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Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista

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Alaricus Rex
view post Posted on 4/7/2013, 19:11 by: Alaricus Rex

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Il carattere di Partito della cultura.

Ma a questo punto, certo, anche il più volenteroso e ben disposto tra i figli del secolo rifiuterà di seguirci al di là di questa seconda pietra di scandalo. Ammettiamo pure, ci dirà, che effettivamente in Unione sovietica sia realizzato un tipo di direzione culturale ben superiore a quello che noi purtroppo abbiamo conosciuto e conosciamo in Italia e nella società borghese in generale. Nessuno può in buona fede negare che la società socialista, una società in cui sono state liquidate le classi oppressive e sfruttatrici, assicuri una libertà ed una attività culturale delle masse che certo sarebbe stata inconcepibile non solo nell'Italia di Gonella o in quella di Bottai, ma anche in quella di Giolitti o di Bonghi. Fin qui si è trattato di condizioni sociali dello sviluppo della cultura e i vostri ragionamenti son comprensibili e magari convincenti. Ma quando nelle risoluzioni del Partito bolscevico ci si viene a parlare di arte e di scienza e di filosofia di Partito o di classe, non si tratta più di condizioni sociali dello sviluppo della cultura, si tratta del Vero e del Bello, che coi Partiti, bolscevichi o no che siano, non hanno proprio nulla a che fare. O che pretenderete, dunque, che l'acqua non bolla più a 100°, in Unione sovietica? Oppure che la velocità di propagazione della luce non sia la stessa per i capitalisti e per proletari? Questa poi davvero che è troppo grossa!
Ed eccoci dunque dinnanzi al terzo scandalo — il più grosso, forse -- che la cultura nuova dell'umanità socialista solleva tra i figli del secolo. Ma, per una volta, vogliamo subito rassicurare quelli tra i nostri ascoltatori che, da veri buongustai bolognesi, fossero preoccupati per un eventuale abbassamento del punto di ebollizione dell'acqua che potrebbe seriamente compromettere, nella società socialista, il giusto grado di cottura delle famose tagliatelle. Non sono meno sensibile di loro a tali preoccupazioni legittime, ma posso garantire, per esperienza personale e diretta, compiuta nella casa ospitale del compagno Marabini, a Mosca, che anche in Unione sovietica l'acqua bolle a 100°, purché siano rispettate le note condizioni di pressione atmosferica e di purezza chimica; e consente, in ogni caso, una perfetta cottura della famosa specialità bolognese. Eppure...
Eppure, lasciando da parte le celie, lo scandalo c'è; ed è proprio vero che, in Unione sovietica, il Partito bolscevico ha molto da dire non solo sui problemi dell'industria o dell'agricoltura o della finanza o della scuola, ma anche e proprio in materia di arte e di scienza, di Bello e di Vero con la lettera maiuscola. Eccoci dunque, ancora una volta, a cercar di chiarire il senso e la portata effettiva di questo scandalo, sicché i figli del secolo, di buona o di mala fede che siano, sappiano almeno di che, effettivamente, debbano scandalizzarsi. E giacché più di una volta, e non a caso, in tutto il corso della nostra esposizione, ci è venuto fatto di parlar a di pietre di scandalo e di figli del secolo, con una terminologia tratta dai documenti della rivoluzione culturale del primo Cristianesimo, vogliamo affrontare anche questo terzo scandalo della cultura nuova dell'umanità socialista con la domanda che Pilato, secondo il Quarto Vangelo, pose a Gesù nel Pretorio: quid est veritas?
«Che è la verità?». La domanda è grossa, certo, e può apparire persino presuntuosa; ma pure, non v'è stata, nella storia dell'umanità, rivoluzione culturale che abbia potuto sfuggire alla necessità di riproporsela, in una forma o nell'altra; così come non v'è stata, dai tempi dei primi graffiti rupestri dell'età della pietra, rivoluzione culturale che non abbia dovuto riproporsi, in una forma o nell'altra, il problema del Bello e del Giusto.
Per noi, che siamo dei marxisti, e non dei metafisici creatori di sistemi filosofici, proprio questo storico riproporsi di tali domande in ogni rivoluzione culturale .dell'umanità, addita la via per ricercare a tali domande una risposta adeguata al grado di sviluppo più avanzato oggi raggiunto dalla coscienza dell'umanità stessa. La via è, come sempre, per noi, non quella della considerazione di questi massimi problemi da un punto di vista e con un metodo metafisico, bensì quella della considerazione storica del loro significato. Ed alla luce di una tale considerazione, ci appare fin d'ora che quella veritas, quel Vero, di cui Pilato, in nome del vecchio mondo greco-romano, domandava l'essenza a Gesù, non era certo quello stesso Vero, che il Cristianesimo additava agli uomini del nuovo secolo dal Golgota; così come quel Bello, scarno e tormentato, che si affermava nella primitiva iconografia cristiana, non era quello stesso Bello che ancora rifulgeva nelle opere di Fidia e di Prassitele.
Abbiamo scelto a bella posta, tra gli esempi che avremmo potuto citare, quello di un caso famoso, universalmente noto, e lontano oramai da noi nel tempo; lo abbiamo addotto a mostrare che il carattere di classe, di Partito, del Vero e del Bello non è poi poi una maligna invenzione dei bolscevichi. Già e sin dai tempi di Gesù, la classe degli schiavi, il Partito di Gesù il Nazareno, il Partito dei cristiani, aveva qualcosa da dire non soltanto a proposito del Giusto e del Santo, ma anche a proposito del Vero e del Bello; qualcosa che era profondamente diverso e nuovo rispetto a quanto del Vero e del Bello diceva Pilato, la classe dei Romani dominatori e proprietari di schiavi, il Partito romano dominante. E anche allora questo nuovo .Vero e questo nuovo Bello, fiammeggianti sugli Apostoli, suscitarono lo scandalo non solo fra le classi dominanti e fra gli uomini della vecchia cultura, ma fra le turbe stesse degli umiliati e degli offesi ai quali si annunciava la Buona Novella: perché anche allora la cultura dominante era la cultura della classe dominante.
All'epoca del cristianesimo primitivo, così — ed in ogni epoca, da che esiste una società di classi — la coscienza sociale del Vero e del Bello (come quella, d'altronde, del Giusto e del Buono) non ci appare come una coscienza unitaria e uniforme; essa ci rivela ed esprime, necessariamente, l'intima dilacerazione di un'umanità, divisa in classi contrastanti, in oppressi ed in oppressori, in sfruttatori e sfruttati. In ogni epoca storica, certo, la cultura dominante è quella della classe dominante che riesce ad imprimere il suo suggello anche sulla concezione che del Giusto, del Buono, del Vero, del Bello si fanno le masse degli oppressi e degli sfruttati. Ma abbiamo già detto come questa egemonia, questa direzione culturale di una classe oppressiva e sfruttatrice sul complesso della società, possa essere assicurata solo da una relativa passività culturale delle masse: sicché inevitabilmente passivo e superficiale resta il suggello stesso che su di esse imprime la cultura dominante. Questa frammentarietà e contraddittorietà, questa intima dilacerazione della società di classi e della sua cultura, si rivela perciò necessariamente nei momenti di crisi storica e culturale, quando una nuova classe, una nuova cultura, si affaccia prepotente alla ribalta della Storia. Salta allora il superficiale suggello di uniformità e di conformismo, che la cultura dominante aveva impresso sull'insieme della società; e la cultura — il Vero, il Bello, il Buono, il Giusto — appare per quel ch'essa effettivamente è: come una cultura — un Vero, un Bello, un Buono, un Giusto — di classe, di Partito. Allora milioni di uomini, che finora avevano passivamente fatto propri i giudizi ed i luoghi comuni della vecchia classe dominante a proposito del Diritto, della Morale, della Scienza, dell'Arte, non convengono più in questo giudizio, non accettano più questi luoghi comuni: il Vero, il. Bello, il Buono, il Giusto divengono apertamente, agli occhi di tutti, una questione di classe, una questione di Partito.
Non è dunque qui, nella sua caratteristica di classe e di Partito, che va ricercata la terza pietra di scandalo della cultura dell'umanità socialista; non è di questa caratteristica, che i figli del secolo hanno ragione di scandalizzarsi: giacché, da quando esiste una società di classi — dai tempi di Pitagora a quelli di Socrate a quelli di Gesù e di San Tommaso e di Lutero e di Galileo e di Diderot fino ai giorni nostri — ogni cultura è stata una cultura di classe; e sempre, da allora, nei momenti di crisi storica, il Vero ed il Bello, non meno del Buono e del Giusto, si son rivelati, agli occhi di tutti, come una questione di classe, come una questione di Partito, che non unisce gli uomini in un giudizio comune, ma anzi li divide e li contrappone.
Non è dunque qui, nella sua caratteristica di classe e di Partito, la effettiva novità e ragione di scandalo della nuova cultura socialista, bensì nel fatto, semmai, che questa sua caratteristica — a differenza di quel che ogni altra precedente cultura non abbia fatto — la cultura dell'umanità socialista apertamente la proclama e la sottolinea.
Rivedete la scena grandiosa di Gesù e di Pilato nel Pretorio che il Vangelo di San Giovanni tratteggia come in un grande affresco. Nel Pretorio, in una decisiva crisi storica, nella persona del romano Procuratore di Giudea e in quella del fabbro di Nazareth, due classi, due civiltà, due culture si affrontano. Tanto è chiaro e spiccato, in quest'ora, il carattere di classe, di Partito, di ciascuna di queste due culture, che il rapido dialogo fra Gesù e Pilato si esaurisce in un susseguirsi di domande che restano senza una risposta che sia per l'altro intelleggibile. Le due culture già parlano due linguaggi che risultano intraducibili l'uno nell'altro; hanno ciascuna la sua verità che gli altri non possono intendere. Lo dice Gesù stesso, in quel suo dialogo, che sembra un monologo di chi parli a chi ha orecchie, e non ode: Qui est ex veritate, audit vocem meam — «chi è dalla verità», solo chi è dalla verità, «ode la mia voce».
Il dialogo si conclude con la domanda di Pilato: Quid est veritas? Nel procuratore di Giudea, disincantato rappresentante delle vecchie classi dominanti e della vecchia cultura, già travagliata da una crisi profonda, si oscura già quella fiducia incrollabile nella propria verità, che è caratteristica delle classi che ascendono alla ribalta della Storia. Questa sua incertezza si esprime nell'intonazione quasi scettica della sua domanda: ma vi è ancora abbastanza certezza, in lui, nella sua verità, nella ferrea verità delle classi dominanti romane, per mandare impassibile al supplizio il Nazareno. E in Gesù, ben più ancora che in Pilato, appare la certezza che la sua verità, la verità di classe degli umiliati ed offesi, la verità del Partito dei cristiani, sia la Verità senza aggettivi: «Io per ciò sono nato, e proprio a ciò son venuto al mondo, per render testimonianza alla Verità».
Così, di volta in volta, le classi che si sono avvicendate al proscenio della Storia hanno affermato — di contro alle vecchie classi dominanti come di contro alle nuovissime che dal basso urgevano — il valore assoluto della loro cultura, delle loro concezioni del Giusto, del Buono, del Bello, del Vero. Cosi la borghesia, di contro al vecchio mondo della feudalità e dell'assolutismo, ha affermato le sue ragioni — la sua ragione – come la Ragione; le sue libertà — la sua libertà — come la Libertà; la sua scienza economica o la sua scienza della Natura, come la Scienza. Essa ha dichiarato nulle le ragioni delle vecchie classi dominanti schiavistiche e feudali ed ha loro contrapposto la Ragione; ha annientato per i proprietari di schiavi e per i signori feudali la libertà di possedere schiavi o servi della gleba, la libertà di amministrare la giustizia o di non pagare le imposte o di far bastonare dai servi i non nobili, e a queste libertà ha contrapposto la Libertà: la libertà per la borghesia di sfruttare gli operai salariati e la libertà per gli operai disoccupati di morire di fame. La cultura nuova della borghesia ha negato il valore scientifico di una secolare teoria economica, che condannava l'usura ed il prestito a interesse del denaro; ha considerato come puerili vaneggiamenti quelli della scienza di Aristotele o della scolastica medievale. Quando miche, dopo la Rivoluzione francese, e poi sempre più, man mano che la pressione più urgente delle nuove classi proletarie attenuava il suo slancio rivoluzionario; quando anche, dicevamo, la cultura borghese ha cominciato a guardare con nostalgia al passato, ed a considerarne le ragioni, le libertà, la scienza, l'arte, la filosofia in maniera non più astrattamente razionalistica, ma storica; anche allora, il vantato « storicismo » della cultura borghese è restato sempre solo rivolto al passato, alla giustificazione e magari alla riesumazione dei valori di antiche culture e di antichi diritti. Di contro all'avvenire, di contro ai valori culturali della nuova classe che batte alle porte, lo storicismo della cultura borghese è cieco e sordo, si sforza invano di ignorarli, di soffocarli, nel folle tentativo di fermare la Storia, di fermare la Scienza, di fermare la Libertà, di fissare per l'eternità il Diritto nelle immobili forme in cui essa lo ha conquistato. E non ammoniva già forse Mefistofele, nel Faust goethiano:

Es erben sich Gesetz' und Rechte Wie eine ew'ge Krankheit fort; Sie schleppen von Geschlecht sich zum Geschlechte Und riicken sacht von Ort zu Ort.
Vernunft wird Unsinri, Wohltat Plage; Weh dir, dass du ein Enkel bist! Vom Rechte, das mit uns geboren ist, Von dem ist, leider! nie die Frage (*).
(*) Goethe: Faust, I Th.


(Si ereditano man mano leggi e diritti — come un'eterna malattia — si trascinano di generazione in generazione — e di luogo in luogo. — La ragione diviene non-senso, il beneficio divien malanno. — Guai a te, che sei un nipote! — Del diritto, che è nato con noi — di quello, ahimé!, non è mai questione!).
Non è a caso che del diritto — della morale, della scienza, dell'arte nuova — che son nati con noi, dalla lotta della classe operaia, non sia mai questione nella cultura borghese. Non è senza motivo che la borghesia — come ognuna delle classi dominanti che sinora si sono avvicendate nella Storia — si sforza di nascondere a tutti i costi il carattere di classe e storicamente limitato della sua cultura, delle sue concezioni del Giusto, del Buono, del Vero, del Bello. Non è senza ragione che la borghesia si sforza di presentare la sua cultura come la Cultura, la sua morale, il suo diritto, la sua scienza, la sua arte come la Morale, il Diritto, la Scienza, l'Arte, negando addirittura alla cultura nuova della classe operaia e dell'umanità socialista, nonché un'universale validità, il carattere' e la dignità stessa di cultura. Tutto ciò non avviene a caso e non è senza una profonda ragione storica. Ciascuna delle classi dominanti oppressive e sfruttatrici, che si sono avvicendate nella Storia, ha potuto consolidare il suo predominio politico nella data società solo nella misura in cui è riuscita e riesce ad affermare la sua egemonia, la sua 'direzione culturale sul complesso della società stessa; e ciò è possibile solo nella misura in cui la classe dominante riesce a presentarsi, di fronte alle masse oppresse e sfruttate stesse, come portatrice ed interprete degli interessi generali. Ma in una società di classi, profondamente dilacerata dai suoi interni contrasti, gli interessi di una classe dominante oppressiva e sfruttatrice — anche quando essa, per avventura, sia ancora una classe rivoluzionaria e progressiva, effettivamente portatrice del progresso storico della società — sono necessariamente in contrasto con gli interessi attuali della grande maggioranza del popolo; e la cultura della classe dominante — il diritto, la morale, la scienza, l'arte — che del suo dominio esprimono le condizioni storiche, non potrebbero esprimere appieno e senza contraddizioni i sentimenti, le aspirazioni, le esigenze di vita della maggioranza degli oppressi e degli sfruttati. Perché la cultura della classe dominante possa affermarsi come cultura dominante in quella data società, è pertanto necessario — l'abbiam già detto — che le masse siano confinate in una relativa passività culturale; è necessario ch'esse siano indotte o costrette a rinunziare ad una propria, autonoma elaborazione culturale, per accogliere ed accettare, invece, come un dato che non si discute, la cultura della classe dominante — il suo diritto, la sua morale, la sua scienza, la sua arte — che deve a tal uopo, appunto, presentarsi non già come una cultura di classe, socialmente frammentaria e storicamente limitata, bensì come la Cultura, il Diritto, la Morale, la Scienza, l'Arte: valori eterni, che sempre son stati e sempre saranno; o che, comunque, dopo gli infantili vaneggiamenti del passato, la classe dominante ha per sempre fissato nella loro immutabile sostanza.
Profondamente diverse, anzi diametralmente opposte, sono le condizioni obiettive nelle quali la classe operaia — prima e dopo la conquista del potere politico — conduce la lotta per l'affermazione della sua cultura. Per le vecchie classi dominanti oppressive e sfruttatrici, che si sono avvicendate nella Storia, condizione dell'affermazione e del consolidamento della loro egemonia culturale era ed è quella di mantenere accuratamente celato di fronte alle masse, e persino di fronte a se stesse, il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, della loro cultura. Tra le masse degli oppressi e degli sfruttati, in effetti, la dichiarazione aperta del carattere di classe della cultura dominante avrebbe come inevitabile conseguenza lo scoppio di una vera e propria rivolta culturale, una loro immediata attivazione sul terreno di una autonoma elaborazione culturale che entrerebbe necessariamente in aperto contrasto con quella delle classi sfruttatrici. Ma di fronte alle classi sfruttatrici ed oppressive stesse, un'aperta dichiarazione del carattere di classe della loro cultura rappresenterebbe un pericolo mortale: essa rivelerebbe loro il carattere socialmente frammentario e storicamente limitato della loro cultura, mostrerebbe loro che il loro dominio, se ha un passato di storica ascesa e un presente magari ancor saldo, non ha un avvenire se non di decadenza e di disfacimento.
Per la classe operaia, per contro, la constatazione e l'aperta dichiarazione del carattere di classe di ogni cultura in una società di classi costituisce una vitale necessità di lotta, fin dal momento in cui essa si vien costituendo come classe, e si pone il problema della conquista del potere. All'apparire sulla scena politica della classe operaia, per la prima volta nella Storia, la classe che storicamente si pone il problema della conquista del potere non è più una classe che — se pur magari impedita e taglieggiata, come avveniva per la borghesia nel regime feudale — è essa stessa oppressiva e sfruttatrice. La classe operaia è anzi, nella società contemporanea, la classe più oppressa e più sfruttata, la sola che in alcun modo non partecipi allo sfruttamento e all'oppressione di altre classi. Essa non ha nulla da temere dall'ascesa politica e culturale delle altre classi o nazionalità oppresse e sfruttate; anzi sa che non può liberar se stessa senza liberare tutti gli altri oppressi e sfruttati, senza liberar tutta la società da ogni forma di oppressione politica, nazionale, sociale, religiosa, culturale, -senza costruire una società senza classi, ove sia abolito ogni sfruttamento ed ogni oppressione dell'uomo sull'uomo. Per questo, a se stessa — per conquistare la propria coscienza socialista — la classe operaia ha bisogno di dichiarare apertamente il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, di ogni cultura nella società di classi. Ne ha bisogno per acquistar la fiducia e la certezza scientifica nella possibilità storica di battere la forza poderosa di « quel che è, quel che è sempre stato », il monopolio della cultura da parte delle classi dominanti oppressive e sfruttatrici. Ne ha bisogno per arrivare a liberar se stessa dal soffocante suggello della cultura — del diritto, della morale, della scienza, dell'arte — borghese, che tende a mortificarne lo slancio rivoluzionario; ne ha bisogno, ha bisogno di proclamarlo apertamente di fronte a tutti gli oppressi, a tutti gli sfruttati, per liberar le loro inesauribili energie rivoluzionarie nella lotta comune.
A differenza di quel che avveniva per le vecchie classi dominanti oppressive e sfruttatrici, anche dopo la conquista del potere politico, la classe operaia non ha ragione di temere di proclamare apertamente il carattere di classe, di Partito, di ogni cultura nella società di classi. Al contrario: più che mai, dopo la conquista del potere, nella lotta per la costruzione socialista, nella lotta per il passaggio alla fase superiore della costruzione di una società comunista, quando si tratta di liquidare i residui ideologici della società di classi nella coscienza di milioni di uomini, la classe operaia ha ragione e bisogno di proclamare questo carattere di classe, di Partito, della cultura in ogni società di classi. Tutte le classi oppressive e sfruttatrici che sinora si erano avvicendate nella Storia si erano sempre proposte come obiettivo quello della sostituzione di un sistema di oppressione e di sfruttamento con un altro sistema di oppressione e di sfruttamento; di una società di classi con un'altra società di classi. Esse avevano ed hanno, perciò, buone ragioni per voler nascondere a se stesse e alle masse il carattere di classe, socialmente frammentario e storicamente limitato, del loro dominio e della loro cultura. Il solo obiettivo storico che la classe operaia, per contro, può porsi sulla, via della propria emancipazione, sulla via dell'affermazione, della propria egemonia, è quello della costruzione di una società senza classi. Il suo obiettivo di classe non può esser che quello dell'abolizione del proprio dominio di classe e di ogni classe in generale, della costruzione di una umanità liberamente associata e non più intimamente dilacerata. Per questo, la classe operaia non ha nessuna ragione di nascondere a se stessa e a tutto il popolo il carattere temporaneo, storicamente limitato, del suo dominio di classe; il carattere ancora frammentario, di classe, storicamente limitato, della sua cultura, del suo diritto, della sua morale, della sua scienza, della sua arte. Al contrario: la classe operaia sa e dichiara apertamente che, anche dopo la conquista del potere, anche dopo la costruzione del socialismo in un solo paese, la sua cultura — il suo diritto, la sua morale, la sua scienza, la sua arte — non può essere ancora una cultura universalmente umana, perché l'umanità è ancora, su scala mondiale, obiettivamente dilacerata in classi; perché, all'interno della società socialista stessa, se pure già più non esistono classi antagonistiche, i residui ideologici, culturali della società di classi debbono essere liquidati nella coscienza degli uomini. E proprio per questo non solo nei paesi capitalistici, ma nel paese stesso del socialismo, la classe operaia ed il suo Partito particolarmente insistono sul carattere di classe di ogni cultura: perché solo dalla chiara coscienza della persistente frammentarietà ed intima dilacerazione della cultura sorgono le forze necessarie al compimento della costruzione di una cultura umana, universalmente valida: capace, certo, di un infinito approfondimento, perché inesauribile ed infinitamente conoscibile è la realtà di cui l'umanità associata prende coscienza, ma non più frammentaria e dilacerata dalla obiettiva dilacerazione della società in classi
Ancora una volta, così, anche il terzo scandalo che la cultura nuova dell'umanità socialista solleva tra i figli del secolo, ci si rivela ben più grave e più profondo di quel che esso non possa apparire a prima vista. Non si tratta semplicemente del fatto che le risoluzioni del Partito bolscevico proclamano apertamente quel che le classi dominanti oppressive e sfruttatrici accuratamente si sforzano di nascondere, cioè il carattere di classe di ogni cultura, in una società di classi. Si tratta di qualcosa di ancora ben più nuovo e più profondo: si tratta del fatto che, proprio proclamando apertamente il carattere di classe, di Partito, di ogni cultura nella società di classi, per la prima volta nella Storia, i popoli del paese del socialismo, sotto la guida del Partito bolscevico, concretamente si pongono il compito della costruzione di una cultura che — da una società non più dilacerata in classi — sorga non più come frammentaria cultura di classe, ma come cultura umana, universalmente valida.
Avevamo dunque ragione, ancora una volta, quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica. Ma qui, a dire il vero, non si tratta più soltanto di una rivoluzione culturale, nel senso corrente della parola; si tratta di una vera e propria rivoluzione gnoseologica senza precedenti nella Storia dell'umanità. Si tratta del fatto che, con la costruzione di una società senza classi, delle possibilità non solo quantitativamente, ma qualitativamente nuove, si aprono dinnanzi alla capacità dell'umanità associata di prender coscienza del mondo. Questo significa, in altri termini, che per l'umanità tutta la costruzione di una società socialista già rappresenta non solo una conquista politica, economica, sociale, culturale di immensa portata storica, ma anche una poderosa conquista gnoseologica.
E le considerazioni che qui appresso verremo svolgendo varranno, ci auguriamo, a dare un'idea più precisa dei passi che già, su questa via, si van compiendo in Unione sovietica.


La costruzione del socialismo come conquista gnoseologica.

Abbiamo parlato della costruzione di una società socialista come di una conquista non solo economica, sociale, politica, culturale, ma gnoseologica dell'umanità; cerchiamo di approfondire e di chiarire ora il senso di questa affermazione.
Costruire una società socialista significa creare una nuova civiltà, dei nuovi rapporti tra gli uomini, e per ciò stesso una cultura nuova. Ogni cultura è la forma nella quale una data società prende coscienza di se stessa e del mondo: una coscienza, beninteso, che non significa passiva registrazione, ma è sempre e necessariamente pratica sociale, attivo intervento nella realtà di cui si prende coscienza. Per questo, della cultura, della coscienza sociale di una società data, non saprebbero esser considerate parte integrante solo la filosofia, la scienza, l'arte, ma a pari diritto la tecnica, la morale, il diritto, la politica. Un esame più attento ci mostra, anzi, che una cultura, nel senso proprio della parola, non nasce e non può nascere se non là dove, di fronte al momento della passiva registrazione, questo momento dell'attività, della pratica umana prende tutto il suo necessario rilievo.
Per la società presa nel suo complesso, in effetti, come per ciascuno di noi individualmente preso, cultura, coscienza, non sono qualcosa di immediato, di istantaneo. Per ciascuno di noi, come per la società presa nel suo complesso, coscienza, cultura, significano tutto un processo storico, nel quale quelli che si vengono elaborando non sono solo i dati immediati della nostra esperienza, ma materiali accumulati e trasmessi dalle precedenti generazioni. Da questi materiali, d'altronde, la nostra più immediata esperienza stessa è ad ogni istante condizionata. Il paesaggio, così, di cui l'uomo di Milano o di Londra, o anche quello della Lucania o della Valle del Tennessee, fa l'esperienza fin dalla sua, nascita, non è una tabula rasa, ma un paesaggio umano, nel quale è già profondamente iscritta l'opera, a pratica delle passate generazioni; e così pure la lingua che egli apprende sin da bambino, la foggia del vestire che gli si impone, i luoghi comuni sociali, morali, scientifici, religiosi, politici che lo dominano, i libri ch'egli legge, son qualcosa che gli si presenta come un dato, come una immane congerie di dati storici che sono un prodotto non suo, ma di una serie innumere di generazioni passate.
Per ciascuno di noi, come per la società presa nel suo complesso, una coscienza, una cultura nuova, nel senso proprio della parola, nasce solo là dove, di fronte a questi dati, a questi materiali che la storia offre ed impone alla nostra esperienza, noi assumiamo un atteggiamento non più semplicemente contemplativo e ricettivo, ma pratico ed attivo. Quel mondo dato, in effetti, che si presenta alla nostra più immediata esperienza, è sempre, intorno a noi, ed in noi stessi, un mondo incoerente ed incongruo, nel quale stratificazioni recenti e remote, antiche e nuove sedimentazioni culturali — come in certe bizzarre formazioni geologiche — arbitrariamente e casualmente, sembra, s'intrecciano. Guardatevi attorno qui, a Bologna: accanto ai resti dell'antico abitato dell'epoca villanoviana ed etrusca e poi di quella dell'invasione gallica, ritrovate ancora chiese e palazzi sulle cui fondamenta latine si è innestato un edificio medievale; e poi, accanto, la trattoria ottocentesca e il moderno negozio di apparecchi radio, e la sede della Camera del lavoro o della lega dei braccianti, e poi la voce di questo microfono dal quale io vi parlo. E se dal mondo che vi circonda voi rivolgete il vostro sguardo in voi stessi, ritrovate sempre un simile intreccio, un'analoga sovrapposizione e intersecazione di storiche sedimentazioni: e il linguaggio, nel quale formulate i vostri pensieri, su di un fondo latino e finanche prelatino ha accolto e conserva accenti celtici e vocaboli germanici; e le nozioni che vi si affollano alla mente vi vengono dalla famiglia e dalla scuola e dall'officina, e son giudizi e pregiudizi che, senza rendervene conto, avete accolto dalla famiglia e dalla scuola e dall'officina, e sovente — come avviene per le vostre nozioni e previsioni meteorologiche — da antichissime tradizioni dei vostri avi contadini.
Una coscienza, una cultura — nel senso proprio della parola — nasce per ciascuno di noi, e per la società presa nel suo complesso, quando, in questo apparente caos che è il mondo della nostra più immediata esperienza, il mondo che si offre alla nostra contemplazione, noi ritroviamo, attraverso la nostra attività pratica, individuale o associata, un filo conduttore, un ordine, una coerenza, una unità. E conoscere Bologna significherà, per l'archeologo o per il turista, imparare ad orientarsi nell'intrico delle sue vie e delle sue piazze, imparare a trovare un senso nel succedersi e nel sovrapporsi dei suoi monumenti e del loro vario stile.; significherà per il piazzista imparare che importanza la vostra città abbia come centro di traffici, e in che senso egli debba orientare lo smercio di una determinata partita di vini, o magari la sua ricerca della miglior trattoria; e significherà per l'organizzatore sindacale intendere la struttura e le caratteristiche della massa dei lavoratori bolognesi. Saranno vari modi di conoscere Bologna, tutti unilaterali e parziali, certo; e a questi vari modi, legati ad una diversa pratica individuale, corrisponde una diversa cultura; ma a ciascuna di queste parziali e individuali culture, Bologna non si presenta già più come un'informe e incoerente congerie di dati, ma come un'unità, come qualcosa in cui ogni parte ha una sua ragion d'essere, un suo nesso con le altre, un suo sviluppo, una sua storia: sicché non solo l'archeologo non potrebbe intender nulla dei vostri monumenti senza studiare le vicende della vostra città, ma neppure il piazzista o l'organizzatore sindacale conoscerebbe la Bologna dei traffici e del lavoro se non imparasse a considerare usi commerciali stabiliti o tradizionali tendenze delle organizzazioni dei lavoratori. Se poi di nuovo, dalla città e dal mondo che ci circonda, rivolgiamo lo sguardo in noi stessi, nel mondo dei nostri pensieri e delle nostre nozioni, e da questo punto di vista, ora, consideriamo come una coscienza e una cultura, nel senso proprio della parola, si vengano maturando, di nuovo ritroviamo che una cultura, una coscienza scientifica, superiore, nasce solo
così e là, dove nella congerie dei dati, delle nozioni passivamente acquistate, una nostra attività ritrovi e stabilisca una coerenza, inquadrandole in quella che i tedeschi chiamano una Weltanschauung, una più o meno elaborata concezione del mondo. Anche nel mondo delle nostre nozioni, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, in effetti, quel che noi spontaneamente ritroviamo è una congerie incoerente di dati, di stratificazioni e di sedimentazioni della più varia provenienza, che bizzarramente s'intrecciano e s'intersecano, proprio come avviene delle vie e delle piazze e delle successive strutture edilizie in un'antica città: del cui intrico nessuno, a prima vista, potrebbe darsi una ragione, senza considerarne, appunto, la storia. E così pure dell'incoerenza di quella congerie di dati e di nozioni tradizionali, che noi spontaneamente ritroviamo in noi, possiamo darci ragione e superarla, conquistandoci una cultura, una più o meno elaborata concezione del mondo, solo quando, di quei singoli dati incoerenti, storicamente consideriamo e critichiamo l'origine e la validità. Non vi è cultura, non vi è scienza, in particolare, là dove una nozione, le nozioni che abbiamo in noi, restino semplici dati, tradizionalmente e passivamente acquisiti, senza essere inquadrati in una coerente — se pur elementare, magari — concezione del mondo.
Soffermiamoci a considerare, proprio, come, in un caso concreto, si effettui questo passaggio dall'accettazione passiva di dati tradizionali — folcloristici, come efficacemente scriveva Gramsci — ad una conoscenza scientifica di fatti della nostra più corrente esperienza.
Ciascuno di noi ha appreso, a scuola, alcune nozioni scientifiche elementari sull'avvicendarsi delle stagioni, su equinozi e solstizi, e altre interessanti cose del genere. Può darsi che parecchi tra noi, con un certo sforzo di memoria, sappiano anche ripetere queste nozioni elementari di astronomia. Ma la maniera in cui queste materie si studiano nelle nostre scuole ha fatto sì che queste nozioni siano state da quasi tutti noi passivamente accettate ed accolte, come qualcosa, appunto, di dato, di tradizionale, senza una nostra attiva partecipazione.
Ecco dunque in noi un dato, accolto da una determinata tradizione, che è, diciamo così, la nostra tradizione scolastica:
nella quale, malgrado le manchevolezze delle nostre scuole, abbiamo generalmente una fiducia abbastanza sicura, almeno per quanto riguarda l'insegnamento scientifico. Ma accanto a queste nozioni elementari di astronomia, che ritroviamo in noi come dato della nostra tradizione scolastica, ne ritroviamo delle altre, di tutt'altra origine. Se, ad esempio, alla maggioranza dei presenti, si domandasse «qual è la giornata più corta dell'anno?», la risposta sarebbe data, probabilmente, con un detto passato in proverbio, che non so come suoni in bolognese, ma che è corrente in tutta Italia, e che io stesso ho imparato da mia nonna nella sua forma toscana: «Santa Lucia, il più corto dì che sia».
Orbene: questi dati di due tradizioni diverse, una scolastica, l'altra popolaresca e contadina, si ritrovano l'uno accanto all'altro, e, probabilmente, pacificamente convivono in quasi tutti noi. Eppure, questi due dati sono contraddittori tra loro. Il giorno di Santa Lucia cade oggi, infatti, se non erro, il 13 dicembre, mentre le nostre nozioni di astronomia, apprese a scuola, c'insegnano che il giorno più corto dell'anno è attorno ai solstizio d'inverno, il 20 dicembre.
L'esperienza, evidentemente, potrebbe abbastanza facilmente risolvere la contraddizione a vantaggio della nostra tradizione scolastica, che in questo caso è la giusta, la scientifica, rispetto a quella popolaresca. Ma anche una semplice considerazione storica della questione ci dà qui il modo di darci ragione di questi due dati contraddittori, che ritroviamo nella nostra tradizione. È certo, infatti, che il proverbio citato ha origini assai antiche, in un'epoca anteriore alla riforma gregoriana del calendario che fu attuata nel 1582. Nel calendario giuliano, vigente a quell'epoca, la data dei solstizi e degli equinozi non risultava fissa, come invece appunto avviene dopo la riforma gregoriana. Questo spiega, pertanto, come per un certo numero di anni il giorno più corto dell'anno potesse effettivamente cadere attorno alla data in cui si festeggiava Santa Lucia, e come sia Potuta nascere una tradizione che si è poi perpetuata sino a noi: e che — con quella fissità che è caratteristica delle tradizioni popolari — ha seguitato e seguita a trovar credito anche dopo che, con la riforma del calendario, essa non corrisponde più alla realtà dei fatti.
In un caso cosi semplice ed elementare, come si vede, un semplice confronto tra due dati della nostra tradizione culturale passiva ci ha permesso, in primo luogo, di rilevarne la contraddittorietà, sulla quale probabilmente non avevano mai. fermato la loro attenzione nemmeno molti tra noi, che sanno cosa sia un solstizio e che, pur sovente, avranno citato il proverbio; in secondo luogo, il confronto ci induce a confermarci nell'idea che doveva essere il nostro maestro di scienze ad aver ragione, perché quel che egli ci ha insegnato sulla «giornata più corta» s'inserisce coerentemente in tutto un sistema di nozioni astronomiche, mentre l'insegnamento del proverbio popolare resta isolato e non coerente con altre nostre nozioni; in terzo luogo, una considerazione storica viene non solo a confermarci la coerenza della nozione appresa a scuola, ma a darci ragione dell'altro dato tradizionale, di cui essa ci spiega l'origine, inquadrandolo in un più vasto sistema di conoscenze.
A prescindere dalla possibilità di una verifica sperimentale, che sarebbe facile in questo caso, noi vediamo, così, che il passaggio da una passiva e incoerente e contraddittoria «cultura» tradizionale alla scienza avviene attraverso un confronto dei dati e delle nozioni che ritroviamo in noi stessi, una loro critica, che ha sempre, un carattere storico. Degli esperimenti e delle osservazioni stesse, del resto, sulle quali le nostre nozioni d'astronomia sono fondate, noi siamo edotti attraverso un processo storico, appunto, né potremmo pretendere di ripeterle tutte personalmente. Ma quel che particolarmente qui c'importa ancora di sottolineare è il fatto che una coscienza scientifica del reale si distingue da una coscienza semplicemente folcloristica, tradizionale, non solo per la sua interna coerenza — cui fa contrasto l'incoerenza e la contraddittorietà delle nozioni passivamente accolte — ma per la sua universale validità.
Quel che noi pretendiamo da una nozione, per considerarla come una nozione scientifica, infatti, non è solo che essa sia inquadrata in un sistema coerente di nozioni, ma è anche che essa sia universalmente valida. Di un'esperienza, così, noi diremo che è un'esperienza scientifica solo se è un'esperienza
ripetibile: se cioè, date quelle determinate condizioni, essa confermi i suoi risultati, quale che sia lo sperimentatore. E quando, allo scienziato ed alla scienza, noi richiediamo una conoscenza obiettiva del mondo, noi chiediamo, appunto, una coerente sistemazione di 'un'esperienza che non sia quella del visionario o neppur solo di quella sua o nostra individuale, ma quella di tutta l'umanità associata, nel suo concreto processo storico: di un'esperienza, pertanto, universalmente valida.
E qui ci riavviciniamo — dopo questa lunga digressione, che era pur necessaria per chiarire il nostro assunto — all'oggetto più specifico della nostra conversazione. Quanto or ora abbiam detto ci mostra, in realtà, che il processo della conoscenza, della coscienza, della cultura, anche quando si parta, nella considerazione di esso, dalla nostra esperienza individuale, è sempre un processo sociale e storico. Dell'obiettività, della realtà stessa del mondo che ci circonda, noi possiamo aver la certezza solo e proprio nei nostri rapporti e nel nostro discorso con gli altri uomini, nella società umana: sicché giustamente è stato detto che solo un impossibile uomo — nato e cresciuto fuori di ogni società umana — potrebbe a buon diritto (come a torto fanno i filosofi idealisti) immaginarsi che terra e mare e cielo siano realtà solo del suo e nel suo pensiero. Ma questo significa che il processo attraverso il quale una società, presa nel suo complesso, conquista una sua coscienza scientifica del reale, una sua cultura, è sostanzialmente analogo — se pur naturalmente ancor più vario e complesso a quello che sinora siam venuti disaminando. E di una società data, come di un dato individuo, diremo che essa ha conquistato una cultura, e in particolare una coscienza scientifica del reale, tanto più elevata, quanto più questa sua coscienza avrà superato l'incoerenza di dati puramente folcloristici e tradizionali, e avrà saputo elaborare una concezione del mondo coerente e storicamente critica, e perciò stesso più universalmente valida.
Non a caso, dunque, i nomi nei quali si suol riassumere la cultura di una data società, i nomi che segnano le tappe decisive nello sviluppo della cultura, della filosofia, della scienza, sono i nomi di coloro che, in una data epoca, con maggior vigore hanno saputo sottoporre ad una critica rinnovatrice quelle che erano divenute incoerenti e passive tradizioni di pensiero e di costume delle epoche precedenti; o di coloro che, di una data epoca, più coerentemente hanno saputo esprimere la coscienza maturata. Così nel nome di Socrate o di San Paolo o di Averroès o di Galileo o di Mendeleev o di Einstein o di Marx, segnaliamo il momento di storiche rivoluzioni scientifiche o culturali; e nel nome di Aristotele o di Linneo o di Maxwell, la più completa e coerente elaborazione della coscienza scientifica e culturale di una data epoca.


Limitatezza gnoseologia della società di classi.

Se vogliamo caratterizzare, così, quel dato periodo della cultura italiana, che va dagli ultimi anni del secolo XIX sino alla prima guerra mondiale, si suole ricorrere, sovente, e non senza ragione, al nome di Benedetto Croce. E certo non si può negare che, nella cultura delle classi dominanti italiane, Benedetto Croce non sia riuscito ad indurre una certa intima coerenza. Ancora negli ultimi decenni del secolo scorso, come è noto, la cultura delle classi dominanti italiane appariva pro fondamente divisa fra le più antiche correnti tradizionali, rinfocolate dalla proclamazione del Sillabo, e le nuove tendenze di pensiero a carattere positivistico che la borghesia era venuta elaborando nel corso del Risorgimento e nei primi decenni successivi all'Unità; senza contare altre minori tendenze e suddivisioni, sulle quali non è ora necessario soffermarci.
vecchia cultura delle classi dominanti italiane, che più di due secoli prima aveva trovato la sua sistemazione nelle tesi e nei decreti del Concilio tridentino, seguitava, sì, a dar prova di un suo tradizionale vigore, radicata co n L'era, ormai, sin nei pregiudizi popolari; ma era divenuta, appunto, pregiudizio; non si mostrava più atta a contenere e ad esprimere le esigenze di vita e di dominio e di relativo progresso delle nuove classi dominanti borghesi che si venivano mescolando e innestando sulle antiche e che erano venute elaborando, nel corso del Risorgimento, un'ideologia cd una cultura laica più adeguate alla loro natura ed ai loro storici obiettivi. Di qui, all'interno delle classi dominanti stesse, un contrasto ed una di-
lacerazione, che non era solo politica, ma anche ideologica e culturale; di qui la necessità, per le classi dominanti del nuovo Regno unito, di superare e di sanare questa dilacerazione, tanto più pericolosa nella misura in cui dal, basso le nuove classi proletarie urgevano con la minaccia delle loro lotte sociali, della loro politica, della loro cultura.
Benedetto Croce ha egregiamente assolto, non v'è dubbio, il difficile compito di rimarginare, per le classi dominanti italiane, questa dilacerazione culturale, costruendo una elaborata concezione del mondo nella quale gli elementi tradizionali di una concezione religiosa venivano riassorbiti e conciliati con quali della tradizione idealistica e positivistica più recente, non scevra di forme e di contenuti scientifici. La caratteristica
del sistema, della Weltanschauung crociana, è data anzi dal fatto che essa cerca di tener conto, nonché delle tradizioni delle classi dominanti italiane, persino della esperienza più recente
del movimento operaio internazionale: che — come sul piano politico avviene col riformismo — si cerca di riassorbire e di subordinare alla cultura delle classi dominanti.
Non si può dire, l'abbiamo già avvertito, che lo sforzo di Benedetto Croce e della sua scuola non abbia sortito un effetto importante, con la elaborazione di una concezione del fondo che ha avuto, per la cultura delle classi dominanti italiane, mia notevole efficacia unificatrice e che non manca di ima sua certa intima coerenza. Questo spiega la grande autorità di cui durante lunghi anni — e persino durante il fascismo — Benedetto Croce ha goduto fra i più larghi strati della borghesia e della piccola borghesia intellettuale italiana. Ma proprio questa efficacia dell'opera di Benedetto Croce ne sottolinea più chiaramente i limiti. Quella concezione del inondo, così sapientemente elaborata; quella Weltanschauung, nella quale così opportunamente, ai fini del consolidamento del dominio della borghesia imperialista ormai conciliata con le vecchie caste feudali, si conciliavano il diavolo e l'acqua santa — che divengono naturalmente, nel sistema crociano, non più contrari, ma solo distinti — quella concezione del mondo, dicevamo, pur così conciliantemente elaborata, restava una concezione di classe, elaborata dal punto di vista di una determinata classe (o di un determinato aggruppamento di classi); non poteva e non può esprimere coerentemente una realtà che è in se stessa, obiettivamente dilacerata e frammentaria. Il sistema di Croce ha pertanto scientificamente fatto fallimento là dove non poteva non far fallimento; là dove esso cercava di riassorbire la nuova cultura, la nuova ideologia della classe operaia, proclamandone la storica caducità, affermando che il marxismo era morto (così come Giolitti aveva creduto che il Capitale potesse relegarsi ormai in soffitta). Non poteva non fallire, su questo punto, il sistema, la Weltanschauung di Croce, perché la sua coscienza e la sua scienza, per quanto intimamente coerenti potessero essere, restavano una coscienza, una scienza di classe, parziali, frammentarie, incapaci d'intendere e di esprimere proprio la contraddizione ed il momento essenziale, decisivo, della realtà contemporanea: il momento della lotta, dell'ideologia, della cultura nuova della classe operaia. E col fascismo e poi con De Gasperi, persino quella temporanea conciliazione che il sistema di Croce aveva raggiunto tra le tradizionali ideologie delle varie frazioni delle classi dominanti, si è rivelata inadeguata per le classi dominanti stesse, sicché queste son ricorse di volta in volta ad altri sistemi: se condo esigenze che non erano astrattamente logiche o filosofiche, ma secondo il mutevole configurarsi dei rapporti di forze e della varia loro disposizione nella società italiana ed internazionale.
La pratica, così, la dialettica della Storia, si è incaricata di dimostrare la storica limitatezza, e parzialità di classe della concezione del mondo crociana; e ciò non solo per noi, per la classe che è la portatrice della nuova cultura, ma persino per quelle classi dominanti, dal cui seno la cultura crociana era stata espressa: sicché quelle stesse classi — malgrado la solenne sentenza di Croce, indubbiamente coerente con la sua concezione del mondo — han dovuto più che mai continuare a preoccuparsi non solo politicamente, ma ideologicamente, di quel marxismo che, in fede di Croce, esse avevano creduto morto e sepolto; e a tal uopo, anzi, proprio dopo la famosa sentenza, han dovuto promuovere e organizzare fascismi e patti antikomintern, crociate ideologiche e piani Marshall, encicliche e «micròfoni di Dio».
Oggi come ieri, d'altronde, la storica limitatezza e parzialità di classe della cultura, della concezione del mondo delle classi dominanti, impedisce loro di cogliere nella sua dialettica unità il processo del reale, vieta loro di intenderne un momento così decisivo, qual è quello della negazione, che è proprio il momento dell'attività, della produttività umana. La parzialità di classe, insomma, della coscienza, della cultura, della concezione del mondo, della scienza delle classi dominanti, costituisce un limite obiettivo alla sua obiettività, alla sua universale validità. E questo vale, si badi bene, non solo in un senso, diciamo così, statistico, che non sarebbe di per sé probante. Non si tratta del fatto che le concezioni del mondo del Papa o di Croce, o magari quella di Einstein o di Planck, per quanto intimamente coerenti esse possano essere, non potrebbero essere universalmente valide, perché i braccianti pugliesi non sanno di latino, o perché gli operai di Torino non sanno di calcolo tensoriale. Non si tratta di questo: ché anzi, finché i braccianti non san di latino e sinché gli operai non si occupano di fisica, essi possono pure essere indotti a subire il suggello, sia pure passivo, della cultura delle classi dominanti; e resta pur valida per essi, a modo loro, la religione del Papa o la scienza ,di Einstein e di Planck. Il senso della nostra affermazione, invece, è ben più profondo e radicale di quel che non possa essere una constatazione statistica della diffusione o meno di una data concezione; si tratta del fatto che non può esservi concezione del mondo universalmente valida là dove non esiste una universale e comune umanità, là dove la società umana è intimamente, obiettivamente dilacerata in classi antagonistiche che necessariamente sviluppano antagonistiche coscienze e concezioni del mondo: sicché quanto più braccianti o operai «sanno di latino» — sviluppano una propria, autonoma attività culturale ed escono da una posizione di pura ricettività — tanto meno valida diviene per essi non solo la religione del Papa, ma persino la scienza della borghesia.
Questo significa, insomma, che la divisione della società in classi non ha solo delle conseguenze economiche, politiche, sociali, culturali che sono quelle in cui tale divisione più immediatamente si esprime. Questo significa che tale intima dilacerazione dell'umanità pone dei limiti obiettivi alla capacità che l'umanità associata ha di prender coscienza del reale in una forma scientifica, coerente, obiettiva, universalmente valida. Questo significa che la divisione della società in classi pone all'umanità delle limitazioni che non sono solo economiche, politiche, sociali, culturali, ma addirittura gnoseologiche.
Questo non vuol dire, beninteso, che anche in una società di classi non si sia manifestata e non si manifesti l'infinita capacità dell'umanità associata di approfondire, con la sua teoria e con la sua pratica, la coscienza e la conoscenza del mondo; né potrebbe esser inteso nel senso che, con la realizzazione di una società senza classi, l'umanità d'un tratto raggiunga una coscienza e una conoscenza del mondo che non sia più infinitamente approfondibile. L'acqua, l'abbiam già detto, in quelle determinate condizioni, bolle a 1000 per il capitalista come per il proletario, e per il lavoratore dell'umanità socialista; e di questo dato scientifico, la scienza borghese ha saputo da tempo registrare l'obiettività. Così pure la data di quella certa eclissi o la data della scoperta dell'America sono egualmente registrate in un trattato di astronomia o di storia borghese come in un trattato sovietico. Ma si tratta, appunto, di d ti che possono avere un valore scientifico quando siano debitamente controllati (e non deformati, come sempre più largamente avviene nella «scienza» borghese), ma che non costituiscono ancora, di per se stessi, la scienza nel senso proprio della parola: che non significa, appunto, un dato o una congerie di dati, ma un loro coerente sistema, in cui ogni dato sperimentale o storico diviene elemento di una concezione del mondo. E questa concezione del mondo potrà essere infinitamente allargata ed arricchita ed approfondita, ma per essere scienza nel senso proprio della parola dovrà essere intimamente coerente ed universalmente valida, obiettiva.


La rivoluzione culturale socialista come "salto" qualitativo.

In questo senso si può dire che, anche su questo piano, la costruzione di una società senza classi rappresenta, nella storia dell'umanità, un vero e proprio salto qualitativo. Il salto è più immediatamente rilevabile per quanto riguarda i rapporti economici, sociali, politici, o la morale — che solo in una società senza classi, appunto, può superare la sua frammentarietà e limitatezza di classe, e divenire una morale umana ma non è meno effettivo per quanto riguarda la scienza stessa, che ora soltanto può vincere la sua parzialità di classe e divenir scienza nel senso proprio della parola, scienza umana, obiettiva nella sua universale validità.
Proprio questo, l'abbiamo già rilevato, è il significato più profondo della rivoluzione culturale e gnoseologica che oggi si viene avviando nel paese del socialismo ; proprio qui sta il valore eccezionale delle prime manifestazioni di una cultura e di una scienza nuova dell'umanità socialista che tanto scandalo hanno sollevato tra i figli del secolo. E già a chi faccia attenzione al modo nuovo in cui la cultura e la scienza nuova crescono e si affermano nella società socialista, questo valore balena in una luce vivida e chiara.
Basti riflettere che, per la prima volta nella storia dell'umanità, in Unione sovietica, tutto il sistema dell'educazione e dell'istruzione, e della direzione culturale in genere, è fondato sulla scienza, su di un sistema e su di un metodo coerente del conoscere. Non vogliamo ora entrare in un giudizio di merito su tale sistema o su tale metodo; non è questo che qui ci interessa. Ma nessuno può negare che per la prima volta nella storia decine di milioni di uomini si educano a liberarsi da una «cultura» e da una coscienza tradizionale, passiva, incoerente, contraddittoria — «folcloristica», direbbe Gramsci per conquistare del mondo una coscienza coerente, attiva, scientifica, unitaria. Nel mondo borghese, nella società di classi, anche la più avanzata, se alle classi «colte», entro certi limiti, si assicura una tale educazione, la grande maggioranza degli uomini è abbandonata e mantenuta in uno stato di passività, di tradizionalismo, di incoerenza culturale — nel folclore piuttosto che in un'attiva coscienza sociale.
Sarebbe difficile sopravvalutare l'importanza che questa diversità assume nella cultura e nella scienza nuova dell'umanità socialista. Si consideri, ad esempio, come si è svolta in Unione sovietica la recente discussione sui problemi della genetica. In un qualsiasi paese del mondo capitalistico, una tale discussione si sarebbe svolta nel chiuso dei gabinetti scientifici, delle Accademie e delle riviste specializzate. E non si tratta solo, badate bene, di una scarsa diffusione della cultura biologica in tali paesi. Ma come si potrebbe discutere dei problemi della genetica di fronte ad un pubblico di milioni di uomini semplici, ai quali si seguita ad insegnare che il mondo è stato creato in sei giorni e che Eva è nata dalla costola di Adamo? Né vale dire che anche certi Padri Gesuiti, sulle loro riviste, dichiarano oggi di accettar le teorie dell'evoluzione delle specie: ché queste sono affermazioni che essi riservano, semmai, per il pubblico «colto», mentre dai pulpiti si seguita a predicare l'obbrobrio ai comunisti «che proclamano l'uomo non creatura di Dio, ma progenie di scimmie». Una discussione scientifica di massa presuppone, per contro, una cultura di massa che, quale che sia il suo attuale livello, sia fondata su di un orientamento verso una coerente concezione del mondo: coerente in quanto confronti e critichi e superi i dati incoerenti e contraddittori di una tradizione folcloristica passivamente accolta per il passato, e coerente in quanto non sia qualitativamente diversa e contraddittoria negli «specialisti», negli «uomini della cultura» da un lato, e nei «profani», negli «uomini semplici» dall'altro.
Ma tali condizioni si ritrovano e si possono ritrovare, appunto, solo in un mondo che, come quello sovietico, abbia già liquidato la divisione della società in classi antagonistiche. Per questo la cultura, la scienza sovietica, possono svilupparsi e già effettivamente si sviluppano, in un modo, in forme, che sono qualitativamente diverse da quelle in cui la cultura e la scienza si sviluppano e progrediscono in una società di classi, come cultura e come scienza di tutto il popolo, attraverso dibattiti di massa.
Le conseguenze di un così diverso modo di sviluppo sono, si badi bene, ancora una volta, non solo sociali o politiche o culturali, ma gnoseologiche: toccano la natura e il valore stesso della scienza, cioè. Cosa significa, ad esempio, da questo punto di vista, il fatto che la discussione sulla nuova biologia sovietica si sia sviluppata in un dibattito di milioni di uomini, invece che di pochi specialisti, come suole avvenire nel mondo capitalistico?
fuor di dubbio che questa diversità ha delle conseguenza importantissime che sono, appunto, di carattere gnoseologico e che sono facilmente rilevabili da chi abbia avuto cura di seguire i termini del dibattito e di approfondirne il senso.
È noto, ad esempio, che una parte molto importante delle esperienze e delle ricerche che vengono interpretate nella teoria morganiana dell'ereditarietà è stata e viene eseguita sulla Drosophila, un comune moscerino che vi sarà spesso capitato sott'occhio attorno all'uva o ad altre frutta in fermentazione. Non vi è nessuna ragione obiettiva per cui questo piccolo dittero debba esser preferito a tutti gli altri esseri viventi, animali e vegetali, nelle nostre ricerche di genetica. La fama mondiale che questo insetto ha conseguito attraverso le ricerche della scuola morganiana non è dovuta al fatto che il genere Drosophila eserciti una funzione od occupi un posto preminente nella natura, o abbia una importanza particolare o una speciale utilità per l'uomo. Quel che ha fatto la «fortuna» scientifica della Drosophila è semplicemente il fatto che essa è rapidamente e facilmente riproducibile in allevamento di laboratorio e che i suoi cromosomi presentano particolarità che ne rendono particolarmente comodo lo studio ai ricercatori.
Ecco dunque che, nella società capitalistica, la disposizione e l'organizzazione della ricerca scientifica esercitano una precisa influenza limitativa, restrittiva, sulla ricerca scientifica stessa e addirittura ne deformano la materia e l'indirizzo sperimentale. Allo stadio attuale delle nostre conoscenze, nulla ci dice che le leggi dell'ereditarietà siano identiche per tutta la gamma delle specie animali e vegetali; al contrario, dalla genetica morganiana stessa risulterebbe che anche specie tra loro abbastanza vicine presentano caratteristiche differenziali importanti per quanto riguarda, ad esempio, l'ereditarietà del sesso. Ma intanto, il distacco che la società capitalistica accentua tra scienza e popolo, tra «specialisti» e «profani», fra «teoria» e «pratica», induce i ricercatori a concentrare i loro studi attorno alla Drosophila; limita, di fatto, il campo delle ricerche, non solo in quanto queste si concentrano solo attorno ad una o poche fra le centinaia di migliaia di specie del mondo vegetale e animale, ma in quanto la ricerca resta quasi esclusivamente confinata nei laboratori e affidata alla pratica di poche migliaia di specialisti in tutto il mondo borghese, anziché allargarsi su milioni di ettari di culture agricole e di allevamenti e beneficiare della pratica, scientificamente controllata, di milioni di uomini.


Il dibattito sulla nuova biologia sovietica.

La biologia nuova che oggi si afferma in Unione sovietica, per contro, non è una biologia «degli scienziati per gli scienziati» che scelga il suo materiale di esperienza secondo il «comodo» dei ricercatori. A una biologia, una scienza degli uomini per gli uomini, che coscientemente si pone il compito di accrescere e perfezionare la padronanza dell'uomo sulla natura attraverso una approfondita conoscenza della natura stessa e delle sue leggi; una scienza che considera la pratica dell'umanità associata, l'esperienza di massa, non solo criterio decisivo della propria obiettività, della propria universale validità, ma momento essenziale del processo stesso della conoscenza scientifica.
Perciò la nuova biologia sovietica, se è pur solo agli inizi del suo cammino glorioso, seppur ha ancora dovuto combattere, sinora, in Unione sovietica stessa, contro le incomprensioni e le resistenze della tradizione reazionaria e borghese della scuola morganiana, non si è rinchiusa solo nei laboratori, non si è ristretta fra pochi specialisti, non si è infatuata solo attorno alla Drosophila, ma ha allargato le sue esperienze su milioni di ettari di culture ed in migliaia di allevamenti kolkhoziani; ha arricchito la pratica dei ricercatori specializzati
con quella di milioni di kolkhoziani, di orticultori, di frutticultori, di allevatori, di selezionatori, scientificamente controllata; ha esteso immensamente il campo delle sue ricerche e della sua sperimentazione nella «jarovizzazione» dei cereali e nell'acclimatazione della patata, nella pratica di massa degli ibridi vegetativi e in quella della semina a nidi, in quella della cultura industriale della pianta da gomma e negli allevamenti kolkhoziani. Legandosi ai compiti pratici della costruzione socialista, la nuova biologia sovietica non solo ha, sin d'ora, recato un apporto decisivo al successo di questa, non solo ha accresciuto la padronanza dell'umanità socialista sulla natura, ma ha beneficiato e beneficerà di un decisivo allargamento della propria base metodologica e gnoseologica; già tende a sfatare la maledizione del distacco fra teoria e pratica, tra scienza e popolo, che nella società di classi soffoca o costringe entro limiti ristretti la capacità dell'umanità associata di conquistare del mondo una conoscenza obiettiva, universalmente valida.
Non potremmo, e non intendiamo qui, beninteso, entrar nel merito del dibattito sulla genetica morganiana e mitschuriniana; abbiamo solo voluto illustrare, sulla base di questo esempio, una delle caratteristiche fondamentali della nuova cultura, della nuova scienza sovietica; e non è un caso che, persino nel mondo capitalistico, molti selezionatori ed allevatori fra i più seri, legati ad una esperienza pratica di massa, sostengano da tempo tesi che si avvicinano, sotto vari aspetti, a quelle che sono allo base dell'indirizzo di ricerche oggi affermatosi vittoriosamente in Unione sovietica col trionfo della scuola di Mitschurin. Il trionfo della scuola di Mitschurin e di Lyssenko è il trionfo della scienza degli uomini, della scienza del popolo per il popolo sulla scienza degli specialisti per gli specialisti, sulla cosiddetta «scienza pura»: che, come l'«arte per l'arte», esprime nella società di classi non già un'impossibile indipendenza della coscienza sociale dai concreti rapporti esistenti in quella data società, ma solo l'intima dilacerazione della società stessa, maledetta dalla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, fra teoria e pratica, tra libro e vita; frammentata, nel suo mondo culturale stesso, in circoli chiusi senza comunicazioni e senza finestre l'uno sull'altro.
'Quanto qui abbiamo rilevato a proposito-del dibattito sulla nuova biologia, in effetti, avremmo potuto rilevarlo a proposito di ogni altro settore della cultura sovietica: a proposito dell'arte o della critica letteraria, come a proposito della storiografia o della filosofia. In ciascuno di questi campi, per ciascuna di queste forme della coscienza sociale della nuova umanità socialista, avremmo potuto constatare come la profonda rivoluzione che è oggi in corso in Unione sovietica esprima un «salto» senza precedenti nella storia dell'umanità e della sua cultura, della sua capacità di prender coscienza del mondo e di trasformarlo.
«Con l'apparizione del marxismo — ha detto il comp. Zhdanov nel suo decisivo intervento sui problemi della filosofia come concezione scientifica del mondo del proletariato, è chiuso il vecchio periodo della storia della filosofia, nel corso del quale la filosofia era cura di singoli, patrimonio di scuole filosofiche, costituite da un piccolo numero di filosofi e di loro discepoli, chiusi, staccati dalla vita, dal popolo, estranei al popolo. Il marxismo non è una scuola filosofica di questo genere. Al contrario: il marxismo rappresenta il superamento della vecchia filosofia, del tempo in cui la filosofia era il patrimonio dí pochi eletti, aristocrazia dello spirito; segna l'inizio di un periodo assolutamente nuovo della storia della filosofia, di un periodo in cui essa è divenuta un'arma nella lotta delle masse proletarie che lottano per la loro liberazione dal capitalismo». Il trionfo della concezione marxista del mondo in Unione sovietica esprime così appieno la nuova coscienza di un'umanità non più dilacerata da aristocrazie della ricchezza o del pensiero contrapposte al popolo; è il trionfo, come scriveva Gramsci, di «una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma generalizzate nella realtà sociale (*)».
In questo passo di Gramsci, come nell'altro di Zhdanov che ho or ora citato, è giustamente posta in rilievo l'assoluta novità del marxismo, che rappresenta, in quanto filosofia di massa, un vero e proprio salto senza precedenti nella storia del pensiero umano; che stabilisce un rapporto assolutamente nuovo fra teoria, tra 'coscienza e pratica dell'umanità associata. Già Marx aveva scritto, nelle sue famose «Glosse a Feuerbach», che «i filosofi hanno solo variamente interpretato il mondo;

nota (*) Antonio Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Torino, Einaudi, 1948, pag. 232.

si tratta di trasformarlo»; aveva affermato che la pratica umana associata è non soltanto criterio, ma momento decisivo del processo della conoscenza. Col trionfo della concezione marxista del mondo nell'umanità socialista, questa superiore coscienza della natura e del processo della conoscenza diviene per l'umanità associata un'arma decisiva per la conquista di una cultura umana, di una scienza, di un'arte, di una morale universalmente valide; impronta di sé ogni attività culturale della società socialista.


Coscienza e pratica sociale nell'estetica e nell'arte nuova.

Si consideri, ad esempio, l'atteggiamento che nella società socialista si viene affermando nei confronti dei problemi dell'arte e si metta a paragone con quello che è caratteristico dei teorici dell'estetica nella società di classi in generale e nel mondo borghese in particolare. Si veda, così, quel che Benedetto Croce, o magari Aristotele o Lessing, ci hanno detto del Bello,o dell'Arte. Croce, ad esempio, non ci parla, è vero, del Bello o dell'Arte come di qualcosa che sia fuori del nostro mondo umano e della storia; da buon filosofo idealista, del resto, una tale considerazione dell'Arte e del Bello non potrebbe aver alcun senso per lui. A prima vista, pertanto, il suo atteggiamento di fronte a questo problema potrebbe sembrare avesse evitato lo scoglio della metafisica, della considerazione di una data realtà fuori del suo nesso con la storia e con la pratica dell'umanità associata. Ma in realtà, a chi più attentamente consideri la parte e la posizione che all'estetica Croce fa nel quadro del suo sistema di filosofia idealistica, non può sfuggire il fatto che dell'Arte, del Bello — nelle forme caratteristiche, appunto, del suo sistema idealistico — Croce fa proprio un concetto dato, anzi una categoria assoluta dello spirito umano, una entità extra e super-storica, astratta dalla pratica dell'umanità associata; una entità, insomma, di quelle che nella terminologia marxista noi qualifichiamo di metafisiche; sicché, anche se non ci parlano di un Bello e di un'arte assoluti, Croce ed i suoi discepoli ci parlano però di un concetto assoluto del Bello e dell'Arte.
Così come per Aristotele o per Lessing, dunque — se pure nelle forme più scaltrite dell'idealismo contemporaneo — il Bello e l'Arte (per Croce il loro concetto) vengon considerati come qualcosa di dato, e l'estetica come un'attività puramente teoretica, speculativa, contemplativa, attraverso la quale il filosofo si limita a scoprire una verità che già c'è, bella e fatta, e che sarebbe appunto il concetto (ci verrebbe quasi voglia di dire l'idea platonica) del Bello e dell'Arte.
In realtà, ciascuno di noi sa, ed ha potuto sperimentare, che questa pretesa di Croce — e di quanti altri filosofi prima di lui, nella società di classi, hanno voluto scoprirci il Bello e l'Arte — è la pretesa ad una falsa obiettività. La realtà è che non c'è nessun concetto di Bello e di Arte che sia là, bello e fatto in un mondo ideale, e che non si tratti che di scoprire con un'attività puramente teoretica e speculativa. La realtà è che Croce, come tutti i filosofi e critici e artisti che prima di lui, con maggiore o minore efficacia culturale, si sono occupati di estetica, non hanno niente affatto semplicemente scoperto o approfondito un concetto del Bello e dell'Arte che fosse là, bell'e pronto, in un superno mondo di idee platoniche ; né la loro attività è stata una attività puramente teoretica e contemplativa, ché anzi è sempre stata, coscientemente o incoscientemente, un'attività teorica e pratica, volta non già a scoprire un concetto del Bello, ma a crearlo; e a crearlo non semplicemente in un senso filosofico-speculativo, di elaborazione concettuale, bensì nel senso tutto pratico e concreto di concetto che vivesse e operasse nella coscienza degli uomini, nel senso della creazione di un nuovo gusto artistico e di una nuova poetica: e a tal fine, del resto, filosofi e critici e artisti si son preoccupati di apparecchiare tutta un'attrezzatura materiale e organizzativa di riviste e di accademie e di cattedre e di camarille universitarie.
Nella nuova estetica sovietica, per contro, l'arte — in quanto forma della coscienza sociale — non viene punto considerata o presentata come qualcosa di dato, come un'idea platonica eterna e sottratta alle vicende di questo nostro basso mondo, come un concetto puramente teorico e speculativo, astratto dalla concreta pratica storica dell'umanità associata. Si pone così continuamente in rilievo, ad esempio, come le teorie estetiche e il gusto dell' «arte per l'arte» siano un prodotto non casuale e arbitrario, ma anzi necessario, della società di classi in una data fase del suo sviluppo storico; si mostra come il predominio di queste teorie e di questo gusto artistico non solo esprima la profonda dilacerazione della società borghese contemporanea, la maledizione che su di essa pesa in conseguenza del monopolio borghese sulla cultura, in conseguenza della separazione tra arte e popolo; ma giustamente si sottolinea come il predominio di queste teorie e di questo gusto abbia una pratica efficacia, tutta rivolta — nell'interesse delle classi dominanti — proprio al consolidamento del loro dominio, del loro monopolio sulle ricchezze e sulla cultura. Non a caso, così, al gusto di ristretti gruppi delle classi dominanti per la poesia ermetica o per la pittura astrattista, fa necessario riscontro — nella società capitalistica contemporanea — un persistente gusto di massa per la oleografia ecclesiastica o per la poesia alla Parzanese, mentre restan soffocati e repressi i germi del canto e della pittura popolare: nel che appunto si esprime la costrizione delle masse popolari in quello stato di relativa passività culturale che è — l'abbiamo visto — condizione essenziale per il dominio di ogni classe oppressiva e sfruttatrice.
Né per questo — in quanto ne sottolinea la pratica efficacia di classe — l'estetica sovietica nega un valore, diciamo così, documentario all'«arte per l'arte», in quanto forma caratteristica della coscienza e della pratica sociale artistica dell'umanità in una data fase del suo sviluppo storico; ma a questa forma di una coscienza e di una pratica sociale artistica frammentaria, parziale, negativa, l'estetica sovietica apertamente ne contrappone un'altra, superiore, totale, positiva: che non è più quella — frammentaria, appunto, e parziale — di ristretti circoli delle classi dominanti, bensì quella di un'umanità intera, in lotta contro il vecchio mondo dell'oppressione, dello sfruttamento, del monopolio della cultura, di un'umanità già volta a rimarginare le ferite della sua intima dilacerazione. E di questa lotta, l'estetica, l'arte nuova della società socialista è — e come potrebbe non essere? — parte integrante: sicché l'estetica sovietica apertamente si dichiara non solo come teoria volta ad approfondire un concetto del Bello, ma come una pratica tendente a liquidare nella coscienza degli uomini i residui ideologici del capitalismo e della divisione della società in classi, come una pratica volta alla creazione di una nuova poetica e di un nuovo gusto artistico, che esprimano i rapporti nuovi di una società umana e rispondano alle esigenze storiche della sua costruzione.
La diversità tra l'estetica dell'«arte per l'arte» di Benedetto Croce, putacaso, e quella sovietica, pertanto, non sta nel fatto che questa subordinerebbe la creazione artistica a determinate condizioni e finalità sociali, mentre quella la abbandonerebbe all'ispirazione che, come lo Spirito santo, «soffia dove vuole», a quanto ci si dice. In realtà, l'una e l'altra estetica esprimono — come ogni ideologia — i rapporti di una società determinata, con la sua realtà e con le sue storiche esigenze. La diversità sta nel fatto che l'estetica, l'arte, il gusto dominanti nella società borghese esprimono la realtà di questa società in una forma parziale, frammentaria, contraddittoria, perché parziale, frammentaria, contraddittoria resta la nostra stessa umanità, finché essa non abbia spezzato il quadro della società di classi; mentre l'estetica sovietica esprime la realtà di una società che ha già spezzato questo quadro per quanto concerne i rapporti di produzione e che coscientemente e solidalmente lavora a spezzarlo per quanto riguarda la conquista di una superiore coscienza umana. Per questo mentre l'estetica borghese accuratamente nasconde — e non può non nascondere — il legame indissolubile che in ogni società stringe la coscienza artistica alla pratica sociale, mentre di questo legame essa non può, nella sua limitazione di classe, conquistare che una coscienza oscura e confusa; l'estetica sovietica, per contro, non solo non ha ragione di nascondere tale legame, ma apertamente lo proclama e può così conquistare una nozione chiara, adeguata, del rapporto che per questa, come per ogni altra forma della coscienza, sussiste fra teoria e pratica sociale.
Da questa chiara e adeguata coscienza dei rapporti fra teoria e pratica, proprio, nasce la superiorità scientifica e la superiore efficacia storica dell'estetica sovietica: il cui storicismo, a differenza di quel che avviene per quella borghese, è rivolto non solo verso il passato, ma verso l'avvenire: che c'illumina non solo l'arte e il gusto delle classi dominanti e dei loro artisti, ma il gusto degli uomini, l'arte per gli uomini. E per questo l'estetica e la critica sovietica, che coscientemente collaborano alla costruzione dell'uomo nuovo, conducono la loro lotta su due fronti. Esse sanno che la fioritura dell'arte nuova dell'umanità socialista, e il loro proprio sviluppo ulteriore, non possono essere il frutto di un processo spontaneo, puramente teorico, mosso dall'ispirazione che «soffia dove vuole» e avulso dai compiti pratici della costruzione socialista; esse sanno che l'arte e l'estetica nuova stessa non possono giungere ad una piena maturazione senza il superamento dei residui ideologici della società di classi nella coscienza di milioni di uomini: ciò che presuppone non solo una teoria estetica astrattamente «vera», ma un suo pratico legame con i compiti concreti della costruzione socialista nel campo materiale e culturale. La superiorità scientifica e la superiore efficacia storica dell'estetica sovietica stanno proprio in ciò: che non solo teoricamente, ma praticamente, essa si pone il compito della lotta per il realismo socialista. Per questo l'estetica sovietica conduce la sua lotta su due fronti; lavora, teoricamente e praticamente, a liberare l'umanità socialista dai residui di una coscienza e di una pratica artistica formale, parziale, frammentaria che sono caratteristici della società di classi in generale, e della società borghese nella fase della sua decomposizione in particolare. Per questo l'estetica sovietica, mentre combatte, da un lato, il formalismo astratto — caratteristico, nella società borghese in decomposizione, per le elucubrazioni artistiche di ristretti gruppi delle classi dominanti — esercita non meno vigorosamente la sua critica, dall'altro, nei confronti delle residue tendenze alla spontaneità, al formalismo naturalistico e fotografico: espressione, nella società di classi, di una relativa passività culturale delle masse popolari. La via per il superamento di questa frammentarietà della coscienza e della pratica artistica sociale, l'estetica sovietica la addita — non solo per i popoli sovietici, ma per l'umanità lavoratrice del mondo intero — nello sviluppo conseguente di quegli elementi di una attività culturale artistica che, dai secoli dei secoli, le masse dell'umanità lavoratrice son venute elaborando, in stretto legame con la loro attività produttiva e con la loro lotta contro l'oppressione e lo sfruttamento, per la conquista di una loro condizione e cultura umana. E in questo senso, ancora una volta, l'estetica sovietica ci si presenta come una dottrina scientifica superiore, capace di una superiore efficienza gnoseologica e pratica, proprio per la sua chiarita coscienza dei legami che intercorrono fra teoria e pratica sociale. Proprio per questo, a differenza di quel che avviene per le estetiche della società di classi in generale, e per quelle borghesi in particolare, lo storicismo dell'estetica sovietica non è solo parziale, rivolto verso il passato, contemplativo; non è solo teorico, non si limita a registrare ed a giudicare un concetto del Bello e dell'Arte che sia già dato e conquistato; ma è totale, rivolto verso l'avvenire, attivo; radica l'arte nuova dell'umanità socialista nella tradizione dell'umanità lavoratrice, ma coscientemente, scientificamente le addita vie nuove e con la sua pratica rivoluzionaria interviene ad aprirle.


La pratica sociale come momento intrinseco del processo della conoscenza nella nuova biologia.

Quel che siamo venuti sommariamente esemplificando a proposito dell'estetica sovietica, avremmo potuto illustrarlo — lo abbiamo già avvertito — con una caratteristica di ogni altro settore della nuova cultura socialista: per la biologia o per la fisica, per la storiografia o per la morale; anche se, beninteso, non in tutti i campi questa rivoluzione si vien compiendo con pari ritmo, ma anzi variamente è avanzata, secondo le varie, concrete e successive esigenze del processo di costruzione dell'uomo nuovo. Ma in tutti i settori, proprio nella dottrina di avanguardia del marxismo-leninismo, del materialismo dialettico, proprio nella chiarita coscienza della pratica umana associata come momento intrinseco decisivo del processo della conoscenza, la nuova cultura socialista trova l'arma ideologica per il superamento della frammentarietà, dell'inadeguatezza della coscienza sociale nella società di classi.
Si veda, ad esempio, quel che oggi avviene nel campo della biologia sovietica. Anche qui, se andiamo a ricercare il senso più profondo delle nuove impostazioni scientifiche che, con la scuola di Mitschurin e di Lyssenko, oggi si affermano nel paese del socialismo, ritroviamo la chiarita coscienza del fatto che non si conosce il mondo senza trasformarlo; che la pratica umana associata non è solo il criterio, bensì un momento intrinseco e decisivo del processo della conoscenza. Nella genetica weissmanniana, mendeliana, morganiana, così, l'esperimento, la pratica umana (concepita ancora, per di più, in una fornii limitata, parziale, individuale, artigianesca) vengono considerati, proprio, come semplice criterio della verità. Io sperimentatore, dedicato alla scienza «pura» (cioè astratta, se pur solo nell'immaginazione dei suoi teorici, dal vivo contesto dei rapporti umani), dovrebbe limitarsi a contemplare quanto avviene nella natura, procurando di eliminare, anzi, gli effetti di ogni nostro involontario intervento nel processo della natura stessa che turberebbe l'obiettività della nostra conoscenza. Nella genetica morganiana, come in tutta la scienza reazionaria borghese, la funzione dell'esperimento dovrebbe restar limitata ad una funzione di semplice verifica; la pratica umana dovrebbe restare semplice criterio della verità, mentre ogni suo intervento volto a dare alla ricerca un orientamento ed un obiettivo vien considerato come una intrusione antiscientifica. Per i Weissmann, per i Mendel, per i Morgan, insomma, lo scienziato deve essere «puro»: deve «stare a vedere» cosa accade delle specie animali e vegetali, cosa accade nelle cellule, nei nuclei, nei cromosomi; cosa accade, al massimo, quando delle cellule si bombardano con dei raggi gamma o quando si trattano con la colchicina, guardandosi bene, Dio ne liberi!, dal proporsi degli «impuri» obiettivi, quali potrebbero essere quelli di una trasformazione di specie animali o vegetali, che risponda alle necessità pratiche dell'uomo.
L'albero della vita e della conoscenza, per fortuna, è più verde di ogni grigia teoria; e nessuno scienziato, così, anche nel mondo borghese, ha potuto seguire appieno i dettami di questa concezione della «scienza pura», che nella società capitalistica castra la produttività inesauribile del metodo sperimentale, precludendogli le vie di un intervento nella realtà che non sia casuale, ma cosciente, sistematico ed orientato, subordinato ad un piano, che solo può dargli tutta la sua efficacia ai fini della conoscenza e della padronanza dell'uomo sulla natura. Malgrado le dottrine idealistiche e reazionarie della «scienza pura», per fortuna, gli scienziati non hanno potuto esimersi, anche nel mondo capitalistico, da un intervento nella realtà che fosse, di fatto, orientato dalle esigenze della pratica umana associata, sia pur ancora limitata e framméntaria come essa solo può essere in una società di classi. Malgrado le impostazioni reazionarie della genetica mendeliana o morganiana, così, nessuno scienziato ha potuto ridursi davvero a semplice osservatore di quanto accadeva nelle specie o nelle cellule; così come, molto prima che Bacone o Galileo avessero chiarito l'efficacia del metodo sperimentale, per centinaia di secoli gli uomini non avevano potuto esimersi dal far degli esperimenti, senza di che non avrebbero potuto vivere e progredire. Malgrado quelle impostazioni idealistiche e reazionarie, insomma, la scienza ha potuto accumulare, anche nel mondo borghese, una messe ingente di dati sperimentali, che restano pur validi, ed elaborare particolari dottrine biologiche che possono essere integrate nella nuova biologia; ma è fuor di dubbio che la mancanza, nella biologia borghese contemporanea, di una chiara coscienza, di una nozione adeguata del significato della pratica umana associata in quanto momento decisivo del processo della conoscenza, le ha impresso una caratteristica metafisica, scolastica; così come, prima che Bacone e Galileo avessero chiarito per la scienza nuova della borghesia il senso del metodo sperimentale in quanto criterio della verità, la scienza della società feudale – che pur non aveva potuto fare a meno di ricorrere, di fatto, all'esperimento ed aveva raccolto numerosi dati sperimentali — si era venuta impigliando in una sterile metafisica ed in una scolastica medievale.
Per la scienza nuova della borghesia, in quella sua epoca rivoluzionaria, la conquista di una chiara nozione del metodo sperimentale come criterio decisivo della verità scientifica rappresentò un vero e proprio salto in avanti che le permise di districarsi da quella metafisica e da quella scolastica medievale, di sottoporre ad una elaborazione scientifica coerente non solo i nuovi dati che l'impiego sistematico del metodo sperimentale ormai veniva raccogliendo, ma quegli stessi dati che la scienza medievale era venuta accumulando. La rivoluzione scientifica, che oggi si vien compiendo in Unione sovietica, ha — nei confronti della scienza borghese contemporanea -- una portata analoga a quella, in quanto essa è fondata sulla conquista marxista di una nozione chiara della pratica umana non solo come criterio, ma come momento decisivo del processo della conoscenza. Ma l'efficacia gnoseologica e pratica di questa nuova rivoluzione scientifica già si manifesta come assai più profonda, come quantitativamente e qualitativamente diversa da quella della rivoluzione baconiana e galileiana. Questa, in effetti, restava, per il momento, una rivoluzione ideologica, metodologica, teorica: la sua efficacia pratica restava individuale e artigianesca, affidata allo spontaneo futuro sviluppo dell'agricoltura e dell'industria capitalistica e limitata dalla persistente divisione della società in classi, dalla ignoranza scientifica di massa che ne è il necessario complemento. Tutt'altra è, fin d'oggi, l'efficacia della rivoluzione scientifica che si vien compiendo in Unione sovietica, ad esempio, nel campo della biologia. Qui la conquista di una nuova, chiara ed adeguata nozione del valore della pratica umana associata in quanto momento intrinseco decisivo del processo della conoscenza, non resta patrimonio individuale di ristretti gruppi di ricercatori specializzati, non ha solo un valore ideologico, metodologico, teorico. Non a caso —l'abbiamo già ricordato — il volume col resoconto stenografico dei recenti dibattiti sulla nuova genetica ha avuto immediatamente una prima tiratura in duecentomila copie: ciò significa che, nella società socialista, nella società senza classi antagonistiche, ogni rivoluzione metodologica nella scienza acquista subito un carattere non più solo teorico, individuale e artigianesco, ma pratico, sociale, organizzato: diviene elemento di una vera e propria mobilitazione scientifica di massa, che allarga a tutta l'umanità la partecipazione attiva alla lotta per la conquista della scienza, per la conoscenza e per la padronanza dell'uomo sulla natura.
Nella nuova biologia sovietica, così, a differenza di quel che avviene nella biologia borghese contemporanea, non ci si limita a stare a vedere quel che avviene delle specie animali o vegetali, o nelle cellule e nei cromosomi; non ci si limita a stare a vedere cosa accade quando si incrociano due specie di moscerini, o quando si bombardano delle cellule con questa o quella particella; non si considera come un' inammissibile intrusione della pratica nella scienza «pura» il fatto di proporsi di trasformare una data specie animale o vegetale in un dato senso, ad un fine di pratica utilità per l'uomo. Al contrario: Mitschurin e Lyssenko hanno chiaramente riconosciuto che «la natura non largisce favori; bisogna prenderseli»; hanno inteso che non si può davvero conoscere la natura senza trasformarla, senza intervenire sistematicamente colla pratica umana associata nel suo processo, senza partecipare attivamente e coscientemente a questo processo stesso secondo un piano: nel quale, per la nuova biologia sovietica, l'esperimento, l'intervento pratico nella realtà, non è più solo casuale, individuale, artigianesco criterio della verità scientifica, ma diviene un momento decisivo del processo stesso attraverso il quale l’uomo approfondisce la sua conoscenza teorica e la sua padronanza pratica sulla natura; diviene esperimento collettivo, orientato, sociale, che crea un rapporto nuovo tra teoria e pratica scientifica. Per questo la nuova biologia sovietica può rigettare ed efficacemente confutare tutte le concezioni idealistiche e misticheggianti della biologia borghese contemporanea che tendono a porre dei limiti insuperabili alla conoscibilità della realtà biologica, che tendono a negare il determinismo biologico per sostituirgli una casualità, perseguibile dallo scienziato solo con mezzi statistici; per questo, di contro alla scolastica impotenza della biologia borghese contemporanea, la nuova biologia sovietica è tutta pervasa dalla sua fiducia scientifica nella possibilità dell'uomo di approfondire indefinitamente la sua conoscenza teorica e la sua padronanza pratica sulla natura.
Non vi è dubbio che, come per le scienze biologiche, anche per le scienze fisiche e matematiche un'analoga rivoluzione è in corso, in Unione sovietica: anche se, in questo campo, il processo di elaborazione e di impostazione nuova appare in una fase più arretrata. Anche qui, la scienza borghese è venuta accumulando materiali .sperimentali immensi che essa si dimostra sempre più, tuttavia, incapace di dominare e di organizzare, impigliata com'essa è nelle impostazioni e nelle deduzioni idealistiche, scolastiche, formalistiche, o addirittura misticheggianti. Contro queste impostazioni e deduzioni, già da tempo la scienza sovietica ha esercitato la sua critica; ma, come abbiamo già avvertito, non si può dire che, in questo campo, la nuova scienza sovietica si sia completamente liberata dalle impostazioni dominanti nel mondo borghese e sia venuta enucleando un nuovo indirizzo delle sue ricerche, compiutamente adeguato — come è già avvenuto per la biologia alla realtà nuova della società socialista. Proprio perché la rivoluzione scientifica che si vien realizzando in Unione sovietica è una rivoluzione non solo teorica, ideologica, ma pratica, è inevitabile che essa si venga affermando secondo una successione di tappe e di settori, che non è casuale, che non deriva semplicemente dalla genialità di questo o di quel singolo ricercatore, ma risponde alle concrete condizioni ed esigenze di sviluppo della costruzione socialista. Ma è fuor di dubbio che fin d'ora, anche per il campo delle scienze fisiche — un campo nel quale le esigenze «atomiche» della borghesia imperialista hanno indotto una deformazione e un disorientamento particolarmente grave della ricerca — la rivoluzione di cui già si possono rilevare i primi segni in Unione sovietica si sviluppa su di una direttrice analoga a quella che già si è affermata per le scienze biologiche: antiidealistica, antiformalistica, anticasualistica, antimistica, nel senso di una nuova e più chiara nozione del rapporto fra teoria e pratica nel processo della conoscenza.


La via di sviluppo della scienza sovietica: la storiografia.

Ma non potremmo concludere questa nostra disamina di alcune caratteristiche, che ci son sembrate particolarmente importanti, della rivoluzione culturale e gnoseologica che si vien compiendo nel paese del socialismo, se non accennassimo ancora al modo, alla via per la quale la cultura e la scienza sovietica si sviluppa. Anche in questo senso, la cultura e la scienza sovietica si differenziano profondamente, qualitativamente, dalla cultura e dalla scienza della società di classi. E vogliamo questa volta, per illustrare questa nostra affermazione, scegliere il nostro esempio nel campo della ricerca storiografica.
Il modo, la via per la quale la storiografia ha affermato i suoi successivi progressi, le sue tappe di sviluppo successive, nella società di classi, è quella di grandi opere storiografiche, dovute al genio individuale di singoli scrittori. Erodoto, Tucidide, Polibio, nella storiografia del mondo greco-romano, hanno potuto segnare col loro nome delle tappe decisive, grazie ad un generale sviluppo, certo, della società di cui essi erano parte; ma queste tappe son pur sempre state segnate dal loro nome e da opere poderose, la cui efficacia era riservata, dapprima, ad un pubblico ristretto di specialisti, uomini di governo o scienziati delle classi dominanti. In rispondenza alla struttura della società di classi, insomma, l'efficacia teorica e pratica di una rivoluzione storiografica — se non restava addirittura limitata alle classi dominanti — si diffondeva, per così dire, dall'alto in basso; veniva, semmai, passivamente accolta dalla coscienza delle masse, per le quali la nuova storiografia restava sempre un'arma del consolidamento del dominio di classi oppressive e sfruttatrici.
Profondamente diverso è il modo, la via dello sviluppo della scienza storiografica in Unione sovietica. È noto così, ad esempio, che, fino al 1934, sono state largamente diffuse, in URSS, le impostazioni e le elaborazioni storiografiche della scuola di Pokrovski che criticava la storiografia borghese non da un punto di vista materialista, proletario, bensì da quello di un positivismo schematico, piccolo borghese. Non si vuol dire, con questo, che la scuola di Pokrovski — che si ricollegava, d'altronde, con certe tradizioni relativamente progressive di storiografia della vecchia Russia zarista — non avesse raccolto ed elaborato una larga messe di materiali, sulla quale ancor oggi criticamente si lavora. Ma è fuor di dubbio che, nel 1934, le impostazioni e gli orientamenti della scuola di Pokrovski apparivano già assolutamente inadeguati al superiore grado di coscienza materialista, marxista, raggiunto dai popoli dell'URSS, ed ai compiti che si ponevano di fronte alla storiografia sovietica. Anche allora, fu l'intervento critico del Partito bolscevico — e quello personale di Stalin, di Kirov, di Zhdanov — a porre in rilievo questa inadeguatezza ed a suscitare una larghissima discussione che appassionò il pubblico sovietico. Questa discussione si concretò, ad un certo momento, nel bando di un concorso per una Storia dei popoli dell'URSS. Ma quel che è caratteristico è questo: a differenza di quel che sarebbe avvenuto in qualsiasi paese del mondo capitalistico, il volume che doveva segnare la vittoria del nuovo indirizzo storiografico non era un grosso tomo, riservato a pochi specialisti, irto di note e di citazioni erudite; bensì un testo per le scuole elementari.
Il testo stesso che fu premiato, del resto, fu sottoposto ad una larghissima discussione e non fu esente da gravi critiche; se ben ricordo, anzi, a sottolineare le sue deficienze, il primo premio del concorso non fu assegnato, ma al vincitore fu solo assegnato il secondo. Si rilevarono fin da allora, nell'opera, deficienze residue per quanto riguardava l'impostazione metodologica e ancor più gravi deficienze per quanto concerneva l'elaborazione critica dei materiali. E come avrebbe potuto essere altrimenti, per un'opera che doveva avviare la storiografia sovietica per vie nuove, se pur potentemente illuminate dalla luce delle geniali impostazioni storiografiche di Marx, di Engels, di Lenin, di Stalin? la scuola di Pokrovski, proprio per le sue residue impostazioni ed orientamenti borghesi, aveva potuto e poteva ancora beneficiare di tutta una tradizione, di tutto un apparato tecnico, erudito, organizzativo, personale, ben superiore, ancora, a quello della scuola conseguentemente marxista. E non mancò, allora (come oggi avviene a non pochi scienziati, anche progressivi, per la scuola biologica di Lyssenko) chi rilevò degli elementi di improvvisazione e di mancanza di documentazione erudita che avrebbero reso l'opera premiata meno persuasiva di quelle, ben altrimenti elaborate, di Pokrovski e della sua scuola, che — tra l'altro — avevano ottenuto non di rado un riconoscimento fin dai maggiori storiografi del mondo capitalistico!
E certo, anche fra noi, se un gruppo di studiosi marxisti imprendesse — e auguriamoci che lo facciano al più presto!—l'elaborazione di un testo elementare di Storia d'Italia, non potrebbero mancare, nella loro opera, deficienze ancor più gravi e difetti d'improvvisazione ben più pesanti di quelli che si potevano riscontrare nell'opera che fu allora premiata in Unione sovietica. Essi si troverebbero a dover affrontare non solo la rielaborazione critica di quella immensa mole di materiali storiografici che la storiografia borghese è venuta elaborando a suo modo, dal punto di vista e nell'interesse delle classi dominanti; ma addirittura la ricerca e la raccolta di un altro larghissimo materiale, specie per quanto riguarda la civiltà materiale ed i rapporti di produzione nel nostro paese che la storiografia borghese ha generalmente trascurato di prendere in considerazione. È fuor di dubbio che, in queste condizioni, il testo elementare elaborato dai nostri bravi studiosi marxisti apparirebbe a molti, di primo acchito, meno «documentato» e meno «persuasivo» della Storia d'Italia, putacaso, di Benedetto Croce, che si fonda su di una tradizione e su di un apparato scientifico, erudito, personale, organizzativo già costituito e consolidato, cristallizzato magari, nella più accurata ricerca della precisa data di nascita di quella cantante napoletana del '600: di cui non vogliamo punto contestare l'utilità, ma che non esaurisce certo, oggi, i compiti della nuova storiografia. Eppure...
Eppure, proprio l'esperienza dei dibattiti storiografici che si svolsero allora e dopo in Unione sovietica ci dimostra che quella scelta nel 1934 è la sola via adeguata allo sviluppo della nuova storiografia dell'umanità socialista. E non a caso, pochi anni dopo, il Breve corso di storia del Partito comunista (bolscevico) dell'URSS — anch'esso un libro elementare, se pur di tanto superiore all'altro per la sua precisione scientifica e per la sua genialità rinnovatrice — ci veniva a confermare che la via dello sviluppo della storiografia nuova è quello della educazione storiografica di massa nello' spirito del marxismo-leninismo, nello spirito di una concezione scientifica coerente, di avanguardia; una via che va dal basso in alto, che assicura all'elaborazione dei problemi storiografici la partecipazione attiva e cosciente di milioni di uomini. E già oggi si può dire che libri come quelli citati — e particolarmente la Storia del Partito bolscevico — hanno educato tutta una generazione dei popoli sovietici e creato una tradizione, un apparato, un personale storiografico di massa: sicché, fin d'oggi, la nuova storiografia sovietica si afferma non solo superiore a quella borghese per le sue impostazioni ed orientamenti metodologici, ma già sovente più ricca, più precisa, più elaborata per il suo apparato erudito.
E siamo giunti al termine della nostra esposizione, nella quale ci siamo sforzati di chiarire il senso più generale della rivoluzione culturale che oggi si vien compiendo nel paese del socialismo: un senso che, in quanto nasce da nuovi rapporti umani già conquistati, è di per se stesso evidente agli uomini dell'umanità nuova, socialista; ma necessariamente si presenta dapprima come «scandalo» ai «figli del secolo» a noi, umanità ancora impigliata e irretita e dilacerata dai rapporti della società capitalistica. Ma non sarà stato inutile il nostro dibattito, se quella che, per gli uomini del vecchio secolo, resta solo «pietra di scandalo», per noi tutti, figli del bisogno e della lotta, diverrà pietra miliare: che ci indirizzi e ci guidi alla lotta per la conquista di un'umanità anche nostra, che c'insegni ad intendere, nella lotta e per la lotta, i valori nuovi e superiori che l'umanità socialista già elabora per tutti gli uomini.
 
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