Archivio Ždanov

Dialettica o eclettismo?, E. V. Il’enkov

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 4/3/2014, 16:49

Advanced Member

Group:
Administrator
Posts:
1,394

Status:


Da «Voprosy filosofii», n. 7, 1968, pp. 40-49:


E. V. Il’enkov

DIALETTICA O ECLETTISMO?

(Note polemiche sulla “concezione” maoista e sulla “applicazione” della dialettica)


È tutt’altro che semplice fare una diagnosi della malattia chiamata maoismo. La diagnosi non può ridursi ad applicare a questo fenomeno un’etichetta o un’altra, sia essa “culto della personalità”, “alterazione militare-burocratica del comunismo”, “pragmatismo” o “dogmatismo”, “modo di pensare metafisico” o “sofistica”, “eclettismo” o “dualismo”.
Innanzi tutto è necessario condurre un’attenta analisi del maoismo dal punto di vista delle condizioni e delle cause, obiettive e soggettive, che l’hanno determinato; questa, naturalmente, non esclude un drastico giudizio, sia formale che sostanziale, sui danni che il maoismo arreca al movimento comunista internazionale, discreditando moralmente e politicamente gli alti ideali umanistici di questo movimento e della sua teoria. Cercheremo qui di esaminare solo un aspetto di questo grande e complesso problema, l’atteggiamento del maoismo verso la dialettica materialistica.
Basta una rapida lettura delle opere filosofiche di Mao Tse-tung, per convincersi che, nonostante la buona volontà, è impossibile trovarvi un punto d’aggancio con la secolare tradizione marxista e col sistema del pensiero sociale progressista. La tradizione marxista è rappresentata da un esiguo numero di citazioni tratte dai classici del marxismo-leninismo, ma il sistema del pensiero sociale progressista consiste in una serie di aneddoti, storielle e proverbi ben noti a ogni cinese.
Bisogna tener conto, naturalmente, che gli articoli di Mao Tse-tung dei quali stiamo parlando, «Sulla pratica» e «Sulla contraddizione», sono stati scritti (e concepiti) a scopo propagandistico e divulgativo e che si rivolgono a un lettore del tutto impreparato. Tenuto conto di questo, non si possono avanzare eccessive pretese.
La faccenda assume però tutto un altro aspetto quando questi articoli vengono presi come “la cima più alta” raggiunta dallo sviluppo della filosofia mondiale, e sono considerati come un tetto, al di sopra del quale d’ora in poi la filosofia non ha il diritto di sollevarsi: quando cioè se ne vuole fare un campione, un ideale, il limite estremo del “pensiero dialettico marxista”.
La proposizione che riportiamo è certamente tipica dell’opera di Mao Tse-tung, e costituisce il suo contributo nuovo alla teoria della dialettica: «Perché l’uovo può trasformarsi in pulcino, mentre una pietra non può trasformarsi in pulcino? Perché tra la guerra e la pace esiste un legame reciproco, che non c’è invece tra la guerra e la pietra? Perché l’uomo può generare solo l’uomo, e non qualcosa di diverso ?».
E infatti: perché? Questa è una domanda estremamente complessa e sottile, che potrebbe mettere in imbarazzo chiunque, tranne Mao Tse-tung. Egli risponde con queste due frasi: «Il problema che si pone non è nuovo: unire le contraddizioni è possibile soltanto in condizioni ben precise e necessarie» (Mao Tse-tung: Opere scelte, vol. II, pp. 457-458).
Avete capito ora perché l’uovo può trasformarsi in pulcino, e il sasso no? Vi è chiara ora la forza euristica della “dialettica” come metodo per risolvere i problemi più gravi del nostro tempo? Acquisire questa “dialettica”, secondo Mao, non è difficile. Il suo schema è semplice. Eccolo. «L’unione delle contraddizioni è possibile soltanto in condizioni ben precise e necessarie» (per convincere meglio, questa frase viene ripetuta anche in altra forma: «In assenza di condizioni ben precise e necessarie non può esserci nessuna unione»). Di conseguenza, «l’uomo può generare solo l’uomo e non qualcosa di diverso», e tra la pietra e l’uomo non c’è e non può esserci “unione”, una scimmia può generare solo altre scimmie e non qualcosa di diverso, ecc. Da chi è nato il primo uomo, questo è già un altro problema, che non ha rapporti con questa “dialettica”.
Nei pensieri di Mao e dei suoi seguaci più ortodossi si possono trovare senza difficoltà moltissimi di questi “grandi balzi” da proposizioni molto generali a casi particolari. L’arte di compiere questi “grandi balzi”, senza preoccuparsi di ricercare i casi particolari, né delle conseguenze del salto dalla frase generale al problema specifico della nascita del pulcino dall’uovo, costituisce il procedimento tipico di una certa scuola. Qui non si richiede neppure quella logica elementare, alla quale si rifà l’antico schema di deduzione secondo il modo “Barbara”.
Forse che noi stiamo riferendoci a un racconto casuale, effettivamente buffo, sia dal punto di vista della dialettica che della logica formale, dei pensieri di Mao? Purtroppo no.
Non è forse la stessa “logica” che fornisce “la base teorica” di qualsiasi azione politica dei maoisti? È lo stesso schema. Per esempio, bisogna dimostrare la tesi che la scissione del movimento comunista mondiale è inevitabile? Lo schema della dimostrazione è questo: ogni processo della natura, della società, del pensiero si sviluppa tramite “la scissione dell’unità”. Senza scissione dell’unità non si realizza alcun processo. Di conseguenza, bisogna “scindere” anche l’unità del movimento comunista internazionale, e considerare ciò un trionfo della dialettica.
Sarebbe un oltraggio confutare una “dialettica” di questo tipo confrontandola con i modelli della vera dialettica. Sarebbe per lo meno una manifestazione di spregio verso quest’ultima.
Tuttavia bisognerà ricorrere ad alcune contrapposizioni. Parlando delle prerogative della “dialettica” nel pensiero filosofico del “periodo premarxista”, Mao Tse-tung e i suoi allievi non risparmiano inchiostro per sottolineare “il modo di pensare metafisico” dei materialisti del XVII e del XVIII secolo. Questi materialisti vengono raffigurati così stupidi, che uno tsaofan qualsiasi, leggendo quello che ne scrive Mao Tse-tung, comincerà subito a sentirsi pensatore di levatura ben più elevata di Spinoza, di Plechanov e degli altri “confusionari importati dall’Europa”.
Così possiamo leggere nella prima pagina del manuale Materialismo dialettico, pubblicato a Pechino per i quadri “altamente qualificati”: «I materialisti premarxiani dei secoli XVII e XVIII attribuivano alla materia un’anima, cadevano nell’ilozoismo. Questo errore lo commise anche Plechanov, che affermava che anche un sasso aveva la facoltà di pensare».
Com’è noto, non c’è fumo senza arrosto. Il fumo lo abbiamo annusato. Ma l’arrosto sta in questo, che Plechanov teneva in gran pregio, in particolare, la posizione del materialista Denis Diderot, che aveva difeso il materialismo in una disputa col matematico idealista d’Alembert:
«D’Alembert: … se quella sensibilità che voi attribuite alla materia costituisce la sua proprietà generale ed essenziale, allora si deve arguire che anche la pietra è sensibile.
Diderot: Perché no?…
― Voi assimilate i prodotti, ne formate un corpo, li animate, li rendete sensibili, e ciò che voi fate con i prodotti, io posso farlo quando mi piace, col marmo» (D. Diderot: Opere, vol. I, 1935, p. 337 e p. 369), con quella stessa “pietra”, quindi, che, secondo la dialettica di Mao Tse-tung, non può trasformarsi in pulcino. Ecco cosa voleva dire lo spinoziano Diderot col suo “perché no?”.
Sempre questo “perché no?” ha fornito agli autori di quel manuale il pretesto per accusare sia Spinoza, sia Diderot, sia Plechanov del peccato infantile di ilozoismo. Più in là non sono andati, né hanno creduto opportuno approfondire i termini della disputa.
Lasciamo giudicare al lettore da che parte sta la vera dialettica, se nelle posizioni di Spinoza e di Diderot, oppure nei ragionamenti di Mao e dei suoi allievi, che a distanza di duecento anni hanno ripetuto contro queste posizioni gli argomenti di d’Alembert, cioè, nella disputa tra materialisti e idealisti, si sono schierati dalla parte… degli idealisti.
Con questa interpretazione della storia del pensiero dialettico, i maoisti mostrano i loro veri intenti, cioè di voler raffigurare lo stile del pensiero di Mao Tse-tung come la vetta più alta raggiunta dalla cultura mondiale del pensiero marxista. Lo scopo di questa tattica, anche se non lo si dichiara esplicitamente, è uno solo: creare uno sfondo tale da far apparire qualsiasi banalità, qualsiasi citazione del “gran pastore” come una scoperta senza precedenti. C’è da credere che lo stesso Mao, sotto l’effetto di tutto questo inebriante incenso, si ritenga il più grande dei saggi, se è capace di mettere insieme raccomandazioni filosofiche come questa:

In seguito al fatto che il particolare è legato col generale, in seguito al fatto che a ogni fenomeno è implicito non soltanto ciò che sembra particolare in contraddizione, ma anche ciò che in esso sembra generale, il generale esiste nel particolare. Perciò nello studio di un dato fenomeno è indispensabile mettere in luce entrambi questi aspetti e il loro reciproco legame, mettere in luce ciò che è particolare e ciò che è generale, mettere in luce il legame del fenomeno con molti altri fenomeni che sono al di fuori di esso… (Mao Tse-tung: Opere scelte, vol. II, p. 438), ecc.

Naturalmente solo un lettore assai poco esigente può considerare “espressione più alta e più geniale” della dialettica questi giudizi, opprimenti per la povertà del vocabolario, per la ripetizione ossessiva sempre delle medesime parole e per il tono edificante e pretenzioso.
Mao ha fatto sua la logica secondo la quale nessun fenomeno può essere compreso senza un legame, perché qualsiasi fenomeno può essere capito solo se legato a un altro. Questa logica presenta il vantaggio di essere inconfutabile, perché contiene solamente “verità assolute”, verità che possono essere imparate a memoria per esser poi devotamente citate e declamate, da soli o in coro. Di queste “verità assolute” è fatto tutto il bagaglio teorico della “dialettica” di Mao, divenuta campione e vertice di saggezza per i suoi fedeli adepti. L’“applicazione” alla vita quotidiana di una dialettica così concepita consiste semplicemente in questo, che le “formule dialettiche” vengono citate e declamate ad ogni occasione, anche senza motivo: mentre si nuota in piscina, mentre si vendono cocomeri, per giustificare il teppismo delle guardie rosse, ecc.
Impiegata in questo modo, la dialettica diventa semplicemente un sistema di demagogia politica, un “linguaggio” di questa demagogia rivolto verso quelle persone che rispettano il linguaggio della scienza marxista-leninista. Il tratto principale della deformazione maoista della dialettica sta proprio in questo, di aver suggellato azioni politiche arbitrarie del tutto prive di fondamento con delle citazioni tratte da classici della filosofia materialistica. Tra queste azioni, basti ricordare la politica scissionistica all’interno del movimento comunista internazionale (la tesi sulla “scissione dell’unità”), le indecenze delle guardie rosse (le tesi sulla “messa in pratica delle idee”, sulla “trasformazione dell’ideale in reale”), ecc.
Questo atteggiamento nei confronti della dialettica, che certe volte fa pensare a una barzelletta insipida, fa parecchio divertire i nemici della filosofia marxista-leninista, che traggono da questo spettacolo non pochi vantaggi. Sarebbe veramente ridicolo, se non arrecasse un danno così grande alla reputazione della filosofia materialistica, quale non è in grado di infliggere neppure il suo più feroce avversario.
Proprio questo fatto deve indurre ogni marxista a riflettere seriamente sulla sostanza del problema, e a porre un limite netto tra la vera dialettica materialistica e il modo di pensare praticato dai maoisti.
Sarebbe non solo inutile, ma anche un capriccio senza scopo porre in evidenza questo limite collazionando le formule teoriche del materialismo dialettico con le traduzioni in lingua cinese, cioè ricercare nelle opere di Mao Tse-tung e dei suoi scudieri teorici le “alterazioni”, le “falsificazioni” di quelle posizioni, generalmente riconosciute dai marxisti. In questo senso, cioè sul piano fraseologico, i maoisti cercano di essere inattaccabili, anche se, naturalmente, incorrono in inesattezze di ogni genere, anche piuttosto rozze. Ma se si rivolgesse la nostra attenzione a queste inesattezze, per farne un capo d’accusa, non faremmo altro che un gran servizio ai maoisti perché si distoglierebbe l’attenzione dalle storture principali del loro pensiero.
E la stortura principale consiste proprio in questo, che essi riducono a vecchiume, a dogmi rituali religiosi, proprio quelle posizioni della dialettica che sono di per sé giuste e che non vengono messe in dubbio da nessuno. Quanto più si fa rumore per una lettera, per un carattere geroglifico di posizioni filosofiche quanto mai astratte e generiche, tanto più sono assurde e arbitrarie quelle azioni concrete e politiche, che “si fondano filosoficamente” sulla base di quelle posizioni generiche.
Un esempio abbastanza illuminante ed istruttivo in questo senso può esserci fornito dalla lunga e chiassosa discussione, che ebbe per oggetto il “nucleo della dialettica”, la comprensione del problema delle contraddizioni, il problema dell’unità e della lotta delle contrapposizioni, nata (o meglio provocata artificialmente per suggerimento di Mao) allorché egli ebbe bisogno di un “fondamento filosofico” per la sua politica scissionistica all’interno del movimento comunista internazionale e per la sua linea dichiaratamente antisovietica.
Questa discussione, per il suo contenuto teorico, ci ricorda così da vicino la famosa disputa tra “teste tonde” e “teste a punta”, che è sufficiente esporla, senza togliere né aggiungere nulla, perché qualsiasi persona di buon senso arrivi a capirla. Le sarà chiaro anche il significato direttamente politico, o meglio l’intento con il quale vengono messe su queste discussioni.
Come cominciano e come si svolgono queste discussioni? Ecco qua. Due filosofi qualunque scrivono un articolo abbastanza qualsiasi su «L’unità e la lotta delle contrapposizioni» e lo pubblicano sul giornale Guanmin Ribao.
In questo articolo si spiega accuratamente e in forma divulgativa (nello stile delle opere di Mao Tse-tung e con una pletora di citazioni tratte dal “più-più-più”), che tutte le cose e tutti i fenomeni del cielo e della terra racchiudono in sé delle “contraddizioni”, delle “contrapposizioni nell’unità”, e che perciò è necessario mettere in luce queste contrapposizioni, legate insieme tra loro, col metodo della “scissione dell’unità”, per comprenderle ciascuna separatamente, nonché per comprendere il loro legame; gli autori raccontano perché e per come è necessario «studiare concretamente i loro (delle cose e dei fenomeni) aspetti contrapposti, le loro contraddizioni interne», apprendendo questa arte da Mao Tse-tung, leggendo e rileggendo le sue opere. Soltanto in quegli “esempi” che confermano la giustezza del “pensiero di Mao Tse-tung” gli autori dell’articolo si sono potuti concedere il piacere della creazione. Sembrerebbe che un articolo di questo tenore non potesse generare alcuna discussione.
Tuttavia la discussione ha avuto inizio. Come sempre, è cominciata con poco. Un po’ di tempo dopo, sullo stesso giornale veniva pubblicato un articolo di un altro filosofo-divulgatore da strapazzo, di nome Hsien Chin, che portava un titolo argutamente polemico: «L’unione del due in uno non è dialettica!».
Qui costui spiegava in forma divulgativa, e naturalmente nel tono e nello stile dello stesso articolo «Sulle contraddizioni», che «la divisione di ciò che è unito è una legge generale del mondo obiettivo, e non soltanto una legge della conoscenza», e che perciò «la concezione dell’unità dei due princìpi, predicata da Ai Chen-yu e da Lin Chin-shan», era in netta contraddizione con “la dialettica marxista-leninista”, “predicava la metafisica”, distorceva la linea politica del PCC e versava acqua sul mulino dell’imperialismo americano e del revisionismo sovietico.
Fu data immediatamente ampia risonanza a questa discussione. Ma le repliche furono piuttosto deboli: evidentemente i filosofi cinesi non avevano compreso fin dal principio cosa si voleva da loro, non potevano afferrare tutta la grandezza e il significato del dissidio testé scoperto. Il fuoco della discussione minacciava di spegnersi, perché sul piano teorico non poteva esserci nessun serio dissenso. E allora si provvide a versar l’olio sul fuoco.
Il fazioso articolo di Ai Chen-yu e di Lin Chin-shan fu ristampato sulle pagine del Renmin Ribao (in caso contrario, non avrebbe mai avuto questo onore), e il giorno dopo la redazione della rivista Hongqi convocava una assemblea straordinaria di filosofi con la partecipazione dei quadri della Scuola superiore di partito, allo scopo di conferire alla cosa la risonanza e la tensione necessarie. Si scatenarono subito le passioni, e il fuoco della discussione si fece pericoloso.
Allora divenne chiaro per chi era stato acceso quel fuoco, chi si voleva mettere sul rogo. Era Yen Hsien-chen, persona che non c’entrava per nulla con quella discussione: vecchio membro del CC del PCC e prorettore della Scuola superiore di partito, egli, a quanto si scriveva e si diceva di lui, era accusato di appartenere alla “banda nera”, “che stava al potere” e che “aveva intrapreso la strada del capitalismo”.
Si scoprì che nei suoi vecchi scritti filosofici anche lui, come Ai Chen-yu e Lin Chin-shan (e come avevano fatto tutti gli altri seguendo l’esempio di Mao Tse-tung che in quell’occasione, naturalmente, non venne nominato), aveva usato la formula sacramentale del “legame di due in uno”, e aveva interpretato l’assunto della “scissione dell’unità” essenzialmente come una legge della conoscenza, sebbene, naturalmente, non avesse mai negato che questa legge della conoscenza è il riflesso della legge analoga dello sviluppo della natura e della società. E allora fu chiaro a tutti che la formula “legame di due in uno” non era soltanto un assunto filosofico, ma un segno di riconoscimento di partito falso, metafisico, revisionistico e controrivoluzionario nella filosofia e nella politica, esaltato da Yen Hsien-chen. E il fatto stesso che Yen Hsien-chen, affermando la tesi del “legame di due in uno”, scrivesse anche della “scissione dell’unità” venne giudicato un modo di mascherarsi…
È facile immaginare quale piega abbia preso in seguito questa discussione “filosofica”, a cosa mirasse e che strada prendesse…
E si riuscì a far entrare nella testa dei lettori l’idea che tutto questo chiasso era stato provocato, ispirato, proprio da Yen Hsien-chen, e sebbene egli non sia mai intervenuto in questa discussione (ulteriore conferma questa della sua perfidia), il vero istigatore è risultato essere proprio lui. E come tale doveva portarne la responsabilità.

L’espressione “scissione dell’unità” esprime in forma quanto mai chiara, precisa e accessibile a tutti il fulcro della dialettica, mentre il “legame del due in uno” di Yen Hsien-chen rappresenta da capo a fondo una sistematizzazione della metafisica (Hongqi, 1964, 16°).

Yen Hsien-chen aveva trascritto questa frase da un lavoro del “più-più-più”: che ve ne pare?

Noi cinesi diciamo spesso: sono contrapposti, ma si generano a vicenda. Questo vuol dire che tra le contrapposizioni esiste l’unità. In queste parole è racchiusa la dialettica, esse si contrappongono alla metafisica. “Contrapposti” vuol dire che le contrapposizioni si escludono l’una con l’altra o che si combattono; “si generano l’un l’altro” vuol dire che in determinate condizioni le contrapposizioni si legano tra loro e formano una unità (Mao Tse-tung: Opere scelte, vol. II, pp. 460-461).

Mao Tse-tung può farlo, ma Yen Hsien-chen no. Una stessa frase detta da Mao è dialettica, detta da Yen Hsien-chen è metafisica. Vuol dire che importante è non ciò che si dice, ma chi e perché lo dice.
La logica di “approfondimento” di una discussione è molto semplice. Un certo filosofo A scrive un articolo divulgativo sui già divulgatissimi articoli di Mao. Se egli non trascrive pari pari, parola per parola, un articolo di Mao, ma cerca di riferirlo almeno con delle “parole proprie”, si troverà subito un altro filosofo B, pronto a mettere in luce le “differenze”. Ma se “in ogni differenza si racchiude già una contraddizione” (Mao Tse-tung), non c’è niente di più facile che accusare l’incauto filosofo A di propagandare princìpi “in contraddizione” con i geniali pensieri di Mao Tse-tung. Ma si troverà subito anche un altro filosofo C, che constaterà come B non si sia spinto “abbastanza in profondità” nella sua critica a A, e che per questo errore egli deve a sua volta essere criticato e ammonito severamente. A questo punto verrà fuori il filosofo D il quale, dopo aver studiato accuratamente le opere di C, scoprirà che neanche lui è cristallino, e che perciò può essere accusato di aver cercato di esprimersi “con parole proprie”, e di non essere in grado di “scoprire fino in fondo gli smarrimenti di B”, ragion per cui il suo articolo critico contro A non fa altro che favorire la conservazione “della sostanza più dannosa e più profonda della sua concezione”…
Di questo passo il confine tra la verità assoluta e l’altrettanto assoluta eresia avanza sempre di più nell’ordine alfabetico, finché da una parte resta solo e unico Z (Z è il “più-più-più”), mentre tutti gli altri finiscono dall’altra parte, e vanno ad ingrossare le file dei revisionisti, le cui opinioni “si differenziano” dagli scritti campione di Z e, di conseguenza, lo “contraddicono”.
Tutto questo lavoro di “ricerca” ha lo scopo di dimostrare che nessuno al mondo può capire la dialettica tranne Mao Tse-tung, e che perciò tutti i filosofi, se non vogliono essere accusati di revisionismo, devono semplicemente declamare a memoria le parole del gran nocchiero, senza cercare di fare i furbi, e senza cambiare né il tono, né una virgola. Si capisce che un filosofo che risponda a questi requisiti assomigli più a un grammofono che a una persona viva, fornita di un proprio raziocinio.
Una discussione di questo tenore ha anche un inequivocabile scopo propagandistico. Lo scopo, naturalmente, non è quello di spiegare la legge dell’unità e della lotta delle contrapposizioni. Lo scopo è uno solo, cioè quello di organizzare altisonanti logomachie per imprimere e stampare a chiare lettere nel cervello di ognuno e di tutti che “la scissione dell’unità” è una verità assoluta e palese, assolutamente indiscutibile, e che tutto il resto non sono altro che chiacchiere inutili, dispute verbali con le quali i malvagi revisionisti vorrebbero seppellire ciò che è più-più-più importante nella dialettica, il suo “nucleo”.
È chiaro che in questo modo la “dialettica” diventa una specie di ascia, utile soltanto a mandare in frantumi (“dividere in due”) tutto ciò che le capita. Il movimento comunista internazionale? Dividerlo! Il fronte di lotta contro l’aggressore imperialista nel Vietnam? Dividerlo! Dividere e scindere tutto ciò che racchiude una benché minima “differenza”, fare di questa “differenza” una “contraddizione”, e della “contraddizione” un “antagonismo”. Dividere, dividere, dividere ancora ogni metà continuamente fino a che del mondo non resteranno che delle schegge: che bel fuoco divamperà allora per la rivoluzione mondiale!
Ecco tutta la grandezza della dialettica maoista. Altro non serve al “congegno inossidabile di Mao Tse-tung”. Tutto il resto è ruggine, menzogna, intrigo dei revisionisti… Il risultato teorico della discussione che abbiamo descritto è proprio questo.
Alla luce degli avvenimenti politici, svoltisi in Cina poco dopo questa sferzata “teorica”, balza in piena luce il primitivismo della versione maoista della “dialettica”. Si tratta di una “filosofia” ridotta al livello di coscienza del teppismo della guardie rosse, cioè esposta e interpretata su misura a questo livello mentale estremamente basso.
La espressione-formula “scissione dell’unità” è molto piaciuta ai maoisti poiché l’assunto del “legame di due in uno” sembra loro ormai revisionismo; e quei filosofi, che in passato avevano avuto l’imprudenza di scrivere e di parlare di “identificazione”, di “unione delle contraddizioni”, ora ci sputano sopra e sono costretti a farlo (chissà poi perché questo modo di procedere viene detto “critica” e “autocritica”).
I grandi clamori che si fanno sui vantaggi della “scissione” servono in particolare ai maoisti quando il discorso cade sul movimento comunista internazionale, sulle divergenze e sulle contraddizioni che lacerano le sue file. E, veramente, c’è poco da discutere, tutto questo serve. Bisogna chiedersi piuttosto: a chi?
Le formule generali della dialettica, pur essendo generali, tacciono su questo argomento. E Mao di fatto decide di testa sua quale formula astratta e generale tirare fuori e “applicare” in quel dato momento, per appiccicarla come una etichetta a un fatto, a un avvenimento, a una mossa politica. Se il “più-più-più” ritiene che in quel momento sia opportuno esaltare la “scissione”, la esaltano. Se gli sembra che in quella certa altra occasione non sia opportuno, esaltano la formula esattamente opposta. Bella dialettica! Questo modo di pensare va chiamato piuttosto col suo vero nome: ambiguità.
Nell’interesse del marxismo-leninismo e del vero internazionalismo proletario, il modo di ragionare maoista lo chiameremo d’ora in avanti proprio così, per non infangare la bellissima parola “dialettica”.
La terminologia dialettica si trasforma in un gergo, che viene usato per esprimere l’egoismo strettamente nazionalistico di un piccolo gruppo, in maniera assolutamente acritica, che perciò impedisce una visione obiettiva della realtà. Ma di quale dialettica si può trattare in questo caso? È naturale che il “linguaggio della dialettica”, della vera dialettica, che trae origine dalla tradizione del pensiero filosofico di Zenone e Aristotele, Cartesio e Spinoza, Kant e Hegel, Marx e Lenin, si adatta male a una utilizzazione di questo tipo, ed è per questo che vengono fuori sfasature e incongruenze di ogni genere, che dànno da fare e turbano i cultori della “purezza” (cioè della sterilità) del pensiero teorico.
Questo spiega anche quella ridicola pedanteria, con la quale i professionisti dell’eclettismo sono costretti ad attaccarsi alla lettera, all’aspetto verbale e formale del pensiero, cioè al lato puramente geroglifico della faccenda.
E così, per parecchi anni i filosofi cinesi sono stati costretti a dibattere sulle pagine di decine di riviste e di giornali un problema indefinibile e praticamente privo di contenuto sulla cosiddetta corrispondenza del pensiero con la vita pratica. La discussione ha portato a questo: se è consentito o non è consentito a un marxista di usare questa espressione nel senso in cui la usava Friedrich Engels, cioè come una formula, che esprima la soluzione positiva “del secondo aspetto del problema fondamentale della filosofia”.
In sostanza però non c’è stata nessuna discussione, né poteva esserci. Entrambi gli aspetti del problema partono dalla considerazione che al primo posto c’è la materia, al secondo il pensiero, che la coscienza è la forma di riflesso più elevata della vita pratica, che il mondo esterno è conoscibile, ecc. Si è discusso unicamente se era o non era ammissibile disegnare un geroglifico, equivalente alla parola russa toždestvò (corrispondenza) e alla parola di origine latina identičnost (identità) allorché si parla di accordo, corrispondenza, coincidenza della conoscenza con le cose. I filosofi si sono battuti su questa questione così ferocemente, come se non ci fosse altro di più serio e attuale.
Chissà per quanto tempo si sarebbe protratta questa dilettevole discussione, se un bel giorno non fosse entrato in campo “il sole rosso” del genio di Mao Tse-tung. Venne pubblicato un suo articolo divulgativo sulla trasformazione del “materiale” in “ideale” e viceversa, nel quale, ragionando della trasformazione dialettica di queste “contraddizioni”, Mao Tse-tung tracciò di propria mano il geroglifico di toždestvò (corrispondenza).
La discussione si interruppe immediatamente. Fu subito chiaro che da quel momento sarebbe stato non solo permesso, ma addirittura fatto obbligo di parlare di “corrispondenza dialettica” dell’ideale e del reale, cioè di pensiero e vita pratica. Da quel giorno tutti si misero a parlare e a scrivere sulla “corrispondenza” del pensiero e della vita pratica, e non soltanto a proposito della conoscibilità del mondo ma per qualsiasi altra ragione, prima tra tutte la campagna appena iniziata per “l’applicazione del pensiero di Mao Tse-tung alla vita pratica”, per dimostrare la saggezza del ragionamento di Mao Tse-tung, che “corrisponde” sempre infallibilmente e completamente alla vita pratica.
Cominciavano a fare sempre più chiasso sulla “corrispondenza”, cioè sull’“applicazione delle idee alla realtà”, quando ebbe inizio la follia della “rivoluzione culturale”.
Questo chiasso aveva sempre il medesimo scopo, e si aggirava sempre intorno alla tesi della “scissione dell’unità”. Si creò l’impressione che Mao e i suoi seguaci nel campo della filosofia si preoccupassero in maniera commovente della “purezza” dell’assunto teorico generale, della esattezza assoluta e della uniformità di accezione delle formule della “dialettica” e della necessità inequivocabile di seguire queste formule, e di frapporsi alla minima deviazione dalla lettera.
Ma dunque, in che cosa consiste la dialettica eclettico-soggettiva del maoismo?
Si tratta essenzialmente di un numero ristretto di frasi, che riproducono gli assunti della vera dialettica. È una filosofia senza vita, utilizzabile di fatto solo come fraseologia, come “linguaggio” per esprimere pensieri tutt’altro che dialettici, per legalizzare verbalmente azioni politiche del tutto arbitrarie determinate da circostanze immediate. Con tutta la buona volontà non si può trovare altro nel sistema filosofico maoista.
Gli assunti generali della dialettica vengono citati e declamati alla lettera, e ogni volta fuori proposito. Si applicano semplicemente come delle locuzioni verbali a quegli intrighi, che Mao escogitò indipendentemente dalla dialettica, dalla teoria marxista-leninista, da qualsiasi analisi teorica concreta della realtà attuale e delle sue vere contraddizioni.
La vera dialettica materialistica consiste innanzi tutto in un metodo di studio scientifico-obiettivo e critico-rivoluzionario sia della realtà, sia di quei concetti teorici, grazie ai quali la realtà si riflette nella coscienza.
Ma nella coscienza dei maoisti “funziona” una logica del tutto diversa. I teorici del pensiero di Mao Tse-tung non manifestano nessun atteggiamento critico verso quegli “assunti” con i quali opera il loro pensiero. Alla “critica” (ossia alla denigrazione) essi sanno esporre soltanto coloro che la pensano diversamente. Ma il pensiero acritico verso se stesso, organicamente non è in condizione di essere dialettico neanche con il mondo circostante, poiché il narcisismo porta a far si che l’uomo nato in un determinato mondo veda in quel mondo unicamente il riflesso di se stesso, il riflesso della propria fisionomia. Egli misura tutto col proprio metro. Tutto il mondo diventa per lui uno specchio, che riflette il suo volto, e di questo volto egli si innamora, dimentico di tutto, come Narciso. E tutto ciò che della fisionomia è brutto, tutte le sciocchezze del suo pensiero meschino, egli le considera alterazione di questo “bellissimo prototipo”, “revisionismo”.
Vedere il mondo circostante “solo come oggetto della propria attività”, non riconoscergli nessun diritto a una propria dialettica, nessun diritto a uno sviluppo autonomo, e considerare se stesso come l’unico ad avere diritto a svolgere “attività rivoluzionaria”, vuol dire nutrire una illusione molto pericolosa e gratuita nel potere. Karl Marx dimostrò in passato che questa illusione è propria dei burocrati di professione. Il modo di ragionare dei burocrati è veramente inconciliabile con la dialettica, come lo è il genio col malfattore, come lo è il culto religioso in qualsiasi sua variante, anche laica, con la vera rivoluzione proletaria.
La filosofia materialistica dal canto suo non è conciliabile con dio, con il culto religioso e con il pensiero dei sacerdoti del culto, qualunque sia il nome della divinità. O distrugge questo culto, o soccombe diventando un metodo di apologetica di tutte le stupidità e le stravaganze alle quali qualsiasi culto è legato organicamente per la natura stessa di questo fenomeno.
La cricca di Mao Tse-tung è riuscita a fare della dialettica una caricatura, una sofistica dell’ambiguità. E dopo ha inizio la farsa vera e propria, si citano in lungo e in largo i princìpi della dialettica, e si comincia ad “applicarli” a varie questioni, che vanno dal commercio dei cocomeri alla questione dei parrucchieri, dalla cura dei sordomuti alla diffusione dei metodi anticoncezionali, e così via.
A questo punto la tragedia si trasforma in una commedia che non fa per niente ridere.
Non vale la pena di diffondersi oltre sul contenuto teorico della “dialettica” maoista.
Dopo è cominciata l’“applicazione delle idee alla vita pratica”, che si è tradotta per il popolo cinese in una tragedia, denominata “grande rivoluzione culturale proletaria”.

Edited by Andrej Zdanov - 19/4/2014, 18:31
 
Web  Top
0 replies since 4/3/2014, 16:49   139 views
  Share