Archivio Ždanov

Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista

« Older   Newer »
  Share  
Alaricus Rex
view post Posted on 4/7/2013, 13:48 by: Alaricus Rex

Advanced Member

Group:
Administrator
Posts:
1,394

Status:


Da Emilio Sereni, Scienza, marxismo, cultura, Le Edizioni Sociali, 1949, Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista., pp. 13-88:


Cultura e scienza nuova dell’umanità socialista


Mir. O wonder!
How many goodly creatures are there here?
How beauteous manckind is? O brave new world, That hath such people in 't.
(Shakespeare: The Tempest, V, I)

Conferenza tenuta il 13 novembre 1948 alla Sala farnese, in Bologna, a conclusione del “Mese per l’amicizia italo-sovietica”. Il resoconto stenografico è stato in varie parti rielaborato e sviluppato per la pubblicazione a stampa.

Della filosofia è stato detto che, come la civetta, come l’uccello di Minerva, essa fa la sua apparizione sulla sera, quando compiute e cessate sono le opere industri del giorno. Se questa similitudine dovesse significare — come ha significato per le classi oppressive e sfruttatrici che si sono succedute nel dominio della società umana — una separazione della teoria dalla pratica, del pensiero e del libro dalla vita, essa non varrebbe, certo, a sottolineare il rapporto che, nella lotta della classe operaia per il socialismo, si stabilisce tra la sua teoria e la sua pratica rivoluzionaria. Per la classe operaia, per i figli del bisogno e della lotta, filosofia, scienza, cultura, non son già più, e non possono essere, teoria astratta dalla pratica rivoluzionaria, pensiero che non s’incarni in azione, libro che non esprima esigenze di vita: ché anzi la cultura della classe operaia non può nascere e svilupparsi che da queste vitali esigenze di lotta, le chiarisce e le orienta, in un legame indissolubile tra la teoria e la pratica rivoluzionaria. Ma resta pur sempre vero che la cultura e la scienza nuova dell’umanità socialista rappresentano come il coronamento della lotta della classe operaia, la forma più compiuta in cui di questa lotta si esprime e si realizza l’obiettivo storico, che è quello della creazione di un uomo e di un’umanità nuova, di un nuovo umanesimo. A ragione, dunque, gli iniziatori di questo ciclo di conferenze hanno prescelto tale argomento per questa conversazione conclusiva del «Mese dell’amicizia italo-sovietica»; e l’affollarsi in queste sale di un pubblico così vario per la sua composizione sociale e culturale, mostra quanto largo ed attento, ormai, sia l’interesse che anche tra noi suscitano i problemi non solo economici e più strettamente politici, ma culturali, della costruzione socialista.
Possiamo ben dire che per la prima volta, quest’anno, nel corso di questo «Mese dell’amicizia italo-sovietica», un più largo pubblico italiano ha avuto la possibilità di prendere un più vivo contatto con tali problemi. Con ciò non vogliamo dire, certo, che sinora la nuova civiltà e la nuova cultura sovietica non a abbiamo fatto sentire la loro enorme efficacia anche tra noi, anche nella cultura italiana. Da trenta anni — malgrado gli sforzi del fascismo per nascondere o falsare agli occhi degli italiani la realtà del paese del socialismo — il fatto stesso dell’esistenza dell’Unione sovietica ha rappresentato, anche per l’Italia, il più potente fattore di organizzazione e di orientamento della classe operaia e delle masse popolari nella loro lotta contro il fascismo, per l’indipendenza nazionale, per la pace, per la democrazia, per il socialismo, che è anche nel nostro paese lotta per la cultura, per la sua difesa e per il suo rinnovamento. Siedono qui accanto a me, al tavolo della presidenza di questa riunione, uomini come il prof. Volterra, come Betti, come Tarozzi, come il vostro sindaco, l’amico e compagno Dozza, militanti della lotta antifascista clandestina, che con me e con cento altri in questa sala possono darvi testimonianza di quanto or ora ho affermato. Ciascuno di noi sa bene, ha potuto sperimentare nelle organizzazioni clandestine democratiche e nelle galere fasciste, cosa abbia significato per il successo della nostra lotta questo grandioso fatto storico dell’esistenza del paese del socialismo, della sua forza, delle sue vittorie. Negli anni più duri della tirannide fascista, ogni qual volta un militante antifascista riusciva a tessere qualche filo della grande congiura della libertà, ogni qual volta — a prezzo di sacrifici e di eroismi indicibili — si riusciva a stabilire un contatto con altri combattenti o gruppi di combattenti della democrazia, si ritrovava che lo stimolo alla conquista di una coscienza, la spinta ad una prima organizzazione democratica, la fiducia in una possibilità dí lotta e di vittoria, nasceva sempre di lì: dalla coscienza, sia pur vaga e confusa, dell’esistenza del paese del socialismo, di un paese ove gli operai, i contadini, gli intellettuali d’avanguardia avevano conquistato la libertà, costruivano una società senza sfruttati né sfruttatori.


L’URSS nella lotta per la cultura.

Dopo di allora, in cento altri modi, e finalmente con la vittoria nella grande guerra di liberazione, i popoli dell’Unione sovietica hanno confermato e sviluppato questa loro decisiva funzione di avanguardia nella lotta per la cultura. Centinaia di milioni di uomini semplici, dall’Italia alla Cina, dalla Francia alle Americhe,decine di migliaia di intellettuali della Resistenza hanno potuto intendere ed hanno inteso, alla lezione di grandiosi fatti storici, che — salvando il mondo dalla barbarie nazista e fascista sui campi di Leningrado e di Stalingrado — i popoli sovietici hanno salvato, per l’umanità tutta, la civiltà, la cultura, la possibilità stessa di una civiltà e di una cultura.
Eppure, questo apporto grandioso che i popoli dell’Unione sovietica, la cultura e la civiltà nuova del socialismo hanno dato e dànno alla causa mondiale della pace, della civiltà, della cultura, non è che un elemento, un momento, un aspetto di un apporto ancor più decisivo e universale; ed è su tale apporto che mi sembra particolarmente necessario attirare la vostra attenzione.
Si consideri cosa significhi, nel nostro paese e per ogni dove, cultura e lotta per la cultura. Non v’è cultura e non v’è certo, senza la conservazione di quei valori che le generazioni passate hanno creato col loro sforzo millenario, senza una tradizione culturale, nella quale ogni nuova generazione trova la materia delle sue elaborazioni. Ma non è men vero che non v’è cultura e non v’è civiltà là dove una tradizione, passivamente accolta od imposta, col suo immobile peso schiacci e soffochi quello che di ogni cultura è il momento decisivo, il momento dell’attività, della creatività culturale. Per questo, in ogni epoca della storia dell’umanità, quel paese, quel popolo, che di volta in volta ha espresso primo dal suo seno nuovi rapporti di produzione, nuove classi, che — di contro all’opera, alle tradizioni del passato affermavano un’attività ed una produttività nuova, ha sempre esercitato una funzione d’avanguardia e d’irradiazione culturale. Così avvenuto per la Grecia e per l’Italia antica, ove una nuova società e nuove classi cittadine si sono affermate contro le immobili tradizioni della società, gentiIizia così è avvenuto per la cultura dei nostri Comuni e per quella nostro Rinascimento; così è avvenuto per la cultura francese nell’epoca dell’illuminismo e della Grande rivoluzione.
Nelle epoche passate, tuttavia, e per ciascuna delle rivoluzioni culturali or ora ricordate, l’efficacia liberatrice, la produttività di una cultura e della sua irradiazione — per quanto grandiose esse ci possano apparire — restavano necessariamente limitate dal carattere stesso della civiltà di cui esse erano l’espressione. Ciascuna di queste rivoluzioni, certo, pur innestandosi su di una data tradizione culturale, la spezzava e la rinnovava, produceva nuovi valori. All’alba della nuova éra così, la letteratura cristiana ci dice, per bocca di San Paolo, che «non vi è più né Giudeo né Gentile», ci esprime la avvenuta venuta rottura del vecchio quadro di una cultura limitatamente cittadina o particolaristica, quale era stata quella della polis greca o delle tribù d’Israele; e all’alba dell’età contemporanea, del pari, la cultura illuministica del Terzo stato ci esprimerà, nell’accezione nuova di termini quali «nation» o «citoyen», la rottura del quadro tradizionale di una società, dilacerata in caste ereditarie. Ma sempre, di nuovo, in ciascuna di queste rivoluzioni culturali, la produttività e la creatività della cultura nuova è limitata dal fatto che la rottura con la tradizione del passato (il suo superamento) resta sempre relativa. Nuove classi si avvicendano alla testa della società, affermano in essa la loro egemonia economica, politica, culturale; ma son sempre classi oppressive e sfruttatrici, e la loro cultura, la cultura dominante, non può esprimere appunto che le condizioni e le esigenze ideologiche del loro dominio. Da una tradizione servile si libera, l’umanità; ma quella nuova che le si impone è ancora una tradizione servile nuova, che esprime la realtà e le esigenze del dominio di una nuova classe, anch’essa oppressiva e sfruttatrice, che non può affermare il suo dominio senza perpetuare la divisione della società in classi.
In ciascuna delle rivoluzioni culturali del passato, così, di contro a quel che di nuovo, di più umano quella data rivoluzione afferma e produce, resta preponderante il peso di una millenaria tradizione servile, il peso di «quel che è sempre stato», della divisione della società in oppressi e in oppressori, in sfruttatori e in sfruttati; sicché il giudizio che la nuova cultura dà del mondo, e dell’uomo, e dei suoi destini, e della condizione umana — per quanto nuovo e rivoluzionario esso possa apparire — resta in fatto tutto dominato e materiato da questo pregiudizio, da una tradizione millenaria, che è nata sulla base dell’intima dilacerazione di una società divisa in classi.


L’URSS contro la forza di “quel che è sempre stato”.

Quale e quanto sia il peso soffocante di questo pregiudizio, di questa tradizione, ciascuno di noi lo sperimenta ogni giorno nella sua lotta per il rinnovamento della cultura e della civiltà italiana. A chi consideri il travaglio della nostra società, non può sfuggire che proprio questo è il più formidabile tra i nemici che ci troviamo a dover combattere. Non saranno né i Truman né i De Gasperi, né gli Scelba né i Gonella, i poveri untorelli che spianteranno Milano o Bologna o l’Italia, che potranno fermare la marcia della civiltà nuova; e quel che ancor oggi essi possono, per ritardare questa marcia, non è tanto opera loro, attiva e cosciente, quanto l’opera di una forza possente e tremenda che ancora agisce nelle nostre file, in noi stessi, negli istituti che reggono la nostra società come nell’intimo della nostra coscienza. È quella forza contro la quale, nel dramma di Schiller, persino Wallenstein, l’ardito condottiero, si confessava impotente a combattere, ma che pur l’umanità deve battere, per costruire il mondo e la cultura nuova: la forza di quel che è sempre stato.
L’apporto decisivo, che i popoli dell’Unione sovietica hanno recato e recano alla vittoria della cultura e della civiltà nuova, è proprio questo. Caste sacerdotali antiche o antiche classi di proprietari di schiavi, imperatori cristiani e signori feudali, re assoluti e borghesi liberali o repubblicani, di volta in volta nella storia hanno affermato il loro dominio, ed hanno elaborato civiltà nuove, splendide di templi e di opere d’arte meravigliose, di pensamenti nuovi e profondi o di conquiste ardimentose della tecnica; eppure di volta in volta essi hanno ribadito le catene di un’antica tradizione, di un pregiudizio che sembrava eterno, secondo il quale la ricchezza, la libertà, la cultura dei pochi, avrebbero per presupposto inevitabile la miseria, la servitù, l’ignoranza dei più. «Così è sempre stato, così sempre sarà», ci dicono ancor oggi Truman e il Papa, Benedetto Croce e l’editorialista del Corriere della Sera o del Reader’s Digest, quando non sanno additarci, come via d’ascesa dell’umanità, altro che quella dell’«iniziativa privata» del fattorino che diventa miliardario — dall’ago al milione — trasformandosi egli stesso in sfruttatore, o del Santo o del Saggio che conquistano la loro personale saggezza o santità di contro alla turba profana dei peccatori e dei poveri di spirito.
«Così sempre è stato, così sempre sarà». L’enorme importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre, la sua portata culturale senza precedenti, sta nel fatto che essa ha per sempre spezzato questa tradizione e questo pregiudizio servile che l’umanità si era trascinato appresso attraverso tutte le sue rivoluzioni. Quando, nelle conversazioni che in questo ciclo di conferenze hanno preceduto questa mia, vi si è parlato della Rivoluzione socialista e del paese del socialismo, quando vi si è mostrato come, in Unione sovietica, sia stato abolito ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come siano state liquidate le classi sfruttatrici, come si sia costruita una società in cui già più non esistono classi antagonistiche e in cui la libertà degli uni non è più negazione e limite, ma anzi condizione e potenziamento della libertà degli altri; quando vi si è mostrato come, in Unione sovietica, il vertiginoso progresso dell’agricoltura e dell’industria sia condizionato dall’elevamento generale del livello tecnico e culturale delle masse, e non più solo di pochi privilegiati, vi si è mostrato, nei fatti, che — se «così sempre era stato» nel passato — non è vero che così anche debba sempre essere per l’avvenire: vi si è mostrato che è possibile rompere, che già sulla sesta parte del globo son rotte le catene di quel pregiudizio, di quella tradizione servile.
O si consideri, ancora, quel che Truman e il Papa, Benedetto Croce e l’editorialista del Corriere della Sera o del Reader’s Digest ogni giorno in varia forma ci ripetono, a proposito di nazione o di guerra. È difficile, certo, per la borghesia imperialista e per i suoi ideologi, venirci a parlare oggi della «bellezza» della guerra, come faceva Mussolini. Troppo recente, ancora, è lo spettacolo dei suoi orrori, perché una tale predicazione possa sperare di attecchire. E allora si cerca di persuadere i milioni degli uomini semplici, e magari gli intellettuali d’avanguardia, che la guerra, sì, è una cosa orrenda e mostruosa, ma che dobbiamo acconciarci a combatterne una nuova, al servizio dei magnati di Wall Street — come ieri al servizio dei tedeschi — perché «così è sempre stato, e così sempre sarà»; perché dal pantano di fango e di sangue dell’imperialismo, per ributtante e mortale che sia, non c’è via d’uscita. E forse che, dai secoli dei secoli, popoli e nazioni non si son battuti per il loro predominio, per imporre il loro suggello su altri popoli, su altre nazioni? E forse che non è questa un’eterna legge di vita e di morte degli uomini?
«Così sempre è stato, così sempre sarà». L’enorme importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre, la sua portata culturale senza precedenti, sta nel fatto che essa ha per sempre spezzato questa tradizione e questo pregiudizio servile che l’umanità si era trascinato appresso attraverso tutte le sue rivoluzioni. Poco più di cento anni sono trascorsi da che, in Russia stessa, in una poesia famosa, Alessandro Puschkin — che pure era un veggente annunciatore di tempi nuovi cantava, a proposito delle lotte tra i popoli dell’antico Impero zarista:
Dai tempi dei tempi tra loro si battono
Queste stirpi; già sovente, alla tempesta,
Si è piegata ora l’una, ora l’altra parte.
Non più di quarant’anni sono trascorsi da che, nella Russia zarista, russi ed ebrei, turchi ed armeni, georgiani e tartari, si affrontavano in orrendi pogrom, restavano schiacciati sotto il duplice giogo di un’oppressione sociale e nazionale. Quando, nelle conversazioni che hanno preceduto questa mia, vi si è mostrato come la Rivoluzione d’Ottobre abbia risolto la questione nazionale, come, in Unione sovietica, cento popoli diversi vivano affratellati da un comune patriottismo, come essi creino, ciascuno secondo il proprio genio, una civiltà che è socialista per il suo contenuto, nazionale quanto alla sua forma; quando vi si è mostrato di che unità monolitica questi cento popoli diversi abbiano dato prova nella difesa della patria comune, vi si è mostrato che, anche per quanto riguarda i problemi della oppressione nazionale e della guerra, se è vero che «così era sempre stato» nel passato, non è vero che così anche sempre debba essere per l’avvenire; vi si è mostrato che è possibile rompere, che già sulla sesta parte del globo son rotte le catene di quel pregiudizio, di quella tradizione servile, in fede della quale ancora una volta si cerca di trascinare gli uomini al macello.
Ma di tutto questo, di tutto quanto in Unione sovietica si è realizzato e si realizza sul piano politico, sociale, economico, tecnico, di quel che significhi la creazione di un’industria e di un’agricoltura socialiste, vi è stato già parlato nelle precedenti conversazioni di questo ciclo. Così pure vi è stato chiarito, senza dubbio, quale sia il significato che queste conquiste dei popoli sovietici hanno per noi, nella nostra lotta per la pace, per l’indipendenza nazionale, per la democrazia, per il socialismo. Quel che m’importava di sottolineare, era però il fatto che queste conquiste hanno per noi un significato, appunto, che non è solo economico o sociale o politico, ma culturale, in quanto ci documentano la possibilità di una lotta e di una vittoria anche nostra contro una millenaria tradizione servile, in quanto maturano in centinaia di milioni di uomini semplici l’idea dell’assalto contro la cittadella del pregiudizio, che ancora inalbera il nero gagliardetto dell’«è sempre stato così, e sempre così sarà».


Scuola e “socializzazione della cultura” nel paese del socialismo.

Ma parlare di cultura e di scienza nuova dell’umanità socialista non potrebbe significare, beninteso, solo parlare di questo suo generico, se pur universale e decisivo, apporto alla nostra lotta per una cultura nuova. E nemmeno basterebbe, a chiarire la portata storica della rivoluzione culturale che oggi celebra le sue vittorie in Unione sovietica, parlarvi solo di quel che la Rivoluzione socialista ha già realizzato, nel senso della diffusione della cultura, nel senso dell’elevamento del livello culturale delle masse.
Certo — come giustamente rilevava Gramsci nei suoi Quaderni del carcere — «creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, «socializzarle», per così dire, e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è un fatto «filosofico» ben più importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali» (I). In questo senso, senza dubbio, lo sforzo ed i successi realizzati nel paese del socialismo sono senza precedenti nella storia. Non vogliamo appesantire questa nostra esposizione con dati statistici troppo particolareggiati che non è mai facile seguire in una trattazione orale e che si possono d’altronde ritrovare in pubblicazioni a stampa. Ci limiteremo a citare alcune cifre caratteristiche.
Nella Russia zarista, alla vigilia della prima guerra mondiale, gli Istituti di educazione prescolastica (asili infantili e simili), non erano più di 275, ed erano tutti — ad eccezione di una quindicina — riservati ai bambini delle classi privilegiate. Nel 1941, il numero di tali Istituti era salito a 16.251, senza contare le colonie estive; nel 1947, oltre quattro milioni di bambini venivano accolti in Istituti di educazione prescolastica.
Per quanto riguarda l’istruzione elementare, ognuno sa come il vecchio Impero zarista fosse il paese d’elezione di un analfabetismo di massa, che toccava punte del 98 e del 99 per cento tra le decine di milioni di uomini e di donne delle nazionalità oppresse. Ben quaranta tra queste nazionalità non disponevano nemmeno di un alfabeto per la loro lingua, e perciò di una lingua e di una letteratura scritta; tanto meno potevano disporre, pertanto, di una scuola e di istituzioni culturali. Nel complesso delle popolazioni dell’Impero zarista, la percentuale degli analfabeti, alla vigilia della Rivoluzione di Ottobre, era di oltre il 65%; oggi l’analfabetismo è stato praticamente liquidato. Dal 1930 è stata introdotta l’istruzione elementare obbligatoria fino alla settima classe nelle città e villaggi, fino alla quarta classe nelle località rurali. Da 10.300.000 nel 1928-’29, il numero degli alunni delle scuole elementari è salito a 17.700.000 nel 1932-’33, a 21.200.000 nel 1938-’39. Particolarmente degno di nota è il fatto che il numero degli alunni nei corsi dal quinto al settimo, che nelle località rurali era solo di 533.000 nel 1929-’30, era già salito a ben 5.576.000 nel 1938-’39.
Non meno impressionante è lo sviluppo dell’istruzione media. Nel 1914, in tutto l’Impero zarista non esistevano che 1.953 Istituti d’istruzione media; nel 1938-’39, il numero di tali Istituti saliva in Unione sovietica a ben 12.469. Gli alunni delle scuole medie, che erano poche decine di migliaia prima della Rivoluzione, e non più di 138.000 nel 1933, erano già 1.408.000 nel 1938, senza contare quelli delle scuole medie kolkhoziane.
Intere Repubbliche, come quella del Kazakhstan e dell’Uzbekistan, che erano prive di scuole medie prima della Rivoluzione, ne avevano già rispettivamente 439 e 232 nel 1938; e per preparare nuove centinaia di migliaia di maestri, il numero delle Scuole normali, che era solo di 19 nel 1914, era stato portato a 196 nel 1946.
Non parliamo delle scuole per adulti, alle quali accorrevano nel 1939 ben 751.000 persone, né delle scuole tecnico-professionali specializzate. Per quanto riguarda l’istruzione superiore, di tipo universitario, nel 1914 non esistevano nell’Impero zarista che 91 centri d’istruzione di questo grado, anche se si comprendono sotto questa voce corsi privati speciali di lingue, ecc. Nel 1946, gli Istituti superiori pubblici di tipo universitario salivano in Unione sovietica a ben 792, ed erano frequentati da 653.000 studenti: un numero superiore a quello della popolazione universitaria di tutta l’Europa capitalistica. Ma vi è di più: nel 1914, fra gli studenti di otto università russe, il 38,3% apparteneva, per la sua origine sociale, alla nobiltà e all’alta burocrazia, il 43,2% alla borghesia e al clero, il 14% alla borghesia rurale; solo il 4,5% proveniva da famiglie di operai, di contadini o di intellettuali poveri. Oggi ancora, negli Stati Uniti d’America, secondo i dati raccolti da una Commissione dell’Università di Harvard, solo il 5% di figli di lavoratori trova accesso agli Istituti d’istruzione superiore. In Unione sovietica, per contro, l’istruzione superiore è effettivamente, e non solo nominalmente, aperta a tutti, e tutta la popolazione universitaria risulta composta di lavoratori e di figli di lavoratori.


L’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri.

Il compito grandioso che oggi si pone di fronte ai popoli dell’URSS, e che già si viene realizzando, nel campo dell’istruzione, è quello dell’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri. Né si creda che ciò voglia significare semplicemente tino sviluppo della cultura tecnica e scientifica; di pari passo con la diffusione e l’approfondimento di questa, va la diffusione della cultura cosiddetta umanistica. Basti accennare al moltiplicarsi dei Musei e delle Accademie di belle arti, delle Istituzioni teatrali e musicali; basti ricordare che le tirature e la diffusione dei classici russi e stranieri — da Tolstoi a Rabelais, da Balzac a Shakespeare, dal Palladio al Goldoni — superano sovente già, in Unione sovietica, quelle che si ritrovano nei paesi d’origine dei singoli autori.
A mostrare quali passi, sulla via già accennata dell’elevamento del livello culturale della massa dei lavoratori al livello dei tecnici e degli ingegneri, siano ormai stati compiuti nel paese del socialismo, voglio citarvi ancora. solo una cifra, che mi si presenta qui sottomano. Voi sapete che nel corso di questa estate si è svolta, presso l’Accademia delle scienze dell’URSS, una discussione sui problemi della genetica, di quella parte della biologia, cioè, che studia le leggi della trasmissione dei caratteri ereditari degli esseri viventi. Di questa discussione sono stati dati, per oltre un mese, larghi resoconti, non solo nella stampa specializzata, ma nelle prime pagine dei quotidiani. Milioni di lettori hanno potuto seguirne gli sviluppi nelle linee generali. Ebbene: pochi giorni or sono, il resoconto stenografico completo dei dibattiti è stato pubblicato in questo grosso volume che ho qui dinnanzi a me. E un volume che in qualsiasi paese del mondo capitalistico, anche dei più avanzati, sarebbe accessibile solo a poche centinaia, o al massimo ad alcune migliaia di specialisti o di scienziati. In Unione sovietica, questo volume è stato tirato in una prima edizione di duecentomila esemplari; e il compagno, che in questi giorni me ne ha portato questa copia da Mosca, mi diceva che gli era stato assai difficile trovarmela perché, già pochi giorni dopo la sua pubblicazione, questa prima edizione era esaurita in quasi tutte le librerie della capitale sovietica.
L’interesse dei dati sommari che ho qui citato mi ha già indotto ad appesantire, più di quanto non fosse nelle mie intenzioni, di cifre la mia esposizione; e non vorrei peccare ancora per questo verso. Mi basti solo citare ancora un dato significativo, che valga a riassumere tutto quanto siamo venuti rilevando. Mentre negli Stati Uniti d’America, ai fini dell’educazione e dell’istruzione, si spende poco più dell’ 1,5% del reddito nazionale; mentre, in Inghilterra, tale percentuale si eleva appena al 3%, in Unione sovietica ben il 13% del bilancio economico nazionale è destinato alle spese per l’istruzione e per l’educazione: con una percentuale che, nei paesi capitalistici, si ritrova solo quando si calcolano non già le spese per la costruzione culturale, bensì quelle per le opere distruttive degli armamenti e della guerra.
Abbiamo già avvertito, tuttavia, che neanche l’imponenza dei risultati che il paese del socialismo ha realizzato e sta realizzando su questo piano della diffusione della cultura e dell’elevamento del livello culturale delle masse, potrebbe esaurire il senso e la portata della rivoluzione culturale che oggi si sviluppa in Unione sovietica. Si può dire, anzi, in un certo senso, che di questa rivoluzione culturale tali grandiose realizzazioni rappresentano solo la premessa, mentre la rivoluzione stessa si sviluppa e si manifesta su di un piano ancor più largo ed elevato.


La liquidazione dei residui ideologici della società di classi nella coscienza degli uomini.

La realtà è che la costruzione vittoriosa del socialismo è venuta e vien costruendo in URSS un’umanità, un uomo nuovo. L’eliminazione di ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la liquidazione dell’inferiorità economica, sociale, politica, intellettuale della donna, la soluzione della questione nazionale, assicurano già all’umanità sovietica condizioni di sviluppo che non hanno precedenti nella storia. Abbiamo già detto come la Rivoluzione socialista abbia conquistato e distrutto la cittadella del pregiudizio, la cittadella dell’«è sempre stato così, e sempre così sarà». Ma quel che è vero per i rapporti e per gl’istituti sociali, non è men vero per l’uomo stesso, per la sua coscienza sociale, politica e morale. Fenomeni grandiosi come quello dell’emulazione socialista e dello stakhanovismo, o come quello dell’eroismo di massa che ha meravigliato il mondo nel corso della guerra patriottica contro l’aggressore nazista, già rivelano la nascita di questo uomo nuovo, che sta in rapporti nuovi con gli altri uomini e con la società di cui è parte, che con occhi nuovi guarda al mondo, e alle sue lotte, e al suo avvenire. È un’umanità che già coscientemente si è posto — sotto la guida del Partito bolscevico – il compito di liquidare i residui ideologici del capitalismo e della società di classi nella coscienza degli uomini. E già su questa via — che è la via del passaggio dalla società socialista alla società comunista — dei passi decisivi si compiono, mentre di questo passaggio si pongono le premesse sul piano dei rapporti di produzione.
Marx ed Engels avevano già mostrato come un più alto grado di sviluppo delle forze produttive, che assicuri all’umanità un’abbondanza di prodotti, sia una condizione essenziale per il passaggio dalla società socialista — in cui vige il principio di distribuzione: «a ciascuno secondo il suo lavoro» al suo stadio superiore, alla società comunista, in cui vige il principio: «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Lo sviluppo ininterrotto delle forze produttive del paese del socialismo — che si è verificato come legge fondamentale dell’economia socialista persino negli anni più duri della guerra e dell’invasione nazista, di contro alla stagnazione e al marasma economico del mondo capitalista — assicura che la fondamentale condizione per il passaggio alla società comunista è in via di realizzazione. Ma ancora più importanti, ai fini che qui particolarmente ci interessano, sono altre due condizioni che debbono essere soddisfatte perché divenga possibile il pieno sviluppo di una società comunista.
Già oggi, nel paese del socialismo, liquidate le classi oppressive e sfruttatrici, la società non è più divisa in classi antagonistiche, che abbiano cioè tra di loro interessi contrastanti. Operai, kolkhoziani, intellettuali sovietici sono classi amiche, con caratteristiche profondamente diverse, ormai, da quelle che le classi corrispondenti hanno nella società capitalistica. Tra queste classi amiche, tuttavia, se pur non sussistono antagonismi che le separino, sussistono ancora diversità che le distinguono, per la loro posizione nel processo produttivo, come per le condizioni ambientali della loro esistenza, come per il loro grado di sviluppo intellettuale. La separazione tra città e campagne — questa fondamentale caratteristica della società di classi — non è ancora superata nella società socialista: nella quale, se essa è già superata in quanto contrasto, non è ancora, appunto, in tutto superata in quanto distinzione, per quanto riguarda condizioni di vita e possibilità di sviluppo culturale. Fin d’oggi, tuttavia, lo sviluppo del regime kolkhoziano viene rapidamente liquidando l’arretratezza tecnica dell’agricoltura rispetto all’industria; la meccanizzazione e l’elettrificazione delle campagne – che non hanno confronto nel mondo capitalistico – ,la combinazione del lavoro industriale col lavoro agricolo nei kolkhoz, lo sviluppo grandioso delle istituzioni scolastiche e culturali nei centri kolkhoziani, modificano profondamente le condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni rurali; mentre una cosciente e pianificata politica urbanistica moltiplica fin nelle regioni più remote i nuovi centri cittadini, che una politica delle comunicazioni e dei trasporti avvicina ed irradia sulle campagne circostanti.
Mentre così, con la progressiva liquidazione del contrasto tra città e campagne, si pone un’altra fondamentale premessa per il passaggio alla società comunista, non meno importanti sono i passi che si vengono compiendo per la liquidazione dell’altro fondamentale contrasto, caratteristico per la società di classi: il contrasto fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale.
Non vi può sfuggire, evidentemente, la particolare importanza che il progressivo superamento di questo contrasto assume ai fini di una effettiva e radicale rivoluzione culturale. Nella società di classi, se dal contrasto fra città e campagne la maggior parte dell’umanità è condannata a quello che Marx ha chiamato l’idiotismo contadino, il contrasto fra lavoro manuale e lavoro intellettuale condanna l’umanità intera ad una vera e propria mutilazione, la cultura ad una relativa impotenza che nasce dalla separazione della teoria dalla pratica, del libro dal lavoro e dalla vita. Mentre le grandi masse dei lavoratori manuali restano così, di fatto, escluse da ogni possibilità di superiore e più umano sviluppo culturale, la cultura degli intellettuali si sviluppa fuori del contatto vivo col mondo della produzione sociale, si frammenta in specializzazioni e in circoli chiusi, si evapora in astrazioni quintessenziali.
Nel paese del socialismo, questa che Lenin chiama una delle più tremende maledizioni che pesano sulla società capitalistica, il contrasto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra il libro e la vita, è anch’essa in via di superamento. La via non è, beninteso, quella della realizzazione di una sorta di media culturale, attraverso l’abbassamento del livello culturale degli intellettuali, bensì quella alla quale abbiamo già accennato, dell’elevamento del livello culturale delle masse al livello dei tecnici e degli ingegneri. La ristrettezza del tempo ci vieta di soffermarci ad illustrare i passi concreti che già nel paese del socialismo si son compiuti in questa direzione. Basti ricordare, d’altronde, che per la loro origine sociale e per la loro formazione stessa, fin d’oggi, gli intellettuali sovietici sono profondamente diversi dagli intellettuali dei paesi capitalistici, per il loro organico legame con le masse degli operai e dei kolkhoziani, ai cui problemi essi restano quotidianamente legati nell’opera comune della costruzione socialista. Lo sviluppo numerico e qualitativo dell’intellettualità sovietica si realizza così, a differenza di quel che avviene nella società capitalistica, sulla base di un generale e rapido elevamento del livello culturale delle masse: l’estensione dell’istruzione obbligatoria sino alla settima classe, la progressiva generalizzazione dell’istruzione media e superiore, già segnano un passo importante sulla via del superamento del contrasto fra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Ma non meno importante è il cambiamento della natura e del significato delle occupazioni manuali stesse. Già nella società socialista, il lavoro non è più un’attività servile e coatta, ma tende a divenire una libera esplicazione delle facoltà e dell’attività umana; il movimento stakhanovista di massa nasce già sulla base di questa nuova caratteristica del lavoro, comporta un impiego e una mobilitazione non solo e non tanto delle capacità e della forza fisica, quanto quello delle capacità tecniche, intellettuali, organizzative del lavoratore. La partecipazione attiva alla responsabilità e alla direzione della produzione, il sollievo crescente dai lavori più pesanti attraverso l’automatizzazione, il gusto alla creazione del prodotto, al perfezionamento dei metodi produttivi, già sono elementi che, nella società socialista, tendono a ravvicinare sempre più il lavoro manuale al lavoro intellettuale. Mentre sia l’uno che l’altro, d’altra parte, si vengono ulteriormente specializzando, la diffusione di un’istruzione generale fondata sul lavoro e l’attiva partecipazione di ogni lavoratore — intellettuale o manuale — alla direzione della cosa pubblica ed alla vita sociale, attraverso il sistema sovietico, accomuna tutti i lavoratori nella superiore attività intellettuale, nella cultura della società socialista.
Ci siamo soffermati ad illustrare questi fondamentali processi che si realizzano nella struttura stessa della società socialista e che avviano la sua trasformazione, il suo passaggio allo stadio superiore della società comunista. Ma — l’abbiam già detto — tutti questi processi, per quanto, grandiosi essi possano apparire, ed effettivamente siano, non costituiscono in un certo senso ancora altro che una premessa di quella vera e propria rivoluzione culturale che si manifesta su di un piano ancor più largo e più elevato.


Rivoluzione culturale.

Ma quali sono, dunque, le forme in cui questa rivoluzione culturale più propriamente si manifesta?
A chi, dal vecchio mondo dell’oppressione e dello sfruttamento, dal vecchio mondo della cultura borghese, si volga a rimirare le manifestazioni di questa rivoluzione, esse si presentano — e come potrebbero non presentarsi? — nelle forme di un vero e proprio scandalo.
Non sembri paradossale quanto ora qui io affermo. E forse che, all’epoca del primo Cristianesimo, non si parlò — e giustamente si parlò — dello «scandalo della Croce», di questo strumento di tortura e segno d’obbrobrio, eretto a simbolo di salvazione e di fede?
Ogni rivoluzione, sociale o politica o culturale che sia, è tale appunto perché rivolge e capovolge valori sostanziali e fondamentali di una data società, dà scandalo, è pietra di scandalo
— per usare l’espressione biblica — agli uomini del vecchio secolo, del vecchio mondo. E tanto più questo è vero per ogni manifestazione della rivoluzione proletaria che sommuove e rinnova e capovolge valori che da tutte le società di classi, da tutte le classi dominanti che si sono avvicendate nella storia, erano considerati come stabili e eterni: «quel che è sempre stato, e quel che sempre sarà».
Una tale pietra di scandalo ha rappresentato, per il vecchio mondo dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistico, per il vecchio mondo della cultura borghese, l’inizio della pubblicazione, da parte del Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione sovietica, di una serie di risoluzioni sui problemi della cultura: della storiografia, e della letteratura, della filosofia e del cinema, della musica e delle arti figurative, della biologia e della critica.
Mi sembra che il modo migliore d’intendere il senso e la portata della rivoluzione culturale che oggi si va sviluppando nel paese del socialismo, sia proprio quello di prender di petto gli eroici furori di questi scandalizzati rappresentanti del vecchio mondo e della vecchia cultura. Oportet ut scandala eveniant è parola di Vangelo; e la rivoluzione proletaria non è davvero meno profondamente rinnovatrice di quella cristiana da non dovere e potere apertamente e superbamente proclamare lo scandalo che la sua civiltà nuova solleva tra i figli del secolo. E tra i «figli del secolo», oggi come ai tempi del primo Cristianesimo vi son pure gli uomini di buona volontà e di buona fede, che proprio dalla pietra dello scandalo non restano impacciati e travolti, ma anzi indirizzati e orientati sul nuovo cammino.


Partito e cultura.

A questi uomini di buona volontà e di buona fede sono indirizzate queste parole; e non saprei muovere, nel mio discorso,
da altri motivi che non siano proprio quelli del loro scandalo.
E che mai — ci dicono questi uomini di buona fede — e che mai: ora un Partito politico si deve mettere, in Unione sovietica, a discutere e ad approvare risoluzioni sui problemi della filosofia, della scienza, dell’arte? E che mai questo può avere a che fare coi compiti di un Partito politico?
Che il Partito bolscevico e il suo Comitato centrale discutano ed approvino, putacaso, una risoluzione sul problema dell’organizzazione industriale o su quello della politica estera o su quello del cambio della moneta, non è, di per se stesso, fatto che susciti scandalo fra gli uomini di buona fede; e neanche, d’altronde, ne suscita fra gli avversari dichiarati dell’Unione sovietica e del socialismo. Forse che anche da noi il Partito comunista, o il Partito della democrazia cristiana, non discutono e non approvano, nei loro Congressi o nei loro Consigli nazionali, risoluzioni e mozioni su problemi del genere? Anche nel mondo capitalistico, problemi come quello della politica estera o. come quello dell’organizzazione industriale o del cambio della moneta, sono problemi che toccano da vicino gli interessi di ogni cittadino; e un Partito politico, che pretenda dirigere ed orientare la vita di una nazione qualsiasi, non saprebbe assolvere questa sua funzione senza prender posizione sui problemi che interessano ed appassionano gli uomini di quel paese.
Perché, dunque, questo scandalo di fronte alla pubblicazione delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della filosofia, della scienza, dell’arte? Certo, su problemi del genere, i Partiti politici dei paesi capitalistici non discutono e non approvano, in generale, delle, risoluzioni.
Vero è che, anche nel mondo capitalistico, là dove dei problemi culturali hanno davvero appassionato la massa dei cittadini, si son visti i Partiti politici più diversi prender posizione su questi temi. Basti ricordare, a questo proposito, le lotte che in Germania, al tempo di Bismarck, fra i Partiti politici furono combattute nel cosiddetto Kulturkampf; o quelle combattute in Francia attorno all’affare Dreyfuss o attorno alle leggi Combes; o, per prendere un esempio più vicino a noi nello spazio e nel tempo, le discussioni attorno alla «libertà della scuola», nell’altro dopoguerra. In ciascuna di queste, occasioni, e in molte altre che qui tralasciamo di ricordare, di fronte a problemi culturali che appassionavano milioni di uomini, si son visti, nei diversi paesi del mondo capitalistico, i Partiti più diversi non solo prender posizione, ma addirittura modificare il loro schieramento ed il loro raggruppamento politico in base al loro atteggiamento dí fronte a tali problemi.
Non è un caso, tuttavia, che tutti gli esempi che abbiamo citato, e la maggior parte degli altri che potremmo citare, si riferiscano a lotte che fra i Partiti politici si sono sviluppate attorno a problemi della cultura e dell’educazione religiosa: o che, comunque, con tali problemi avevano una stretta attinenza. La realtà è che, anche nel mondo capitalistico, quando un problema culturale tocca l’interesse e appassiona milioni di uomini, i più diversi Partiti politici, laici o confessionali che siano, sono portati e obbligati, anzi, a prender posizione di fronte a tali problemi. Ma nei paesi capitalistici, i problemi culturali che appassionano milioni di uomini sono quasi esclusivamente quelli della cultura religiosa tradizionale o quelli della lotta delle masse per la loro emancipazione da tale cultura, passivamente accolta o addirittura imposta dallo Stato.
Il fatto non ci può meravigliare quando si avverta che, in ogni società di classi, la grande maggioranza della popolazione è condannata all’incoltura, che significa appunto una mancanza di attività culturale, l’accettazione passiva di una cultura già ferma e cristallizzata, ereditata tradizionalmente dalle precedenti generazioni, imposta, diffusa, consolidata attraverso l’apparato statale e culturale delle classi dominanti. E ciascuno sa, ciascuno può facilmente constatare come la forma principale che questa cultura passiva, questa incoltura delle masse assume, sia proprio quella della «cultura», della tradizione religiosa, della superstizione. Già Montaigne rilevava efficace mente, nei suoi Saggi famosi, questo carattere passivo della «cultura» religiosa delle masse, quando egli scriveva che « nous sommes chrétiens à méme titre que nous sommes périgourdins ou allemands», quando accomunava la tradizione cattolica del suo paese ad ogni altra tradizione religiosa, osservando che essa viene passivamente accolta «non autrement que corame les autres réligions se revoivent», solo per il fatto «que nous nous sommes rencontrés au pays où elle etait en usage; où nous regardons son ancienneté où l’autorité des hommes qui l’ont maintenue; où craignons les menaces qu’elle attache aux mécréants, où suivons ses promesses» (*).
Non può meravigliarci, pertanto, che là dove milioni di uomini semplici si risvegliano ad una vita culturale, ad una cultura attiva, le prime grandi lotte culturali che toccano e interessano le masse siano proprio quelle che si sviluppano attorno al problema della cultura e dell’educazione religiosa. Così era già avvenuto nel Medio Evo, quando ancora e sempre di nuovo ogni rivoluzione culturale di massa addirittura trovava la sua espressione in forme religiose; così è avvenuto e avviene nella società borghese, dove, prima ancora che il proletariato elabori le sue più caratteristiche forme di lotta per la conquista della cultura, delle frazioni stesse della borghesia e della piccola borghesia sono portate ad esprimere la loro attività culturale nella lotta per l’emancipazione dalla cultura religiosa tradizionale.
Il fatto, dunque, che, nei paesi capitalistici, i Partiti politici siano portati a pronunciarsi quasi esclusivamente su quei temi culturali che più da vicino sono attinenti alla cultura e all’educazione religiosa, è in stretto rapporto con la caratteristica prevalentemente passiva della cultura delle masse, ab-
Nota (*) Montaigne: Essais. I,ivre II, eh. XII.
bandonate e costrette all’incoltura di una tradizione religiosa passivamente accolta: sicché, là dove esse si risvegliano ad una prima attività culturale, questa è volta necessariamente alla lotta per la emancipazione da questa tradizione, ed è su questo terreno, appunto, che si combattono fra i Partiti le grandi battaglie culturali di massa.
Profondamente diverse sono le condizioni nelle quali le battaglie per la cultura si combattono nella società socialista, in Unione sovietica. Qui l’apparato oppressivo del vecchio Stato feudale o borghese è stato distrutto da decenni ; l’apparato «culturale» delle vecchie classi dominanti non è più lì a trasmettere e a radicar tra le masse l’analfabetismo e la superstizione, il pregiudizio del «così sempre è stato, e così sempre sarà». La Chiesa non è più appoggiata e finanziata dallo Stato che non mette più a disposizione del clero il suo braccio secolare. Le tradizioni e le superstizioni religiose non sono più diffuse dall’apparato scolastico e dalla stampa, dal cinema e dalle radio, per i mille tramiti capillari di cui le vecchie classi dominanti disponevano. L’esercizio dei culti è libero, ma nessuna imposizione interviene a perpetuarlo. L’educazione e l’istruzione delle masse non è più fondata, nella scuola socialista, sull’imbottimento dei crani con formule, dogmi e catechismi passivamente imposti ed accolti; bensì sul lavoro, sulla attività culturale, su di un atteggiamento critico, scientifico, storicistico, di fronte alle tradizioni del passato: che attivamente, criticamente, appunto, vengono accolte, trasmesse, valorizzate, e che perciò della nuova cultura divengono non più limite e peso morto, ma materia di elaborazione e fermento.
Se si aggiunge a tutto questo il fatto decisivo che nella società socialista, cioè, la cosciente padronanza dell’umanità associata sui propri destini recide le radici sociali delle credenze religiose, non può più meravigliare il fatto che in Unione sovietica i problemi culturali attorno ai quali si afferma il più appassionato interesse delle masse siano ben più larghi e si sviluppino su di un piano ben più elevato, di quel che non possa avvenire nei paesi capitalistici. L’enorme maggioranza degli uomini e delle donne sovietiche si è ormai emancipata, nei nuovi rapporti della società socialista, da una «cultura» di tipo religioso, tradizionale e passivo; l’educazione e l’istruzione socialista, la partecipazione attiva e cosciente alla costruzione della società nuova, alla sua direzione, le ha impresso la caratteristica di un’attività culturale, che da ogni parte e ad ogni istante viene sollecitata, promossa, sostenuta dall’esercizio della critica e dell’autocritica, nella scuola come nell’officina o negli istituti scientifici o nel Partito o nel soviet o nella redazione della rivista letteraria. Ho citato, poco fa, il dibattito recente sulla genetica che si è allargato per mesi sulle prime pagine dei quotidiani, oltre che nelle colonne delle riviste specializzate; e del pari avrei potuto citare i dibattiti sulla filosofia o sulle belle arti o sulla letteratura.
Alla domanda, pertanto: — Perché il Partito bolscevico, un Partito politico, pubblica delle risoluzioni sui problemi della filosofia e dell’arte, della biologia e della storiografia? — la risposta è assai semplice. Il Partito bolscevico fa quello che ogni Partito politico, che pretenda di dirigere e orientare la vita di una nazione, fa anche nei paesi capitalistici. Il Partito bolscevico, proprio come fa in Italia il Partito comunista o quello della Democrazia cristiana, o come faceva il Partito liberale, quando ancora tra Benedetto Croce e Leone Cattani esso non si era ridotto all’impotenza; il Partito bolscevico, dicevamo, proprio come fanno tutti i Partiti nel mondo capitalistico, prende posizione e dà un orientamento per tutti quei problemi che suscitano interesse, ed eventualmente contrasto di interessi, tra milioni di uomini, che si tratti di problemi della costruzione economica o di quelli della politica estera o di quelli della cultura. Quel che è diverso, in Unione sovietica, è il fatto che i problemi della cultura, che nella società socialista sollevano l’interesse appassionato delle masse, non sono più solo quelli della «cultura» religiosa o quelli della emancipazione dalla sua passiva tradizione, bensì tutti i problemi di una cultura di massa, che è attività, che è critica nell’arte, nella filosofia, nella scienza.
Il primo scandalo, dunque, della cultura nuova dell’umanità socialista, è in realtà ben più grave di quel che a prima vista non possa apparire. Non si tratta di una stranezza, di una eccentrica particolarità di un Partito politico che va ad occuparsi di cose che non lo riguardano; si tratta di qualcosa di ben più profondo e sostanziale. Si tratta del fatto che, in Unione sovietica, il Partito bolscevico si occupa di arte e di scienza, di filosofia e di letteratura, perché di queste cose si occupano milioni e milioni di cittadini sovietici, con la stessa passione e con la stessa attività con cui essi si occupano della costruzione dell’industria o dell’organizzazione kolkhoziana, o con cui, nei paesi capitalistici, milioni di uomini si appassionano ai problemi del cambio della moneta o del sussidio di disoccupazione. E per questo avevamo ragione quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica.
Ma, obietterà ora l’uomo di buona volontà e di buona fede, ammettiamo pure che in questo scandalo si esprima, in realtà, questa prodigiosa rivoluzione culturale, senza precedenti nella Storia, che ha portato decine di milioni di uomini semplici a non appassionarsi più di Santa Fede e di Madonne che muovono gli occhi, ma di arte, di scienza, di filosofia. Ammettiamo pure tutto questo: ma resta pur sempre il fatto che in Unione sovietica, insomma, la cultura non è libera, perché il Partito dominante imprime una sua direzione persino in materia di pittura o di musica o di biologia. A parte il fatto, dunque, che in Unione sovietica il Partito bolscevico opera nel senso di un effettivo e progressivo elevamento del livello culturale delle masse, invece che in senso retrivo e oscurantistico, i metodi che esso segue sono pur sempre quelli della dittatura, praticati anche in questo campo dal fascismo e dal nazismo.


Spontaneità e direzione culturale.

Eccoci dunque dinnanzi al secondo scandalo che la cultura nuova dell’umanità socialista solleva tra i figli del secolo, ed anche, senza dubbio, tra uomini di buona volontà e di buona fede; ed eccoci, ancora una volta, a cercare di chiarirne il senso e la portata effettiva, perché i figli del secolo, di buona o di mala fede che siano, sappiano almeno di che, effettivamente, debbano scandalizzarsi.
E permettetemi, a questo punto, ch’io ricorra ad un esempio, tratto dalla mia esperienza parlamentare. Quando, dopo la liberazione del Nord, s’inaugurò la Consulta nazionale, a presiederla fu prescelto, come ricorderete, non so bene per che ragione, l’on. Sforza. Nell’assumere la presidenza, l’on. Sforza, additando teatralmente la tribuna dell’oratore, rilevò che da
quella tribuna, proprio Mussolini aveva pronunciato parole e annunziato atti liberticidi; propose pertanto che, nelle nuove e libere assemblee della democrazia italiana, gli oratori non parlassero da quella tribuna insozzata, bensì dal proprio banco.
Ora bisogna riconoscere che — se anche Mussolini usò questa espressione in tutt’altro senso, politico e liberticida — l’aula di Montecitorio, nella quale si tenevano le riunioni della Consulta, è effettivamente, materialmente «sorda e grigia». Il risultato dell’accettazione della proposta dell’on. Sforza fu perciò questo: che gli oratori, alla Consulta, parlarono dal loro banco, invece che dalla tribuna, e che nessuno riusciva a sentire e a seguire quel che dicevano; finché, provvidenzialmente, non si ebbe ricorso all’uso di microfoni, che a tutt’oggi si adoperano alla Camera.
Se ho fatto ricorso a questo esempio, tratto dalla mia esperienza parlamentare, è per illustrare una verità che non ci dovrebbe esser bisogno di dimostrare: che determinate esigenze sono evidentemente comuni, cioè, a qualsiasi tipo di organizzazione sociale o di assemblee o di governo o di cultura, o di vita, più in generale. Mussolini e Hitler, così, avranno anch’essi dovuto, ogni giorno, più o meno, mangiare e bere; e per quanto grande possa e debba essere la nostra esecrazione per i loro delitti contro l’umanità, noi non ci sogniamo certo di rinunciare a mangiare e a bere, o a soddisfare altri nostri bisogni corporali, «perché anche Mussolini e Hitler facevano così». Così del pari in ogni assemblea, fascista o nazista o democratica che sia, si sente l’esigenza di poter seguire il discorso dell’oratore, e possibilmente il gesto: che è anch’esso, almeno tra noi meridionali, parte integrante e sottolineatura del discorso. Per questo in tutte le assemblee, fin dai tempi più antichi, e specie là dove la disposizione dell’ambiente rendeva difficile l’ascolto, si è ricorso all’uso della tribuna per l’oratore: sicché già nel Foro di Roma antica si parlava dai Rostri, e ci è parsa bizzarra la proposta dell’on. Sforza: il cui antifascismo, anche in quella occasione, si rivelò piuttosto come inconcludente abito settario che come costruttiva coscienza democratica.
Quel che vale per le esigenze dell’oratoria in una qualsiasi assemblea, o per quella di una direzione in qualsiasi dibattito, non è meno valido per l’esigenza e per l’effettiva realtà di una organizzazione e di una direzione culturale in qualsiasi forma (li società, in qualsiasi forma di organizzazione politica e statale. Non vi è esempio, non è dato nemmeno di immaginare una cultura là dove non si realizzi una organizzazione ed una direzione culturale. È un fatto, questo, di cui ciascuno di noi può facilmente rendersi conto, pur che guardi attorno a sé e alla propria stessa formazione culturale. Forse che ciascuno di noi non si è culturalmente formato e ogni giorno non si sviluppa nell’ambito di una data organizzazione culturale? Forse che non è una sia pur embrionale organizzazione culturale la famiglia stessa, nel cui seno abbiamo imparato a parlare e a ragionare, e poi la scuola, o il sagrato dinnanzi alla chiesa del nostro villaggio, o l’officina, o l’università, e il sindacato, e la confraternita religiosa, e la cellula del Partito o la Sezione delle ACLI: e poi tutta la società in cu viviamo, con la sua stampa e coi suoi cinema, coi suoi musei e con i suoi teatri? E forse che, in ciascuna di queste più o meno larghe, più o meno esplicite organizzazioni culturali, la nostra cultura non si sviluppa sotto la costellazione di una determinata direzione culturale? E sarà la mamma che ci dirige non solo nei primi passi e nei primi gesti, ma nell’uso del nostro dialetto o della nostra lingua, che significa poi un dato modo di ragionare e di esprimerci, ed è la nostra prima cultura; e sarà il maestro che ci dirige nei primi studi, con un metodo suo particolare, che orienta la nostra curiosità in un dato senso; e sarà il sacerdote che ci dirige nell’assimilazione di una dottrina tradizionale, o addirittura come confessore o come padre spirituale ci detta sin le minuzie della nostra pratica morale; e poi l’assemblea del Sindacato o del Partito, alla quale noi portiamo il contributo di una nostra personale attività culturale, ma che pur ci dirige attraverso l’elaborazione di un orientamento collettivo, che è frutto di un’esperienza non solo nostra. E sarà infine la più larga società nella quale noi viviamo e della quale siamo partecipi, che ad ogni istante, si può dire, afferma nei nostri confronti la sua direzione culturale: una società che noi ci troviamo dinnanzi come qualcosa di dato storicamente; di precostituito, e che ad ogni istante culturalmente ci forma e ci dirige con la sua scuola e col suo cinema, coi suoi giornali e col suo teatro, con la sua chiesa e con la sua opinione pubblica e con la sua morale dominante e coi suoi luoghi comuni.
Quel che contraddistingue, dunque, la vita e l’attività culturale dell’Unione sovietica — o quella dell’Italia di Mussolini o di De Gasperi o di Giolitti — non è e non può essere il fatto che in questo o in quel paese l’attività e la vita culturale si sviluppino sotto il segno, sotto la costellazione di una data direzione culturale. Non vi è cultura od organizzazione culturale che si sviluppi senza l’impronta di una determinata direzione: quel che si tratta di ricercare, se si vuole intendere quale sia 1′ effettiva diversità tra la cultura nuova dell’ umanità socialista e la vecchia cultura, è chi, nell’una e nell’altra società, esercita una direzione culturale, e come questa direzione culturale differentemente si esercita.
Abbiamo visto e vediamo ogni giorno, d’altronde, chi e come, nei paesi capitalistici, eserciti la sua direzione culturale sul complesso della società. Sono le classi dominanti e le loro diverse frazioni che, secondo le mutevoli esigenze del loro dominio politico e culturale, di volta in volta scatenano un Kulturkampf o ristabiliscono l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole, finanziano la stampa massonica o quella clericale, perpetuano tra le masse l’analfabetismo o lo moderano ai fini di un minimo necessario di cultura, indispensabile per lo sviluppo di un’industria moderna. Dalla stampa al cinema, dalla scuola ai laboratori di ricerca scientifica, dalle Case editrici all’apparato statale, dal regolamento carcerario alla Chiesa, al regolamento militare, tutto il formidabile apparato di direzione culturale dei paesi capitalistici è nelle mani delle classi dominanti borghesi. E quel che ancora più importa, di fronte alla massa degli oppressi e degli sfruttati, mantenuti nell’incoltura, o in una cultura puramente tradizionale e passiva, le classi dominanti della società borghese dispongono esse sole di una cultura attiva, produttiva, di una cultura effettivamente superiore a quella delle masse, che assicura loro, più ancora che una egemonia, un vero e proprio monopolio della cultura. Grazie a questo regime di monopolio, l’effettiva direzione culturale nei paesi capitalistici si concentra, più ancora che in appositi organismi dell’apparato statale — quali sarebbero il Ministero o le Commissioni parlamentari per la pubblica istruzione — in ristretti circoli degli strati superiori delle classi dominanti: negli uffici-studi di Donegani o attorno alla Galleria d’arte di Gualino, nello studio di Giovanni Gentile o nel salotto di Benedetto Croce, attorno al Gran Maestro della Massoneria o nella Congregazione dell’Indice.
La direzione culturale delle classi dominanti borghesi non è e non può essere, beninteso, una direzione culturale pienamente omogenea ed uniforme. Essa risente, necessariamente, della varia composizione e differenziazione, dei vari raggruppamenti delle diverse frazioni delle classi dominanti stesse che ovunque, nel mondo capitalistico, esprimono un compromesso o una storica interpenetrazione coi resti delle classi dominanti della vecchia società feudale e chiesastica. Assistiamo cosi, di volta in volta, all’avvicendarsi, alla direzione culturale di un dato paese, di frazioni e gruppi e circoli diversi degli strati superiori delle classi dominanti; e vediamo la direzione culturale stessa mutare nel suo senso, come quando, ad esempio, all’indomani dell’Unità, di contro alle vecchie classi dominanti, si afferma, in seno alla nuova borghesia, una direzione culturale orientata in senso liberale e laico; mentre, più tardi, di fronte allo sviluppo del movimento operaio e democratico delle masse, riaffiorano e dominano di nuovo le tendenze ad una direzione culturale fondata sul compromesso confessionale e poi addirittura quelle apertamente antiliberali e fasciste.
Né si può dire che, anche per quanto riguarda le forme ed i modi esteriori nei quali la direzione culturale delle classi dominanti si esercita nella società capitalistica, non si possano e non si debbano riscontrare notevoli diversità. Sintantoché il predominio sociale e politico delle classi dominanti e il loro effettivo monopolio della cultura resta praticamente indiscusso e incontrastato, la loro direzione culturale tende ad esercitarsi nelle forme, diciamo cosi, liberali, e magari democratiche. Quella che predomina, semmai, è la preoccupazione della lotta contro i resti della cultura e dell’influenza culturale delle vecchie classi dominanti ecclesiastiche e feudali, in quanto esse possano costituire un pericolo politico per il nuovo Stato; e in questa lotta, ai fini di questa lotta, le frazioni più avanzate della borghesia non rifuggono, all’occasione, dal mobilitare anche certi strati delle masse, dall’orientarli e dirigerli culturalmente in senso laico e progressivo. In seno alle classi dominanti stesse, d’altronde, l’assenza di un pericolo imminente che urga dal basso, e che seriamente minacci il loro dominio, permette una certa libertà di giuoco alle varie tendenze ed ai vari orientamenti della direzione culturale. Il presupposto di questa relativa libertà culturale delle classi dominanti resta tuttavia, beninteso, proprio la passività culturale delle masse, la loro incoltura, la loro assenza dall’agone della cultura stessa.
La storia recente ed antica c’insegna, tuttavia, che questi metodi e queste forme esteriori della direzione culturale delle classi dominanti borghesi mutano rapidamente, non appena, col risveglio di più larghi strati di massa ad un’autonoma attività politica e culturale, qualche valore sostanziale della cultura e del dominio borghese sia messo in questione. Sul piano della direzione culturale, come su quello della direzione più propriamente politica, vediamo allora i gruppi decisivi della borghesia — in Italia come in altri paesi — abbandonare sin le forme di una direzione culturale liberale o democratica, passare ai metodi dell’aperta repressione anticulturale, non solo nei confronti delle masse, ma anche nei confronti di quelle frazioni o di quegli esponenti delle classi dominanti che mostrano di non intendere la gravità del pericolo che minaccia il comune dominio e la necessità di un saldo blocco culturale: che, di contro a una nuova cultura che urge dal basso, releghi al secondo piano i secondari contrasti interni che si manifestano nella cultura dominante.
A un fenomeno di questo genere abbiamo dovuto assistere, nel corso del ventennio fascista, nel nostro paese stesso, come in non pochi altri paesi del mondo capitalistico; a tentativi analoghi assistiamo oggi di nuovo, in Italia, anche se il blocco culturale delle vecchie classi dominanti tende oggi ad organizzarsi più ancora attorno alla Chiesa ed al suo apparato che non attorno all’apparato dello Stato, esso stesso soggetto oggi, d’altronde, ad un rapido processo di clericalizzazione. Di nuovo, come nel ventennio fascista, le classi dominanti italiane tendono a passare a metodi di direzione « culturale » apertamente repressivi, non solo nei confronti delle masse popolari, ma anche contro gli esponenti culturali delle classi dominanti stesse che assumono un atteggiamento di dissidenza dal blocco clericale.
Pure, per impressionanti e importanti che possano essere le forme esteriori che la direzione culturale della società nei paesi capitalistici, e il modo, il senso fondamentale di tale direzione, resta sostanzialmente lo stesso. Chi di fatto esercita la direzione culturale sul complesso della società nei paesi capitalistici, quale che sia la loro struttura politica e culturale, è sempre la borghesia, e particolarmente la grande borghesia, sempre più organicamente interpenetrata e fusa coi resti delle vecchie classi dominanti ecclesiastiche e feudali. Il modo fondamentale in cui questa direzione culturale della borghesia si esercita nei paesi capitalistici, è quello del monopolio della cultura attiva, produttiva, da parte delle classi dominanti, quello della condanna delle masse popolari all’incoltura, a una cultura solo tradizionale e passiva: sicché, più ancora che dall’imponenza di un apparato culturale o repressivo, la direzione culturale della borghesia sul complesso della società resta assicurato da una sua effettiva e storica superiorità culturale; e persino quei singoli individui che, dalle classi oppresse e sfruttate, assurgono alla «conquista della cultura», conquistano una cultura che è quella delle classi dominanti, che esprime le condizioni storiche del loro dominio, e vengono perciò spontaneamente assorbiti e inquadrati nell’ambito della cultura dominante.
A chi anche voglia considerare, d’altronde, la diversa importanza che una politica di diretta repressione anticulturale abbia nelle varie forme di direzione culturale della borghesia, non sempre riuscirà facile precisare tale diversità tra l’Italia di Mussolini, ad esempio, e l’America di Truman. Negli Stati Uniti d’oggi, certo, la strapotenza economica dei trust e la relativa arretratezza di sviluppo di un’autonoma coscienza ed attività culturale delle masse popolari avevano reso meno urgente, fino a pochi anni or sono, il ricorso alle forme di una diretta repressione anticulturale, del tipo di quella che abbiamo conosciuto nell’Italia fascista; ma pur senza tener conto della più recente politica di direzione culturale della borghesia imperialista americana, che oggi è giunta a processare degli scrittori non per una loro attività politica, ma per il semplice fatto che essi professano le dottrine del marxismo-leninismo; anche senza tener conto di questa più recente evoluzione, dicevamo, basti ricordare che da sempre nella « democratica » America una direzione culturale apertamente razzista esclude una parte importante della popolazione — i negri, e sovente gli italiani e gli ebrei da istituti scolastici e da istituti culturali, da attività giornalistiche, editoriali ed altre; da sempre i metodi della pura e semplice repressione culturale si sono combinati con quelli della lusinga e della corruzione, li hanno appoggiati e rafforzati ai fini del mantenimento della direzione culturale sotto il tallone di ferro della borghesia americana. Una tale combinazione delle forme della direzione con quelle della pura e semplice repressione culturale si può ritrovare e si ritrova necessariamente, d’altronde — se pure in varia misura — ovunque una classe dominante detenga, di fatto, il monopolio della cultura e mantenga le masse della popolazione in uno stato di incoltura, di passività culturale. In tali condizioni, è inevitabile che la cultura delle classi dominanti si imponga come cultura dominante; ma è altrettanto inevitabile che questa cultura dominante non possa esprimere appieno, e senza contraddizioni, le aspirazioni e i sentimenti delle grandi masse, che questa cultura passivamente accolgono e subiscono; sicché sempre di nuovo, tra le masse, fermentano i germi di vere e proprie ribellioni culturali, contro le quali la classe dominante è portata ad adoperare i metodi del soffocamento, dell’ostracismo, della repressione.
Con tutto questo non vogliamo dire, naturalmente, che non si debba fare una differenza tra le forme della direzione culturale adottate dall’Inquisizione o da Mussolini, tra quelle che oggi De Gasperi, Andreotti e Gonella vorrebbero riimpiantare in Italia, e le forme consuete nei paesi di una più libera democrazia borghese. Ma quel che era qui necessario sottolineare era il fatto che, in tutte queste varie forme di direzione culturale, quel che importa sempre ricercare è chi esercita la direzione culturale sul complesso della società, in che modo la esercita. E in tutti i casi citati, chi esercita la direzione culturale sono le classi dominanti che detengono il monopolio della cultura come quello della proprietà; il modo col quale tale direzione è esercitata (qualunque sia la forma che essa assume) è quello dell’esclusione delle grandi masse della popolazione da ogni forma di cultura che non sia passiva e tradizionale — incoltura.
Profondamente e sostanzialmente diversi sono invece il soggetto, il modo e le forme che la direzione culturale assume oggi in Unione sovietica, in una società socialista che già compie dei passi importanti sulla via di sviluppo verso la sua fase superiore, verso la società comunista. In Unione sovietica, liquidate le classi dominanti oppressive e sfruttatrici, liquidata la dilacerazione della società in classi antagonistiche, non si potrebbe neppure immaginare una direzione culturale affidata ad un gruppo sociale che avesse interessi materiali, economici o culturali, diversi o contrastanti rispetto a quelli della maggioranza del popolo. A differenza di quel che avviene nei paesi capitalistici — o, più generalmente, nella società di classi — un tale tipo di direzione culturale non potrebbe nemmeno essere immaginato in Unione sovietica, per il semplice fatto che nel paese del socialismo già non esistono più classi che abbiano interessi antagonistici, ma solo le classi amiche degli operai, dei kolkhoziani, degli intellettuali sovietici, che insieme e concordemente avviano la costruzione della società comunista.
Questo non significa, lo abbiamo già avvertito, che fra queste classi amiche, e all’interno di ciascuna di queste classi stesse, non esistano ancora delle diversità (non dei contrasti) nelle condizioni ambientali di lavoro e di vita, nel grado di sviluppo della coscienza socialista; proprio per questo, anche nella società socialista, l’avanguardia della classe operaia e di tutti i popoli sovietici continua ad organizzarsi nel grande Partito bolscevico; nel Partito che, dopo aver guidato i popoli dell’URSS alla lotta e alla vittoria contro lo zarismo, contro il capitalismo e l’imperialismo, nella costruzione del socialismo, li guida oggi alla costruzione di una società comunista.
Alla domanda, pertanto: chi, in Unione sovietica, esercita la direzione culturale sul complesso della società?, si può rispondere e si risponde apertamente: il Partito bolscevico, il Partito di Lenin e Stalin, il Partito che raggruppa e organizza l’avanguardia della classe operaia e di tutti i popoli sovietici, gli uomini e le donne più coscienti e più provati, che hanno dimostrato e dimostrano con fatti e con sacrifici inauditi il loro legame con le grandi masse del popolo, la loro capacità di guidarle alla lotta e alla vittoria del socialismo, la loro devozione alla causa del popolo; un Partito che non ha e non può avere altri interessi politici, sociali, culturali che quelli di tutto il popolo.
Per questa diversità del suo soggetto, il tipo di direzione culturale che oggi si esercita nella società sovietica è qualitativamente, sostanzialmente diverso da quello che si esercita nella società borghese, o da quello che sinora si era esercitato in ogni società di classi. In ogni società di classi, infatti, il gruppo sociale che esercitava la direzione culturale aveva interessi economici, sociali, politici, culturali contrastanti rispetto a quelli dell’enorme maggioranza della popolazione; la direzione culturale era perciò eterogenea nei confronti della società stessa, sulla quale essa si esercitava. Nella società socialista, in Unione sovietica, per contro, gl’interessi economici, sociali, politici, culturali del Partito bolscevico, del gruppo sociale che esercita la direzione culturale, sono quelli stessi di tutto il popolo, quelli della costruzione di una società comunista; il gruppo sociale che esercita la direzione culturale si distingue dal resto del popolo non già per una diversità di interessi, ma anzi per una più chiara ed avanzata coscienza, per una più matura esperienza di lotta, per un più devoto spirito di sacrificio agli interessi di tutto il popolo; la direzione culturale che il Partito bolscevico esercita nella società sovietica è perciò non più eterogenea, ma omogenea nei confronti della società stessa.
Questa sostanziale diversità nel soggetto e nel tipo di direzione culturale, che differenzia la società socialista da ogni precedente società di classi, si riflette necessariamente in una non meno sostanziale diversità nel modo in cui il Partito bolscevico esercita questa sua direzione culturale. Abbiamo già visto come, nella società borghese, ed in ogni società di classi, il modo di direzione culturale delle classi dominanti sia caratteristicamente esclusivo, restrittivo: tutto lo sforzo delle classi dominanti è volto ad imporre la loro direzione culturale attraverso un effettivo monopolio della cultura, escludendo le masse da ogni forma di cultura che non sia passiva, ricettiva, tradizionale; incoltura, insomma. In una società di classi, una classe dominante che non usasse proprio questo modo di direzione culturale sarebbe condannata, d’altronde, a veder presto tramontare la sua egemonia culturale; la sua direzione culturale, infatti, è, come abbiamo visto, eterogenea rispetto al complesso della società su cui si esercita; presuppone perciò, se non altro, una passività culturale delle masse.
Tutt’ altre sono le condizioni, e pertanto il modo, in cui solo può esercitarsi la direzione culturale del Partito bolscevico nella società socialista. La direzione culturale è qui omogenea, e non più eterogenea, rispetto al complesso della società; i suoi obiettivi sono quelli della costruzione comunista, che non possono essere raggiunti senza lo sviluppo di una coscienza superiore, di un’attività socialista in tutto il popolo. Per le classi dominanti delle passate società il carattere restrittivo, esclusivo della direzione culturale era una condizione del suo effettivo esercizio, e questo presupponeva un monopolio della cultura. Il Partito bolscevico, un Partito comunista, non può esercitare la sua funzione di direzione politica e culturale se non sollecitando e attraendo sempre nuovi strati di masse alla conquista di una superiore ed autonoma coscienza ed attività culturale. Così vediamo il Partito bolscevico dibattere i grandi problemi della direzione culturale del paese non più nel salotto di Benedetto Croce o nella Congregazione dell’Indice o solo nelle riviste specializzate, ma di fronte a tutto il popolo, in migliaia e migliaia di assemblee, col metodo della critica e dell’autocritica, sulle prime pagine dei quotidiani e nella corrispondenza coi loro lettori, sollecitando in mille forme l’iniziativa e la critica e l’attività e la produttività culturale di tutto il popolo: realizzando un modo di direzione culturale che non è più restrittivo ed esclusivo, bensì estensivo e propulsivo.
Se, per concludere su questo punto, vogliamo tirar le somme di quanto siamo venuti chiarendo, possiamo dire che anche il secondo scandalo che la cultura nuova dell’umanità socialista solleva tra i figli del secolo è, in realtà, assai più grave di quel che non appaia a prima vista. Non si tratta, invero, semplicemente del fatto che in Unione sovietica vi sarebbe una direzione culturale, come nei regimi fascisti, mentre tale direzione non esisterebbe nei regimi della democrazia borghese. Al contrario: quanto a questo, abbiamo mostrato, anzi, che una direzione culturale esiste in ogni forma di società, e che, semmai, una sostanziale conformità del tipo di direzione culturale esiste proprio tra i regimi fascisti e i regimi della democrazia borghese: giacché, negli uni e negli altri, è pur sempre la borghesia che esercita la direzione culturale e la esercita sempre col monopolio della cultura, escludendo le masse da ogni autonoma e produttiva attività culturale. Non è dunque in superficiali e fallaci analogie alla Sforza che va proclamato lo scandalo della cultura socialista, bensì in qualcosa di ben più nuovo e di più profondo: proprio nel fatto, cioè, che per la prima volta nella Storia il Partito bolscevico dà l’esempio e la prova di una direzione culturale omogenea alla società su cui essa si esercita; di una direzione culturale estensiva e non restrittiva, propulsiva e non esclusiva; fondata sull’attività e non sulla passività culturale delle masse; di una direzione culturale, insomma, che per la prima volta nella Storia apre non più solo ad una minoranza di privilegiati, ma all’umanità tutta, le vie di una cultura che non sia più solo inerte e passiva tradizione, ma cosciente conquista e creazione. E per questo, ancora una volta, avevamo ragione quando affermavamo che proprio nello scandalo delle risoluzioni del Comitato centrale del Partito bolscevico sui problemi della cultura si esprime il senso più profondo della rivoluzione culturale che si va compiendo in Unione sovietica.

(I) Antonio Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. – Einaudi, Torino 1948, pag. 5.

Edited by Andrej Zdanov - 4/7/2013, 23:07
 
Web  Top
1 replies since 4/7/2013, 13:47   86 views
  Share