Archivio Ždanov

V.I. Lenin, Maksim Gorki

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 7/8/2012, 22:03

Advanced Member

Group:
Administrator
Posts:
1,394

Status:


Da Maksim Gorki e altri, Racconti su Lenin, pp. 45-87


V.I. Lenin



Era semplice e leale come tutte le cose che diceva. Il suo eroismo, quasi interamente spoglio di sfarzo esterno, è l’abnegazione modesta, ascetica, non rara in Russia, dell’intellettuale rivoluzionario onesto, che crede profondamente nella possibilità di attuare la giustizia sociale sulla terra; è l’eroismo di chi ha rinunciato a tutte le gioie del mondo per lavorare duramente e conquistare agli uomini la felicità. Quello che ho scritto di lui subito dopo la sua morte l’ho buttato giù in uno stato di depressione, in fretta e male... Avrei dovuto cominciare dal congresso di Londra, quando Vladimir Ilic comparve dinanzi ai miei occhi limpidamente illuminato dai dubbi e dalla diffidenza di alcuni, dalla dichiarata ostilità e persino dall’odio di altri... Prima di allora non avevo mai incontrato Lenin...
... Mi sembrò che parlasse male, ma di lì a poco anch’io come tutti, ero “dominato” dalle sue parole. Capii per la prima volta che anche i problemi politici più intricati si possono sempre esporre con la massima semplicità. L’oratore non cercava di tornire belle preposizioni, ma porgeva ogni parola svelandone con stupenda facilità il significato preciso. È molto difficile comunicare la straordinaria impressione suscitata dai suoi discorsi. La mano tesa in avanti e alquanto sollevata verso l’alto, il palmo che sembrava soppesare ogni parola, vagliando le frasi degli avversari, sostituendole con tesi convincenti, con la dimostrazione del diritto e del dovere della classe operaia di seguire la propria strada e di non mettersi a rimorchio o a lato della borghesia liberale: tutto questo era eccezionale, e a parlare non era un uomo, Lenin, ma la volontà stessa della storia. La densità, la concisione, la franchezza e l’energia delle sue parole, tutto il suo comportamento alla tribuna erano un’opera d’arte classica: non c’era cioè nessun fronzolo, niente di superfluo, o, se c’era, era impossibile notarlo, era altrettanto naturale e necessario quanto gli occhi sul viso dell’uomo o le cinque dita della mano. Lenin fu più breve degli oratori che l’avevano preceduto, ma l’impressione lasciata dalle sue parole fu molto più durevole. Non fui il solo a rendermene conto, dietro di me mormoravano con entusiasmo: - Ce ne mette di cose... Era la verità. Ogni tesi di Lenin si dispiegava di per sé, per forza propria... Nell’autunno del 1918 domandai a un operaio di Sormovo, Dimitri Pavlov, quale fosse, a suo giudizio, il tratto più singolare di Lenin. - La semplicità. È semplice come la verità.
La sua risposta mi sembrò meditata a fondo e da un pezzo. Com’è risaputo i giudici severi di un uomo sono le persone che lavorano con lui. Ma l’autista di Lenin, Ghil, uomo di grande esperienza, mi disse: - Lenin è particolare. Non ce ne sono come lui. Una volta lo conduco a Miasitskaia, c’è un gran traffico, cammino a stento, temo che mi rovinino la macchina, suono il clacson e vado su tutte le furie. Lui apre lo sportello e, rischiando di farsi travolgere, mi si accosta lungo il predellino, per dirmi: “Ghil, vi prego, niente strepiti. Procedete come gli altri”. Io sono un vecchio autista e so bene che nessuno avrebbe fatto come lui. È difficile render conto della naturalezza e della duttilità con cui le diverse impressioni di Ilic si fondevano in un tutto organico. Il suo pensiero, come l’ago di una bussola, era sempre rivolto agli interessi di classe del popolo lavoratore... Parlava spesso della storia, ma non ho mai trovato nelle sue parole una venerazione feticistica per la volontà e per la forza della storia... Non ho mai incontrato un uomo che riuscisse a ridere in un modo così contagioso come Vladimir Ilic. Era strano vedere questo politico severo, realista, capace di sentire con tanta profondità le grandi tragedie sociali, intransigente e irremovibile nel suo odio per il mondo capitalistico, ridere infantilmente, farsi venire le lacrime, annegare nell’ilarità. Bisognava avere una grande e sana forza spirituale per ridere a quel modo...
... A Capri venne anche un “secondo” Lenin, un compagno incantevole, allegro, instancabilmente interessato a tutte le cose della vita, eccezionalmente tenero con la gente... S’informò minuziosamente sulla vita dei pescatori di Capri, sui loro guadagni, sull’influenza dei preti, sulla scuola: la vastità dei suoi interessi non poté non meravigliarmi... Non riesco a concepire un altro uomo che, stando così in alto, abbia saputo resistere alla lusinga dell’ambizione e non abbia smarrito il suo interesse per gli “uomini semplici”. In Lenin c’era una sorta di magnetismo che gli attirava i cuori e le simpatie dei lavoratori. Non parlava italiano, ma i pescatori di Capri, che avevano già conosciuto Scialipin e molti altri russi importanti, assegnarono d’istinto a Ilic un posto particolare. La risata di Lenin era affascinante, era la risata cordiale di un uomo, che, cogliendo alla perfezione la goffaggine della stupidità e le astuzie acrobatiche della ragione, riusciva tuttavia a godere dell’ingenuità infantile dei “semplici di cuore”. Un vecchio pescatore, Giovanni Spadaro, disse di lui: - Così può ridere solo un uomo onesto.
Dondolandosi nella barca sull’onda azzurra e diafana come il cielo, Lenin imparava a pescare “senza canna”. I pescatori gli spiegarono che bisognava tirar su nell’attimo in cui il dito sentiva tremare la lenza: - Così: drin-drin. Capisce?
Poco dopo catturò un pesce, lo tirò su e gridò con l’entusiasmo di un ragazzo e la passione di un pescatore: Ah, ah! Drin-drin!
I pescatori scoppiarono anch’essi in una risata assordante e gioiosa, come bambini, e gli misero nome: “Signor drin-drin”. Quando Ilic ripartì continuarono a domandarmi: - Come sta il signor Drin-drin? Lo zar non lo prenderà, no?!...
La vita è organizzata con un’arte così diabolica che, se non si sa odiare, è impossibile amare sinceramente. Già questa sola necessità, di sdoppiare l’anima, che snatura profondamente l’uomo, l’esigenza di amare attraverso l’odio, condanna la vita di oggi alla distruzione. In Russia, in un paese cioè dove la sofferenza è considerata un mezzo universale “per salvare l’anima”, non ho mai incontrato o conosciuto un uomo che sentisse con la profondità e l’energia di Lenin odio, disgusto e disprezzo per l’infelicità, per il dolore e la sofferenza. Secondo me, questi sentimenti, quest’odio per i drammi e le tragedie della vita, pongono molto in alto Vladimir Ilic, nato in un paese dove per santificare ed esaltare la sofferenza si sono composti i vangeli più belli, dove i giovani imparano a vivere su libri infarciti di descrizioni, sostanzialmente monotone, dei piccoli drammi quotidiani. La letteratura russa è la più pessimistica d’Europa; i nostri libri vertono tutti sullo stesso tema del dolore: da ragazzi e in età adulta soffriamo per carenza di ragione, perché l’autocrazia ci opprime, per le donne, per l’amore del prossimo, per il disordine dell’universo; da vecchi soffriamo per gli errori commessi, per la mancanza di denti, per i disordini della digestione e per la necessità di morire. Ogni russo, che per motivi politici abbia trascorso un mese in prigione o un anno al confino, ritiene che sia suo sacrosanto dovere far dono alla Russia di un memoriale delle sue sofferenze. Ma nessuno, fino ad oggi, ha mai pensato di scrivere un libro sulle proprie gioie. Dato che i russi sono abituati a inventare una propria vita, ma sono incapaci di realizzarla, con ogni probabilità un libro sulla felicità li indurrebbe a ideare una vita felice. Per me in Lenin era eccezionalmente grande proprio questo sentimento di odio implacabile e inestinguibile per le sofferenze degli uomini, la sua viva convinzione che l’infelicità non è il fondamento ineliminabile dell’essere, ma un’infamia che gli uomini possono e devono distruggere. Definirei ottimismo militante del materialista questo tratto essenziale del suo carattere. Fu esso ad attirarmi verso quest’uomo, Uomo con la maiuscola.
... Quando nel 1917, rientrato in Russia, Lenin pubblicò le sue “tesi”, pensai che sacrificasse ai contadini l’esercito sparuto ma eroico degli operai politicamente consapevoli e degli intellettuali sinceramente rivoluzionari. Quest’unica forza attiva sarebbe stata gettata, come una manciata di sale, nell’insipida palude delle campagne e si sarebbe dissolta senza mutare lo spirito, la vita, la storia del popolo russo. Gli scienziati e i tecnici erano, a mio avviso, rivoluzionari nella sostanza e, insieme con l’intellettualità operaia, socialista, costituivano per me la forza più preziosa accumulata dal nostro paese. Nella Russia del 1917 non vedevo chi altro potesse prendere il potere e organizzare le campagne. Ma quella forza, numericamente esigua e dilaniata dai contrasti, avrebbe potuto assolvere la sua funzione solo a patto di realizzare una solida unità interna. Il suo compito era grandioso: trionfare sull’anarchia della campagna, educare la volontà dei mugik, insegnargli a lavorare razionalmente, trasformare la sua economia e quindi far progredire con rapidità il paese. Tutti questi obiettivi potevano essere raggiunti solo a condizione di sottomettere gli istinti nella campagna alla ragione organizzata della città. A mio giudizio, la rivoluzione doveva proporsi anzitutto di creare le condizioni per assecondare lo sviluppo delle energie culturali del paese. A tal fine decisi di organizzare a Capri una scuola operaia e negli anni della reazione, dal 1907 al 1913, cercai con ogni mezzo, nei limiti delle mie capacità, di tenere alto il morale degli operai... Le mie divergenze con i comunisti riguardavano il giudizio da formulare sulla funzione degli intellettuali nella rivoluzione russa, preparata in realtà da quegli intellettuali, tra cui rientravano tutti i “bolscevichi”, che avevano educato centinaia di operai all’eroismo sociale, e alla ricerca teorica. Gli intellettuali russi, scienziati e operai, erano, sono e saranno ancora per molto tempo l’unico cavallo da tiro attaccato al pesante carro della storia russa. A dispetto degli impulsi e delle sollecitazioni subite, la ragione delle masse popolari resta ancora una forza che deve essere diretta dall’esterno. Così pensavo - e così sbagliavo - tredici anni or sono. Avrei dovuto cancellare questa pagina dei miei ricordi. Ma, come si dice, “quel che è scritto con la penna non si può tagliare con l’accetta”. E, inoltre, “sbagliando si impara”, come soleva ripetere Vladimir Ilic. I lettori devono conoscere il mio errore. E sarebbe una fortuna, se potesse servire di lezione a quelli che si affrettano a trarre conclusioni dalle proprie esperienze.
... Il lavoro dei capi onesti del popolo è inumanamente difficile. E la resistenza alla rivoluzione capeggiata da Lenin fu organizzata con larghezza di mezzi... Molto si è detto e scritto sulla crudeltà di Lenin. Beninteso, non sarò così ridicolmente insensibile da difenderlo contro la menzogna e la calunnia. So bene che la menzogna e la calunnia sono un metodo politico legittimo dei piccolo-borghesi, un normale metodo di lotta contro l’avversario. Tra i grandi uomini di questo mondo a stento se ne troverà uno solo che non abbiano tentato di infangare. È un fatto risaputo... L’odio della borghesia di tutto il mondo per Lenin è di un’evidenza palmare e disgustosa, le macchie azzurrastre e pestifere di quest’odio balenano, dappertutto. Tale sentimento, già di per sé, ci mostra quanto sia stato grande e terribile agli occhi della borghesia internazionale Vladimir Lenin, ispiratore e capo dei proletari di tutti i paesi. Ilic non esiste più fisicamente, ma la sua voce risuona sempre più alta e vittoriosa per i lavoratori di tutto il mondo, e ormai non c’è un solo angolo della terra in cui questa voce non ridesti il popolo lavoratore, chiamandolo alla rivoluzione, a una nuova vita, all’edificazione di un mondo di uguali. I discepoli di Lenin, eredi della sua forza, portano avanti la sua causa con fermezza, energia, successo. Ero rapito dall’ardente volontà di vita e dall’odio attivo di Lenin per le infamie dell’esistenza, ammiravo la passione giovanile che immetteva in qualsiasi cosa. Mi sbalordiva la sua sovrumana capacità di lavorare. I suoi movimenti erano agili e lieve il suo gesto sobrio, ma forte, s’accordava appieno col suo eloquio, parco di parole e denso di idee. Sul suo viso mongolico brillavano gli occhi acuti di chi lotta instancabilmente contro la menzogna e il dolore dell’esistenza: i suoi occhi splendevano, ammiccando, socchiudendosi, sorridendo ironicamente o sfavillando d’ira. Il lampo dello sguardo rendeva più roventi e più chiare le sue parole. A volte sembrava che l’indomita energia del suo spirito sprizzasse scintillando dagli occhi e che le parole brillassero nell’aria. Il suo modo di parlare suscitava sempre la sensazione fisica di una verità incontestabile... La passione era una caratteristica del suo temperamento, ma non era la passione interessata del giocatore. Essa rivelava in Lenin quell’eccezionale baldanza spirituale, che è propria di chi creda incrollabilmente nella sua vocazione, di chi si senta legato al mondo con vincoli profondi e molteplici, di chi abbia compreso la sua funzione nel caos dell’universo, la sua funzione di nemico del caos. Lenin sapeva con la stessa passione giocare a scacchi, esaminare una qualsiasi 'storia del costume', discutere per ore con un compagno, andare a pesca, percorrere i pietrosi sentieri di Capri, arroventati dal sole meridionale, ammirare i fiori dorati delle ginestre e i bimbi sudici dei pescatori. Di sera, ascoltando qualche storia sulla Russia e sui contadini, sospirava con invidia: - Eh, conosco poco la Russia. Simbirsk, Kazan, Pietroburgo, il confino: tutto qui.
Apprezzava le storie buffe e rideva con tutto il corpo, “inondandosi” realmente d’ilarità, a volte fino alle lacrime. Al suo caratteristico e rapido “ehm, ehm!” sapeva infondere una gamma infinita di sfumature, dall’ironia più caustica fino al dubbio più cauto, e spesso nel suo “ehm, ehm” risuonava un umorismo arguto, di cui è capace solo un uomo molto intelligente, che conosca bene le diaboliche assurdità della vita. Tarchiato, robusto, con il cranio di Socrate e lo sguardo penetrante, egli assumeva spesso una posa strana e un po’ comica: rovesciava la testa all’indietro e, piegandola verso la spalla, si infilava le dita nel gilè, sotto le ascelle. In questa posa c’era un che di tenero e buffo, come un’aria da gallo vittorioso. In quei momenti tutta la sua fisionomia si illuminava di gioia: egli era un grande fanciullo di questo mondo maledetto, un uomo meraviglioso, chiamato a sacrificarsi all’inimicizia e all’odio per far trionfare l’amore. Prima del 1918, prima del vile e infame attentato, non l’avevo più incontrato in Russia e nemmeno visto da lontano. Andai a trovarlo quando ancora muoveva a fatica il braccio e il collo ferito. In risposta alla mia indignazione, replicò di malavoglia, come parlando di un tema fastidioso: - È la lotta. Che farci? Ognuno agisce come può.
Il nostro incontro fu molto amichevole, ma naturalmente gli occhi penetranti e indagatori del caro Ilic guardavano me, lo “smarrito” con evidente compassione. Dopo qualche istante Lenin disse: - Chi non è con noi è contro di noi. La gente indipendente dalla storia è pura e semplice fantasia. Se è mai esistita la gente di questo tipo, oggi non c’è più e non ci può essere. Nessuno ne ha bisogno. Noi tutti, fino all’ultimo, siamo coinvolti nel turbine di una realtà intricata come non mai. Dite che semplifico troppo la vita? Che questa semplificazione minaccia di morte la cultura, no?
Poi se ne uscì col suo ironico e caratteristico: “Ehm, ehm!” Il suo sguardo si fece ancora più acuto, ed egli, abbassando la voce, continuò: - E, secondo voi, milioni di contadini col fucile in pugno non sono una minaccia per la cultura? Credete davvero che l’Assemblea costituente avrebbe avuto ragione della loro anarchia? Voi che fate tanto chiasso sull’anarchia della campagna dovreste capire meglio degli altri il nostro lavoro! Alle masse russe bisogna presentare qualcosa di molto semplice, che la loro intelligenza riesca ad afferrare. I Soviet e il comunismo: ecco una cosa semplice! - L’alleanza degli operai e degli intellettuali? - si domandò. - Certo, non è male. Dite agli intellettuali che ci seguano. Credete davvero che servano sinceramente gli interessi della giustizia? E allora qual è il punto? Prego, venite con noi: noi ci siamo assunti il compito gigantesco di far alzare in piedi il popolo, di dire al mondo tutta la verità sulla vita; noi indichiamo ai popoli l’unica strada che può condurli verso una vita umana, emancipandoli dalla schiavitù, dalla miseria e dall’umiliazione. Rise e aggiunse senza risentimento: - Tutto questo mi ha procurato una pallottola da parte degli intellettuali! Poi, quando l’atmosfera del colloquio ritornò alla normalità, disse con dispetto e tristezza: - Nego forse che gli intellettuali ci sono necessari? Ma lo vedete voi stesso come ci sono ostili e come non riescano a capire le esigenze del momento attuale. Non si rendono conto che senza di noi sono impotenti e non potranno mai raggiungere le masse. Sarà colpa loro, se romperemo troppe pentole!
I colloqui su questo tema si rinnovarono ad ogni nostro incontro, o quasi. E, benché a parole il suo atteggiamento verso gli intellettuali restasse diffidente e ostile, in realtà Lenin valutò sempre giustamente l’apporto dell'energia intellettuale al processo rivoluzionario, finendo per accettare che, in sostanza, la rivoluzione era un’esplosione di quella energia che non riusciva a trovare nelle anguste condizioni del passato la possibilità di dispiegarsi liberamente... Uomo dalla volontà eccezionalmente forte, Lenin possedeva in sommo grado le qualità tipiche della migliore intellettualità russa e, soprattutto, la capacità di rinuncia, che si tramutava spesso in mortificazione e mutilazione personale, nei chiodi di Rakhmetov, nella negazione dell’arte, nella logica di un eroe di Leonid Andreev. “Gli uomini vivono male, e quindi anch’io devo viver male”. Nel 1919, duro anno di carestia, Lenin si vergognava di mangiare le vivande che i compagni, i soldati e i contadini gli mandavano dalla provincia. Quando nel suo scomodo appartamento arrivavano i pacchi, Ilic aggrottava la fronte, era impacciato e si affrettava a distribuire la farina, lo zucchero e il burro ai compagni infermi o denutriti. Una volta, invitandomi a pranzo, mi disse: - Vi farò gustare del pesce affumicato. Me l’hanno mandato da Astrakan. Poi, corrugando la fronte socratica e guardando da una parte con gli occhi penetranti, aggiunse: - Mi mandano la regalia come fossi un padrone! Come estirpare quest’abitudine? Se si rifiuta, si offendono! E tutti intorno fanno la fame.
Era sobrio, non aveva il vizio del vino o del tabacco, era immerso dalla mattina alla sera in un lavoro duro e complesso, non riusciva a occuparsi di sé, ma sorvegliava con occhio attento la vita dei compagni. Seduto al tavolo del suo studio, scriveva in fretta e, senza staccare la penna dal foglio, mi disse: - Buongiorno, come va la salute? Sto per finire. C’è un compagno, in provincia, che si annoia. Senza dubbio è stanco. Bisogna confortarlo. Eh, il morale non è cosa da poco!
Un’altra volta, a Mosca, andai a trovarlo. Lenin mi domandò: - Avete pranzato? - Sì. - Non mentite, eh? - Ho i testimoni. Ho pranzato alla mensa del Cremlino - Ho sentito dire che cucinano male. - Non male, ma potrebbero far meglio. Volle conoscere subito tutti i particolari. Poi cominciò a brontolare con collera: - Ma come, non riescono a trovare un cuoco più capace? La gente lavora letteralmente da buttare sangue, e bisogna nutrirla bene, in abbondanza. So bene che i viveri scarseggiano e non sono buoni, ma proprio per questo è necessario un cuoco molto esperto... Un giorno andai da lui e vidi sul tavolo un volume di “Guerra e pace”. - Sì, è Tolstoj! Volevo rileggere la scena della caccia, ma poi m’è venuto in mente che dovevo scrivere a un compagno. Non ho assolutamente tempo di leggere. Solo ieri notte ho finito il vostro libretto su Tolstoj. Sorridendo con gli occhi socchiusi, si distese comodamente nella poltrona e, abbassando la voce, soggiunse in fretta: - Che macigno, eh? Un uomo completo! Quello sì, amico mio, è un artista. Ma sapete qual è la cosa più strabiliante? Prima di questo conte, nella letteratura non esisteva il vero mugik. Poi, guardandomi con gli occhi socchiusi, mi domandò: - Chi in Europa può stargli alla pari? E rispose: - Nessuno. Si stropicciò le mani e sorrise soddisfatto. Spesso ho notato in Ilic questa fierezza per l’arte russa. A volte questo tratto mi sembrava in lui singolarmente inopportuno e persino ingenuo, ma in seguito ho imparato a cogliervi l’eco di un amore profondamente intimo e gioioso per il popolo lavoratore. A Capri, mentre osservava i pescatori che dipanavano con cautela le reti ingarbugliate e lacerate da un pescecane, notò: - I nostri lavorano più in fretta. Ma, poiché esprimevo qualche dubbio in proposito, non senza stizza rispose: - Ehm, ehm, a forza di vivere su questo bernoccolo, non finirete per dimenticare la Russia?... Una sera, a Mosca, ascoltando in casa di E.P. Pieshkova alcune sonate di Beethoven, nell’esecuzione di Isai Dobrovein, Ilic disse: - Non c’è niente di più bello dell’“Appassionata”. L’ascolterei ogni giorno. È una musica stupenda, sovrumana. Penso sempre con orgoglio, e forse, con ingenuità: ecco i miracoli di cui son capaci gli uomini! Poi, socchiusi gli occhi, aggiunse un sorriso malinconico: - Ma non posso ascoltare spesso la musica, agisce sui miei nervi, mi vien voglia di dire stupidaggini e di carezzare gli uomini che, vivendo in un sudicio inferno, riescono a creare tanta bellezza. Ma oggi bisogna picchiare sulle teste, picchiare senza pietà, anche se sul piano ideale siamo contrari a ogni violenza. Ehm, ehm, è un dovere diabolicamente complicato!
... Ho già parlato del suo atteggiamento assolutamente eccezionale verso i compagni, della sua premura che riusciva a intuire persino i particolari sgradevoli della loro esistenza. Ma in quel sentimento non ho mai potuto scorgere l’attenzione interessata che a volte un padrone intelligente rivela per i lavoratori onesti e capaci. No, la sua era l’attenzione cordiale di un vero compagno, un sentimento d’affetto da pari a pari. So bene che è impossibile mettere un segno di uguaglianza tra Vladimir Ilic e i dirigenti più autorevoli del partito, ma lui stesso sembrava ignorare, o meglio voleva ignorare, questo fatto. Era tagliente quando discuteva, derideva implacabilmente gli interlocutori e a volte era persino velenoso nel suo sarcasmo, questo è vero. Ma quante volte nei giudizi su qualcuno che il giorno prima aveva “disfatto” e messo in croce sentivo echeggiare una nota di sincera ammirazione per il suo talento e per il suo coraggio morale, per il lavoro duro e ostinato svolto nelle infernali condizioni del 1918-1921, tra spie di ogni paese e di ogni partito, tra complotti che si trasformavano in ascessi purulenti su corpo del paese sfinito dalla guerra. I compagni lavoravano senza riposo, mangiavano poco e male, vivevano continuamente in stato di allarme. Ma lo stesso Lenin sembrava non sentire la durezza di quelle condizioni e l’ansietà di quel mondo sconvolto nelle sue radici più profonde dalla bufera sanguinosa della guerra civile.
... Sì l’ho udito spesso elogiare i compagni. Persino di quelli che, stando alle voci, non godevano della sua simpatia personale, parlava sempre con equilibrio. Fui stupito dal giudizio molto positivo che formulò sulle capacità organizzative di L.D. Trotzki. Vladimir Ilic si avvide con mia meraviglia... quello che è vero, è vero!... Dopo una pausa, aggiunse con tono più sommesso e triste: - Tuttavia, non è dei nostri! Sta con noi, ma non è dei nostri. È ambizioso. C’è in lui qualcosa di negativo, gli viene da Lassalle... Il suo atteggiamento verso di me era quello del maestro severo e dell’‘amico premuroso’ e buono. - Siete un tipo enigmatico - mi disse una volta scherzosamente. - In letteratura siete un buon realista, ma con la gente siete un romantico. Per voi tutti sono vittime della storia. Noi conosciamo la storia e diciamo alle vittime: abbattete gli altari, distruggete i templi, abbasso le divinità! Ma voi volete persuadermi che il partito rivoluzionario della classe operaia è tenuto anzitutto a sistemare comodamente gli intellettuali. Forse sbaglio, ma credo che a Vladimir Ilic piacesse conversare con me. Lasciandomi, diceva quasi sempre: - Venite, datemi un colpo di telefono, parleremo un po’. Una volta aggiunse: - È sempre interessante parlare con voi; le vostre esperienze sono molto varie e ricche. Mi interrogò sugli umori degli intellettuali, in particolare degli scienziati; a quel tempo lavoravo alla Commissione per il miglioramento delle condizioni di vita degli scienziati. Si interessò inoltre della letteratura proletaria: - Che vi aspettate da questa letteratura? Risposi che mi aspettavo molto, ma che ritenevo assolutamente necessario organizzare una scuola superiore di letteratura, con corsi di linguistica, con cattedra di lingue straniere (occidentali e orientali), di folklore, di storia della letteratura universale e di letteratura russa in particolare. - Ehm, ehm - disse socchiudendo gli occhi e ridacchiando. - Ampio e accecante! Non ho niente in contrario per l’ampiezza, ma se dovesse accecarci? Non abbiamo professori nostri in questo campo, e quindi la storia l’insegneranno i professori borghesi. No, adesso non possiamo farlo. Bisogna aspettare tre o cinque anni!... Era un russo che era vissuto a lungo fuori dalla Russia e aveva studiato attentamente il suo paese. Da lontano la Russia sembrava più smerigliante e più viva. Egli aveva valutato esattamente le energie potenziali del nostro paese, l’eccezionale talento del popolo, ancora debolmente espresso, non ridestato a causa della sua storia difficile e tormentata, ma tuttavia visibile e, sullo sfondo oscuro della fantastica vita russa, risplendente di stelle dorate. Vladimir Ilic, grande e vero uomo della nostra terra, è morto. La sua morte ha colpito al cuore dolorosamente tutti coloro che lo conoscevano. Ma il nero segno della morte sottolinea in modo ancor più nitido davanti a tutto il mondo il valore di Lenin, il suo valore di capo del popolo lavoratore di tutti i paesi. E, se la nube di odio, di menzogna e di calunnia, addensatasi intorno al suo nome, fosse anche più fitta, conterebbe poco: non c’è forza che possa offuscare la fiaccola issata da Lenin sulle tenebre soffocanti del mondo impazzito. Non è mai esistito un uomo che, come Lenin, abbia meritato sulla terra eterna memoria. Vladimir Ilic è morto. Gli eredi della sua ragione e della sua volontà sono vivi. Sono vivi e lavorano con tale successo come nessuno, mai, in nessun luogo ha lavorato.

Edited by Andrej Zdanov - 31/8/2012, 19:38
 
Web  Top
Fiero Maoista
view post Posted on 18/11/2012, 12:58




Io non ho ancora capito se Gorkij era un bolscevico onesto oppure no, ho letto anche sue frasi dove parlava bene di Mussolini e male di Stalin. Saranno autentiche oppure no?
 
Top
view post Posted on 30/12/2012, 12:09

Advanced Member

Group:
Administrator
Posts:
1,394

Status:


CITAZIONE (Fiero Maoista @ 18/11/2012, 12:58) 
Io non ho ancora capito se Gorkij era un bolscevico onesto oppure no, ho letto anche sue frasi dove parlava bene di Mussolini e male di Stalin. Saranno autentiche oppure no?

Gorkij ebbe molti disguidi con Lenin nel periodo della rivoluzione d'Ottobre, poiché riteneva che in un paese contadino come la Russia essa non avrebbe potuto trionfare. Ma poi si ricredette e si riconciliò con Lenin, divenendo un grande sostenitore dell'URSS e qualificandosi come il padre della letteratura sovietica; insieme a Zdanov, Gorkij fu anche il principale teorico del realismo socialista.
Non mi risulta che abbia mai parlato positivamente di Mussolini; anzi, nella lettera inviata a Stalin da Sorrento il 12 novembre 1931, Gorkij riferì di come il Duce fosse malvisto dalla popolazione napoletana e di come la crisi interna al paese si acuisse. Tra l'altro, ecco un passo della stessa lettera, rivolto a Stalin:

Stia bene e abbia cura di sé. La scorsa estate a Mosca, le ho esternato i miei sentimenti di simpatia e stima amichevole e profonda. Mi sia consentito ripeterlo. Non si tratta di complimenti, ma del naturale bisogno di dire a un compagno: io ho di te una stima sincera, tu sei un'ottima persona, un autentico bolscevico. Il bisogno di dire queste parole solo di rado può essere soddisfatto, lei lo sa benissimo. E io so quanti momenti difficili le riserva la vita.

Esiste poi una frase in cui si critica Stalin, riportata nel libro di uno storico anticomunista, il quale asserisce che essa sarebbe una citazione tratta dal diario di Gorkij e riferita da un anonimo ufficiale del'NKVD; essa è presente in italiano solo su Wikiquote. Da questa sommaria descrizione, puoi facilmente capire quanto sia attendibile.
 
Web  Top
2 replies since 7/8/2012, 22:03   222 views
  Share