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Sopra alcune dottrine costituzionalistiche borghesi, A.Ja. Vyšinskij

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view post Posted on 20/8/2014, 17:55

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Da AA.VV., Marxismo e teorie del diritto, Il Mulino, 1980, pp. 240-254:


SOPRA ALCUNE DOTTRINE COSTITUZIONALISTICHE BORGHESI

Da A.J. Vyšinskij, The Law of the Soviet State, New York, Macmillan, 1961, pp. 16-27. Traduzione italiana di R. Guastini.


[…] Le contraddizioni che distorcono la scienza borghese del diritto pubblico attestano la straordinaria debolezza delle proposizioni scientifiche da cui essa prende avvio, la fallibilità delle fonti fondamentali e delle basi reali della metodologia scientifica di queste scuole. Seguiamo tutto ciò nelle idee di singoli esponenti della scienza giuridica borghese. Georg Jellinek (1851-1911) è stato uno dei più eminenti fra questi nel sec. XIX. A partire dai suoi principi metodologici, egli deduce la vera base dello Stato, e la conoscenza delle sue finalità, dal benessere generale. Definisce lo Stato come l’espressione della unità interna della nazione. Parla dello Stato come governato dalla volontà generale.
Abbiamo convenuto che i compiti dello Stato sono: preservare se stesso, assicurare la sicurezza e lo sviluppo della sua potenza, organizzare e proteggere il diritto, soddisfare gli interessi culturali. L’idea guida in questa definizione di scopi è la consapevolezza che l’organizzazione pianificata della salvaguardia degli interessi solidali nazionali (nella misura in cui richiedono una direzione centrale e possono essere soddisfatti da mezzi esteriori) può trovare origine solo nel più potente dei fattori sociali, ossia lo Stato1.
Il compito dello Stato, dunque, secondo Jellinek, è di essere «guardiano degli interessi solidali nazionali». (Dicendo «interessi solidali nazionali», egli intende gli interessi individuali e nazionali dell’umanità in generale). Così egli conclude che lo Stato è
l’unione dominante del popolo, dotata di personalità giuridica, che soddisfa (per mezzo di un’attività pianificata e centralizzata) gli interessi individuali, nazionali e solidali dell’umanità in generale, nella direzione dello sviluppo progressivo della società.
Questa definizione dello Stato non può resistere alla critica. Naturalmente, lo Stato borghese, di cui Jellinek parla, garantisce certi interessi. Ma dove è la prova che si tratta di interessi «solidali» e «nazionali»? Che lo Stato e la sua attività esistono specificamente in vista del soddisfacimento di questi interessi? Questa proposizione non solo non è sorretta, ma è categoricamente respinta dalla storia: non è logicamente provata. Tale asserzione è un’astrazione ed una finzione, che contraddice i fatti della storia. La definizione dello Stato di Jellinek è estremamente gratificante per la borghesia, che ha interesse a passar sopra all’antagonismo di classe e a propagandare l’opinione che il moderno Stato borghese sia il mezzo per soddisfare interessi e bisogni nazionali: un’istituzione che protegge i diritti del popolo, e garantisce al popolo lo sviluppo intellettuale e la soddisfazione di interessi materiali e culturali.
Jellinek riveste lo Stato di forma giuridica, così da dare ad esso un massimo di autorità agli occhi delle masse. A suo avviso, lo Stato moderno è un Rechtsstaat, uno Stato subordinato e limitato dalle leggi che esso stesso ha emanato. Nel definire le interrelazioni fra diritto e Stato, egli muove dall’idea che il diritto sia un fenomeno psicologico, esistente soltanto nella nostra mente, e si riferisce ad esso come ad una certa parte del contenuto della nostra coscienza. Il suo ragionamento, poi, prosegue così: il diritto rappresenta la totalità delle regole della condotta umana, distinte dalle regole della morale, dagli imperativi religiosi, etici, e così via, per il fatto che lo scopo del diritto è difendere e preservare l’interesse degli uomini. Le norme giuridiche sono queste emanazioni di un’autorità esterna riconosciuta, e la loro obbligatorietà è garantita dai mezzi esteriori che sono a disposizione dello Stato. Secondo lui, l’intero ordine giuridico è costruito sulla convinzione («la tipica convinzione media del popolo») che noi siamo tenuti all’osservanza di queste norme. Tale convinzione del popolo è da lui rappresentata come una forza, non formatasi sotto la pressione di misure altamente coercitive, ma influenzata da un altro tipo di motivazione che esclude la costrizione. Il tratto essenziale dell’idea di diritto, così, non è la costrizione ma la garanzia (una delle cui manifestazioni è la costrizione). Le norme non sono tanto coattive, quanto garantite. Questo rappresentare il «diritto» come «garanzia» serve assai bene a suggerire l’idea che la subordinazione del popolo ai suoi oppressori sia volontaria, che la morale interiore approvi questo diritto, che il popolo giustifichi moralmente la violenza che gli è inflitta con l’aiuto dello Stato e sotto lo schermo del diritto.
Passando al problema del diritto e dello Stato, e cercando di rispondere alla domanda se sia o non sia lo Stato subordinato all’ordine giuridico, Jellinek comincia con la finzione della «volontà generale», e non fa alcuna distinzione fra la volontà di coloro che dominano e quella di coloro che sono dominati.
La volontà dello Stato è la volontà umana. Così la questione si riduce a stabilire la presenza di norme dipendenti dalla volontà umana che rappresenta lo Stato. L’esistenza di tali norme si deve considerare dimostrata non appena il loro esserci ed operare è confermato sia da coloro che detengono il potere sia da coloro che vi sono soggetti.
Fondamentalmente la teoria di Jellinek è semplicemente un’eccentrica modernizzazione dell’antica teoria del cosiddetto diritto naturale, benché egli dichiari il suo dissenso dalle teorie giusnaturalistiche. Al principio secondo cui lo Stato non è soggetto alla legge, egli obbietta:
Da questa teoria consegue che ciò che è diritto per il soggetto (sia esso una persona o un organo dello Stato) non è diritto per lo Stato stesso. In altre parole, se noi guardiamo dalle vette dello Stato alla pianura del diritto, troviamo solo uno spazio vuoto.
Egli assume che lo Stato sia soggetto al diritto. L’attività dello Stato è regolata da norme giuridiche stabili, superiori agli organi statuali e allo Stato stesso. Che anche lo Stato sia soggetto alle norme giuridiche è «una condizione per lo sviluppo civile illimitato, nella misura in cui ciò soltanto crea quella fiducia sociale senza la quale i rapporti reciproci tra gli uomini sarebbero possibili solo nelle forme più elementari e rudimentali». Il diritto sovrasta la volontà dello Stato. Lo Stato crea tutto il diritto, ma trova nel diritto la sua autolimitazione, una autolimitazione comunque volontaria, e non tale da pregiudicare il suo potere, la sua sovranità.
Nell’atto di creare il diritto — comunque questo diritto sia nato — lo Stato si assume l’obbligo, di fronte ai suoi sudditi, di applicare e rendere efficace tale diritto.
È già stato osservato nella letteratura giuridica che questa teoria della autolimitazione dello Stato è chiaramente artificiale e priva di significato scientifico. Essa prende le mosse non da fatti reali, ma da assunzioni non confermate dalla pratica. Naturalmente, è anche vero che lo Stato, o piuttosto gli organi, i funzionari, le istituzioni dello Stato sono tenuti al rispetto del diritto (e delle leggi, in quanto forme di espressione del diritto). È impossibile concepire lo Stato come una organizzazione determinata dell’ordine sociale, dei rapporti sociali, senza riconoscere il carattere obbligatorio generale delle leggi da esso emanate. Dire che le leggi sono superiori agli organi dello Stato non è espressione dell’«autolimitazione» di alcuna volontà. È una espressione di questa volontà medesima. Il nocciolo della questione, in ogni modo, non sta in ciò, ma sta nella vera essenza della volontà dello Stato. Secondo Jellinek, l’essenza — il contenuto — di questa volontà è costituita dagli interessi «solidali» del «popolo». Ma le cose non stanno così. Nei confronti dei suoi sudditi lo Stato non è limitato in alcuna maniera. Esso non è obbligato, ma piuttosto obbliga i suoi sudditi. Le leggi dello Stato sono la forma in cui la classe dominante, in una società data, obbliga tutte le altre classi a una condotta definita, precisamente alla condotta gradita e vantaggiosa alla classe dominante stessa.
Come esponenti della moderna scienza borghese del diritto pubblico possiamo menzionare Hauriou e Duguit. Hauriou parte dalla proposizione che lo Stato è possibile solo dove la nazione è divenuta una società civile, ossia dove il potere politico si è separato dalla proprietà privata ed ha acquisito le caratteristiche di un potere pubblico. Di conseguenza, egli afferma che lo Stato feudale non è uno Stato nel vero senso della parola; solo il moderno Stato borghese, che si suppone rappresenti l’intera nazione, è uno Stato in senso proprio. «Lo Stato è la personificazione giuridica di una data nazione, conseguente alla centralizzazione politica, economica e giuridica degli elementi della nazione al fine di realizzare la convivenza civile»2. Secondo questa teoria, lo Stato si forma allo scopo di rendere effettiva e reale la convivenza civile e la società civile. L’ordine civile, o regime di «libertà civile», è «un regime di libertà ed eguaglianza, stabilito da un organismo politico [lo Stato] affinché l’automatismo della società economica sia capace di funzionare entro lo Stato». Che cos’è questo «automatismo» della società economica? Apparentemente, si tratta del famoso laissez faire, laissez passer: «chiunque abbia a cuore i suoi propri affari, ha a cuore, magari inavvertitamente, gli affari della società».
Il modo in cui Hauriou espone la questione rivela che egli è un reazionario borghese, che si sforza di dimostrare come la più alta manifestazione della vita civile si esprima nella «classe media», in quanto distinta dai «ricchi» e dai «poveri». Nello spirito del sentimentalismo malato, di mente ristretta, proprio della piccola borghesia, Hauriou delinea la seducente prospettiva di risolvere la «questione sociale» invocando la «proprietà comune» degli imprenditori e degli operai, e preservando al tempo stesso la «borghesia aperta». Entro la «borghesia aperta» si riverserà il meglio della classe operaia (nella misura in cui perverrà alla proprietà capitalistica della terra, del denaro, o dell’impresa), ma sempre sarà ristabilita una classe di gente che lavora sodo nel vero senso della parola. La straordinaria banalità di queste elucubrazioni sull’essenza dello Stato e le sue prospettive di sviluppo sono adeguatamente illustrate da questa tirata:
Lo Stato romano divenne uno Stato di patrizi e plebei, ed è certo possibile che lo Stato borghese, dopo un tempo indeterminato — dopo rivoluzioni, discussioni, accordi — divenga uno Stato borghese-operaio. Se permetteremo all’ordine civile (lo Stato borghese) di portare a termine il suo lavoro, … esso procurerà (a prezzi estremamente bassi) tutti gli oggetti necessari alla vita, e fornirà effettivamente ogni individuo normale di un minimo di proprietà — sia pure solo sotto forma di posizione ufficiale —, la quale farà di lui — praticamente, e non semplicemente nella teoria — un uomo libero.
Si è detto abbastanza per dimostrare a quale risultato pietoso giungono anche i più eminenti esponenti della scienza borghese, quando si propongono di difendere ad ogni costo lo Stato borghese e di giustificarne il carattere parassitario e sfruttatore. Lo stesso può dirsi di Duguit (1859-1928), che, al tempo suo, influenzò notoriamente anche un certo numero di giuristi sovietici, i quali dipinsero la sua teoria come una teoria socialista del diritto e cercarono di conciliarla col marxismo. Duguit critica la concezione giuridica dello Stato, opponendosi categoricamente alla teoria (di Jhering, Ladand e Jellinek) dello Stato come unica fonte di diritto. Egli cerca una spiegazione del diritto, tale che non ponga lo Stato al di sopra del diritto e nemmeno rappresenti il diritto come dipendente o derivato dallo Stato.
La ragione umana sente un forte bisogno di definire la base del diritto — inteso come norma sociale — in modo tale che questa norma valga non solo per gli individui, ma anche per lo Stato, comunque lo Stato sia inteso, e nonostante il fatto che per noi lo Stato moderno sia soprattutto il creatore delle norme (sanzionandone inoltre l’obbedienza per mezzo della forza materiale a sua disposizione)3.
Egli ritiene che questo concetto di diritto risolva anche il problema dello Stato: il fine dello Stato è rendere efficace il diritto.
Lo Stato si fonda sulla forza, ma questa forza è legale solo quando è impiegata in conformità al diritto. Noi non diciamo (al contrario di Jhering) che il diritto è la politica della forza. Noi affermiamo che il potere politico è forza conferita per servire il diritto.
Duguit considera il principio della «solidarietà sociale» come base dello Stato e del diritto, e afferma che il popolo è unito dai legami di una solidarietà sociale che abbraccia tutti i membri della razza umana ed è la fonte del diritto stesso. Egli vede la base della forma giuridica negli obblighi sociali che competono ad ogni uomo, in ragione del suo ruolo sociale. La libertà è il diritto dell’uomo, ma è un diritto che l’uomo può realizzare soltanto nella misura in cui dedica la sua attività alla realizzazione della solidarietà sociale. La vera legge della proprietà è giustificata dalla «missione sociale» che si suppone spettante al proprietario. Un atto giuridico è una manifestazione di volontà che si conforma allo scopo della solidarietà sociale.
Duguit respinge l’idea che lo Stato sia una persona, e guarda ad esso dal punto di vista della detenzione di fatto del potere, definendolo, nel suo senso più generale, come «ogni sorta di umana società, nella quale vi sia differenziazione politica fra governanti e governati, ossia, in una parola, potere politico». Egli insiste particolarmente sul fatto che la parola «Stato» serve a designare specificamente quelle società in cui la differenziazione politica ha raggiunto un certo grado di sviluppo, e in cui perciò il potere politico presenta modalità caratteristiche e definite. Egli riconosce che il potere politico è un fatto — un fatto completamente indipendente dalla legalità — e che tale fatto è un prodotto dell’evoluzione sociale. Espressamente evita di offrire una giustificazione filosofica del potere politico, o di studiare tutti i rapporti dell’evoluzione sociale in questa direzione. Si limita al compito di mostrare semplicemente la fase principale e di definire i fattori più attivi nella formazione della società. Egli definisce il più importante di questi fattori in modo singolarmente assurdo. Alcuni individui, più potenti di altri, impongono la loro volontà a questi. Questo potere politico, essendo un potere di fatto, non richiede alcuna giustificazione giuridica. Dal momento in cui appare nella società il concetto di diritto, emerge l’idea che gli ordini di questo potere siano legittimi solo entro i limiti in cui si accordano col diritto; e che l’impiego — da parte di questo potere politico — della forza materiale sia analogamente legittimo solo entro i limiti in cui ha lo scopo di garantire l’efficacia del diritto. Così Duguit risolve la questione del fine dello Stato, ovvero del potere politico. Tale fine è la realizzazione del diritto. Tutti gli Stati fanno ciò che fanno per garantire il diritto. Gli atti dello Stato devono essi stessi essere classificati in base all’azione che esercitano nel mondo del diritto: come espressioni della funzione legislativa, o giudiziaria, o amministrativa dello Stato. Al tempo stesso, Duguit concepisce anche lo Stato come detentore del potere pubblico nel senso di un diritto soggettivo — il diritto ad emanare ordini e ad imporne l’obbedienza con la forza — e lo concepisce come Rechtsstaat in quanto sottoposto al diritto fondato su un regime di legalità. Lo Stato è sottoposto alla legge, il suo potere legislativo è sottoposto al diritto oggettivo, che sta su di un gradino superiore allo Stato, lo precede, o, più precisamente, lo rappresenta. La spiegazione del perché lo Stato sia sottoposto al diritto è fondata non sui diritti naturali degli individui, né sull’autolimitazione dello Stato (Jellinek), ma sull’idea della solidarietà sociale, che si suppone essere l’unico fondamento ed il solo contenuto del diritto e della legislazione.
Non è difficile mostrare che questa teoria è indifendibile. È sufficiente porre in evidenza che l’idea, che sta propriamente alla base dell’intera concezione dello Stato di Duguit, ossia «gli individui più potenti», è totalmente indefinita e vuota di contenuto scientifico. Egli ovviamente non era in condizione di spiegare la fonte di questo «maggiore potere» di qualcuno in rapporto agli altri. Cercando, senza successo, di scoprire tale fonte nei vantaggi religiosi, economici, morali, o di proprietà, di cui alcuni godono rispetto ad altri, egli rivela ancor di più la sua impotenza, riducendosi a lamentazioni come questa: «I governanti sono sempre stati, sono e saranno coloro che sono i più potenti di fatto». Ciò non spiega nulla, perché non risponde alla domanda fondamentale: perché alcuni, piuttosto che altri, dispongano del potere. La sua affermazione che scopo del potere politico è la realizzazione del diritto è completamente arbitraria e vuota di contenuto storico. Il suo postulato di base — la «solidarietà sociale» — è esso stesso artificiale e metafisico. Ma egli parte proprio da questo principio, opinando che «la solidarietà è l’elemento vitale di qualsiasi specie di società».
Questa «solidarietà sociale» una volta ancora ci riporta alla «volontà generale», lungamente citata da giuristi e filosofi borghesi, per nascondere, sorvolando, il carattere classista e sfruttatore dello Stato borghese. Essi si sforzano di dimostrare la «solidarietà» fra la borghesia e il proletariato: di fatto essi, piuttosto, subordinano gli interessi del proletariato a quelli della borghesia. La migliore confutazione possibile di queste favole della «solidarietà sociale» si trova negli annali della storia politico-statuale di qualunque paese capitalistico scelto a caso. […] L’idea della «solidarietà sociale», che è fondamentale per tutta la concezione giuridica dello Stato di Duguit, contraddice il fatto che la società è divisa in classi, e che la lotta di classe distrugge quella solidarietà. Duguit fa violenza ai fatti e falsifica la storia. Dichiara guerra al formalismo giuridico della scuola tedesca, ma non ha da contrapporgli altro che il normativismo giuridico. Egli prende una certa norma oggettiva, che sta al di sopra del diritto positivo, e che vale egualmente tanto per i sudditi quanto per i governanti (lo Stato), come la chiave per risolvere tutte le questioni della moderna costruzione del diritto pubblico. Egli opera con idee e formule che, per quanto attiene al loro contenuto, conducono all’errore. Opponendosi all’individualismo e difendendo la solidarietà sociale, Duguit descrive la norma giuridica come un mezzo essa stessa per costringere la forza, di cui dispongono i governanti, a mettersi al servizio della solidarietà sociale. Egli dipinge lo Stato come forza posta al servizio del diritto. Quest’ultima circostanza ha indotto i socialriformisti a vedere in Duguit il rappresentante della nuova tendenza «sociale» — tutto fuorché «socialista» —, dal momento che nel suo insegnamento egli riafferma i principi del diritto borghese, difende interamente gli interessi del capitalismo.
Gumplowicz (1839-1909) rivendicò alla sua dottrina un carattere ancor più socialista. Combatté contro il formalismo giuridico con più decisione di Duguit, e civettò appassionatamente con la fraseologia «socialista», ma non avanzò d’un passo verso la soluzione dei problemi del diritto pubblico rispetto ai suoi predecessori e contemporanei borghesi. Egli si oppose alle teorie individualiste dominanti di scienziati politici come Laband e Gierke, e anche alla teoria del diritto e dello Stato di cui abbiamo parlato sopra. Criticò severamente la scienza borghese del diritto pubblico perché tendenziosa, occupata solo a giustificare un ordine statuale dato in conformità alle opinioni individuali di ciascun autore, e senza darsi pena di conoscerne la natura effettiva. Secondo Gumplowicz, la difficoltà dei problemi scientifici, in questo campo, non dipende dalla quantità del materiale da studiare. Al contrario
la difficoltà del compito sta nel fatto che questo materiale è ingannevole. In nessun campo, per una ragione o per l’altra, vi sono state tante cose nascoste o oscurate come negli affari dello Stato. In nessun campo si è fatto tanto in favore delle apparenze come nel diritto pubblico e internazionale. In nessun campo tante menzogne sono state dette e scritte, con l’intenzione manifesta di ingannare, come in questo campo. In nessun campo si è fatto tanto in omaggio alle convenzioni, si sono recitate tante commedie, come in questo campo4.
Tutte le spiegazioni dell’essenza dello Stato, offerte dalla scienza borghese del diritto — da Welker, Robert von Mohl, Ahrens, Bluntschli e Gerber, fino a Hegel e Kant —, sono del tutto insoddisfacenti per Gumplowicz. Egli definisce la correlazione fra diritto e Stato con queste parole: «Il diritto può concepirsi solo nello Stato. Esso esiste e finisce con lo Stato». Egli afferma inoltre che lo Stato non deriva dal diritto, che il diritto non è la sua culla. E nemmeno lo Stato emerge dal pacifico sviluppo dell’idea di diritto, né in altra pacifica maniera. Lo Stato è sorto attraverso la violenza, che diviene così la levatrice di questo nuovo fenomeno sociale, e non è certo derivato dalla famiglia o dallo sviluppo della famiglia. «No, lo Stato emerge solo da vari gruppi umani, da varie tribù, e consiste di essi soltanto. I vincitori formano la classe dominante; i vinti e i conquistati formano la classe dei lavoratori e degli schiavi». Gumplowicz trova nelle tribù le basi fondamentali — le effettive pietre angolari — dello Stato. Lo Stato nacque dalle tribù. Esse ed esse sole precedettero lo Stato. Con la fondazione dello Stato nasce un legame fra tali tribù, unite dalla convivenza statuale. Questo unirsi in Stato muta le tribù in una nazione. Il segno principale di una nazione è l’esistenza di una singola autorità statuale, sotto il cui principio sta la nazione, ad essa subordinata.
La volontà dello Stato — da non confondersi con la volontà nazionale — corrisponde essa pure a questo potere statuale. Tale volontà dello Stato, secondo Gumplowicz, e con soddisfazione dei «razzisti», è la volontà delle tribù predominanti, che ha mezzi e forza a sua disposizione sufficienti a fare di se stessa la volontà realmente dominante. Nel processo di sviluppo dello Stato — prosegue Gumplowicz — le tribù si trasformano in caste o classi, e si dedicano a certe occupazioni, che si trasmettono per eredità. Queste classi sono tenute unite dalla forza dello Stato, che è un’organizzazione di dominio.
Conseguentemente, il dominio — il governo — prende sotto il suo controllo questa molteplicità, e la riduce ad unità. Le relazione tra gli elementi che dominano nello Stato e coloro che sono soggetti a questo dominio sono espresse nella forma organizzativa dello Stato. Tale forma muta precisamente allorché le relazioni di dominio mutano e oscillano.
Gumplowicz critica quanto è stato fatto da giuristi tedeschi, quali von Mohl, Stahl e Lorenz von Stein, come critica anche la monarchia costituzionale elaborata da Bluntschli, e vi contrappone il suo «moderno Kulturstaat». Questo Kulturstaat, incidentalmente, è degno di nota, a suo avviso, in quanto riposa sulla civiltà e contribuisce allo sviluppo ulteriore della civiltà.
Il moderno Kulturstaat è innanzitutto uno Stato; e, in quanto tale, è (come tutti gli Stati) sempre e comunque un’organizzazione del dominio, destinata a sorreggere un certo ordine giuridico. Molti anni di sviluppo hanno dato come risultato una notevole mitigazione delle forme di questo dominio. Ora, esso emerge in una forma meno severa. Le antiche forme di schiavitù e di dipendenza servile sono scomparse, e al posto loro sono apparse forme «libere». La loro caratteristica più importante è che il dominio coattivo è qui realizzato sulla base del diritto, e non in modo arbitrario.
Naturalmente, non c’è alcuna differenza tra il cosiddetto Kulturstaat, così presentato, e il cosiddetto Rechtsstaat: il diritto e la legge operano similmente in entrambi, in veste di «tribunale supremo» di tutti i rapporti sociali e politici. Gumplowicz ravvisa il tratto essenziale di questo Kulturstaat nel fatto che l’attività dello Stato si riduce alla esazione di imposte e alla conduzione delle guerre (nell’interesse della dinastia regnante), e questa attività — si suppone — è diretta a «promuovere il benessere nazionale in ogni modo, e di conseguenza essa sostiene attivamente le aspirazioni ai più alti fini ideali dell’uomo».
Gumplowicz dipinge come portatori di civiltà gli stessi funzionari dello Stato (alfieri della civiltà e del progresso), che agiscono in nome del diritto e nello spirito del diritto. Così anche la legislazione, con la loro cooperazione, lavora per il progresso civile, senza posa e sempre più strenuamente, talché — egli dice — il campo del diritto sempre più si estende e si arricchisce nel moderno Kulturstaat, e il diritto pubblico si sviluppa in dimensioni letteralmente senza precedenti. Il carattere di «civiltà» di questo Stato moderno trova espressione nel fatto di attrarre le classi medie e le classi lavoratrici a partecipare — fianco a fianco con le classi nobiliari privilegiate — agli affari politici e sociali. La libertà di parola garantisce l’influenza delle classi colte sull’opinione sociale, sull’elezione dei rappresentanti della nazione, e così anche sulla partecipazione degli strati democratici della popolazione alla legislazione e a tutto il governo dello Stato. Il Kulturstaat si interessa della popolazione, dell’economia nazionale, dell’«aspetto ideale della vita nazionale», delle scienze e delle arti: in una parola, contribuisce ad una efficace soluzione di tutti i problemi «comuni all’umanità in generale», problemi connessi, né più né meno, con le «forme sociali del futuro». Tale è il ritratto che dà Gumplowicz del suo «moderno Kulturstaat». Il suo insegnamento riguardo al Kulturstaat è stato, a sua volta, raccolto dal socialriformismo e — in forma particolarmente mostruosa — dal fascismo.
In realtà, non vi è mai stato — né può mai esserci — alcun Kulturstaat di questo genere nella storia delle società caratterizzate dallo sfruttamento. Il moderno Stato borghese non ha mai posseduto, né potrebbe possedere, neppure una sola delle qualità descritte con tanto sentimento da Gumplowicz: qualità di tal fatta sono in diretto ed acuto contrasto con la vera natura «classista» e «sfruttatrice» dello Stato borghese. La migliore confutazione delle illusioni giuridiche di Gumplowicz e dei suoi seguaci riformisti si può trovare in uno qualsiasi dei moderni Stati «borghesi». Ad ogni passo essi mostrano, con un numero di esempi infinito, un atteggiamento inumano, bestiale verso le masse popolari sfruttate, un disinteresse totale per i loro bisogni ed interessi, una assoluta avversione ad occuparsi dei problemi dell’umanità in generale: quei problemi che non sono mai comparsi nell’agenda di alcuno Stato borghese (e, in generale, sfruttatore). Ciò è definitivamente chiaro nell’attività degli Stati fascisti, che di fatto hanno raggiunto uno stadio di aperto cannibalismo.
Il moderno Stato borghese è uno Stato imperialista, che, ogni giorno ed ogni ora, sacrifica la civiltà e gli interessi dello sviluppo civile alla sua rapace politica di guerra e di aggressioni, di ferro e di fuoco. Come è mai possibile parlare della civiltà del «moderno» Stato borghese, se non scegliendo di chiudere gli occhi di fronte alla disastrosa barbarie che esso porta in tutti gli angoli della terra dove il potere del capitale e dello sfruttamento esercita il suo dominio? Gumplowicz non era in condizioni di comprendere la reale natura dello Stato, le sue origini, le sue leggi di sviluppo. Anche criticando le teorie della corrente giusformalista, e tentando di contrapporre ad esse un nuovo insegnamento «scientifico» nel campo del diritto pubblico, egli era del tutto incapace a risolvere i problemi fondamentali della scienza del diritto pubblico. Una delle cause di questa impotenza è la sua mancata comprensione della connessione che lega lo Stato e il diritto, da una parte, con l’organizzazione di classe della società, dall’altra parte; la sua mancata comprensione del legame organico che vi è tra il diritto, lo Stato e la politica; la sua mancata comprensione del fatto che l’attività del diritto e quella dello Stato non possono essere intese e valutate correttamente facendo astrazione dalla politica. La quale politica è l’espressione, e la lotta per l’esistenza, degli interessi di classe che prevalgono in una data società […].

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1 Questa citazione, e le successive fino a indicazione contraria, sono tratte da un’edizione russa di G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, Heidelberg, 19003.
2 Questa citazione, e le successive fino a indicazione contraria, sono tratte da un’edizione russa di M. Hauriou, Principes de droit public, Paris, 19162.
3 Questa citazione, e le successive fino a indicazione contraria, sono tratte da un’edizione russa di L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, Paris, 19273.
4 Questa citazione, e le successive, sono tratte da un’edizione russa di L. Gumplowicz, Allgemeines Staatsrecht, Innsbruck, 1907.


Edited by Andrej Zdanov - 22/8/2014, 17:17
 
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