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Sul normativismo

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view post Posted on 25/8/2014, 17:58

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Da AA.VV., Marxismo e teorie del diritto, Il Mulino, 1980, pp. 264-268:


SUL NORMATIVISMO

Da S.A. Golunskij e M.S. Strogovič, The Theory of the State and Law, in Soviet Legal Philosophy, a cura di J.B. Hazard, cit., pp. 419-424.


La teoria borghese del diritto più largamente diffusa è la teoria normativa. Si può dire che essa è dominante nella scienza giuridica borghese. Tutte le opere dei giuristi borghesi — vecchi e nuovi — ne sono influenzate in grado maggiore o minore; in particolare, varie correnti della scuola giusnaturalistica (già discussa sopra) convergono nella teoria normativa del diritto. Si tratta specialmente dell’insegnamento di Kant, che costituisce (la cosa è pacifica) la fondazione filosofica della scuola normativa.
L’essenza della teoria normativa del diritto è la proposizione che il diritto appartiene alla sfera del «dover essere», e non alla sfera dell’«essere». L’«essere» designa l’intero campo dei fenomeni sociali e naturali, tutta la vita reale. Mentre «dover essere» significa ciò cui si deve tendere, senza riguardo alla possibilità di effettuarlo e realizzarlo nella vita. Questa proposizione fondamentale della teoria normativa riposa sulla filosofia di Kant: sia su Kant stesso, sia sulle opere dei suoi seguaci, che sono comparsi nei paesi borghesi fino ai tempi più recenti (i neokantiani includono Windelband, Rickert e Cohen).
A partire dalla proposizione fondamentale kantiana, la teoria normativa classica del sec. XIX ritenne che il diritto fosse riferibile alla sfera della deontologia, e che il diritto fosse un determinato ordinamento di ciò che deve essere: un ordinamento della condotta, da cui derivano agli esseri umani doveri inderogabili. La condotta, a cui sono obbligati gli esseri umani, non deriva dai rapporti sociali o dagli interessi sociali o dai bisogni sociali. Alcuni esponenti della teoria normativa si sono attestati sulle tesi della scuola giusnaturalistica, e hanno inferito il diritto dalla morale, insistendo che l’obbligo derivante da norme giuridiche è fondato sui comandi morali, i quali giacciono a fondamento del diritto. […]
Il più importante rappresentante della teoria normativa al giorno d’oggi — il giurista tedesco Kelsen — ha rifiutato di derivare il diritto dalla morale, ed ha affermato che la base dell’obbligo giuridico — il carattere normativo del diritto — non solo non sta nelle esigenze della vita reale, ma neppure nei principi morali.
Il diritto è l’ordinamento obbligatorio della condotta, e Kelsen insiste che la fonte della condotta dovuta è nel diritto stesso, e non nella morale. Una norma giuridica obbliga perché è una norma giuridica. La forza del diritto è nel diritto stesso. Kelsen attacca duramente la teoria del diritto naturale, affermando che non esiste altro diritto di sorta se non quello che «riposa sull’autorità dello Stato, e la forza obbligatoria delle norme giuridiche va riferita allo Stato, non alla morale». Potrebbe sembrare che Kelsen non sia lontano da una corretta comprensione dell’essenza del diritto, quando lega insieme diritto e Stato e sostiene che la forza delle norme giuridiche ha origine nello Stato. Ma le cose non stanno davvero così: il punto è che Kelsen concepisce lo Stato come la personificazione dell’ordine giuridico e l’espressione della unità di tutte le norme giuridiche, invece che come un’organizzazione di governo e di dominio. Cosicché egli arriva al punto di trattare il diritto e lo Stato come sostanzialmente identici.
In ultima analisi, il diritto si autodefinisce: l’affermazione kelseniana che «il diritto deriva solo dal diritto» sintetizza il contenuto e il metodo di questa corrente della teoria giuridica borghese. La teoria normativa del diritto — assumendo siffatto carattere, estremamente astratto e formale — perde al tempo stesso, in Kelsen, il carattere individualista che in precedenza possedeva. Secondo lui, i diritti, di cui godono gli esseri umani, i diritti soggettivi, non hanno alcun significato indipendente: basilari e primordiali sono solo le norme giuridiche, le quali rappresentano, nella loro totalità, il potere sovrano1.
Questa teoria è sintomatica del brusco declino del pensiero giuridico borghese, del suo ricorso ad astrazioni e concetti generali, ben lontani dai concreti rapporti sociali, dai conflitti politici e dalla lotta di classe. Questa corrente dei giuristi borghesi rivela il profondo pessimismo e l’abbattimento, che hanno rimpiazzato il carattere militante e aggressivo della teoria giuridica borghese, così chiaramente espresso da Jhering. Quando Jhering scriveva (in pieno secolo XIX), la borghesia aveva ancora fiducia nelle proprie capacità di difendere i propri interessi di classe con mezzi giuridici, e il diritto era considerato uno strumento dell’offensiva capitalistica. Durante la crisi universale del capitalismo, la borghesia si appoggia assai più pesantemente sulla violenza diretta — sulla forza della baionetta e della frusta — che non sulla forza delle norme giuridiche. «Le norme giuridiche possono solo riflettere il dover essere»; l’«essere» sarà riflesso nelle azioni arbitrarie della polizia e dei militaristi. Ciò mostra indiscutibilmente il deterioramento del ruolo giocato dal diritto e dai metodi giuridici, caratteristico dell’epoca dell’imperialismo con la sua sovversione della legalità borghese.
[…] C’è stato un tempo in cui trovò espressione nel pensiero giuridico sovietico l’opinione che il vizio della teoria normativa stesse nel definire il diritto come un insieme di norme, ossia di regole di condotta. Sabotatori trotskisti-buchariniani, infiltrati nei ranghi del proletariato nel campo della scienza del diritto sovietico, utilizzarono questa opinione al fine di negare l’importanza della norma giuridica. Essi definirono il diritto come un «sistema di rapporti sociali», una «forma della politica», ecc., asserendo che ciò differenzia la teoria del diritto marxista-leninista da quella borghese (la quale ultima definisce il diritto come un insieme di norme, ossia di regole di condotta). Ciò condusse a negare l’importanza della legislazione sovietica del diritto socialista.
Questo modo di vedere è radicalmente infondato ed estremamente dannoso. Il diritto è un insieme di norme — ossia di regole di condotta —, tra le quali la legislazione occupa il posto principale. Il vizio della teoria normativa borghese non è nel definire il diritto come un insieme di norme, ma è nel distorcere il vero concetto di norma, nell’isolarlo dalla vita reale, e nel dargli un carattere idealistico. La teoria borghese contrappone il mondo delle norme — il dover essere, che si suppone non soggetto alla legge di causalità — al mondo fisico dominato da questa legge. In tal modo, la teoria borghese evita la domanda: perché esistono nel diritto borghese norme che proteggono la proprietà privata? Essa insiste semplicemente a dire che gli esseri umani devono osservare queste norme in conseguenza della forza che eternamente inerisce ad esse.
La teoria marxista-leninista del diritto considera una norma — cioè una regola obbligatoria della condotta umana — come una manifestazione della vita sociale degli uomini: come un fenomeno del mondo reale, subordinato (come tutti gli altri fenomeni) alla legge di causalità. Diversamente dalla teoria normativa borghese, la teoria marxista-leninista spiega perché ha inizio la creazione di norme giuridiche, perché queste norme hanno un contenuto piuttosto che un altro. Essa considera le norme giuridiche come strumenti della lotta di classe nelle mani della classe dominante, come mezzi per costringere il popolo a realizzare la volontà di tale classe. Spiega, per esempio, che l’apparire nel diritto borghese di norme a protezione della proprietà privata è dovuto al fatto che i capitalisti costituiscono, nella società borghese, la classe dominante, la quale ha a sua disposizione l’autorità dello Stato, e quelle norme servono ad essa per assicurare nelle sue mani le ricchezze di cui si è impadronita. Perciò i capitalisti stabiliscono anche appropriate misure, che obbligano non per qualche loro intima forza misteriosa, ma perché dietro di loro sta la reale autorità dello Stato: con la sua polizia, i suoi giudici, le sue truppe, le sue prigioni, ecc.
Nelle mani della classe operaia, le norme del diritto socialista — le leggi sovietiche prima di tutto — sono mezzi potenti per la costruzione del socialismo e del comunismo. La classe operaia, difendendo gli interessi di tutti i lavoratori, non ha alcun bisogno di nascondere il carattere di classe delle sue norme, né di nascondere quale forza le stabilisce e le mantiene e quali interessi ne sono difesi […].

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1 Kelsen tuttavia non nega la possibilità dello studio sociologico del diritto, del suo emergere e svilupparsi, ma ritiene che esso sia estraneo alla scienza giuridica. La storiografia o la sociologia — ma non la scienza giuridica — possono dedicarsi a questo studio. La scienza giuridica può studiare il diritto solo come un sistema di comandi astratti dotati di forza per se stessi [N.d.A.].

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 22:42
 
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