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Le vie al socialismo, Ferenc Varnay

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view post Posted on 9/6/2013, 12:55

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Da AA.VV., La via europea al socialismo, Newton Compton Editori, 1976, pp. 218-224:

XIII. PARTITO COMUNISTA UNGHERESE (P.O.S.U.)

FERENC VARNAY
Le vie al socialismo


«Ogni paese arriva al socialismo, questo è ineluttabile, ma non tutti vi arrivano nello stesso identico modo; ognuno conferisce una linea propria alle varie forme di democrazia o di dittatura del proletariato o ai vari ritmi di formazione del socialismo, portata avanti in diversi settori della vita sociale. Nulla potrebbe essere più misero teoricamente e ridicolo praticamente che se qualcuno volesse tratteggiare il futuro solo con un grigio uniforme, “in nome del materialismo storico”».
Lenin scrisse queste righe alle soglie della grande rivoluzione d’ottobre. E quanto più numerosi sono i paesi in cui la rivoluzione socialista è all’ordine del giorno, quanto più numerosi sono i popoli che cominciano a valutare in che modo e per quali vie — e con il minor sacrificio possibile — si possa giungere ad una società in cui non vi sia sfruttamento, tanto più queste parole, rivolte al futuro, risultano motivate.


Forme sempre più varie

In realtà, accanto alla forma sovietica della trasformazione in senso socialista della società, ottenuta nel corso di una grande guerra civile, nella situazione internazionale formatasi dopo la seconda guerra mondiale, molti paesi dell’Europa orientale, tra cui anche il nostro, in considerazione del loro passato storico, delle loro condizioni socio-economiche e delle tradizioni nazionali, crearono una forma democratico-popolare di socialismo, in condizioni relativamente pacifiche. In questo ambito si costituirono delle forme particolari di gestione economica e dell’apparato statale nella Repubblica federale socialista jugoslava, fondata sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione. Nella elaborazione di una nuova società, la Repubblica popolare cinese, vincitrice nella guerra borghese, ha fornito un esempio molto particolare (almeno finché ha seguito i principi del marxismo-leninismo), e ancora di più il Vietnam, che ha proseguito per decenni la sua lotta di indipendenza nazionale, o la Repubblica popolare democratica di Corea, che ha lottato per l’unificazione del paese. A Cuba si ebbe la prima rivoluzione socialista del continente americano, sul terreno della vittoria della guerra popolare antimperialista condotta contro la dittatura estremista reazionaria.
Le linee diverse della transizione al socialismo e dell’edificazione della società socialista esistono nonostante che la rivoluzione socialista abbia vinto per lo più in paesi il cui sviluppo economico-sociale era ad un livello relativamente arretrato, nel momento del passaggio dal capitalismo al socialismo. Non occorre aver troppa fantasia per poter «predire» che in futuro le vie al socialismo saranno sempre più diverse. Le trasformazioni finora realizzate si arricchiranno maggiormente se la rivoluzione socialista verrà all’ordine del giorno in paesi dall’industria moderna e dall’agricoltura sviluppata, o se questa strada verrà intrapresa da qualche popolo recente dell’Asia, dell’Africa o dell’America Latina. Ed è anche molto probabile che, in seguito alle modificazioni dei rapporti di forza internazionali, nemmeno in futuro ci sarà bisogno di una guerra civile ovunque per ottenere la vittoria.
Stabilire la via concreta, l’ora (cioè se la situazione sia matura per la rivoluzione), i mezzi della lotta, è ovunque compito, naturalmente, del partito comunista e delle forze rivoluzionarie di un dato paese. Ma oltre alla diversità delle vie che portano ad una società senza sfruttamento, è importante anche che queste vie portino veramente al socialismo. Cioè non si possono modificare i principi generali, le leggi dello sviluppo socialista. L’essenza della transizione storica dal capitalismo al socialismo, con mezzi pacifici o con la lotta armata, è in ogni caso una qualche forma di dittatura del proletariato, cioè la direzione statale dell’edificazione socialista realizzata dalla classe operaia. Indispensabili sono il consolidamento e lo sviluppo del ruolo di guida dei partiti comunisti, il coordinamento dei compiti nazionali e internazionalisti degli stati socialisti, di pari diritti, indipendenti e sovrani.


L’essenza rivoluzionaria

I comunisti si distinguono sostanzialmente dai riformisti opportunisti per il fatto che sono sostenitori della trasformazione rivoluzionaria della società. I marxisti-leninisti interpretano quest’ultima come la radicale trasformazione dei rapporti privati dei mezzi di produzione, la sostituzione con la proprietà comune della proprietà privata dei mezzi di produzione fondamentali, e la radicale trasformazione del potere politico e dell’apparato dello Stato. Hanno invece sempre considerato come diverse le trasformazioni rivoluzionarie e la violenza armata, la sanguinosa guerra civile.
Già nell’aprile 1917, cioè appena cinque mesi prima dell’insurrezione armata, Lenin riteneva necessario lo sviluppo pacifico della rivoluzione russa. Dopo la vittoria della rivoluzione d’ottobre, nella primavera del 1918, elaborò un progetto di edificazione pacifica del socialismo. In nessun caso dipese dal partito bolscevico l’organizzazione della controrivoluzione, della guerra civile e dell’intervento da parte della borghesia russa e internazionale, né costrinse le masse di operai e contadini sovietici a prendere le armi per promuovere e difendere la rivoluzione. Nel 1918 Lenin disse:
«La storia non ci ha dato quelle condizioni di pace che ci eravamo augurati teoricamente per un certo tempo, che sarebbero auspicabili per noi e renderebbero possibile superare rapidamente questo stadio di transizione». «Il nostro processo di transizione è stato reso più complicato da quelle particolarità della Russia che non esistono ormai più nella maggior parte dei paesi civili. Di conseguenza, non è solo possibile, ma inevitabile, che in Europa questi periodi di transizione siano diversi».
E per chiarire meglio il suo pensiero, aggiunse:
«La cosa è più chiara del sole: un paese arretrato può cominciare più facilmente, perché il suo antagonista è in decomposizione, la borghesia è disorganizzata; ma affinché il processo possa continuare, c’è centomila volte più bisogno di precauzioni, avvedutezza e costanza. In Europa occidentale sarà diverso; sarà infinitamente più difficile cominciare, ma incomparabilmente più facile andare avanti».
Il passaggio alla nuova società, l’edificazione del socialismo, fu molto difficile per la classe operaia sovietica, per il PCUS, anche perché erano i primi. Il PCUS, armato della teoria marxista-leninista, conosceva la direzione generale della via da percorrere, ma non conosceva e non poteva conoscere quei problemi che emergono nei diversi periodi di questo processo. E ancor meno esistono soluzioni già pronte.
Secondo la suggestiva espressione di Lenin, la borghesia, quando andò al potere, trovò «veicoli collaudati, strade preventivamente costruite, meccanismi verificati in precedenza», mentre il proletariato, una volta conquistato il potere, non aveva a disposizione «né veicoli, né vie, nulla che fosse già stato precedentemente sperimentato».
Quei popoli, invece, che si sono avviati alla rivoluzione socialista nella seconda metà degli anni ’40, per la maggior parte non si sono trovati di fronte all’intervento aperto dell’imperialismo internazionale. Per questo hanno varcato il Rubicone, iniziando l’edificazione della nuova società, con molto minor sacrificio.
Tutti questi cambiamenti però non sono avvenuti perché le classi sfruttatrici, in questi paesi, avessero spontaneamente rinunciato al potere e all’opposizione, ma perché, nella vittoria sul fascismo, il potere socialista ha svolto un ruolo fondamentale, in conseguenza del rafforzamento dell’Unione Sovietica, che ha contribuito a modificare sostanzialmente i rapporti di forza internazionali.


Modi pacifici o violenti

Dunque, un grado più o meno intenso della violenza della lotta non è mai dipeso, né alla fine del secondo decennio del secolo, né alla fine degli anni ’40, né dopo, dal proletariato, e questo sarà vero anche in futuro. In qualunque luogo, la classe operaia ha interesse ad ottenere il potere e a costruire la nuova società con il minor sacrificio possibile. Se è stata costretta ad usare la violenza, non è mai dipeso dalla sua volontà, ma dalla misura della resistenza opposta dalle classi dominanti. Per questo la classe operaia e il partito comunista di un dato paese, valutando le possibilità concrete di attuazione della rivoluzione socialista, devono considerare coscienziosamente non solo le forze proprie e dei propri alleati, il potere e il peso della borghesia nazionale e la misura prevedibile della sua opposizione, ma anche le possibilità di aiuto offerte alla borghesia dall’imperialismo internazionale. Sta solo in loro la possibilità di decidere se si possa attuare pacificamente una trasformazione rivoluzionaria della società, o se sia necessario percorrere la via del rovesciamento violento della dittatura borghese.
Come hanno indicato le conferenze dei partiti comunisti e operai del 1957 e del 1960:
«Nelle condizioni attuali, la classe operaia di molti paesi capitalisti, sotto la guida della sua avanguardia e sulla base del fronte operaio, del fronte popolare e di altre forme possibili dell’accordo e della collaborazione politica tra i diversi partiti, ha la possibilità di unificare la maggioranza del popolo, per ottenere il potere statale, senza guerra civile, e di mettere nelle mani del popolo il passaggio dei mezzi fondamentali di produzione».
«Nel caso in cui le classi sfruttatrici facciano ricordo alla violenza contro il popolo, bisogna considerare anche l’altra possibilità, quella di una transizione non pacifica al socialismo. Il leninismo ci insegna, e ce lo dimostra anche l’esperienza della storia, che le classi dominanti non cedono spontaneamente il potere. In simili circostanze, la forma della lotta di classe e il grado di violenza, non dipendono tanto dal proletariato, quanto dal grado di violenza con cui gli ambienti reazionari si oppongono alla volontà della stragrande maggioranza del popolo».
Affinché sia possibile percorrere la via relativamente pacifica della rivoluzione, c’è bisogno della presenza simultanea di tre fattori. In primo luogo, occorre che il partito comunista di un determinato paese sia in grado di raccogliere attorno alla classe operaia rivoluzionaria tutti i lavoratori del paese, i contadini, gli intellettuali, i piccolo-borghesi, tutte le classi e gli strati sociali lavoratori, perché solo con la loro alleanza è possibile infliggere una sconfitta alle forze reazionarie antipopolari. In secondo luogo, deve respingere e isolare i gruppi opportunisti che non vogliono rompere con le classi sfruttatrici e con la loro politica di compromessi priva di principi. Infine, i rapporti di forza internazionali devono essere tali che la borghesia di un determinato paese non possa correre in aiuto dell’imperialismo internazionale, e che l’imperialismo internazionale non possa, se non a rischio di sconfitte ancora più gravi, esportare la controrivoluzione. Le prime due condizioni dipendono molto dalla classe operaia e dal partito comunista, mentre l’ultima consiste soprattutto nelle forze internazionali del socialismo e del progresso.


Possibilità, non certezza

Se ancora non possiamo dire che sia definitivamente scomparsa la possibilità di esportare la controrivoluzione, tuttavia la capacità economica e difensiva dei paesi della comunità socialista ha decisamente ristretto i limiti di questo pericolo.
L’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti che intervengono al suo fianco, esercitano sempre più pressioni sui paesi capitalisti sviluppati, affinché accettino e garantiscano i principi della coesistenza pacifica. Questo trova espressione nell’accordo concluso dall’Unione Sovietica con tutti i paesi capitalisti, e nell’atto finale di Helsinki adottato dai governi del continente europeo.
Tutto questo produce possibilità più favorevoli, condizioni internazionali migliori per le classi operaie dei paesi capitalisti, affinché possano percorrere una via pacifica di transizione al socialismo.
Ma questa è solo una maggiore possibilità, non un’incrollabile certezza. In molti paesi il capitalismo ha ancora un forte apparato militare e poliziesco, un potere economico vigoroso, e mantiene un significativo influsso ideologico tra gli strati lavoratori. E la borghesia è disposta anche a mettere in vendita l’indipendenza del proprio paese se vede in pericolo il suo dominio di classe. Siamo stati testimoni, nel caso del Cile e del Portogallo, della coalizione internazionale della borghesia controrivoluzionaria. Non ci possiamo dimenticare neppure delle minacciose dichiarazioni ripetute dai dirigenti americani, secondo le quali ostacoleranno in tutti i modi la possibilità che i comunisti giungano al potere in un paese appartenente alla NATO. La classe operaia e i partiti comunisti devono perciò prepararsi e preparare le masse lavoratrici ad entrambe le possibilità di lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società.
Al XXV Congresso del PCUS, Leonid Brežnev vi ha fatto le seguenti dichiarazioni:
«La tragedia del Cile non invalida le conclusioni dei comunisti sulla possibilità di vie diverse per la rivoluzione, inclusa anche la rivoluzione pacifica, se esistono le condizioni necessarie. Questa tragedia ci ha certamente ricordato che la rivoluzione deve sapersi difendere. Ci insegna ad essere vigili nei confronti del fascismo odierno e dei tentativi della reazione internazionale. Ci invita a rafforzare la solidarietà internazionale con chiunque intraprenda la via della libertà e del progresso».

Edited by Andrej Zdanov - 30/12/2015, 17:00
 
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