesi politiche scritte da Gramsci per il Congresso clandestino tenuto a Lione (che fu il 3° dopo quello costitutivo di Livorno nel 21 e di Roma nel ’22), raccolsero la quasi unanimità se si eccettua un 9,2% che andò ai bordighisti. Erano tesi integralmente marxiste leniniste. Gramsci intervenne contro l’estremismo dogmatico di Bordiga: "In nessun paese -disse- il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sue sole forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l’abbattimento della società borghese”. Egli parlava da grande leninista.
L’analisi più autenticamente vera, cioè marxista, delle condizioni storiche dell’Italia del primo dopoguerra e della mancata vittoria della rivoluzione la fece, nel 1922, il 4° Congresso dell’Internazionale Comunista. Riportiamo alcuni brani di quella meravigliosa aanalisi:

“Verso la fine della guerra imperialista mondiale la situazione in Italia era oggettivamente rivoluzionaria. La borghesia aveva allentato le redini del potere. L’apparato dello Stato borghese era scosso, l’inquietudine s’era impossessata della classe dominante. Le masse operaie erano stanche della guerra tanto che in diverse regioni esse si trovavano già in uno stato insurrezionale. Considerevoli settori della classe contadina cominciavano a sollevarsi contro i proprietari terrieri e contro lo Stato, ed erano disposti a sostenere la classe operaia nella sua lotta rivoluzionaria. I soldati erano contro la guerra e pronti a fraternizzare con gli operai. Si erano dunque realizzate le condizioni oggettive per una rivoluzione vittoriosa. Mancava soltanto il fattore soggettivo; mancava un partito operaio deciso, pronto al combattimento, cosciente della sua forza, rivoluzionario, in una parola: un vero Partito Comunista. (...) "In generale, alla fine della guerra esisteva un’analoga situazione in quasi tutti i paesi belligeranti. Se la classe operaia non ha trionfato nei paesi più importanti, la cosa si spiega proprio a causa dell’assenza di un partito operaio rivoluzionario. E’ ciò che si è manifestato con maggiore evidenza proprio in Italia, paese che era il più prossimo alla rivoluzione e che ora sta attraversando un periodo di controrivoluzione". (...) "L’occupazione delle fabbriche da parte degli operai italiani, nell’autunno del 1920, ha costituito un momento decisivo nello sviluppo della lotta di classe in Italia. Istintivamente, gli operai italiani spingevano verso la soluzione della crisi in un senso rivoluzionario. Ma l’assenza di un partito operaio rivoluzionario decise le sorti della classe operaia, consacrò la sconfitta e preparò il trionfo attuale del fascismo. La classe operaia non ha saputo trovare forze sufficienti nel momento culminante del suo movimento per impossessarsi del potere: ecco perché la borghesia, nelle sembianze del fascismo, la sua ala più energica, è riuscita ben presto a far mordere la polvere alla classe operaia e a stabilire la sua dittatura. In nessun luogo, la prova della grandezza del ruolo storico di un Partito Comunista per la rivoluzione mondiale è stata fornita in modo così chiaro come in Italia dove, proprio per la mancanza di un tale partito, il corso degli eventi ha assunto una piega favorevole alla borghesia”. (…). ”All’inizio del 1921 ci fu la rottura da parte della maggioranza del Partito Socialista con l'internazionale Comunista. A Livorno, il centro preferì separarsi dall’Internazionale Comunista e da 58.000 comunisti italiani, semplicemente per non rompere con 16.000 riformisti. Si costituirono due partiti: da una parte il giovane Partito Comunista che, malgrado tutto il suo coraggio e la devozione alla causa rivoluzionaria, era troppo debole per condurre la classe operaia alla vittoria, e dall’altra, il vecchio Partito Socialista nel quale, dopo Livorno, andava crescendo l’influenza corruttrice dei riformisti. La classe operaia era divisa e senza risorse. Con l’aiuto dei riformisti la borghesia consolidò le sue posizioni. Fu solo allora che cominciò l’offensiva delcapitale sia in campo economico che politico. Occorsero quasi due interi anni di tradimento ininterrotto da parte dei riformisti perché anche i capi del centro, sotto la pressione delle masse, riconoscessero i loro errori e si dichiarassero pronti a trarne tutte le conseguenze”.

Al Congresso di Roma, nell’ottobre 1922 i riformisti furono espulsi dal Partito Socialista. Qual è l’estrema sintesi di tale documento? “Di questa triste ma istruttiva lezione degli avvenimenti d’Italia -prosegue il documento- devono trarre insegnamento gli operai coscienti di tutto il mondo.
1) Il riformista, ecco dove si annida il nemico.
2) Le esitazioni dei centristi costituiscono un pericolo mortale per un partito operaio.
3) La condizione più importante della vittoria del proletariato, è l’esistenza di un Partito Comunista cosciente e omogeneo.
Tali sono gli insegnamenti della tragedia italiana”.
E veniamo ora alle obbrobriose falsificazioni revisioniste di Gramsci. Paolo Spriano, storico del Pci (ma anche dirigente di quel partito) ha togliattianamente distinto il Gramsci pre-carcere (del quale non si poteva dire a cuor leggero che non fosse un rivoluzionario – a meno di non coprirsi di ridicolo) dal Gramsci prigioniero: “Ma è forse giusto prospettare un salto nell’elaborazione carceraria nella teoria della rivoluzione rispetto al periodo precedente” (prefazione a Scritti politici di Gramsci). Quindi il rivoluzionario sardo, che scriveva tesi leniniste sulla lotta armata e sulla necessità della dittatura del proletariato, dopo che è piombato nel buco nero del carcere fascista (in cui è stato torturato per 10 anni, fino alla morte) avrebbe fatto un “salto”, avrebbe cioè superato il leninismo e fondato una nuova teoria della rivoluzione. Su che cosa poggerebbe questa presunta “nuova” teoria della rivoluzione? Sulle casematte, sull’egemonia, sulla distinzione fra “società civile” e Stato, cose che abbiamo sentito ripetere miliardi di volte, e che hanno fatto di Gramsci il nume tutelare della via togliattiana al “socialismo”. Orrenda falsità. Gramsci ha scritto in carcere 33 quaderni per un totale di 2400 pagine a stampa. Ha scritto di tutto, sui più disparati argomenti e in questo mare magnum di annotazioni hanno pescato a piene mani i togliattiani forzandone l’interpretazione, talvolta falsificandole, ed hanno avuto buon gioco (data l’immensità di questi appunti) a costringere il pensiero del grande rivoluzionario sardo nei limiti angusti (e miserabili) di una “nuova teoria della rivoluzione” che non era la “teoria” di Gramsci, ma quella di Togliatti, teoria che non aveva nulla di nuovo, ma era la riproposizione in termini nuovi rispetto alla vecchia socialdemocrazia, del tradimento del marxismo e della rivoluzione. Prima o poi dovrà apparire una lettura marxista leninista dei Quaderni del Carcere per sbriciolare punto per punto tutti gli imbrogli che su quei Quaderni hanno intessuto Togliatti in primis e tutta la pletora di intellettuali che si sono messi al suo servizio. Una nuova rilettura dei Quaderni si impone non solo per ridare a Gramsci l’onore del grande marxista leninista italiano quale Egli è stato e che Togliatti gli ha tolto, ma anche permettere finalmente in luce i suoi apporti innovativi ed originali alla teoria marxista leninista della rivoluzione.
Nei Quaderni del carcere Gramsci parla spesso -non dando mai un carattere sistematico all’argomento- di guerra di movimento e guerra di posizione, del rapporto fra l’una e l’altra, di quali condizioni storiche concrete spingono un partito rivoluzionario ad adottare l’una tattica (guerra di movimento) rispetto all’altra (guerra di posizione). In una delle più significative note su tale argomento egli scrive: “Questa mi pare la questione di teoria politica la più importante posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle questioni sollevate da Bronstein, che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più “intervenzionista”, che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l’ “impossibilità” di disgregazione interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc., rafforzamento delle “posizioni” egemoniche del gruppo dominante ecc. Tutto ciò indica che siè entrati in una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la “guerra di posizione”, una volta vinta, è decisiva definitivamente” (QdC ediz. Einaudi pag 801-802.) Che cosa dice in questo passo Gramsci? Che nel “dopoguerra” cioè dopo la Rivoluzione d’Ottobre, i bolscevichi, invece di lanciarsi in un avventuristico attacco frontale propugnato da Trotski (Bronstein) hanno ancora più concentrato nelle loro mani il potere e sostenuto “l’offensiva contro gli oppositori”. Parla anche del “rafforzamento delle posizioni egemoniche” del “gruppo dominante” (cioè della maggioranza del partito bolscevico alla cui guida c’era Stalin), posizioni egemoniche che non escludevano neppure controlli politici e amministrativi (cioè allontanamenti o anche espulsioni dal Partito). Questa nota di Gramsci sbugiarda in modo clamoroso Giuseppe Vacca che ha scritto (nella retro copertina del 1° volume dei Quaderni del carcere) che Gramsci “fu l’iniziatore della critica più pregnante dello stalinismo”. È un’affermazione del tutto falsa perché Gramsci condivise la linea di Stalin proprio in quell’aspetto della sua azione politica che più di ogni altra è stata violentemente attaccata dalla borghesia, dalla socialdemocrazia e dai trotskisti: la lotta dura e intransigente contro l’opposizione interna che culminerà con i Processi di Mosca del ’36, ’37 e ’38. Da questa nota si evince anche che mettere in contrapposizione, come fanno i revisionisti, “dominio” ed “egemonia” (quasi che Gramsci preferisse porre l’accento piuttosto sull’una che sull’altro) è una mistificazione. Ogni dominio (sia pure il più violento e terroristico come fu quello fascista) presuppone un’egemonia, altrimenti non si spiegherebbero le “adunate oceaniche” e il prestigio di cui godette il “Duce” che stimolò nel cuore di una piccola borghesia frustrata dalla guerra il sempre risorgente orgoglio per le imprese colonialiste ed imperialiste. Gramsci può aver detto, nel corso della sua prigionia, che essendo le società occidentali meno “gelatinose” e quindi più complesse di quelle orientali sarebbe occorso, preferibilmente, attuare una tattica di “guerra di posizione "fatta di “casematte” da conquistare progressivamente piuttosto che un “assalto armato” al potere borghese (“guerra di movimento”). Accogliere quest’idea come un dogma indimostrabile è antistorico, è anti-marxista, è avallare un Gramsci gradualista, riformista, in ultima analisi un Gramsci togliattiano. E' comprensibilissimo che il grande rivoluzionario sardo in una condizione drammatica di crudele, totale isolamento dal mondo (quando le borghesie già affilavano i coltelli in preparazione della seconda guerra mondiale) sia potuto cadere preda del pessimismo. Il Gramsci che lottava contro il degrado fisico e morale imposto dai carnefici fascisti non era il Gramsci dell’Ordine Nuovo e del Congresso di Lione: chi volutamente non tiene conto delle condizioni assolutamente eccezionali in cui piombò dopo l’arresto non è un marxista. Resta tuttavia il fatto che la Storia ha dimostrato che si trattava di un pessimismo infondato, perché da lì a qualche anno si sarebbe sviluppata in Europa -cioè nel luogo geopolitico in cui la rivoluzione socialista era erroneamente ritenuta più “difficile” rispetto all’Oriente- un’insurrezione popolare come conseguenza inevitabile della catastrofe della seconda carneficina mondiale e che portò all’instaurazione del socialismo in mezza Europa. Lo stesso Gramsci, se avesse resistito qualche anno in più alle torture che gli inflisse il fascismo, e avesse vissuto lo sfacelo della guerra e la rivoluzione armata antifascista, difficilmente sarebbe rimasto legato alla sua idea di guerra di posizione.
Spriano dice che “tutto (tutto!!) il pensiero politico di Gramsci approda al principio dell’egemonia”. Ma che cos’è l’egemonia? Abbiamo letto che i volumi, i saggi e gli articoli su Gramsci costituiscono un insieme di diciannovemila documenti in 41 lingue che vanno a comporre la più vasta bibliografia dedicata ad un singolo autore! Ciò significa che Gramsci, “egemonicamente "parlando (ovviamente dal punto di vista dell’egemonia borghese), è stato accolto nell’empireo dei “classici” della letteratura mondiale al di là e al disopra della politica, ma in particolare al di là della politica rivoluzionaria. Bisognerebbe indagare sul perché di questa straordinaria fortuna postuma del Gramscismo al di sopra delle classi. I primi in assoluto che si sono cimentati in quest’operazione di trasfigurazione sono stati i revisionisti che dovevano dare nobili natali alla via italiana al socialismo. Secondo Vacca il pensiero di Gramsci “trascende l’orizzonte storico-politico del suo tempo, e quanto più passano gli anni e le sue opere si diffondono in contesti culturali lontani da quello in cui furono originariamente concepite, tanto più la sua ricerca si afferma come un‘crocevia’ delle maggiori ‘questioni’ del nostro tempo: i dilemmi della modernità, la soggettività dei popoli, le prospettive dell’industrialismo, la crisi dello Stato-nazione, il fondamento morale della politica”. Tutte chiacchiere controrivoluzionarie, dove, in questa fraudolenta descrizione del Gramsci vacchiano c’è di tutto, dai “dilemmi della modernità” (?) ai “fondamenti morali della politica” (?) alla "soggettività dei popoli” (?), nel “crocevia delle maggiori ‘questioni’ del nostro tempo "manca solo la rivoluzione. La vera verità è che l’egemonia è divenuta un’accademia, un “lemma” che ha finito col perdere qualsiasi significato (o acquistarne un’infinità – che è la stessa cosa), un terreno di scontro ideale in sostituzione del campo di battaglia della lotta armata. Sembrerebbe anzi che l’egemonia sia la moderna (rispetto alla socialdemocrazia) chiave di volta per soppiantare la rivoluzione e sostituirla con l’opera di “convinzione” degli intellettuali organici. Vista alla luce dell’attuale società borghese, che è la società della TV, queste idee revisioniste dell’egemonia sono completamente ridicole se paragonate, appunto, alla TV, cioè all’egemonia schiacciante, intossicante, “instupidente” e "addormentante” che esercita la TV sulla “società civile” con i suoi canali (a decine e a centinaia). E’ un’egemonia che grava come un macigno e intorpidisce i cervelli: i programmi di una TV borghese imperialista possono essere definiti veri e propri crimini culturali contro l’umanità, che hanno come sottofondo una furiosa propaganda contro il comunismo e contro la civiltà, che propagandano oscene falsità sulla giustezza delle aggressioni imperialiste a popoli indifesi e che penetrano in tutte le famiglie non risparmiano neanche i bambini. Non c’è più bisogno dei grandi intellettuali organici alla borghesia come Croce per diffondere valori antagonisti al marxismo: oggi basta un miserabile delinquente palazzinaro per mettere su reti televisive nazionali che esercitano egemonia mille volte più efficace e micidiale di un intellettuale organico. Aggiungeteci la stampa quotidiana, soporifera quando si tratta dimettere la sordina alle lotte sociali, guerrafondaia se deve avallare le menzogne del Grande fratello, dal Corriere della Sera a Repubblica via via fino all’Unità (che hanno ancora l’improntitudine di lasciare la scritta “giornale fondato da Antonio Gramsci”!). Per contrastare quest’egemonia borghese assolutamente preponderante, all’insegna di quali valori politici ideologici culturali si è contrapposta l’egemonia del partito comunista togliattiano? La genuflessione allo Stato, alla cosiddetta “repubblica nata dalla resistenza”, l’ossequio servile alle regole del gioco della democrazia senza aggettivi. Togliatti arrivò a dire che la Resistenza era il coronamento del Risorgimento, che la Resistenza aveva apportato una “correzione” al Risorgimento…ma soffermiamoci un attimo su una pagina di storia così importante per noi italiani. Il nostro Risorgimento è stato un processo (giunto a maturazione con secoli di ritardo rispetto ad altre nazioni europee) e quindi divenuto irresistibile, che ha portato finalmente all’unità d’Italia con la cacciata dell’impero austro-ungarico dal Lombardo-Veneto e la distruzione di Ducati e Granducati, l’abbattimento del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio. Era ora! Ma chi è stato, in ultima analisi, l’egemone in questa lotta? La monarchia Sabauda e il suo primo ministro Cavour. La possibilità di un esito democratico-repubblicano (Mazzini-Garibaldi) fu sconfitta. L’unità d’Italia fu un fatto politico importantissimo, ovviamente, ma che non ebbe in pratica nessuna conseguenza sul piano sociale ed economico per le larghe masse dei contadini (il grande latifondo non fu toccato) e le masse lavoratrici in generale. Quindi l’unità della nostra nazione, da un astratto punto di vista di “sinistra” si è fatta nel “peggiore” dei modi possibili. Dire dunque che la Resistenza ha rappresentato il coronamento o la “correzione” del Risorgimento è una truffa colossale. La verità sta da un’altra parte: la Resistenza non aveva come finalità quella di servire a perfezionare il dominio borghese, a imbellettarlo con il suffragio universale (che è una conquista borghese) e con la forma repubblicana dello Stato (che è anch’essa un’altra conquista borghese) ma doveva “proseguire”, se ci fosse stata una guida marxista leninista, “verso” il socialismo (come è avvenuto in altri paesi europei). E invece, dopo aver dissipato questa occasione storica irripetibile (200 mila uomini armati, lo Stato monarco-fascista in sfacelo, la presenza sulla scena mondiale di un’Urss trionfatrice sul nazismo e militarmente fortissima e temuta, un processo rivoluzionario in atto nell’Europa dell’Est, una grande guerra rivoluzionaria in Cina guidata da un Partito Comunista) i togliattiani hanno infangato la Resistenza attribuendole il “merito” di aver trasformato un’Italia proto-borghese monarchica, in un’Italia borghese repubblicana. L’egemonia o è proletaria o borghese, o alimenta l’odio, lo smascheramento e il disprezzo per lo Stato borghese, il parlamento borghese e la democrazia borghese oppure diffonde idee nefaste sullo Stato “di tutti” e sulla democrazia intesa (come disse Berlinguer) come “valore universale”. Abbiamo il diritto, dopo 57 anni dal fatidico 8° Congresso kruscioviano controrivoluzionario del Pci, di rigettare totalmente e integralmente quella politica e quella “teoria” che ha portato alla distruzione del comunismo nel nostro paese? Se, come diceva Gramsci, la filosofia della praxis è unità di filosofia e politica, è uguaglianza di pensiero e azione, non dobbiamo trarre dalla marcia realtà dell’attuale teatrino politico borghese l’incrollabile certezza che soltanto la lotta armata servirà ad abbattere questo Stato?
Di egemonia rivoluzionaria proletaria Lenin e Stalin non solo ne hanno scritto, ma l’hanno anche esercitata per davvero sia all’interno della decrepita Russia zarista sia dopo aver condotto alla vittoria una rivoluzione armata, sia nell’arena internazionale. Il primo a riconoscerlo è Gramsci: “Il più grande teorico moderno della filosofia della paxis (parla di Lenin), nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica… ha, in opposizione alle diverse tendenze “economicistiche”, rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza…” (Quaderni del carcere, ediz. Einaudi, pag. 1235). Secondo uno studioso cinese di Gramsci, il filosofo Tian Shigang “senza il leninismo e la rivoluzione d’Ottobre non ci sarebbe la teoria dell’egemonia di Gramsci”. Si può dire che il “Che fare? "scritto da Lenin (1902) è un monumento all’”egemonia”, nel senso che è il testo che più sistematicamente ed implacabilmente combatte e quindi smaschera ogni tipo di ristrettezza ed autolimitazione della lotta della classe operaia e del partito politico che la rappresenta. “Il proletariato, per essere veramente rivoluzionario, dice Lenin, deve saper mettere in pratica l’idea dell’egemonia” (Marx-Engels-Marxismo ,ediz. Rinascita, pag.245), deve cioè, in una “multiforme agitazione politica” saper fare proprie anche le rivendicazioni che provengono da tutti gli altri strati sociali oppressi,spiegando però il carattere ristretto ed inconseguente di tali rivendicazioni, che vanno sempre e comunque incasellate nella prospettiva della rivoluzione socialista. Addirittura, dice Lenin “il proletariato educa le masse popolari nello spirito di devozione all’idea della rivoluzione” (ibid. pag.252).Da notare: “spirito di devozione all’idea di rivoluzione”. Per tutta la sua vita Lenin si è battuto per l’idea dell’egemonia. “Ogni lotta di ogni piccola borghesia contro ogni sorta di privilegi porta sempre in sé le tracce della limitatezza, della mancanza di risolutezza piccolo-borghese, e la lotta contro queste caratteristiche è appunto compito dell’egemone” (LOC vol 17, pag 66). Notiamo di sfuggita che ci troviamo oggi in Italia di fronte ad un caso lampante di piccola-borghesia che intende lottare “contro ogni sorta di privilegi”. Essa trova espressione nel movimento di Grillo. Coloro che usurpano ancora il nome ed i simboli del comunismo, che avrebbero dovuto esercitare egemonia denunciando la limitatezza e mancanza di risolutezza di questa lotta, si sono invece fatti essi stessi egemonizzare da un giudice borghese cento volte più moderato di Grillo! C’era un capo del riformismo russo (siamo nel 1911), un certo Levitski che dichiarò che la socialdemocrazia russa doveva essere “non un’egemonia ma un partito di classe”. “Questo significa, commentò Lenin, dire allo schiavo della sua epoca, all’operaio salariato, lotta per migliorare la tua situazione di schiavo, ma considera come utopia nociva l’idea dell’abbattimento della schiavitù” (LOC vol. 17 pag. 67).). Dunque l’egemonia del proletariato (attraverso il suo partito marxista) consiste nell’educare le masse oppresse e sfruttate all’idea “dell’abbattimento della schiavitù”. “Il nostro partito -scrisse Lenin nelle Tesi d’Aprile- è in minoranza, e costituisce per ora un’esigua minoranza”. Dunque da esigua minoranza della nazione russa, nel corso di soli 8 mesi, i bolscevichi diventarono maggioranza nei due principali Soviet, quelli di Pietroburgo e di Mosca (e i soviet erano organi di potere, anzi di contro potere, organi di dualismo di potere che alla fine scalzarono l’altro potere che era il governo Kerenski). Se non fossero stati egemoni, ci chiediamo, come sarebbe stato possibile il “miracolo” di instradare la sterminata popolazione russa (la gran parte della quale era contadina) sulla linea rivoluzionaria bolscevica-leninista? L’egemonia del proletariato è una linea rivoluzionaria aderente alla situazione storica data, è un complesso di idee che vanno incontro alle necessità impellenti delle masse oppresse: “Il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici gli errori della loro tattica” (Lenin, Tesi d’Aprile). E fu una lotta al coltello contro tutte le mistificazioni, gli inganni e le falsificazioni del potere reazionario, il quale ultimo fece ripiombare la Russia democratica rivoluzionaria nel clima reazionario zarista poiché si mise sulla via di distruggere le tipografie bolsceviche e di dare la caccia a Lenin per fargli fare la fine che i Kerenski tedeschi riserveranno a Rosa Luxemburg e a Karl Liebcnecht.
Nel corso di un'intervista concessa ad una delegazione di operai statunitensi Stalin si diffuse sul problema dell’egemonia. Egli disse: “Pur essendo stato la forza d’urto della rivoluzione, il proletariato russo ha cercato nello stesso tempo di essere l’egemone, il dirigente politico di tutte le masse sfruttate della città e della campagna, stringendole attorno a sé, strappandole alla borghesia, isolando politicamente la borghesia. Egemone delle masse sfruttate, il proletariato russo ha lottato per prendere il potere nelle proprie mani e servirsene per il proprio interesse contro la borghesia, contro il capitalismo. Proprio questo spiega perché ogni grande scoppio della rivoluzione in Russia sia nell’ottobre 1905 che nel febbraio 1917, abbia portato sulla scena i Soviet dei deputati operai, come embrioni del nuovo apparato del potere avente la funzione di schiacciare la borghesia, in opposizione al parlamento borghese, vecchio apparato del potere avente la funzione di schiacciare il proletariato. Due volte da noi, la borghesia ha tentato di restaurare il parlamento borghese e metter fine ai Soviet: nel settembre del 1917 al tempo del preparamento, prima della presa del potere da parte dei bolscevichi, e nel gennaio 1918 al tempo dell’Assemblea costituente, dopo la presa del potere da parte del proletariato, ed entrambe le volte è stata sconfitta. Perché? Perché la borghesia era già politicamente isolata, perché le larghe masse dei lavoratori guardavano al proletariato come l’unico capo della rivoluzione, perché i Soviet erano già stati provati esperimentati dalle masse come il loro proprio potere operaio, e perché cambiare questo potere con un parlamento borghese sarebbe stato un suicidio. Non c’è quindi da meravigliarsi se il parlamentarismo borghese non ha attecchito da noi. Ecco perché la rivoluzione ha portato in Russia al potere del proletariato. Questi sono risultati dell’applicazione del sistema leninista dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione” (Stalin, Opere complete, ediz. Rinascita, vol. 10°, pagg. 109-110)
Gramsci è stato un teorico profondo ed originale dell’egemonia ed ha quindi dato un contributo autentico alla teoria marxista, ma elevarlo a livello di Lenin è anch’essa una mistificazione. Togliatti affermò di considerare l’egemonia gramsciana una “riformulazione del leninismo. Spriano, come abbiamo visto, scrisse che Gramsci ha inventato una nuova teoria della rivoluzione. Losurdo, il quale evidentemente si considera uno dei più grandi marxisti viventi, va oltre Spriano e con minore cautela rispetto ai vecchi volponi revisionisti scrive: “Lenin a lungo vede nella rivoluzione d’Ottobre solo il preludio della rivoluzione in Occidente, considerata ormai imminente. Certo, il dirigente bolscevico si rende poi conto dell’erroneità di tale previsione e della necessità di concentrarsi in Unione Sovietica sulla costruzione del socialismo, o, comunque, di un ordinamento politico-sociale post-capitalistico. Ma la morte interviene a troncare un tale processo di ripensamento: il punto d’approdo del dirigente bolscevico costituisce invece il punto di partenza della riflessione dei Quaderni del Carcere”. Questa analisi di Losurdo, a parte il tono di supponenza che la permea, è completamente falsa. Che Lenin vedesse nella rivoluzione d’Ottobre il preludio della rivoluzione non solo europea, ma anche mondiale, era assolutamente giusto. Forse che gli orrori della prima guerra imperialista e la conseguente vittoria dell’Ottobre non provocarono un fermento rivoluzionario che si estese a tutta l’Europa e che portò il proletariato tedesco ed italiano sull’orlo della presa del potere? Non si costituì in Ungheria, sempre sull’onda dell’Ottobre, la Repubblica dei Soviet? E una possibilissima vittoria in Italia o in Germania della rivoluzione proletaria non avrebbe dato un ulteriore formidabile impulso a tutta l’Europa proletaria antiborghese? Le rivoluzioni sono rivoluzioni, o trionfano o sono schiacciate dalla reazione, e di fronte al fermento rivoluzionario che si accese in Europa, che cosa avrebbe dovuto fare la III internazionale voluta da Lenin se non rianimarlo, propagandarlo, dare una cassa di risonanza a questo fermento, spingerlo verso la vittoria? Soltanto la pedanteria può portare trinciare giudizi sulla “erroneità” delle previsioni di Lenin. E poi che significa: Lenin (dopo il presunto errore di previsione) si “concentrò” sulla costruzione del socialismo o “di un ordinamento politico sociale post-capitalistico”? Losurdo ci da questa rappresentazione: Lenin prevede lo scoppio di altre rivoluzioni e se ne sta fermo, incrociando le dita nell’attesa che queste rivoluzioni (o almeno una di esse) giungano alla vittoria. Ma poi si rende conto che ha sbagliato previsione e si “concentra” sull’edificazione di un qualcosa che potrebbe lontanamente assomigliare al socialismo ma che socialismo non è, un “ordinamento sociale post-capitalistico”. Questa categoria inventata dal Losurdo è totalmente antimarxista, è una categoria che sta solo nel suo cervello. I bolscevichi hanno fatto una rivoluzione, distrutto lo Stato zarista, espropriato i capitalisti, nazionalizzato la terra, attuato per la prima volta nella storia dell’umanità un’economia centralizzata secondo le necessità della gente attraverso Piani Quinquennali e alla fine, a coronamento di tutte queste belle cose hanno sgominato militarmente il nazismo e ricostruito l’Urss ancora più potente di prima…e Losurdo, che ha evidentemente gusti molto sofisticati chiama tutto ciò, “ordinamento post-capitalistico”. Quindi le rivoluzioni si fanno non per instaurare il "socialismo” ma il “post-capitalismo”, categoria spuria, né socialismo né capitalismo, scoperta per la prima volta da Losurdo. E poi vorremmo chiedergli: quale è stato il “processo di ripensamento” di Lenin? Su che cosa ha “ripensato"? Dove lo ha detto? dove lo ha scritto? C’è, nell’analisi di Losurdo qualcosa di sbalorditivo: la morte di Lenin (1924) interrompe il suo “ripensamento”, e toccherà a Gramsci, dopo alcuni anni, completare il presunto “ripensamento” di Lenin. E nel frattempo? Che cosa avrà mai fatto Stalin dopo la morte di Lenin? Non avrà mai avuto “ripensamenti” sul fatto che la società socialista (integrale) che stava costruendo, altro non era in effetti (per colpa delle rivoluzioni in Occidente non giunte alla vittoria) che un “ordinamento post-capitalistico”? Era troppo rozzo Stalin per avere simili ripensamenti? Domanda: Ma non le abbiamo già sentite in passato (meglio non fare nomi) ricostruzioni “storiche” simili a queste?
Per Spriano -ripetiamolo ancora un’altra volta Gramsci ha prospettato una nuova teoria della rivoluzione, per Losurdo invece Gramsci è il teorico dei tempi lunghi della rivoluzione, a dispetto del fatto che sia nel primo che nel secondo dopoguerra il proletariato italiano sia stato molto vicino alla presa del potere. Ma davvero Gramsci è da ritenere l’autore di una “nuova” teoria della rivoluzione fondata, antileninisticamente parlando, sui “tempi lunghi”? No, Gramsci, molto più semplicemente, è stato un grande leninista, che ha il merito storico imperituro di aver spaccato il Psi e fatto nascere anche nell’Italia rivoluzionaria di allora un partito marxista leninista sezione italiana della Terza Internazionale. Quando all’interno del partito bolscevico gli oppositori, all’indomani della morte di Lenin, decuplicarono le loro energie scissioniste per impossessarsi del potere, Gramsci fu sempre dalla parte della maggioranza bolscevica che difese il leninismo e sgominò l’opposizione. Innalzare Gramsci al livello di Lenin apparentemente potrebbe sembrare una cosa lusinghiera per il grande rivoluzionario sardo. Ma egli stesso non avrebbe gradito tale accostamento. Sono i grandi sconvolgimenti nell’arena internazionale, sono le grandi rivoluzioni portate alla vittoria, sono i processi di costruzione del socialismo che si realizzano per la prima volta nella storia che producono i grandi teorici del comunismo. Altrimenti cadremmo vittime della miserabile teoria borghese del genio al di sopra della storia. E chi intende elevare Gramsci allivello di Lenin lo fa per dare maggiore autorità alla propria visione opportunista della rivoluzione attribuendola Gramsci. I marxisti leninisti hanno il sacro dovere di tenere Antonio Gramsci al riparo da simili operazioni ciniche e immorali e di smascherarle e denunciarle instancabilmente.

Edited by Sojuz Koba 1961 - 28/2/2020, 15:57
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