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I voltagabbana, Dm. Eremin

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view post Posted on 5/8/2014, 22:22

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Da «Izvestija», 12 gennaio 1966:


Dm. Eremin

I voltagabbana


I nemici del comunismo non sono schifiltosi. Con quale passione essi diffondono qualsiasi «sensazione», raccolta nei retrocortili dell’antisovietismo! Così è accaduto anche qualche tempo fa. La stampa e la radio borghesi hanno incominciato a dare informazioni su «l’arresto illegale» avvenuto a Mosca, di due «letterati» che hanno pubblicato all’estero libelli antisovietici. Come non prendersi gioco della coscienza sporca e della sporca immaginazione dei propagandisti occidentali? Eccoli già pronti a descrivere con varietà di colori una mitica «purga negli ambienti letterari sovietici», ad affermare che questi ambienti sono «tremendamente preoccupati per la minaccia di un nuovo attacco» contro «gli scrittori di tendenze anticomuniste» e contro «gli ambienti liberali dell’intellighenzia» in generale.
Viene da chiedersi che cosa sia accaduto in realtà. Come mai l’armata nera degli antisovietici ha ripreso animo? Come mai sono finiti nelle sue file alcuni intellettuali stranieri, che appaiono alquanto fuori posto in una simile compagnia? Perché alcuni altri signori assumono l’atteggiamento di mentori, di tutori, quasi dei nostri costumi e fanno finta di difendere due rinnegati «in nome» dell’intellighenzia sovietica? La risposta è una sola: nella lotta ideologica fra i due mondi i nemici della nuova società non sono poi molto esigenti nella scelta dei mezzi. E quando nelle loro trincee vengono a trovarsi due voltagabbana essi si affrettano, in mancanza di meglio, a metterli sugli scudi. Per i poveri di spirito questi voltagabbana sono una lieta scoperta. Infatti col loro aiuto possono cercare di disorientare l’opinione pubblica, seminare i velenosi semi del disimpegno ideologico, del nichilismo e del morboso interesse per gli oscuri «problemi della vita». In breve, i nemici del comunismo hanno trovato ciò che cercavano: due rinnegati i cui simboli di fede sono divenuti la doppiezza e l’impudenza. Celandosi dietro gli pseudonimi di Abram Terts e Nikolaj Arzhak essi, per molti anni, hanno segretamente inviato ad editori stranieri e pubblicato sporchi libelli contro il proprio paese, il partito e il regime sovietico. Uno di essi, A. Sinjavskij, alias A. Terts, ha pubblicato sulle riviste sovietiche articoli di critica letteraria, è riuscito ad intrufolarsi nell’Unione degli scrittori fingendo di approvarne lo statuto: «servire il popolo, esprimere in forma altamente artistica la grandezza delle idee del comunismo» e «partecipare attivamente con tutta la propria attività artistica e sociale all’edificazione del comunismo». Il secondo, Ju. Daniel’-N. Arzhak, faceva il traduttore. Ma per loro tutto ciò fungeva da facciata. Dietro di essa si nascondeva ben altro: l’odio per il nostro regime, l’ignobile derisione di ciò che è più caro alla Patria e al popolo.
Il primo sentimento che si prova leggendo le loro opere è di ripugnanza. E ripugna il citare le volgarità che costellano le pagine dei loro libri. Ambedue indugiano sui «problemi» psicopatologici e sessuali con morbosa sensualità. Ambedue denunciano una estrema decadenza morale. Ambedue versano sulla carta quanto c’è di più ripugnante, più sporco.
Ecco dei campioni caratteristici del loro stile. Scrive in una delle sue «opere» Daniel’-Arzhak: «Donne, simili a uomini castrati, passeggiano per le strade e i viali. Di gamba corta, come cani bassotti gravidi, o di gamba lunga come struzzi, esse nascondono sotto gli abiti gonfiori e lividure, si stringono nei busti, si imbottiscono il petto di ovatta».
Se si parla di un accademico, allora «beve un paio di bicchierini e già l’argenteria di casa gli sparisce nelle tasche». Se della segretaria di redazione di un giornale, allora «la ragazza è accessibile a qualsiasi correttore di bozze». Delle donne mature, come abbiamo visto, è meglio non parlare. Ad esempio, ad un tale Salomon Moiseevič «è scappata la moglie, una libidinosa donnaccia russa, dopo averlo preventivamente derubato e poi tradito, con un parrucchiere di 16 anni. Egli conosceva e temeva le donne, avendo le sue buone ragioni. Ma che cosa poteva capire, questo Salomon Moiseevič, del carattere nazionale russo?».
A questo punto non possiamo non notare il seguente particolare: russo per nascita, Andrej Sinjavskij si è nascosto sotto il nome di Abram Terts. Perché? Soltanto a scopo provocatorio! Pubblicando racconti e romanzi antisovietici sotto il nome di Abram Terts in edizioni estere, Sinjavskij ha cercato di dar l’impressione che nel nostro paese esista dell’antisemitismo e che quindi un autore che si chiami Abram Terts debba cercare editori in Occidente se vuole scrivere «con sincerità» della vita sovietica. Una meschina provocazione, uscita dalla testa del pennaiolo e dei suoi protettori borghesi.
Essi non amano nulla del nostro paese, per loro non c’è nulla di sacro nella sua cultura plurinazionale, essi sono pronti a denigrare e ad ingiuriare tutto ciò che nel presente e nel passato è caro ad ogni sovietico. Pensate soltanto a quello che hanno scritto di Anton Pavlovič Čekhov, questo straordinario umanista russo, capace con la sua opera di suscitare nell’uomo i migliori sentimenti. Solo un’illimitata impudenza può guidare la penna che traccia simili righe: «Ah, prendere questo Čekhov per la sua barbetta tubercolotica e ficcargli il naso nei suoi sputacchi». E dei classici russi, vanto della letteratura mondiale, che si dice? «I classici! Quelli li odio più di tutti».
Questi pennaioli cercano di denigrare e di calunniare la nostra Armata Rossa, la cui immortale impresa ha salvato i popoli europei dalla distruzione hitleriana.
Per i sovietici, per i popoli della terra, per tutta l’umanità progressista, non c’è nome più sacro di quello di Vladimir Il’ič Lenin, capo della nostra rivoluzione. Infatti Lenin rappresenta la epoca delle rivoluzioni socialiste e dei movimenti di liberazione nazionale. Rappresenta il nostro secolo, che ha cambiato il mondo. Rappresenta il comunismo scientifico che si identifica con le migliori imprese dell’uomo. Persino noti capitalisti hanno chinato il capo dinanzi a Lenin: essi hanno dovuto riconoscere più di una volta che il XX secolo ha trovato in lui il più grande riformatore della vita.
In quale schifoso pantano senza fondo deve immergersi un cosiddetto letterato per denigrare furfantescamente con la sua penna questo nome per noi sacro! È impossibile riportare qui le citazioni corrispondenti, tanto è rabbiosa questa scarabocchiatura, tanto è ributtante e sporca. Basterebbero queste righe sacrileghe per diagnosticare che gli autori di esse si pongono al di fuori della società sovietica.
Nel libello di Daniel’-Arzhak «Parla Mosca», ad esempio, vi è l’ipocrita considerazione che «non è molto bello essere pubblicato in edizioni antisovietiche». Ma come esimersi dal farlo, se si ha occasione di rovesciare sporche calunnie sul regime sovietico? Concludendo le sue volgari e rabbiose considerazioni «filosofiche» sull’argomento, l’autore si rivolge, per bocca del suo «eroe», direttamente al lettore, suggerendogli un’azione di questo tipo: «Strappare la sicura. Lanciare. Gettati a terra. Gettati! È esplosa. E adesso un balzo in avanti. Correndo, spara a ventaglio, il mitra all’altezza del ventre. Una raffica. Una raffica. Una raffica… Eccoli, sono stesi, fatti a pezzi dall’esplosione, crivellati di pallottole».
Come vediamo, il rabbioso antisovietico mira in alto: in sostanza questo è un appello provocatorio al terrorismo.
Il libello di Sinjavskij-Terts «Ljubimov» si propone di dimostrare, né più né meno, che l’idea stessa della riedificazione comunista della società è illusoria e irreale. Nel fantasmagorico vaneggiare di questo libello è difficile cogliere i prototipi della realtà. Tuttavia la sua idea politica di fondo è del tutto evidente: è una derisione senza ritegno delle leggi della storia, di coloro che hanno dato la vita nella lotta per i nostri grandi ideali, è una presa in giro del paese e del popolo. La sfacciataggine dello scrittore raggiunge qui dimensioni colossali: a quali invenzioni non ricorre, sforzandosi di dimostrare l’illusorietà della teoria e della pratica del comunismo! A quali abissi di meschinità giunge, mostrando il crollo della città di Ljubimov, in cui un tale Tikhomirov aveva pensato di realizzare la felicità generale… con l’aiuto dell’ipnotismo!
Con quanto gusto Sinjavskij-Terts descrive il fallimento dell’«esperimento» comunista e il ritorno degli abitanti di Ljubimov ai vecchi sistemi di vita! E alla fine egli mette in risalto questo particolare così significativo: «Il “muzhik” con burbera tranquillità, apertamente, davanti a tutti, orinò nello scavo delle fondamenta, non ancora riempite di cemento…». Come a dire: il «muzhik» ha, riguardo a tutto ciò, un atteggiamento ben definito!
Non meno caratteristico è il «racconto» di Daniel’-Arzhak «Parla Mosca» ricordato più sopra. Eccone in breve il soggetto: viene trasmesso per radio un decreto per cui, «in considerazione del crescente benessere e del desiderio espresso da numerosi lavoratori» (l’autore è disposto a farsi beffe di qualsiasi cosa!), il giorno domenica 10 agosto 1960 viene dichiarato… indovinate cosa? «Giornata dei pubblici omicidi», sul tipo della «Giornata del minatore», della «Giornata dell’insegnante», ecc. E più oltre vengono descritti mostruosi quadri di vita, gabellata per sovietica, si mostra l’idiozia della gente, che si adegua disciplinatamente all’«idea» della carneficina generale. Si sgozzano l’un l’altro, mariti e mogli regolano i conti, il terrore generale pervade il paese. E tutto ciò, si intende, è condito da massicce dosi di volgare erotismo, di furia ubriaca, di sfrenata immoralità e di odio per l’uomo.
Sinjavskij-Terts e Daniel’-Arzhak definiscono conformisti e «ultrareazionari» tutti coloro che professano apertamente e con convinzione il comunismo nella propria attività artistica. Essi si prendono beffe di coloro che sostengono attivamente e fedelmente il partito, dei figli del popolo. Sinjavskij, ad esempio, pubblicando i suoi articoletti gesuitici in alcune riviste sovietiche cercava ad ogni costo negli autori ciò che lo caratterizzava: l’ambiguità della posizione ideologica, il nichilismo e la propensione per la diffamazione. In questa direzione non risparmiava le sentenze: «ha assunto il ruolo di denigratore della nostra vita e della nostra cultura», «cinica calunnia, invenzioni astiose, stupide insinuazioni», «gli orrori, da esso rappresentati, sono un’invenzione e la loro natura, anche tenendo presente i prototipi reali, è falsata fino all’inverosimile», e tutto ciò è, in generale, «molto lontano dai compiti della lotta ideologica, che stanno di fronte all’arte sovietica…».
Un antisovietico nella parte di precettore degli scrittori sovietici, che impudenza! Che sfacciata ipocrisia! Quale evidente dimostrazione di decadenza morale! Con una mano vota a favore, mentre con l’altra in tasca fa malignamente le fiche.
Noi, scrittori sovietici, profondamente votati all’idea della riedificazione comunista della vita, che vediamo nel partito leninista un sicuro baluardo e una saggia guida nella lotta per la pace e la felicità, noi tutti cittadini sovietici, di fronte ai libelli di Sinjavskij-Terts e Daniel’-Arzhak non possiamo provare altri sentimenti che il disgusto e lo sdegno. E invano il protettore d’oltre oceano dei voltagabbana, l’emigrato bianco Filippov, cerca nelle prefazioni ai libercoli di Terts e di Arzhak di far passare i suoi protetti per «noti scrittori sovietici»: essi non esistono nella letteratura sovietica!
Ma lasciamo stare i protettori occidentali dei due libellisti. Essi possono contare soltanto sull’insufficiente informazione dell’opinione pubblica straniera sulla nostra vita sovietica.
Ma la menzogna ha le gambe corte e non può andare lontano. Sono sicuro che ogni uomo occidentale assennato, confrontando i dati a sua disposizione sull’URSS con le invenzioni dei due rinnegati, giungerà sempre alla giusta conclusione: getterà nelle immondizie i libelli di Sinjavskij-Terts e di Daniel’-Arzhak.
E non può essere altrimenti. Infatti i libellisti alzano la loro mano non soltanto contro la nostra società sovietica, ma spruzzano veleno su tutta l’umanità progressista, sui suoi ideali, sulla sua sacra lotta per il progresso sociale, la democrazia e la pace.
Al giorno d’oggi, persino molti giornalisti borghesi, nostri avversari ideologici, parlano con rispetto della forza possente del socialismo, divenuto «una calamita» per l’Africa, l’Asia, l’America Latina e per tutto il mondo.
Sinjavskij e Daniel’ sono cresciuti nell’Unione Sovietica. Essi hanno goduto di tutti i vantaggi del socialismo. Tutto ciò che i nostri padri hanno conquistato, negli anni infuocati della rivoluzione e della guerra civile e nei tempi duri dei primi piani quinquennali, è stato a loro disposizione.
Sinjavskij e Daniel’ hanno incominciato a poco a poco: hanno sostituito l’onestà con la mancanza di princìpi, l’attività letteraria, come la intendono i sovietici, con la doppiezza, la sincerità, nel suo senso più profondo, con il nichilismo, la critica alle spalle degli altri, il «tagliar i panni addosso» ai vicini. E iniziando con queste piccole porcherie, non si sono più fermati. Hanno continuato a scivolare sempre più in basso, come su un piano inclinato. E alla fine sono arrivati a compiere un delitto contro il regime sovietico. E con questo si sono posti al di fuori della nostra letteratura, al di fuori della comunità sovietica. Dalle piccole porcherie al grande tradimento: questa è la strada che hanno percorso. Durante la guerra, tra i combattenti della Resistenza francese c’erano molti emigrati russi. Essi morivano sotto il piombo della Gestapo dedicando le ultime parole alla Patria infinitamente cara, alla lontana Russia cui erano rimasti interiormente fedeli. E questi due? Essi sono emigrati di tipo particolare: interiormente. Si sono rinchiusi in un loro piccolo mondo imputridito. Là ribollivano le loro irose passioni. Là essi attingevano le penne in calamai di veleno. Là vivevano, pensando che quella fosse vita.
Quale ironia della sorte! La casa editrice borghese francese «Hachette» pubblica il libro «L’URSS nell’anno duemila», il cui motto è: «Essere all’altezza dei tempi significa anzitutto capire quel che avviene intorno a noi». E gli autori del libro capiscono questo: essi descrivono un grande popolo, il pioniere del secolo, che forse ad essi non piace per la sua completa dedizione al comunismo, ma che non possono non ammirare. Invece due voltagabbana hanno scritto dei libri che hanno per motto non solo di non capire ma anche di calunniare ciò che avviene intorno a loro.
Del resto, voglio precisare: è fuori luogo, credo, parlare in questo caso di ironia della sorte. Il buon senso e la mostruosità morale non sono paragonabili. Gli scrittori onesti e disonesti non possono stare vicini. Infatti le panzane dei voltagabbana non rispecchiano delle opinioni ma soltanto il marasma ideologico, la venalità e la mancanza di princìpi degli autori.
Ma si tratta soltanto di questo? In realtà non si tratta semplicemente della degenerazione politica e morale di due furfanti. Si tratta di due rinnegati, entrati al servizio dei più sfrenati e fanatici nemici del comunismo. Ed è per questo che in Occidente gonfiano la storia di Sinjavskij e Daniel’: affinché questi due, da parte loro, servano a rinfocolare la guerra psicologica contro l’Unione Sovietica.
Signori, vi siete rallegrati troppo presto! I vostri voltagabbana sono già con la schiena al muro. Il loro vero volto è rivelato. Essi non sono soltanto dei mostri morali, ma anche degli strumenti attivi nelle mani di coloro che rimestano nel fango della tensione internazionale, che vogliono trasformare la guerra fredda in calda, che non hanno ancora rinunciato al folle sogno di alzare la mano contro l’Unione Sovietica. E questi strumenti non possono essere trattati con indulgenza. Il nostro popolo ha pagato a troppo caro prezzo la conquista dell’Ottobre, la vittoria sul fascismo, il sangue e il sudore versati per la Patria, per trattare con indifferenza questa feccia.
Come abbiamo già visto, le «opere» di questi rinnegati sono completamente impregnate di rabbiose calunnie contro il nostro sistema sociale ed il nostro stato e possono servire da modelli per la propaganda antisovietica. Esse sono dirette – con tutto il loro contenuto – a fomentare l’inimicizia fra stati e popoli, ad acuire il pericolo di una guerra. In sostanza, sono colpi sparati alle spalle del popolo che lotta per la pace e la felicità generale sulla terra. Queste azioni non possono che essere considerate ostili nei confronti della Patria.
Passerà il tempo e nessuno più li ricorderà. Le pagine imbevute di fiele marciranno nel letamaio. Infatti la storia ha confermato più di una volta che le calunnie, anche le più rabbiose ed ignobili, si dissolvono inevitabilmente dinnanzi alla verità.
Sarà così anche questa volta.

Edited by Andrej Zdanov - 7/8/2014, 01:24
 
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