Archivio Ždanov

Recensione allo studio di A. L. Volynskij: Critici russi. Saggi letterari

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 7/11/2012, 20:49

Advanced Member

Group:
Administrator
Posts:
1,394

Status:


Estratto da “Scritti di estetica”, edizioni La nuova sinistra Samonà e Savelli, 1972:


RECENSIONE ALLO STUDIO DI A. L. VOLYNSKIJ: CRITICI RUSSI. SAGGI LETTERARI[2]. (Passi scelti)

... L’estetica idealista sapeva naturalmente che ogni grande epoca storica ha avuto la sua arte (ad esempio, Hegel distingue l’arte orientale, l’arte classica e la romantica); ma in questo caso tale estetica, costatando dei fatti evidenti, dava loro una spiegazione assolutamente insoddisfacente. La storia dell’arte era spiegata in ultima analisi mediante le proprietà dello spirito, mediante le leggi di sviluppo dell’idea assoluta. Quando un qualsiasi signor Volynskij ci fornisse simili chiarimenti, non ne esce fuori niente altro che vuote frasi che vorrebbero essere filosofiche. Quando invece è un gigante come Hegel che si accinge a un simile compito, allora indiscutibilmente ne risultano talora delle costruzioni logiche molto ingegnose e addirittura geniali. C’è solo un guaio: che queste costruzioni generalmente non spiegano proprio un bel niente, e cioè non conducono affatto allo scopo per cui vengono costruite. In effetti Hegel ci dice che l’arte classica è caratterizzata da un perfetto equilibrio tra la forma e il contenuto, mentre nell’arte romantica il contenuto (l’idea) ha la prevalenza sulla forma. Questa è un’osservazione molto interessante, che chiunque si occupi di storia dell’arte farà bene a tener presente. Ma perché il contenuto ha la prevalenza sulla forma nell’arte romantica?

A ciò non è in grado di rispondere l’estetica idealistica di Hegel, giacché non si può considerare una risposta l’affermazione che l’infinito (il contenuto, l’idea) nel suo sviluppo logico deve immancabilmente prevalere sul finito (la forma). Qui vediamo ripetersi in Hegel ciò che possiamo vedere anche nella sua Filosofia della storia, dove l’evoluzione storica dell’umanità viene spiegata mediante le leggi logiche dell’evoluzione della stessa idea assoluta, e dove queste leggi logiche allo stesso modo non dimostrano nulla. E così come accade nella Filosofia della storia, anche nell’Estetica Hegel abbandona ogni tanto il suo idealistico regno delle ombre per respirare l’aria fresca della realtà sociale. E’ notevole il fatto che in questi casi il petto del vecchio respira così bene, come se non avesse mai respirata altra aria che quella. Ricordiamo le sue considerazioni sulla pittura olandese.

E’ noto che i quadri dei pittori olandesi non sono quasi mai caratterizzati da un contenuto «elevato». Si direbbe quasi che questi pittori abbiano giurato di dimenticare i soggetti «elevati» e di rappresentare soltanto la prosa della vita. Hegel si chiede: così facendo questi pittori non hanno forse peccato contro le leggi dell’estetica? Ma risponde di no e afferma che i loro soggetti generalmente non sono così meschini come potrebbe sembrare a un primo sguardo.

«Gli olandesi, — egli dice, — attinsero il contenuto dei loro quadri da se stessi, dalla vita sociale contemporanea; non li si può rimproverare per il fatto che essi, mediante l’arte, riprodussero la realtà a loro contemporanea». Se essi non l’avessero riprodotta, i loro quadri avrebbero perduto ogni interesse agli occhi dei loro contemporanei. Per comprendere la pittura olandese bisogna ricordare la storia degli olandesi. Essi hanno strappato al mare il suolo su cui vivono; grazie alla loro ostinazione, pazienza e coraggio essi sono riusciti ad abbattere il dominio di Filippo Il e a conquistarsi la libertà religiosa e politica, e la loro operosità e intraprendenza hanno loro assicurato un notevole benessere. Agli olandesi erano care queste qualità di carattere e la rispettabile agiatezza borghese. E appunto queste qualità e questa agiatezza venne riprodotta nei quadri olandesi. Possiamo constatarlo nei quadri di Rembrandt, nei ritratti di Van Dyck e nelle scene di Wouwerman. Per noi qui non è tanto importante il fatto che Hegel cerchi di giustificare i pittori olandesi; secondo noi infatti essi non hanno mai avuto bisogno delle giustificazioni di nessuno. Noi vogliamo invece attirare l’attenzione del lettore sul fatto che il grande idealista sapeva spiegare benissimo almeno alcuni fenomeni della storia dell’arte fondandosi sul corso evolutivo della vita sociale. Per comprendere la pittura degli olandesi è necessario tener presente la loro storia. Questo è un pensiero assolutamente giusto. Ma questo giusto pensiero c’induce a delle riflessioni molto pericolose per l’estetica idealistica.

Che succederebbe se questo pensiero — assolutamente giusto se riferito alla pittura olandese — si dimostrasse altrettanto giusto se riferito alla pittura italiana, alla scultura greca, alla poesia francese e così via? Si comincerebbe a spiegare la storia dell’arte partendo dalla storia della vita sociale, e non si sentirebbe più la minima necessità di tutte le sottili costruzioni logiche degl’idealisti che si rifanno alle qualità dell’idea assoluta. L’estetica idealistica morirebbe di morte naturale.

E le cose sono andate effettivamente così. Mentre l’estetica idealistica si dava da fare con l’idea assoluta, nella letteratura dei paesi europei più progrediti si è venuta sempre più diffondendo e consolidando la convinzione che lo sviluppo spirituale dell’umanità è soltanto un riflesso del suo sviluppo sociale. Già all’inizio del XIX secolo veniva pubblicato il libro di madame de Staël: «De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales», (Paris, 1800). Il compito che l’autrice si era proposta vi era risolto in misura gravemente insufficiente: tale compito era di gran lunga superiore alle forze di questa scrittrice famosa ma sostanzialmente superficiale, e che forse non era nemmeno in grado di comprenderne tutto l’enorme significato. Ma il problema così era stato posto, e già questo fatto era straordinariamente interessante. Che esso sarebbe stato adeguatamente risolto era garantito dalla stessa vita sociale dell’Europa Occidentale.

La Francia fece senz’altro più degli altri paesi per la soluzione del problema, e tra gli stessi francesi quelli che lo comprendevano meglio molto spesso non appartenevano al numero dei letterati di professione. Così, ad esempio, il famoso storico Guizot lo comprendeva in modo incomparabilmente più giusto e più profondo di Villemain o di Victor Hugo. Nella sua notevole opera Etude sur Shakespeare (del 1821) Guizot si attiene senza alcuna esitazione e in maniera assolutamente coerente alla tesi che la storia letteraria di un determinato paese è il frutto della sua storia sociale. Shakespeare è il figlio perfettamente legittimo dei rapporti sociali e dei costumi vigenti in Inghilterra al tempo di Elisabetta. Allo stesso modo, se Guizot pensa che il classicismo abbia fatto il suo tempo, ciò dipende dal fatto che non esiste più quella società di cui esso è stato la splendida espressione. Infine, se Guizot pensa che soltanto il «sistema di Shakespeare» sia in grado di fornire les plans d’après lesquels le génie doit maintenant travailler, ciò dipende anche in questo caso da un fatto che ha le sue radici nell’assetto sociale: «soltanto quel sistema è in grado di abbracciare tutte le situazioni sociali e tutti i sentimenti ... i cui conflitti e la cui attività compongono ai nostri occhi lo spettacolo della vita umana».

Se paragoniamo questo studio di Guizot alla famosa prefazione al Cromwell[3] che viene considerata il manifesto letterario dei romantici, vediamo che quando si tratta di spiegare lo sviluppo storico del dramma il poeta ci appare un bambino nei confronti dello storico. E ciò non è affatto sorprendente. Un ricco patrimonio di conoscenze storiche è di per sé un’ottima cosa là dove si tratta di sviluppo storico. Ma il nostro storico non era soltanto uno storico. Questo studioso capace di un assiduo lavoro nel chiuso del suo gabinetto, era nello stesso tempo anche un uomo d’azione. Guizot fu uno degli uomini politici più notevoli della borghesia francese del XIX secolo. La lotta politica gli svelò ben presto dove si trovavano le molle nascoste degli avvenimenti politici, molle invisibili all’occhio impedito dal velo poetico. Egli fu uno dei primi che si resero chiaramente conto del fatto che i rapporti politici hanno le loro radici nei rapporti sociali. Ma dal riconoscimento di una tale verità non v’era oramai più che un passo per convincersi che i rapporti sociali spiegano anche la storia letteraria dei popoli.

Ma ciò non è ancora tutto. Prendendo parte attiva alla contemporanea lotta politica della borghesia contro l’aristocrazia ed il clero, Guizot comprese il significato dei reciproci urti delle classi sociali nel corso dell’evoluzione storica dell’umanità. Con le espressioni più ardite e assolutamente prive di ogni ambiguità Guizot proclamò che tutta la storia di Francia non è che il risultato ditali urti. Una volta fatto proprio un tale punto di vista, egli doveva naturalmente tentare di applicano alla storia della letteratura, e tale tentativo venne effettivamente compiuto nel suo Étude sur Shakespeare.

La poesia drammatica è sorta tra il popolo e per il popolo. Ma a poco a poco essa divenne dovunque il divertimento preferito delle classi superiori, la cui influenza doveva necessariamente mutarne completamente il carattere. E il mutamento non fu certo in meglio. Approfittando della propria posizione privilegiata, le classi superiori si staccano dal popolo elaborando a mano a mano dei punti di vista, delle abitudini, dei sentimenti e dei costumi loro peculiari. La semplicità e la naturalezza lasciano il posto all’artificialità e alla ricercatezza, i costumi diventano effeminati. Tutto ciò si riflette anche nel dramma, il cui campo si restringe generando monotonia. Ecco perché presso i popoli moderni la poesia drammatica fiorisce rigogliosa soltanto là dove, grazie a un fortunato concorso di circostanze, l’artificialità — sempre predominante nelle classi superiori — non ha ancora avuto il tempo di far pesare la propria nociva influenza sulla poesia drammatica stessa, e dove le classi superiori non hanno ancora del tutto rotto i legami con il popolo, conservando un patrimonio di gusti e di esigenze estetiche comune al popolo stesso. Appunto un tale concorso di circostanze si osserva durante il regno di Elisabetta in Inghilterra, dove per giunta la fine dei recenti torbidi e l’innalzamento del livello di vita del popolo dettero una più energica spinta alle forze morali e intellettuali della nazione. Già da allora si veniva accumulando quella colossale energia che doveva in seguito esprimersi nel movimento rivoluzionario; ma per il momento una tale energia si manifestava soprattutto in modo pacifico. Shakespeare la espresse nei suoi drammi. Tuttavia la sua patria non fu sempre in grado di apprezzare le sue opere geniali. Dal tempo della Restaurazione l’aristocrazia inglese, aspirando a trapiantare in patria i gusti e le abitudini della brillante nobiltà francese, dimentica Shakespeare. Dryden trova la sua lingua invecchiata, e all’inizio del secolo XVIII lord Shaftesbury deplora amaramente il suo stile barbaro e il suo spirito fuori moda. Infine Pope rimpiange il fatto che Shakespeare abbia creato per il popolo, senza curarsi di piacere agli spettatori di «livello superiore». Soltanto dall’epoca di Garrick si riprese a recitare integralmente Shakespeare sulla scena inglese (e cioè senza tagli nè rimaneggiamenti).

Sarebbe ridicolo affermare che Guizot abbia enumerato tutte le condizioni storiche che determinarono l’apparizione dei drammi di Shakespeare. Chi fosse in grado di stendere un simile elenco potrebbe anche dettare alla storia delle ricette per la produzione di scrittori di genio. Ma è indubbio che Guizot seguisse nelle sue ricerche una strada assolutamente giusta e che la storia spiega queste faccende molto meglio di quanto possa farlo «l’idea assoluta». Se Guizot avesse seguitato a lavorare in questo campo o se del suo punto di vista si fossero meglio impadroniti i critici successivi, oggi noi disporremmo certamente di molto materiale ottimamente elaborato per una storia universale della letteratura. Ma una coerente applicazione delle idee di Guizot divenne ben presto moralmente impossibile per gli ideologi della borghesia.

Già fin dall’anno 1830 l’alta borghesia occupa una posizione dominante in Francia. La sua lotta contro la nobiltà è ormai conclusa: il nemico un tempo così terribile è ora vinto e stremato; da questo momento non sono più da temere duri colpi da quella parte. Ma, ahimé!, la felicità su questa terra non è stabile. La ricca borghesia non ha fatto neppure a tempo a sbarazzarsi di un nemico, quand’ecco che già un altro muove contro di lei dal lato opposto. Gli operai e la piccola borghesia, che pure avevano preso così energicamente parte alla lotta contro l’antico regime, ma che erano rimasti come prima in una difficile situazione economica ed erano privi dei diritti politici, cominciarono ad avanzare nei confronti della recente alleata delle pretese che essa in parte non voleva e in parte non poteva assolutamente soddisfare senza suicidarsi. Ebbe così inizio una nuova lotta nel corso della quale la ricca borghesia dovette assumere una posizione difensiva. Ma è noto che le posizioni difensive non favoriscono lo sviluppo dell’amore per la verità nelle classi e nei ceti sociali che vi si arroccano. «Vivere in mezzo ai propri concittadini come in mezzo ai nemici, considerare il proprio popolo come un nemico e combattere contro di esso giocando d’astuzia e celando la propria ostilità, ricoprendola di vari veli più o meno artificiosi», ciò significa dire addio una volta per tutte ad ogni nobile impulso, amare non ciò che è vero ma ciò che è utile, e definire il bene con quella formula che — a quanto si dice — venne enunciata da un selvaggio a un missionario: bene è quando riesco a derubare qualcuno, male quando qualcuno deruba me. I dotti rappresentanti della borghesia francese, nelle loro ricerche dedicate a problemi sociali, cominciarono a chiacchierare molto volentieri e molto diffusamente del fatto che gli orecchi non crescono mai più alti della fronte, e che i poveri si sarebbero dimostrati persone ispirate da un’alta moralità solo a condizione che dimenticassero la loro disgraziata posizione, permettendo tranquillamente di arricchirsi a coloro a cui il destino ne aveva dato la possibilità. Qualsiasi allusione alla lotta tra le forze sociali cominciò allora ad essere considerata sconveniente nell’ambiente borghese, così come sarebbe stata considerata sconveniente vent’anni prima nell’ambiente aristocratico. E quello stesso Guizot che aveva proclamato un tempo che tutta la storia di Francia si può ricondurre a quella lotta e che questo fatto universalmente noto può essere occultato soltanto dagl’ipocriti, quello stesso Guizot cominciò ora a leggere delle prediche sul tema opposto. In particolar modo egli prese a diffondersi su questo argomento dopo l’anno 1848, che aveva incusso una tale paura nelle «classi medie» a lui così care.

Dal momento che il precedente modo di vedere era diventato praticamente indesiderabile e inaccettabile per la ricca borghesia, non c’è da stupirsi che i suoi ideologi si siano dimostrati sempre più riluttanti a farlo proprio ed a applicarlo anche in teoria. A poco a poco essi si dimenticarono completamente del fatto che i loro predecessori in un’epoca ancora recente si erano attenuti a quel modo di vedere con grande successo. Se ne dimenticarono e anzi a poco a poco si convinsero che quel modo di vedere era stato inventato dai malvagi sovvertitori delle fondamenta borghesi con il disgustoso fine di sommuovere la massa credula e ignorante e nuocere alla gente perbene. Nelle loro ricerche sulla storia dell’arte essi non cessarono di ripetere che l’arte è il riflesso di esigenze e gusti sociali; ma ormai capitava loro di rado di ricordarsi del fatto che la società è composta di varie classi, le cui esigenze e gusti debbono necessariamente mutare in connessione con i mutamenti intervenuti nei rapporti sociali. E anche questi rari casi si verificavano soltanto quando si trattava di fenomeni che si riferivano alla lotta del terzo stato contro l’ancien régime; allo stesso modo i vecchi ricordano la loro infanzia e la loro gioventù, ma si dimenticano di quel che è successo il giorno prima, e non sono neppure capaci di cogliere il senso evidente di ciò che si svolge sotto i loro occhi nel momento attuale: hanno occhi e quasi non vedono, hanno orecchi e ci sentono appena ...

La piccola borghesia e la classe lavoratrice furono posti dagli avvenimenti del 1830 in una situazione completamente diversa rispetto all’imparziale verità teorica. L’odio per i «privilegi» determinò in essi l’aspirazione alla giustizia e l’indignazione contro l’ipocrisia della ricca borghesia li induceva ad amare la verità prescindendo da qualsiasi considerazione pratica. Nel periodo compreso tra il 1830 e il 1848 la piccola borghesia francese ha generato un’enorme quantità di talenti di ogni genere, e le questioni relative all’arte e alla letteratura assunsero un immenso significato agli occhi della sua parte più colta. Nello stesso periodo i suoi ideologi fecero moltissimo per l’estetica scientifica. La posizione indefinita della loro classe (o, per dir meglio, del loro ceto sociale) tra la ricca borghesia e il proletariato non permetteva loro di considerare i rapporti tra le varie classi con la stessa chiarezza dimostrata in quel torno di tempo da Guizot e dai suoi seguaci. Essi avrebbero voluto porsi al disopra delle classi, trasferendo i problemi della vita sociale e della scienza neI regno nebuloso delle astrazioni. Di un conflitto tra gli elementi sociali queste persone, molte delle quali erano entusiasti seguaci delle dottrine del socialismo e del comunismo utopistico, non volevano nemmeno sentir parlare. E’ chiaro che essi non potevano capire la colossale importanza scientifica del punto di vista fermamente adottato da Guizot nel suo Saggio su Shakespeare.

Quanto al proletariato ..., non aveva tempo di occuparsi di estetica.

********



In tal modo la teoria dell’arte, per delle ragioni — si può dire — da essa completamente indipendenti, non realizzò neppure lontanamente tutto ciò che aveva promesso negli anni venti del secolo attuale. Tuttavia ciò che essa riuscì comunque a realizzare era già abbastanza per dimostrare l’inutilità dell’estetica degl’idealisti assoluti.

Dimenticando gli urti e gli attriti tra i vari elementi e strati sociali, i teorici dell’arte chiusero gli occhi su un fattore straordinariamente importante, che è in grado di spiegare molti aspetti della storia di tutte le ideologie in generale. Essi si privarono così della possibilità di comprendere molti aspetti particolari della storia dell’arte, comprensione che è indispensabile per liberarsi dallo schematismo e dall’astrazione nella teoria. Tuttavia essi non desistettero dall’attenersi a una teoria giusta. Nessuno di essi infatti dubitava del fatto che la storia dell’arte si spiega attraverso la storia della società, ed alcuni — Taine, ad esempio — svilupparono questa idea con notevole talento. Una tale idea è insufficiente per una completa comprensione della storia dell’arte; tuttavia essa è già perfettamente sufficiente per permettere di dimenticarsi completamente dell’idea assoluta occupandosi di storia dell’arte.

*******



Lo sappiamo già: una autentica critica letteraria dev’essere competente nella valutazione di idee poetiche che hanno sempre una natura astratta. Così dice il signor Volynskij. A pagina 214 del suo libro questo autentico critico letterario rimprovera Dobroljubov per il fatto che la sua «analisi non penetra mai profondamente nell’argomento dell’opera letteraria con lo scopo di scoprire qualche generale principio psicologico o d’illuminare mediante una determinata concezione filosofica i complessi procedimenti della creazione umana». Disgraziatamente lo stesso signor Volynskij non ci ha dimostrato neanche una volta, con qualche esempio concreto, che cosa effettivamente significhi valutare un’idea poetica, o illuminare mediante una concezione filosofica il processo che si svolge nella testa dell’artista; gli attacchi isterici da cui è colto ogni tanto il nostro critico naturalmente non illuminano proprio nulla, a parte certi «processi» che interessano il suo proprio sistema nervoso. Pertanto, volenti o nolenti, ci tocca rivolgerci di nuovo all’«uomo che pensa l’eternità»[4].

In che consiste l’idea dell’Antigone di Sofocle? Nello scontro tra il diritto familiare e il diritto statale, risponde Hegel; il rappresentante del primo è Antigone e quello del secondo è Creonte. Antigone muore vittima di questo conflitto così vasto. Questa concezione di Hegel ci è molto più comprensibile delle prediche del signor Volynskij; ne prendiamo nota e andiamo avanti. Si domanda: la concezione che Hegel ci ha partecipato può considerarsi equivalente alla «scoperta di un qualche generale principio psicologico»? «No, — ci risponderebbe Hegel, — non credete al signor Volynskij se si metterà a dire che — secondo la mia filosofia — illuminare mediante una concezione filosofica il processo creativo dell’artista significa fare della psicologia. Voi sapete che in generale la psicologia non gode del mio favore. Illuminare un’opera d’arte alla luce della filosofia significa comprenderla come espressione di uno di quei principi dal cui conflitto, dalla cui contraddizione, risulta condizionata l’evoluzione della storia universale. I processi psicologici che si svolgono nell’anima dell’individuo m’interessano solo come espressione del generale, solo come riflesso del processo di sviluppo dell’idea assoluta».

Il lettore sa già che il nostro punto di vista è diametralmente opposto a quello idealistico. Ciò nondimeno è con il massimo piacere che noi qui ci richiamiamo a Hegel. Nelle sue idee sull’arte c’è generalmente molto di vero; solo che la verità in esse — secondo la nota espressione — sta a testa in giù, e bisogna esser capaci di rimetterla sulle sue gambe.

Se abbiamo considerato l’Antigone — sulla scorta di Hegel — come un’espressione artistica della lotta tra due principi giuridici, anche senza l’aiuto di Hegel saremo in grado di considerare, ad esempio, le Mariage de Figaro di Beaumarchais come espressione della lotta del terzo stato contro l’antico regime. E una volta che avremo imparato a illuminare le opere d’arte alla luce di una tale filosofia, ecco che ormai non avremo più nessun bisogno dell’idea assoluta, mentre d’altra parte sarà assolutamente indispensabile riconoscere che chi non si renda chiaramente conto di quella lotta, il cui multisecolare e multiforme processo costituisce la storia, non può evidentemente essere un critico d’arte cosciente.

Considerando il Mariage de Figaro com’espressione della lotta del terzo stato contro l’antico regime, naturalmente non chiuderemo gli occhi sul problema di come questa lotta sia stata espressa, e cioè di come l’artista abbia svolto il suo compito. Il contenuto di un’opera d’arte è costituito da una certa idea generale e (come dice il signor Volynskij, dimenticando la terminologia dell’«uomo che pensa l’eternità») astratta. Ma invece non vi è neppure una traccia di creazione artistica là dove l’idea appare sotto il suo aspetto «astratto». L’artista deve individualizzare quell’elemento generale che costituisce il contenuto della sua opera. E una volta che abbiamo a che fare con l’individuo, ecco che ci troviamo di fronte a determinati processi psicologici, e in questo caso non soltanto non è fuori luogo, ma al contrario è assolutamente obbligatoria e perfino straordinariamente istruttiva l’indagine psicologica. Ma la psicologia di determinati personaggi assume ai nostri occhi una straordinaria importanza proprio perché è la psicologia d’intere classi sociali o perlomeno d’interi strati sociali, e di conseguenza i processi che si svolgono nel l’animo di singoli individui costituiscono il riflesso di un movimento storico.

Forse il signor Volynskij si arrabbierà con noi e ci accuserà di utilitarismo, e magari ci dirà che ci avviciniamo a rapidi passi al punto di vista della critica impegnata da lui così odiata. Ma dai suoi colpi noi ci difenderemo riparandoci dietro le spalle dell’«uomo che pensa l’eternità». E lasciamo che il signor Volynskij se la veda con lo stesso Hegel.

Hegel avrebbe probabilmente dimostrato il più grande disprezzo verso tutti questi nostri talenti grandi e piccoli che ci promettono di mostrarci una «nuova bellezza» e intanto certe volte non sanno nemmeno cavarsela con la vecchia. Egli avrebbe certo affermato che nelle loro opere è assente ogni contenuto di una qualche importanza. E il contenuto era una cosa molto importante agli occhi di Hegel. E’ noto, ad esempio, che egli considerava con una certa malevolenza i cantori di sentimenti amorosi e brontolava spesso e volentieri contro i poeti che consideravano cosa della massima importanza il fatto che questo amasse quella e questa a sua volta amasse quello, tanto che per lei non esisteva nessun altro al mondo, e così via. In generale, secondo lui, la poesia che raccontava che «una pecorella si era smarrita, una fanciulla si era innamorata» non aveva un contenuto importante. Rimproveri di questo genere certo non sarebbero riusciti graditi ai nostri partigiani dell’arte per l’arte, che vi avrebbero scorto una certa tendenza per la critica impegnata, e il signor Volynskij avrebbe perfino rischiato una crisi isterica se si fosse dimenticato anche solo per un istante che chi brontola in questo caso è Hegel, e non un qualsiasi «fischiatore»[5].

In generale ci sembra che il signor Volynskij, dichiarandosi idealista, non si rendesse pienamente conto della quantità di pensieri eretici che si possono trovare nei diciotto tomi delle opere di Hegel.

Per non irritare il nostro «autentico» critico dovremmo dire francamente qual’è la critica che preferiamo: la critica filosofica o quella impegnata. Ma il guaio sta nel fatto che noi questo non possiamo dirlo, giacché noi pensiamo che una critica autenticamente filosofica è allo stesso tempo anche un’autentica critica impegnata.

Ci spiegheremo subito, ma prima vogliamo fare una piccola osservazione riguardo alla terminologia. Abbiamo definito filosofica la critica di un certo tipo unicamente perché così ha creduto di esprimersi il signor Volynskij, ed esponendo il nostro pensiero non volevamo correre il rischio di renderlo oscuro ricorrendo a una diversa terminologia. Ma in realtà siamo convinti che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, possiamo già permetterci il lusso di sostituire la vecchia critica filosofica e l’estetica in generale con una critica e un’estetica scientifica.

L’estetica scientifica non impone all’arte nessun precetto; non le dice: tu devi attenerti a queste regole e a questi procedimenti. Essa si limita ad osservare in qual modo sorgono le varie regole e procedimenti artistici che predominano nelle varie epoche storiche. Essa non proclama le eterne regole dell’arte; essa si sforza invece di studiare quelle eterne leggi dalla cui azione è condizionata l’evoluzione storica dell’arte stessa. Essa non dice: «la tragedia classica francese è buona, mentre il dramma romantico non vale nulla». Per essa tutto è buono a suo tempo; essa non è favorevole per partito preso più ad alcune che ad altre scuole artistiche; e se anche (come vedremo più oltre) essa dimostra certe preferenze, perlomeno non pretende giustificarle richiamandosi alle leggi eterne dell’arte. In una parola, essa è oggettiva come la fisica, e proprio per questo è estranea ad ogni metafisica. E appunto questa critica oggettiva — diciamo noi — diventa impegnata proprio nella misura in cui è autenticamente scientifica.

Per chiarire il nostro pensiero torniamo a Guizot, il quale ha dichiarato che il «sistema classico» è una creazione delle classi superiori della società francese. Immaginatevi che egli nel suo saggio non si sia limitato ad osservazioni ed indicazioni isolate, bensì, dopo aver caratterizzato dettagliatamente la convenzionalità che regnava nei costumi dell’aristocrazia, abbia dimostrato particolareggiatamente allo stesso tempo qual’era il terreno sociale da cui essa era sorta, e quale grado di sottomissione del terzo stato essa comportava. Immaginatevi anche che egli abbia scritto tutto questo in modo assolutamente oggettivo, come un monaco invecchiato nel suo monastero, il quale

Considera sereno i giusti e i colpevoli,
Registrando indifferente il bene e il male,
Senza conoscere pietà né collera[6] ...

Immaginatevi infine che questa oggettiva narrazione critica venga letta da un uomo che appartenga alla borghesia. Se quest’uomo non sarà completamente indifferente ai destini storici della propria classe, avvertirà senza dubbio nel suo animo una certa ostilità verso quel tipo di regime nel quale la nobiltà e il clero potevano tranquillamente coltivare le «buone maniere» standosene seduti in groppa al tiers-état. E giacché questo studio di Guizot apparve proprio nell’epoca in cui era giunta al culmine della violenza l’ultima lotta tra il vecchio regime e la nuova società borghese, siamo in grado di affermare fondatamente che esso ebbe un’importanza pubblicistica non piccola, e che l’avrebbe avuta anche maggiore se l’autore si fosse soffermato più a lungo sul legame storico causale che intercorre tra l’antico regime e il «sistema classico». In tal caso una tale ricerca storico-letteraria avrebbe potuto facilmente — senza cessare neanche per un istante di rispondere alle più severe esigenze scientifiche, e magari anche contro la volontà dello stesso autore — rivelarsi come l’ardente appello di un pubblicista. «Il poeta, anche quando insegna la sopportazione, inasprisce sempre le piaghe del cuore, giacché egli lo scuote sempre con forza», ha detto il Foscolo. Della critica scientifica si può dire che essa tanto più chiaramente sottolinea il male sociale, quanto più obbiettiva è la sua analisi, e cioè con quanta più chiarezza e rilievo essa rappresenta questo male.

Suggerire alla critica di non confondersi con la pubblicistica è altrettanto inutile quanto proclamare le leggi «eterne» dell’arte. Se anche vi si ascolta, ciò accade solo per qualche tempo, e cioè solo fino al momento in cui, sotto l’influsso della evoluzione sociale, non si muteranno i gusti predominanti e non verranno scoperte nuove «eterne» leggi dell’arte. Il nostro nemico della critica pubblicistica o impegnata, il signor Volynskij, evidentemente non sospetta nemmeno che vi siano state delle epoche in cui non soltanto la critica, ma anche la stessa creazione artistica erano completamente pervase di spirito pubblicistico. Forse che anche il freddo sfarzo e la stessa regale grandeur a cui si ispira l’arte del secolo di Luigi XIV non sono in parte pubblicistica? Forse che esse non sono state coscientemente introdotte nella creazione artistica proprio per nobilitare una certa concezione politica? Non vi è forse un elemento d’impegno politico nei quadri di David o nel cosiddetto dramma borghese? Certo che c’è; e anzi — se volete — ce n’è anche troppo. Ma che cosa volete farne? Se esistono delle leggi artistiche veramente eterne, esse sono appunto quelle in forza delle quali, in determinate epoche storiche, la pubblicistica invade irresistibilmente il campo della creazione artistica e vi si accampa come se si trovasse a casa propria.

La stessa cosa è da dire per la critica. In tutte le epoche in cui la società attraversa una fase di transizione, la critica si compenetra dello spirito della pubblicistica, e in parte diventa direttamente pubblicistica impegnata. E’ questa una cosa buona o cattiva? C’est selon! Ma l’importante è che ciò è inevitabile, e contro una simile malattia nessuno ancora è stato capace di trovare un rimedio efficace.

Un momento, un momento! Ci siamo sbagliati: un rimedio esiste! Ed esso consiste proprio nel diffondere una giusta visione della critica scientifica. Chi abbia una volta compreso la grande forza sociale propria di questa critica, certo non vorrà mai più rivolgersi all’arma della critica «impegnata» tra virgolette, così come chi avrà conosciuto l’efficacia di un fucile a ripetizione non tornerà certo al primitivo arco.

Vi ricordate l’articolo di Pisarev intitolato Acqua stagnante? In questo caso ci troviamo di fronte a una critica impegnata nel senso più pieno della parola. Sebbene sotto il titolo dell’articolo si possa leggere tra parentesi: Le opere di A. F. Pisemskij, ecc., nell’articolo stesso si parla soltanto di passaggio delle opere di Pisemskij, cosa di cui, del resto, l’autore stesso informa il lettore fin dalle prime righe. In generale nell’articolo si parla della nostra arretratezza, della nostra mancanza di personalità e di opinioni proprie, della nostra inerzia, dei nostri pregiudizi, del carattere barbarico dei nostri rapporti familiari, dell’asservimento della donna, e così via. Tutte queste nostre qualità negative vengono considerate come diretto risultato del nostro scarso sviluppo intellettuale, contro il quale è diretta l’appassionata filippica del l’autore. In una parola, qui — come in tutte le sue opere — Pisarev vede le cose da un punto di vista che i tedeschi chiamano illuministico, punto di vista da cui si può scorgere soltanto la astratta contrapposizione tra verità ed errore, tra scienza ed ignoranza, tra arretratezza e sviluppo intellettuale. Non si può negare che Pisarev fustiga in maniera ammirevole la nostra arretrata società, ma la sua predica infiammata, condannando l’ignoranza e bollando la grettezza del ceto mercantile, non ci indica nessun modo appena appena efficace di lottare contro di essi. Dire: studiate, educatevi!, è la stessa cosa che invocare: pentitevi, fratelli! Il tempo passa, e noi continuiamo a pentirci piuttosto male. Evidentemente devono esistere certe cause generali sia del nostro scarso sviluppo, come della nostra scarsa tendenza a pentirci. Finché non saranno state scoperte e indicate chiaramente queste cause generali, è chiaro che la predicazione della scienza non porterà quei frutti che essa sarebbe invece in grado di produrre. E lo stesso predicatore, volere o no, sarà pieno di dubbi. Sembra difficile credere nella virtù taumaturgica della scienza più ardentemente di quanto vi credesse Pìsarev; sembra difficile immaginarsi un tipo più adatto alla lotta contro la grettezza del ceto mercantile e contro i pregiudizi di quel che fosse Bazarov[7], nel quale — stando alle parole di Pisarev — c’è la scienza e la volontà. Eppure come Pisarev intende l’attività che si offre a Bazarov? Rileggete la conclusione dell’articolo Bazarov ed essa vi colpirà per il suo tono mesto e disperato: «Ma per i Bazarov la vita non è certo facile a questo mondo, per quanto essi cantino e fischiettino. Non vi è per loro né attività né amore, e quindi non vi è neppure piacere. Soffrire non sanno, e certo non si metteranno a piagnucolare; talora essi sentono soltanto che la vita è vuota, noiosa, incolore e assurda». Ma perché per loro non vi è attività? Ma sempre per il fatto che ormai è così schiacciante la forza della nostra arretratezza, della nostra mancanza di personalità e di opinioni proprie, della nostra inerzia e di tutte le altre nostre qualità negative che eccitano così spesso l’eloquente sdegno di Pisarev. Finché queste qualità non saranno comprese come «categorie storiche», finché non verranno spiegate come fenomeni transitori, finché il loro insorgere — così come la loro futura sparizione — non verranno collegati all’evoluzione storica dei nostri rapporti sociali, fino a quel momento esse dovranno necessariamente apparire come una qualche forza invincibile, una qualche realtà insormontabile, una specie di indistruttibile «cosa in sé» che Bazarov — nonostante tutte le sue conoscenze e la sua ferma volontà — non è in grado di affrontare. Ed ecco perché gli tocca voltare le spalle all’ambiente sociale che lo circonda e cercare salvezza in un «laboratorio».

Anche i «filosofi» francesi del XVIII secolo credevano ardentemente nella forza della ragione, ma anch’essi dovettero giungere più d’una volta all’amara conclusione che la vita è vuota, noiosa, incolore e assurda, e che ad un uomo che pensa non si offre nessuna attività. In generale non bisogna dimenticare che in tutti gli «illuministi» (Aufkläler, come dicono i tedeschi) la ferma fede nella forza della ragione si accompagnava con una fede altrettanto ferma nella forza dell’ignoranza, cosicché il loro umore era sottoposto a continui cambiamenti a seconda del tipo di fede che in essi prendeva temporaneamente il sopravvento.

E così la forza e l’azione della critica militante di Pisarev dovevano necessariamente indebolirsi in conseguenza del punto di vista da lui adottato. Attenendosi a un tale punto di vista, era possibile scrivere un ardente atto d’accusa contro l’ignoranza e la grettezza, ma non era possibile indicare quelle fatali forze sociali incomparabilmente più possenti di qualsiasi ignoranza e di qualsiasi grettezza, forze che, agendo allo stesso modo degli elementi naturali, preparano allo stesso tempo il terreno per il lavoro nobile e intelligente degli uomini dotati di buona volontà e di autentiche conoscenze. Se invece di quel suo ardente articolo intitolato Acqua stagnante Pisarev avesse scritto un’analisi assolutamente pacata e perfino fredda del racconto di Pisenskij intitolato Il materasso, presentando questo racconto come la rappresentazione dei lati oscuri di un modo di vita già sconfitto dalla storia (Acqua stagnante è stato pubblicato nell’ottobre del 1861), certo il suo pacato discorso avrebbe agito in maniera più incoraggiante sui lettori che non dei semplici attacchi, seppure scritti con talento, contro la debolezza di carattere e la stupidità.

Ma in questo caso — obietterà il lettore — Pisarev avrebbe dovuto mutare totalmente il carattere della sua attività letteraria e affrontare delle ricerche sociologiche.

E’ giusto, rispondiamo noi. Ai tempi di Pisarev per uno scrittore russo era impossibile adottare il punto di vista da noi indicato non avendo preventivamente risolto con la propria intelligenza tutta una serie di fondamentali problemi sociologici. Chiunque intenda impegnarsi a cercarne la soluzione dovrebbe rinunciare completamente all’attività di critico letterario. Ma noi non abbiamo intenzione di accusare Pisarev; noi diciamo soltanto che oggi parrebbe strano dedicarsi al genere di critica a cui egli dovette dedicarsi per le particolari circostanze in cui si trovò a vivere.

Oggi è possibile una critica letteraria scientifica perché oggi sono stati ormai fissati alcuni indispensabili prolegomeni di scienza sociale. E una volta diventata possibile una critica scientifica, la critica militante — intesa come qualcosa di distinto e d’indipendente dalla prima — diventa un ridicolo arcaismo. Ecco tutto quello che volevamo dire.

Fino ad ora abbiamo supposto che gli studiosi che si occupano di critica scientifica debbano e possano restare nei loro scritti freddi come marmo e impassibili come un monaco invecchiato nel suo monastero. Ma una tale supposizione è in realtà superflua. Se la critica scientifica considera la storia dell’arte come un risultato dell’evoluzione sociale, le è anche chiaro che essa stessa è un frutto di tale evoluzione. Se la storia e l’attuale situazione di una determinata classe sociale danno necessariamente origine all’interno di tale classe a certi determinati gusti e preferenze sociali piuttosto che ad altri, è chiaro che anche presso i critici scientifici possono manifestarsi certi determinati gusti e preferenze, giacché anch’essi sono un frutto della storia. Prendiamo ad esempio lo stesso Guizot. Egli è stato un critico scientifico in quanto ha saputo collegare la storia della letteratura con la storia delle classi nella nuova società. Indicando l’esistenza di un tale collegamento, egli ha proclamato una verità pienamente scientifica, e obiettiva. Ma tale collegamento diventò visibile ai suoi occhi unicamente perché la storia aveva posto la sua classe in un certo rapporto negativo nei confronti dell’antico regime. Se non si fosse determinato questo rapporto negativo — le cui conseguenze storiche sono praticamente innumerevoli — non sarebbe stata scoperta una verità oggettiva così importante per la storia della letteratura. Ma proprio perché la stessa scoperta di questa verità era un frutto della storia e degli scontri che in essa si verificano tra reali forze sociali, tale scoperta doveva essere accompagnata da una certa disposizione soggettiva la quale a sua volta doveva trovare una certa espressione letteraria. Ed effettivamente Guizot non parla soltanto del rapporto tra gusti letterari e regimi sociali. Egli condanna anche alcuni assetti sociali; egli dimostra che lo scrittore non deve sottomettersi ai capricci delle classi superiori della società; egli consiglia al poeta di non mettere la propria lira al servizio di nessuno, tranne che del «popolo».

La critica scientifica del nostro tempo ha il pieno diritto di venire accostata sotto questo rapporto alla critica di Guizot. La differenza sta soltanto nel fatto che l’ulteriore evoluzione storica dell’attuale società ha chiarito più esattamente ai nostri occhi di quali elementi contrastanti si componeva quel «popolo» in nome del quale Guizot condannava il vecchio regime; e ci ha dimostrato più chiaramente quale appunto tra questi elementi possedeva un’importanza storica effettivamente progressiva.


NOTE

[2] La recensione da cui sono tratti i passi che presentiamo al lettore costituisce il primo di quattro articoli strettamente collegati fra loro che Plechanov intitolò complessivamente Le sorti della critica russa (gli altri tre sono: Belinskij e la realtà razionale, Le opinioni letterarie di V. G. Belinskij e La teoria estetica di N. G. Černyševskij. La presente recensione è stata pubblicata per la prima volta nella rivista «Novoe slovo» (La nuova parola), nel fascicolo n. 7 dell’aprile 1897, sotto lo pseudonimo N. Kamenskij. La traduzione è condotta sul testo delle Opere filosofiche scelte di Plechanov, Mosca 1958, volume V.

[3] Si tratta della prefazione di Victor Hugo al dramma Cromwell (1827).

[4] Così è definito Hegel dal signor Volynskij.

[5] Così, dal nome del giornale satirico degli anni sessanta «Il fischietto», si solevano chiamare tutti coloro che attaccavano a fondo i pregiudizi sociali comunemente accettati dai benpensanti.

[6] Parole di Grigorij, dal Boris Godunov di Černyševskij.

[7] Si tratta del protagonista del romanzo di Turgenev Padri e figli.
 
Web  Top
0 replies since 7/11/2012, 20:49   156 views
  Share