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Posts written by Alaricus Rex

view post Posted: 14/3/2013, 18:52 Critica al “Memorandum” di Peng Teh-huai - Scritti di altri autori
Da Mao Tse-tung, Opere, vol. 17, pp. 202-210:


CRITICA AL MEMORANDUM DI PENG TEH-HUAI
(23 luglio 1959)



Critica svolta da Mao Tse-tung alla Conferenza di Lushan a cui Peng Teh-huai il 14 luglio 1959 aveva presentato il suo Memorandum.

Il Memorandum di Peng Teh-huai è un programma opportunista di destra e ostile al partito [...] non è stato un errore casuale e isolato, ma sistematico, organizzato, preparato e mirato. Egli approfitta del momento difficile in cui il nostro partito è esposto agli attacchi congiunti dall’interno e dall’estero, per attaccarlo; egli mirava a usurpare il potere del partito e a fondare il suo partito opportunista.
Lo scritto di Peng Teh-huai ha un carattere programmatico, è contro la nostra linea generale. Non ci si deve lasciare ingannare dal fatto che apparentemente la sostiene. È scritto in modo molto accorto. La contraddizione che è posta in evidenza, è lo squilibrio, cioè la tesi che la fusione dell’acciaio attuata su piccola scala e largamente diffusa è qualcosa di presuntuoso, che il fanatismo piccolo-borghese si è diffuso dappertutto nel paese e in tutti i settori, che sarebbe stato meglio istituire le comuni popolari un anno più tardi. Anche gli Stati Uniti d’America di Dulles dicono che da noi domina lo squilibrio. Se l’Esercito popolare di liberazione segue Peng Teh-huai, io darò inizio a una guerra partigiana.

Appendice
Memorandum
di Peng Teh-huai

Presidente!
Questa conferenza di Lushan è importante. Nelle sedute del gruppo di lavoro nordoccidentale ho chiesto alcune volte la parola, ma nelle riunioni di gruppo non ho esposto in modo completo alcune opinioni, perciò scrivo questa lettera appositamente per tua informazione. Io sono un uomo semplice come Chang Fei, tuttavia ho solo la sua rudezza, senza possedere la sua sottigliezza. Perciò ti prego di valutare se questa lettera deve essere o no distribuita come materiale informativo. Per favore, fammi notare i punti inesatti.
1. I successi del grande balzo in avanti del 1958 sono noti e indiscutibili.
Secondo le cifre della Commissione statale per la pianificazione il prodotto lordo nell’industria e nell’agricoltura è aumentato nel 1958 del 48.4 per cento rispetto al 1957. In particolare l’industria ha avuto un aumento del 66.1 per cento e l’agricoltura, comprese le attività accessorie, del 25 per cento (per i cereali e il cotone l’aumento della produzione è stato del 30 per cento). Per quanto riguarda le finanze dello Stato le entrate sono salite del 43.5 per cento. In nessun paese del mondo c’è stata una crescita così rapida. Sono state sfondate le norme fissate per la costruzione del socialismo. Particolarmente in un paese come il nostro, dove la base economica e l’attrezzatura tecnica sono arretrate, il grande balzo in avanti conferma sostanzialmente che la linea generale “di più, più rapidamente, meglio e in modo più economico” è giusta. Questo non è solo un grande successo del nostro paese, ma avrà un ruolo positivo anche in futuro nel campo socialista.
Vista con gli occhi di oggi la costruzione di aziende e infrastrutture nel 1958 è stata in alcuni casi un po’ troppo affrettata e si è estesa a troppi progetti. Si è così dispersa una parte delle risorse e abbiamo dovuto differire alcuni progetti indispensabili. È stato un errore e la causa principale di ciò è stata la mancanza di esperienza. Non lo avevamo capito e quando lo capimmo era già troppo tardi. Invece di rallentare un po’ il passo e di controllare la velocità in modo adeguato, il grande balzo in avanti è stato continuato anche nel 1959. Ciò non ci ha permesso di correggere in tempo gli squilibri e sono sopraggiunte nuove temporanee difficoltà. Tuttavia questi progetti di costruzione in fin dei conti sono necessari per la costruzione del paese e in un anno o due o un po’ più tardi daranno a poco a poco i loro frutti. Ora ci sono ancora alcune lacune e punti deboli, che fanno sì che la produzione sia insufficiente e che per alcuni materiali manchino delle scorte assolutamente necessarie, così che non si può intervenire a tempo se si evidenziano segnali di sproporzioni e di nuovi squilibri. Questa è la nostra difficoltà attuale. Perciò nella stesura dei piani per il prossimo anno (1960) dovremmo riflettere ancora più coscienziosamente per porli su una base più sicura e più attendibile secondo il principio “cercare la verità nei fatti”. Laddove
non si sono potuti concludere alcuni progetti nel 1958 e nella prima metà del 1959, dovremmo assolutamente deciderci a sospenderli temporaneamente. In questo senso dobbiamo rinunciare a qualcosa, per raggiungere qualcos’altro. Altrimenti continueranno ad esistere quei primi segnali di contraddizioni e sarà difficile superare la situazione passiva in alcuni campi, il che ostacolerà la rapidità del movimento per raggiungere e superare l’Inghilterra nei prossimi quattro anni. Sebbene la Commissione statale per la pianificazione abbia fatto dei piani, per diverse ragioni è difficile prendere una decisione netta.
La campagna per il passaggio alle comuni rurali condotta nel 1958 ha avuto un grande significato. Con ciò i nostri contadini non solo sono stati resi capaci di liberarsi completamente dalla miseria, ma questa è anche la via giusta per accelerare la costruzione del socialismo e il passaggio al comunismo. Tuttavia c’è stato un periodo di confusione riguardo al problema del sistema di proprietà e nel nostro lavoro concreto si sono evidenziati alcune carenze ed errori. Questo naturalmente è un fenomeno serio. Tale fenomeno tuttavia è stato essenzialmente eliminato dopo la serie di conferenze a Wuchang, Chengchow e Shanghai. La situazione caotica è stata complessivamente superata e noi seguiamo passo dopo passo la strada normale di “a ciascuno secondo il suo lavoro”.
Nel corso del grande balzo in avanti dell’anno 1958 è stato risolto il problema della disoccupazione. La sua rapida soluzione in un paese come il nostro con una popolazione numerosa ed economicamente arretrato non è una piccola, bensì una grande cosa.
Nel corso del movimento per la produzione dell’acciaio da parte di tutto il popolo è stato costruito un numero un po’ troppo grande di piccoli altiforni
tradizionali, che hanno sperperato risorse (materiali e finanziarie) e forza-lavoro. Questa naturalmente è una perdita relativamente grande. Ma c’è stato anche un primo studio generale di grandi proporzioni delle condizioni geologiche e delle risorse minerarie di tutto il paese ed è stato istruito molto personale tecnico. Grandi masse di quadri si sono temprate e qualificate in questo movimento. Anche se abbiamo dovuto pagare dei prezzi (più di due miliardi di yuan come sovvenzioni), anche in questo abbiamo avuto degli utili e delle perdite.
Se si guardano solo i punti suddetti, i successi che abbiamo raggiunto sono davvero grandi. Tuttavia ci sono ancora non poche esperienze e insegnamenti di ampia portata, che dovrebbero essere seriamente analizzati. Ciò è utile e necessario.
2. Le esperienze e gli insegnamenti derivati dal nostro lavoro.
I compagni che partecipano a questa conferenza hanno discusso le esperienze e gli insegnamenti tratti dall’ultimo anno di lavoro e hanno fatto anche parecchie proposte costruttive. La discussione attuale farà progredire molto il nostro lavoro di partito. Ci renderà capaci di trasformare in iniziativa la passività attualmente presente in alcuni campi, di capire meglio le leggi economiche del socialismo, di correggere in tempo le sproporzioni che sono ancora presenti e di capire bene il significato di un equilibrio attivo.
Secondo me non si potevano evitare alcune carenze ed errori, che sono venuti alla luce nel corso del grande balzo in avanti del 1958. Anche nel caso dei continui movimenti rivoluzionari che il nostro partito ha diretto in passato in più di trent’anni, ci sono state sempre delle carenze accanto a grandi successi. Ogni cosa ha due facce. La contraddizione che ci sta di fronte nel nostro lavoro di costruzione è il peso enorme provocato dalla sproporzione in diversi campi. Per sua natura il formarsi di questa situazione ha già inciso sui rapporti tra operai e contadini, tra i diversi ceti nelle città e tra i contadini. Perciò questo è diventato anche un problema politico. Costituisce la chiave della nostra possibilità di mobilitare in futuro le grandi masse per continuare la realizzazione del balzo in avanti.
Le ragioni delle carenze e dei difetti sorti in un certo periodo del passato nel nostro lavoro sono molteplici. Un fattore oggettivo è che non abbiamo dimestichezza col lavoro di costruzione del socialismo e che ci manca un’esperienza completa. Non abbiamo capito sufficientemente le leggi socialiste dello sviluppo regolare e proporzionato e non abbiamo neanche seguito precisamente in ogni campo la strada del “camminare su due gambe” nel lavoro pratico. Non abbiamo trattato i problemi della costruzione economica con lo stesso successo con cui si è trattato il cannoneggiamento di Quemoy2 e la pacificazione in Tibet3.
D’altra parte la situazione obiettiva è che il nostro paese si trova in una situazione arretrata di povertà (c’è ancora un certo numero di persone che non ha da mangiare a sufficienza, l’anno scorso c’erano in media solo 18 chin di cotone a testa, appena sufficiente per un vestito senza imbottitura e due mutande) e di mancanza di esperienza. La gente vuole cambiare alla svelta. La situazione internazionale inoltre si sviluppa in modo favorevole. Anche questo è un fattore importante per l’accelerazione del nostro grande balzo in avanti. È assolutamente necessario e giusto utilizzare questo momento favorevole per andare incontro alle esigenze delle grandi masse, per accelerare il nostro lavoro di costruzione, per cambiare il più rapidamente possibile il volto arretrato del nostro paese in primo luogo povero, in secondo luogo senza esperienza e per creare una situazione internazionale ancora più favorevole.
In passato sono emersi anche nel nostro modo di pensare e nel nostro stile di lavoro moltissimi problemi che meritano la nostra attenzione. Essenzialmente sono questi:
1. la presunzione prolifera in modo abbastanza generalizzato. L’anno scorso, durante la Conferenza di Peitaiho, la produzione di cereali è stata sopravvalutata. Si è creata quindi un’impressione sbagliata. Tutti avevano la sensazione che il problema alimentare fosse risolto e che si avessero quindi le mani libere per intervenire in grande stile nell’industria. C’è stata una inadeguatezza, che dobbiamo prendere in seria considerazione, nella nostra progettazione dello sviluppo dell’industria del ferro e dell’acciaio. Non abbiamo seriamente tenuto conto di cose come le attrezzature per fondere e laminare l’acciaio e per frantumare il minerale, le attrezzature per l’estrazione del carbone, dei minerali e per la produzione di coke, l’approvvigionamento del legname da miniera, la capacità dei trasporti, l’aumento della forza-lavoro, l’aumento del potere d’acquisto e la distribuzione delle merci sul mercato. In breve, non ci sono stati i piani necessari per procedere in modo proporzionato. Questi sono stati errori causati dal fatto che non abbiamo cercato la verità nei fatti in misura sufficiente. Queste sono, temo, le cause della nascita di una serie di problemi.
La presunzione si diffuse in tutte le regioni e in tutti i settori e anche sulla stampa si annunciarono alcuni incredibili miracoli. Questo ha sicuramente danneggiato in modo gravissimo il prestigio del partito.
A stare alle notizie che giungevano da ogni parte, allora sembrava che il comunismo fosse alle porte. Molti compagni vennero colpiti da questa febbre. Seguendo l’onda dell’alta produzione di cereali e di cotone e del raddoppiamento della produzione del ferro e dell’acciaio, si ebbero stravaganze e sperperi; in autunno per il raccolto si lavorò in modo grossolano, senza valutare bene i costi. Ci ritenevamo ricchi, mentre in realtà siamo ancora poveri. La cosa grave fu che per un periodo di tempo abbastanza lungo non fu facile farsi un quadro reale della situazione. Fino alla Conferenza di Wuchang e alla Conferenza dei segretari dei comitati di partito delle province e delle municipalità nel gennaio di quest’anno, non eravamo in grado di farci un quadro reale della situazione. Tale presunzione ha delle cause sociali, che meritano uno studio attento. Ciò dipende anche dal fatto che in alcuni settori della nostra attività c’erano solo obiettivi e compiti, ma non misure e indicazioni concrete. Sebbene l’anno scorso il Presidente avesse invitato tutto il partito a coniugare la forza impetuosa dell’azione con l’analisi scientifica e a seguire la direttiva del camminare sulle due gambe, sembra che ciò non sia stato compreso dalla maggioranza dei compagni dirigenti. Naturalmente io non sono un’eccezione.
2. Il fanatismo piccolo-borghese ci porta a fare degli errori “di sinistra”. Nel corso del grande balzo in avanti dell’anno 1958 anch’io come molti altri compagni ero sconcertato dalle conquiste del grande balzo e dall’entusiasmo dei movimenti di massa. Alcune tendenze “di sinistra“ si svilupparono fino a un certo grado; dappertutto si voleva raggiungere subito il comunismo. L’idea di essere i primi ebbe per un certo periodo il sopravvento e soppiantò la linea di massa e lo stile di lavoro di cercare la verità nei fatti, che aveva caratterizzato il partito per molto tempo. Per quanto riguarda il modo di pensare, spesso abbiamo confuso fra loro la pianificazione strategica con le misure concrete, la linea di lungo periodo con i passi immediati, il tutto con la parte e il collettivo grande con quello piccolo.
Gli appelli del Presidente come “coltivare meno terra, realizzare maggiori rese, raccogliere di più!” e “superare l’Inghilterra entro 15 anni” facevano parte della linea strategica e di lungo periodo. Non abbiamo fatto delle analisi, non ci siamo preoccupati di studiare la concreta situazione attuale e di porre a fondamento del lavoro l’iniziativa ma anche l’attendibilità e l’affidabilità. Alcune cifre furono progressivamente innalzate, i numeri diventarono sempre più grandi, così che gli obiettivi che potevano essere raggiunti in alcuni anni o per i quali sarebbero stati necessari più di dieci anni, si trasformarono in obiettivi che dovevano essere raggiunti in un anno o in alcuni mesi. Perciò ci siamo staccati dalla realtà e non siamo riusciti ad avere l’appoggio delle masse.Venne per esempio prematuramente negata la legge dello scambio tra equivalenti e si parlò troppo presto di mangiare gratis. In determinate regioni, dove si pensava di avere raggiunto un livello record nel raccolto di cereali, venne eliminata per un certo periodo la politica dell’acquisto e della vendita centralizzata (dell’ammasso statale) e si invitò ad allentare la cinghia e a mangiare a sazietà. Vennero diffuse avventatamente alcune tecniche senza verificarle e si negarono con leggerezza alcune leggi scientifiche. Tutte queste erano tendenze “di sinistra”.
Secondo questi compagni si poteva sostituire tutto col fatto che la politica era al posto di comando. Dimenticavano che lo slogan “la politica al posto di comando” aveva lo scopo di innalzare la coscienziosità nel lavoro, di garantire l’innalzamento della quantità e della qualità dei prodotti e di far esprimere l’entusiasmo e la creatività delle masse, per accelerare con ciò la costruzione della nostra economia. “La politica al posto di comando” non può essere un sostituto delle leggi economiche e tanto meno dei provvedimenti concreti nel lavoro economico. A “la politica al posto di comando” si deve attribuire la stessa importanza che ai provvedimenti effettivi e chiaramente definiti nel lavoro economico, nessuna delle due cose deve essere sopravvalutata o trascurata. È generalmente più difficile correggere questi fenomeni “di sinistra” che liberarsi delle idee conservatrici di destra; l’ha dimostrato l’esperienza storica del nostro partito. Nella seconda metà dell’anno scorso qualcosa sembrava indicarci che il soggettivismo veniva ignorato, mentre si tendeva a opporsi alle idee conservatrici di destra. Alcuni fenomeni “di sinistra” vennero essenzialmente corretti con una serie di provvedimenti dell’inverno dell’anno scorso. È una grande vittoria. Questa vittoria non solo ha educato i compagni di tutto il partito, ma ha anche lasciato intatto il loro entusiasmo.
Ora c’è stata una chiarificazione di fondo sulla situazione interna. Specialmente dopo le conferenze di quest’ultimo periodo, la maggior parte dei compagni del partito concorda in ciò che è essenziale. Il compito che abbiamo di fronte è quello di unire tutto il partito e di continuare a lavorare duramente. Credo che sarebbe molto utile ricapitolare sistematicamente le conquiste e le lezioni che si sono rese evidenti nel nostro lavoro dalla seconda metà dell’anno scorso, per continuare a educare tutti i compagni del partito. L’obiettivo è di distinguere chiaramente il giusto dal falso e di migliorare la nostra capacità di comprensione. Generalmente non si dovrebbe ricercare la responsabilità di persone singole. Sarebbe nocivo all’unità e alla causa. Alcuni problemi che sono da imputare alla nostra mancanza di familiarità con questioni come quella delle leggi della costruzione del socialismo, si possono chiarire ora, dopo la pratica e le analisi che si svolgono dalla seconda metà dell’anno scorso. Alcuni problemi potranno essere completamente compresi solo dopo un ulteriore periodo di studio e di ricerca. Per quanto riguarda le questioni del modo di pensare e dello stile di lavoro, abbiamo già ricevuto un’energica lezione, che ci ha svegliato e ci fa capire più facilmente. Ma per superarle veramente, dobbiamo ancora affrontare difficoltà e fatiche. È proprio come ha detto il Presidente a questa conferenza: “I successi sono grandiosi, i problemi numerosi, le esperienze ricche e il futuro luminoso”. Dobbiamo prendere l’iniziativa, per unificare tutto il partito e lottare duramente. Ci sono le condizioni per continuare il balzo in avanti. È certo che i piani per questo e per il prossimo anno così come per i prossimi quattro anni possono essere vittoriosamente realizzati. L’obiettivo “raggiungere tra quindici anni l’Inghilterra“ può essere realizzato essenzialmente nei prossimi quattro anni. Per alcuni prodotti importanti potremo senza dubbio superare l’Inghilterra. Ecco i nostri grandi successi e il nostro luminoso futuro.
Cordiali saluti.

NOTE

1. Mao Tse-tung si riferisce alle misure contro la collaborazione cino-sovietica in campo economico, militare e delle relazioni internazionali prese dal governo sovietico in violazione dei trattati esistenti. Le misure erano un tentativo di costringere il PCC ad adeguarsi alla linea che i revisionisti moderni sovietici capeggiati da Kruscev cercavano di imporre a livello internazionale.
2. Vedasi nota 1, pag. 142.
3. Vedasi nota 2, pag. 170.

Edited by Andrej Zdanov - 26/11/2013, 15:19
view post Posted: 12/3/2013, 22:41 Su Breznev (raccolta) - Articoli dei membri della Scuola quadri

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Leninismo o socialimperialismo?

Nota pubblicata su Facebook in data 8 dicembre 2012


Il titolo di questa nota riprende quello del celebre articolo delle redazioni del Quotidiano del popolo, di Bandiera rossa e del Quotidiano dell’Esercito popolare di liberazione del 22 aprile 1970, incluso nelle Opere di Mao Tse-tung (vol. 24, pp. 108-128), nel quale la Dottrina Breznev e la prassi politica ed essa legata erano condannate in forma particolarmente netta, in quanto manifestazione del “socialimperialismo”. Un tempo le mie opinioni coincidevano con quelle espresse in quello scritto. Tuttavia, la presa in esame del materiale documentario sulle questioni storiche trattate mi ha fatto gradualmente mutare giudizio. Sicché compresi come il senso del titolo (Leninismo o socialimperialismo?) possa essere ribaltato, evidenziando l’estraneità dell’URSS a fini imperialistici e il suo impegno nella difesa della comunità socialista dai reparti d’assalto della controrivoluzione. Quanto segue è tratto dalla risposta inviata ad un compagno maoista appena ieri; il Poscritto contiene materiale impiegato più avanti nella stessa risposta, con qualche aggiunta. Buona lettura a tutti i compagni.

Cecoslovacchia.

Qual era la situazione nel paese alla vigilia dell’intervento del Patto di Varsavia?
“…Dubcek, che dall’inizio aveva la fiducia nel Partito e nel paese, passò gradualmente da posizioni marxiste-leniniste, subì l’influsso degli opportunisti di destra e delle forze antisocialiste, e alla fine ne divenne il simbolo”.
“Anche la disgregazione del potere socialista raggiunse un livello rilevante. Il modo di procedere di Dubcek a capo del Partito e di Cernik come presidente del governo condussero al punto che fu pian piano smantellata l’attività degli organi di potere dello stato socialista, la pubblica sicurezza, la giustizia, l’esercito, utilizzati dai nemici interni ed esterni del nostro regime”.
“L’attività del governo e il suo modo di procedere furono determinati oltre da Cernik anche da altri elementi di destra che indebolirono la gestione statale della società socialista, deformarono le intenzioni della riforma economica e fecero di tutto per dar spazio a concezioni revisioniste e antisocialiste negli ambiti principali della politica statale”.
“J. Smrkovsky da un lato fece approvare alcune modifiche legislative illegali che appoggiavano la destra, e dall’altro con F. Kriegl ostacolò la promulgazione di misure legislative contro la reazione e la controrivoluzione”.
“Per la crescita dei fenomeni negativi nell’esercito ebbe parte fondamentale il gen. Prchlik, che dopo il gennaio 1968 passò dalla funzione di capo della Direzione politica centrale a quella di direttore della sezione del CC del Partito per il comando del lavoro di partito nell’esercito, nella pubblica sicurezza, nei tribunali e nelle procure”.
“La destra danneggiò soprattutto i nostri giovani… Si giunse allo scioglimento dell’Unione della gioventù cecoslovacca quale unica organizzazione che influiva sull’educazione politico-ideologica della gioventù nello spirito del marxismo-leninismo. In conseguenza dell’indecisione della presidenza del CC del Partito, le organizzazioni giovanili furono lasciate in mano alle forze controrivoluzionarie di destra”.
“Anche l’Opera di rinnovamento conciliare svolse una ampia attività al servizio del clericalismo politico combattente”.
E così via. Il documento Conclusioni tratte dallo sviluppo della crisi nel Partito e nella società dopo il XIII congresso del PCC, pubblicato dalla sezione propaganda del CC del PCC nel marzo 1971, da cui sono tratte le precedenti informazioni, conclude constatando la gravità della situazione: “Nell’agosto 1968 in Cecoslovacchia si è creata una situazione controrivoluzionaria esasperata, e il nostro paese si è trovato sull’orlo della guerra civile… La scelta fu o con la controrivoluzione, che con la reazione internazionale stava svolgendo la sua opera nefasta, oppure con le forze socialiste al fine di respingere la controrivoluzione e difendere la causa del socialismo”. Dunque: “L’ingresso delle truppe alleate in Cecoslovacchia il 21 agosto 1968 ha prevenuto un bagno di sangue e fu perciò l’unica decisione necessaria e corretta”.
La propaganda occidentale ha a lungo raffigurato l’intervento del Patto di Varsavia come una “invasione”, e tutt’ora lo spaccia per tale. In realtà furono gli stessi comunisti cecoslovacchi a chiedere l’intervento. Nell’agosto 1968, i dirigenti del PCC che più vivamente avvertirono il pericolo della controrivoluzione incalzante e che compresero il tradimento di Dubcek, inviarono a Breznev la seguente lettera:

“Egregio Leonid Il’ic (Breznev),

ci rivolgiamo a Lei con la seguente dichiarazione, consapevoli della grave responsabilità che ci assumiamo. Il nostro processo democratico iniziato a gennaio e fondamentalmente positivo, la correzione degli errori e delle colpe commessi nel passato e dell’intera guida politica della società, stanno via via scivolando dalle mani del comitato centrale del partito. La stampa, la radio e la televisione, che sono praticamente in balìa delle forze di destra, hanno influenzato l’opinione pubblica a tal punto che iniziano a inserirsi elementi ostili nella vita politica del nostro paese, senza che la società insorga. Creano ondate di nazionalismo e sciovinismo e suscitano la psicosi anticomunista e antisovietica. Il nostro collettivo – la gestione del partito – ha commesso una serie di errori. Non abbiamo saputo difendere e realizzare adeguatamente le norme marxiste-leniniste della vita di partito, soprattutto i principi del centralismo democratico. La gestione del partito non è più in grado di difendersi adeguatamente dagli attacchi contro il socialismo, non è in grado di organizzare una resistenza né ideologica né politica contro le forze di destra. La stessa esistenza del socialismo nel nostro paese è minacciata. Gli strumenti politici e di governo sono già in una certa misura paralizzati. Le forze di destra hanno creato condizioni favorevoli per il colpo di Stato controrivoluzionario. In questa situazione ci rivolgiamo a voi, comunisti sovietici, rappresentanti guida del PCUS e dell’URSS, chiedendovi di appoggiarci ed aiutarci efficacemente con tutti i mezzi a vostra disposizione. Solo con il vostro aiuto si può salvare la Cecoslovacchia dal pericolo minaccioso della controrivoluzione. Ci rendiamo conto che per il PCUS e per l’URSS questo passo estremo per la difesa del socialismo in Cecoslovacchia non è semplice. Per questo lotteremo con tutte le forze e con tutti i nostri mezzi. Nel caso in cui le nostre forze e possibilità si esaurissero o non ottenessero risultati positivi, considerate questa nostra dichiarazione come una richiesta urgente di un’azione e di aiuto generale da parte vostra. Tenendo conto della complessità e della pericolosità della situazione nel nostro paese vi chiediamo il massimo riserbo in merito alla nostra dichiarazione. Per questo vi abbiamo scritto direttamente in russo”.

Firmato: Indra, Kolder, Kapek, Svestka, Bil’ak

Per non mostrare debolezza e non fornire ai controrivoluzionari ulteriori pretesti per l’agitazione nazionalistica, i firmatari della lettera agirono in segreto e chiesero all’URSS di mantenere la riservatezza. Dal canto loro, i sovietici, nel tentativo di mettere a tacere le calunnie dei nemici del socialismo a proposito della presunta “invasione”, scrivevano sulla Pravda nello stesso mese: “Dirigenti di partito e di Stato della repubblica socialista cecoslovacca si sono rivolti all’URSS e agli altri paesi alleati, chiedendo di fornire al popolo cecoslovacco fratello un aiuto immediato, anche con l’ausilio delle forze armate… Le misure intraprese non sono dirette contro lo Stato… Esse servono alla pace e sono dettate dalla preoccupazione di rafforzarla”. Tuttavia, per rispettare la volontà dei dirigenti cecoslovacchi, la loro dichiarazione non fu esplicitamente menzionata.
L’intervento delle truppe del Patto di Varsavia stroncò una controrivoluzione che avrebbe potuto avere conseguenze potenzialmente disastrose, quali la restaurazione del capitalismo in Cecoslovacchia, la creazione di un avamposto borghese incuneato al centro del campo socialista, il probabile scoppio di un conflitto armato con la NATO, un danno oggettivo alla causa del movimento comunista mondiale. Sottolineo quest’ultimo aspetto, che è uno dei problemi fondamentali affrontati dalla Dottrina Breznev. Scrive il teorico marxista S. Kovalëv, poco dopo l’intervento del Patto di Varsavia: “Non possiamo ignorare le affermazioni, tenutesi in alcuni luoghi, che le azioni dei cinque paesi socialisti siano in contrasto con il principio marxista-leninista della sovranità e dei diritti dei popoli all’autodeterminazione. L’infondatezza di un tale ragionamento consiste principalmente in quanto si basa su un approccio astratto e non di classe, alla questione della sovranità e dei diritti dei popoli all’autodeterminazione. I popoli dei paesi socialisti e i partiti comunisti certamente hanno e dovrebbero avere la libertà di determinare le modalità di avanzamento dei loro rispettivi paesi. Tuttavia, nessuna delle loro decisioni dovrebbe danneggiare o il socialismo nel loro paese o gli interessi fondamentali degli altri paesi socialisti, e di tutto il movimento operaio, che lavora per il socialismo” (La sovranità e i doveri internazionali dei paesi socialisti, “Pravda”, 26 settembre 1968).
Il concetto fondamentale è chiaro: ogni partito comunista può muoversi liberamente, in accordo con le particolarità nazionali del proprio scenario d’azione, ma non deve violare le leggi generali dell’edificazione socialista, poiché ciò significherebbe abbandonare il socialismo, incamminarsi sulla via del capitalismo. La restaurazione del capitalismo in un paese socialista rappresenta una danno sia per il proletariato del paese stesso, sia per il movimento comunista mondiale, che si vede così privato di uno dei suoi reparti. Dalla teoria leninista-staliniana del socialismo in un solo paese sappiamo infatti che la vittoria del socialismo in un paese può ritenersi definitiva soltanto qualora il socialismo abbia trionfato in una serie di altri paesi limitrofi, i quali lo proteggano dai tentativi di aggressione militare da parte dei paesi capitalistici. Con la vittoria della controrivoluzione in Cecoslovacchia, il campo capitalista avrebbe raggiunto i confini dell’URSS, ed anche quelli della Polonia.
Nelle già citate Conclusioni tratte dallo sviluppo della crisi nel Partito e nella società dopo il XIII congresso del PCC si legge: “Fra i valori costanti e immutati del socialismo vi sono:
- Il ruolo guida della classe operaia e della sua avanguardia, il Partito comunista;
- la funzione dello stato socialista come metodo della dittatura del proletariato;
- l’ideologia marxista-leninista e la sua applicazione tramite tutti gli strumenti di influsso sulle masse;
- la proprietà comune socialista dei mezzi di produzione e i principi della gestione pianificata dell’economia nazionale;
- i principi dell’internazionalismo proletario e la loro conseguente realizzazione in politica estera, specialmente in rapporto all’URSS”.
Questi principi furono violati dai revisionisti. Per esempio, durante il IV Congresso degli scrittori cecoslovacchi (27-29 giugno 1967), Ludvík Vaculík giunse ad affermare: “Questo congresso non si è tenuto quando lo hanno deciso i membri di questa organizzazione, ma quando il «padrone» ha amabilmente concesso la sua approvazione. In compenso egli si aspetta che renderemo omaggio alla sua dinastia. Propongo di non rendergli omaggio”. Il «padrone», ovviamente, era il partito.
Lo stesso autore, nel manifesto delle Duemila parole, scrisse: “L’inganno maggiore” era stato che mentre “molti operai credevano di governare”, in realtà “governava in loro nome uno strato particolarmente istruito di funzionari di partito e statali”. Questi funzionari “avevano preso il posto della classe rovesciata, diventando i nuovi signori”. Dunque, negazione del ruolo guida del partito e denigrazione della dittatura del proletariato, nel più classico stile trotskista.
Già nel 1963, l’economista Radoslav Selucky, sulle pagine della rivista Kulturní tvorba, criticava il «culto del piano», pronunciandosi a favore della decentralizzazione, sul modello jugoslavo.
La propaganda contro l’URSS e gli altri paesi socialisti poté liberamente imperversare nella rete dei mezzi di comunicazione, a causa del controllo di quest’ultima da parte dei revisionisti (il direttore generale della TV di Praga Pelikan e altri), suscitando vive proteste da parte dei partiti fratelli. Lo stesso Breznev, in una conversazione telefonica con Dubcek il 13 agosto 1968, si lamentò della situazione: «Negli ultimi due o tre giorni i vostri giornali hanno pubblicato calunnie contro l’Urss e gli altri partiti fratelli. I miei compagni del Politburo insistono per mandare una nota di protesta e io non posso trattenerli dal farlo».
Tale era la situazione creatasi in Cecoslovacchia, che indusse i sinceri comunisti a chiedere aiuto all’URSS.

Per una compiuta analisi della questione, vedi le più volte menzionate Conclusioni tratte dallo sviluppo della crisi nel Partito e nella società dopo il XIII congresso del PCC (www.charta77.org/pdffiles/Pouceni1971.pdf; il sito che le ha pubblicate è anticomunista, quindi non si faccia caso agli insulti e alle stupidaggini borghesi proferite qua e là) e anche l’articolo di Massimo Ciusani Agosto 1968 – Agosto 2008: il pericolo di destra nei partiti comunisti (www.resistenze.org/sito/te/cu/st/cust8i04-003621.htm).

Afghanistan.

Così il compagno Enrico Vigna descrive il sorgere della controrivoluzione nel paese, dopo l’ascesa al potere del PDPA:

«Da quel momento si formarono le prime bande (spesso tribali o di clan) e i primi campi di controrivoluzionari nel Pakistan: già nei primi mesi 1979 nella regione di Peshawar c’erano venti campi e una cinquantina di basi in cui erano concentrati fino a 30.000 uomini, finanziati, armati e foraggiati dal Congresso americano. A marzo-aprile del 1979 la controrivoluzione assaltò la città di Herat con bande provenienti dal vicino Pakistan con la complicità dello stesso esercito pakistano. Il leader di queste prime bande era S. Mojaddadi, riparato in occidente già nel luglio 1978. Il tentativo fallì, l’esercito e le milizie popolari respinsero l’aggressione. Il rappresentante del Dipartimento di Stato degli Usa W. Christopher in visita in Pakistan nell’estate 1979, invitò alla formazione di un governo in esilio e all’unione dei rivoltosi, garantendone il riconoscimento degli Stati Uniti. Nel frattempo in Pakistan cominciarono ad arrivare navi con armi e munizioni. Gli Usa cercarono per un po’ di negare il loro coinvolgimento, ma furono traditi dall’ex-presidente dell’Egitto Sadat: nel settembre 1981 parlando alla televisione fu preso improvvisamente da uno slancio di sincerità e dichiarò: “… vi rivelerò un segreto. Appena cominciò la lotta nell’Afghanistan, gli Stati Uniti stabilirono contatti con me per fornire armi all’opposizione afgana dal Cairo su aerei americani…”. [TV Egiziana, settembre 1981]

Così cominciò l’intervento e l’ingerenza straniera e il calvario del popolo afgano che dura ancora oggi: fondamentale sottolineare che tutto questo avveniva quando di truppe sovietiche in Afghanistan non c’era nemmeno l’ombra. Dopo i fatti di Herat il governo afgano sulla base del punto 7 del Trattato Sovietico-Afghano di amicizia, buon vicinato e collaborazione richiese più volte aiuto all’Unione Sovietica, la quale pur solidarizzando con il governo afgano non prese decisioni immediate, valutando ponderatamente la situazione nell’insieme e sollecitando fermamente l’ONU a fermare le attività di questi gruppi fuorilegge e armati.

Nel suo libro di memorie “Dalle ombre”, l’ex direttore della CIA, R. Gates scrive che i Sevizi segreti americani cominciarono a fornire aiuti alla controrivoluzione sei mesi prima dell’intervento sovietico [R. Gates, "From thè Shadows"]. Confermato dallo stesso Brzezinski, che all’epoca era Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Carter, in un intervista al “Le Nouvel Observateur”; alla faccia dei nostri intelligentoni leaders della sinistra nostrana, creduloni e storicamente puntualmente disponibili (… ultimo esempio la Jugoslavia… ) a recepire e fare proprie le versioni che poi, immancabilmente si dimostrano direttive e progetti targati CIA, serenamente ammessi (perlomeno negli ultimi cinquant’anni). In questa intervista egli ammette tranquillamente: “… la versione ufficiale della CIA fu che gli aiuti ai mujaheddin cominciarono durante il 1980, dopo l’intervento sovietico del 24 dicembre 1979, ma la realtà… è completamente diversa: infatti fu il 3 luglio 1979 che il presidente Carter firmò la prima direttiva per aiuti segreti all’opposizione del regime prò-sovietico di Kabul… Quando i sovietici giustificarono il loro intervento per contrastare il coinvolgimento segreto degli Stati Uniti in Afghanistan, l’opinione pubblica non gli credette…”».

(Enrico Vigna, Afghanistan ieri e oggi)

Durante un colloquio a Mosca il 20 marzo 1979, il primo ministro sovietico Kossighin disse a Taraki: «Noi crediamo che sarebbe un errore fatale mandare le nostre truppe in Afghanistan. Se ci entrassero la situazione non migliorerebbe. Anzi, peggiorerebbe. Le nostre truppe dovrebbero combattere non solo con dei nemici esterni, ma anche con una parte della popolazione».
I sovietici erano ben consapevoli dei rischi derivanti da un loro intervento in Afghanistan. Taraki aveva avuto, due giorni prima della riunione di Mosca, una conversazione telefonica con Kossighin (http://publishing.cdlib.org/ucpressebooks/...d=&brand=eschol), al quale aveva richiesto l’invio di truppe sovietiche in Afghanistan, magari camuffate da unità afghane, che l’URSS prontamente fornì.
Nel luglio 1979 Taraki iniziò a chiedere l’invio di un grande contingente sovietico nel paese. I sovietici preferirono non intervenire immediatamente, ma erano sempre più preoccupati per i contrasti interni al PDPA. Breznev, in due incontri a Mosca (il 20 marzo e all’inizio di settembre 1979), aveva consigliato a Taraki di rimuovere Amin (fautore della linea avventurista e rivale di Taraki) dalla direzione, avvisandolo del pericolo di attentati organizzati da quest’ultimo. In settembre, Taraki tentò di affrontare Amin ma fu sconfitto e ucciso. Con la sua linea ultrasinistra, Amin favorì oggettivamente il proliferare della controrivoluzione, inimicò al partito ampi strati sociali. Indifferente ai suggerimenti del generale sovietico Viktor Paputin di attuare una politica meno estremistica, Amin era probabilmente un agente americano, incaricato di destabilizzare il paese attraverso una politica ultrasinistra, secondo uno schema già collaudato da tempo (vedi Ezov).
Fu solo quando tutto ciò fu chiaro, che i sovietici intervennero direttamente in Afghanistan, contrariamente alla propria decisione iniziale. Immediatamente gli USA si mossero contro l’URSS, supportati dalla Cina di Deng (non più maoista). «L’aggressione cinese al Vietnam, la decisione della Nato di iniziare una nuova fase nella corsa agli armamenti con l’installazione di nuovi missili nucleari in Europa, la concentrazione di un formidabile apparato militare americano intorno all’Iran, l’addestramento e l’invio nell’Afghanistan democratico di gruppi armati… non sono fenomeni isolati, ma anelli di un’unica catena», diceva Mikhail Suslov nel suo discorso al VIII Congresso del POUP, il 13 febbraio 1980.
Nonostante il conflitto armato, il governo del PDPA ottenne numerosi successi sul fronte economico, come illustrato dal compagno Vigna:

“I risultati della rivoluzione dal 1980 al 1985, nonostante la controrivoluzione:

Costruiti due impianti per l’estrazione del gas, che alla fine dell’85 avranno portato all’esportazione di gas, pari al 40% dell’affluenza di valuta del paese.

Produzione nazionale lorda: aumentata del 13%
Produzione dell’energia elettrica: aumentata del 61%.
Produzione del settore statale: aumentata del 47%.
Produzione del settore industriale: aumentata del 25%.
Costruiti 100 impianti industriali (uguale al 70% del bilancio dell’entrate del paese) comprese dighe, centrali elettriche e 1600 Km di strade.
Artigianato, con 296.000 lavoratori: ha una produzione di 14,450 miliardi di afgani.
Produzione di pellicce Astrakan: raggiunge l’8% del volume del commercio del paese.
Produzione dell’energia elettrica: aumenta del 48%.
Produzione di gas: aumentata del 10%.
Produzione della farina: aumentata del 60%.
Produzione del cemento: aumentato dell’I 1%.
Produzione di carne: aumentata del 17%.
Alfabetizzati 1.380.000 uomini e donne.
Formazione di 80.000 operai specializzati.

All’interno della campagna per l’alfabetizzazione formati 20 corsi speciali per lavoratori nell’orario di lavoro. La fabbrica di scarpe Akho e l’azienda Melli Bass sono state le prime aziende ad avere i lavoratori completamente alfabetizzati.

Produzione di agrumi: raggiunge le 2.000 tonnellate (con un valore di valuta importata di 800.000 dollari).

Media dei salari: aumentata del 2,4%.

Nel 1978 nel paese esistevano 30 scuole materne. Nel 1985 ce n’erano 309.

Ospedali e ambulatori aumentati del 92%.

Posti letto ospedalieri: aumentati dell’80%.

Medici specialisti: aumentati del 70%.

La fabbrica tessile Ensafi raggiunge la produzione di 2500 metri di materiale al giorno (media europea).

L’84% della popolazione viveva in campagna. All’interno della riforma agraria e dell’acqua furono redistribuiti 810.000 ettari di terra a contadini senza terra o con poca terra, furono stanziati dal governo 60 milioni di dollari di crediti a tasso zero per i contadini e le cooperative, 647.000 contadini aderirono a forme cooperative. Furono cancellati tutti i debiti contratti prima della rivoluzione a 760.000 famiglie contadine.

Nel 1985:
- la produttività nelle campagne ebbe un incremento del 78%;
- solo nei primi tre mesi dell’85, 910.000 nuovi ettari furono coltivati a cotone;
- ci fu un aumento del 40% in più di famiglie che ottennero la terra;
- l’esportazione della produzione della cooperativa Busti di uva afgana raggiunse 900.000 dollari.
Realizzazioni in cooperazione con l’URSS:
- centrale idroelettrica Naglu (produzione -100.000KW);
- fabbrica di azoto Mazar I Sharif (produzione 150.000 carbammidi all’anno);
- autofficina Dzhangalk;
- stabilimento prefabbricati edilizi di Kabul;
- Politecnico di Kabul;
- 5 istituti tecnici;
- 11 scuole professionali;
- 1 stazione spaziale chiamata LOTOS per le comunicazioni satellitari;
- 1 ponte sul Amudarja;
- 2 fabbriche per la panificazione e produzione di cibi in scatola.

Nel 1985 furono costruite 5.600 case, pari a 610.000 mq abitativi, 28 scuole, 6 asili, 40 biblioteche, 19 scuole di musica (musica afgana, indiana, orientale ed europea).”

(Enrico Vigna, Afghanistan ieri e oggi)

Purtroppo l’arrendevolezza di Gorbaciov pose fine a questo periodo di grande sviluppo della nazione afghana, facendola precipitare nel caos che ancor oggi pervade il paese.

Polonia.

Nel 1981 la situazione in Polonia era “oltremodo difficile” e “preoccupante”, come la descrisse Jaruzelski.
“Il Partito è molto debole, 600-700mila membri fanno ormai parte di Solidarnosc, si sta corrompendo, anche questo è comprensibile: una crisi dopo l’altra… La dirigenza si permette frodi. Di fronte alla popolazione ha poca autorità”.
“È apparso un altro elemento negativo: la Chiesa, che sta con Solidarnosc. Aveva già iniziato con Wyszynski. Glemp ha spedito lettere a me, a Walesa e ai deputati, scrive che l’introduzione dello stato d’emergenza ‘porterebbe alla tragedia’. Le lettere al parlamento e a Walesa finiranno ovviamente in Occidente. Se la Chiesa del resto appoggia Solidarnosc per noi la situazione sarà dura. Dovrò parlare di nuovo con Glemp. Abbiamo anche inviato il nostro rappresentante dal Papa, domani mi incontro con i cattolici” (filosocialisti).
“Nella nostra storia ogni 30 anni scoppia una rivolta… il 14 dicembre cade l’anniversario degli avvenimenti del Baltico”.
E così di seguito. I brani sopra riportati sono tratti dagli appunti del generale Anoskin, aiutante di campo del Maresciallo Viktor Kulikov, comandante in capo delle forze del Patto di Varsavia dal 1977 al 1989; in particolare, le citazioni di Jaruzelski risalgono al colloquio con Kulikov dell’8-9 dicembre 1981 (il cui recosonconto è consultabile sul solito sito anticomunista: www.charta77.org/documenti/jaruzelski.htm).
I sovietici, consapevoli della gravità della situazione, avevano predisposto piani di intervento fin dall’estate del 1980, al fine di essere pronti a soddisfare una eventuale richiesta d’aiuto del POUP:

Documento
FASCICOLO SPECIALE
Segretissimo
Copia N.
Al CC del PCUS

La situazione nella Repubblica Popolare Polacca rimane tesa. Il movimento di sciopero sta operando su scala nazionale.
Prendendo conto della situazione che emerge, il Ministero della Difesa chiede il permesso, in un primo momento, di portare 3 divisioni corazzate (una nel Distretto Militare Baltico, 2 nel Distretto Militare Bielorusso) e una divisione meccanizzata (nel Distretto Militare Transcarpatico) alla piena prontezza di combattimento per le 6.00 di sera del 29 agosto per formare un gruppo di forze in caso di assistenza militare alla Repubblica Popolare Polacca.
Per riempire queste divisioni, sarà necessaria la requisizione dall’economia nazionale di fino a 25000 militari riservisti e 6000 veicoli, inclusi 3000 per sostituire i veicoli presi da queste truppe per aiutare da fuori col raccolto. Senza i veicoli addizionali, le divisioni non possono portare le loro riserve mobili alla piena prontezza. La necessità di riempire le divisioni a spese delle risorse dell’economia nazionale sorge perché queste sono mantenute ad un livello ridotto in tempo di pace. Il riuscito adempimento dei compiti durante l’ entrata di queste divisioni nel territorio della Repubblica Popolare Polacca costringe ad essere stabiliti piani per combattere 5-7 giorni prima.
Se la situazione in Polonia si deteriora ulteriormente, noi vogliamo che si debba anche riempire da fuori le divisioni costantemente pronte dei Distretti Militari Baltico, Bielorusso e Transcarpatico al livello di tempo di guerra. Se le principali forze dell’Esercito Polacco se ne vanno verso la parte delle forze controrivoluzionarie, noi dobbiamo aumentare il gruppo delle nostre forze di altre 5-7 divisioni. Per questi fini, al Ministero della Difesa dovrebbe essere permesso di progettare il richiamo di tanti quanti 75000 militari riservisti addizionali e 9000 veicoli addizionali.
In questo caso, vorrebbe dire, che un totale di fino a 100000 militari riservisti e 15000 veicoli dovrebbe poter essere requisito dall’economia nazionale.
La bozza della stessa direttiva al CC del PCUS è legata.

Firmato da
M. Suslov, A. Gromyko, Yu. Andropov, D. Ustinov, K. Chernenko
28 agosto 1980
N. 682 – op. (3 pagine)


Nel febbraio 1981, al XXVI Congresso del PCUS, Leonid Breznev aveva ribadito: “Non lasceremo andare la Polonia verso la catastrofe.”
La richiesta d’aiuto dei comunisti polacchi, che fin dal marzo 1981 avevano informato i sovietici della loro decisione di imporre la legge marziale, non tardò ad arrivare. Traggo ancora dal diario di lavoro di Anoskin una parte del resoconto di Jaruzelski a Kulikov, risalente allo stesso colloquio:
“Gli operai nelle fabbriche potrebbero scioperare, li comanda Solidarnosc, il Partito nelle fabbriche non sarebbe in grado di agire. Tuttavia gli scioperi per noi sono la variante migliore: gli operai rimarrebbero sul posto, sarebbe peggio se uscissero dalle fabbriche e cominciassero a devastare le sedi di Partito, organizzare manifestazioni di piazza, ecc. Se questo accadesse in tutto il paese, voi sovietici dovreste aiutarci. Non riusciremmo a sbrigarcela da soli contro milioni di persone. Agiremmo con lo slogan ‘Difendere la patria’, e in questa situazione l’esercito dispone di ogni autorizzazione. È uno slogan politico; si potrebbe convocare un comitato militare-rivoluzionario. Abbiamo scelto questo slogan in modo che non sia il Partito ad apparire in primo piano, perchè non gode di molta popolarità fra la popolazione”.
Quindi, nelle sue recenti dichiarazioni pubbliche, quando sosteneva, con la legge marziale, di aver salvato la Polonia dall’intervento sovietico, Jaruzelski mentiva: era stato lui stesso a chiedere aiuto al Patto di Varsavia, in caso di necessità. In effetti, la situazione militare non era delle migliori: l’area urbana di Katowice, per esempio, “ha circa 4 milioni di abitanti, come tutta la Finlandia, ma l’esercito, a parte le divisioni antiaeree, non c’è sul posto”, riferì Jaruzelski. Chiedendo ancora l’aiuto sovietico, egli disse ancora: “è inverno, l’Occidente mantiene le sanzioni economiche, abbiamo bisogno di aiuti economici; capisco che per nessuno di noi sia facile, ma non sarebbe poi un grande sforzo. E sarebbe peggio se la Polonia finisse fuori dal Patto di Varsavia”. Il Maresciallo V. Kulikov acconsentì ad avviare l’operazione Scudo 81 (intervento del Patto di Varsavia in Polonia), se i comunisti polacchi non avessero avuto forze sufficienti a mantenere il controllo di tutto il paese, ma si disse fiducioso del fatto che i polacchi avrebbero vinto “contro quel pungo di controrivoluzionari” contando sulle proprie forze.
Fortunatamente, gli eventi si mossero nella direzione pronosticata da Kulikov, con il successo del piano di Jaruzelski. L’instaurazione della legge marziale assestò un notevole colpo alle forze controrivoluzionarie, consentendo di riportare l’ordine nel paese, ma non risolse i problemi più profondi. I dirigenti polacchi, come quelli romeni, avevano infatti commesso l’errore di servirsi indiscriminatamente di crediti occidentali; sfruttando questa circostanza, i paesi capitalistici occidentali strangolarono il paese incrementando i tassi d’interesse e minacciando (ed attuando) sanzioni economiche quando il partito contrattaccava alle azioni di Solidarnosc. Questo errore fu fatale per la Polonia socialista, e i sovietici ne erano consapevoli.
L’appoggio dell’URSS alla Polonia non era un sostegno acritico. Anzi, il 14 aprile 1981, parlando al X Congresso della SED, con una trasparente allusione alla situazione polacca, Suslov affermò che «soltanto la rigorosa e conseguente applicazione degli insegnamenti del marxismo-leninismo garantisce il trionfo degli ideali socialisti, non esistendo nessuna altra via, mentre ogni deviazione conduce a conseguenze nefaste». Lo stesso Suslov, poco tempo dopo, si recò personalmente in Polonia, per aiutare gli elementi sani del POUP a riprendere in mano la situazione e a correggere gli errori del passato.
Il giorno precedente, il giornalista sovietico Lessoto scriveva: «C’è della gente, dentro il POUP, che vorrebbe approfittare delle discussioni per imporre dei punti di vista estranei al marxismo-leninismo con lo scopo di mascherare atteggiamenti da rinnegati con ambigue frasi sul pluralismo ideologico e sulla partnership fra forze politiche diverse» (Comunisti della Warel, “Pravda”, 13 aprile 1981).

Poscritto.

Alcuni dati supplementari sul coinvolgimento dell’Occidente capitalista nella vicenda cecoslovacca, nella quale ebbero un ruolo preminente le organizzazioni sioniste:

“Al congresso degli scrittori riuniti a Praga il 29 giugno 1967, numerosi oratori criticano la politica del governo: Pavel Kohout confronta il destino di Israele a quello della Cecoslovacchia dopo gli accordi di Monaco; il romanziere Jan Procházka, membro supplente del Comitato centrale ed ex confidente di Novotný, dà lettura di una lettera indirizzata alla direzione del partito in cui si protesta contro la campagna anti-israeliana. Qualche settimana dopo il congresso, il romanziere di lingua slovacca M?a?ko parte per Israele e denuncia sulla stampa occidentale il servilismo e le tendenze antisemite e regressive del governo di Praga” (François Fejtö, Storia delle democrazie popolari dopo Stalin, Firenze 1971, p. 255).

Il principale esponente delle organizzazioni sioniste in Cecoslovacchia fu Eduard Goldstücker. Diamo un’occhiata alle sue attività:

“Parlava spesso alla radio e alla televisione, sollecitava la ‘purificazione’ e la ‘rinascita’ del Partito, cercava di accaparrarsi le simpatie degli scrittori, degli artisti, dei giornalisti e di quanti operavano nel campo della cultura, diventava membro di vari consigli e comitati, società commissioni. Più tardi apparvero furtivamente e circolarono per Praga le voci di una sua… presunta possibile elezione alla carica di… presidente della repubblica cecoslovacca. I sionisti sapevano che Goldstücker non avrebbe potuto conseguire tale onore, ma ne spargevano la voce: voci del genere erano quanto mai utili per alimentare artificialmente il suo prestigio. È chiaro che un ‘possibile presidente’ viene ascoltato con attenzione e rispetto” (Ibidem).

Così scrive di lui la “Pravda” slovacca, dopo il suo smascheramento: “Sotto la sua guida, l’Unione degli Scrittori ha fatto a poco a poco della controrivoluzione il proprio punto di riferimento e la propria posizione ideologica (…). Con la diretta partecipazione di Goldstücker sono stati pubblicati ampi brani del trotzkista e rinnegato Isaac Deutscher, che è stato presentato ai lettori come un eminente marxista”.

Goldstücker era già stato condannato all’ergastolo nel 1951, all’epoca di Gottwald e Stalin, per alto tradimento, spionaggio e conspirazione contro il socialismo. Riabilitato dai kruscioviani nel 1955, ebbe un ruolo fondamentale negli eventi degli anni Sessanta. Fu anche grazie alla sua azione che Zbignew Brzezinsky, ideologo dell’imperialismo americano, potè recarsi a Praga per tre anni consecutivi e tenervi conferenze anticomuniste. E che cosa fecero i revisionisti quando stavano per essere schiacciati dall’intervento del Patto di Varsavia? Chiesero aiuto all’imperialismo occidentale:

“O. Sik, che dal 21 agosto 1968 soggiornava con un gruppo di ministri – esponenti della destra – a Belgrado, incaricò illegalmente J. Hajek di recarsi all’ONU. Hajek partecipò così al dibattito sulla cosiddetta questione cecoslovacca al Consiglio di sicurezza, che fu imposta all’ordine del giorno dalle potenze occidentali. Hajek fece un intervento antisovietico raffinato, nonostante gli fosse stato trasmesso l’avvertimento categorico del presidente della repubblica, del governo e del CC del Partito di non andare a New York e di non intervenire al Consiglio di sicurezza”.
(Conclusioni tratte dallo sviluppo della crisi nel Partito e nella società dopo il XIII congresso del PCC)

Questo dovrebbe fugare ogni ulteriore dubbio sul ruolo delle organizzazioni sioniste e dello spionaggio occidentale. Si sosteneva, a ragione, nell’URSS brezneviana:

Il sionismo costituisce un impero invisibile, enorme e potente di finanzieri e industriali, un impero che non si trova indicato su alcuna carta geografica del globo, ma che opera ovunque si estenda il campo capitalista.
(“La grande cospirazione internazionale”, dalla “Komsomolskaja Pravda” del 4 ottobre 1967)

Ulteriore documentazione sulla questione polacca: www.resistenze.org/sito/te/po/pl/popl7d05-001310.htm, http://archiviostorico.corriere.it/1992/fe...021815573.shtml.

Fonti.

http://archivio.unita.it/

http://it.wikipedia.org/

www.instoria.it/

www.charta77.org/

http://murruemanuele.blogspot.it/

www.claudiomutti.com/index.php?url=6&id_news=50

www.aginform.org/libro.html

http://andreafais.wordpress.com/2010/04/13...-guerra-fredda/

Edited by Andrej Zdanov - 16/8/2013, 22:07
view post Posted: 9/3/2013, 23:22 Lenin e la teoria marxista dell’imperialismo - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy ekonomiki», rivista teorica dell’Istituto di Economia dell’Accademia delle scienze dell’URSS, n. 4, 1952:


Lenin e la teoria marxista dell’imperialismo


Lenin, come si sa, ha sviluppato e arricchito grandemente la teoria marxista nel suo insieme e l’economia politica marxista in particolare. E una delle pietre angolari della scienza economica marxista-leninista è rappresentata dalla teoria dell’imperialismo, profonda ricerca scientifica della fase superiore e ultima dello sviluppo del capitalismo, la sua fase monopolistica.
Nel suo geniale lavoro «Imperialismo, fase suprema del capitalismo» Lenin si richiama al «Capitale» di Marx, in cui, con una precisa e accurata analisi teorica e storica del capitalismo, viene dimostrato che la libera concorrenza genera necessariamente la concentrazione della produzione e che quest’ultima, a un certo grado del suo sviluppo, conduce al monopolio.
Sulla base dell’evoluzione delle forze produttive e dei rapporti di produzione del capitalismo, infatti, – che avviene in conformità con le leggi economiche scoperte da Marx e da Engels, – nel corso dell’ultimo terzo del XIX e agli inizi del XX secolo, nella vita della società capitalistica sorse ed ebbe gradualmente ad assumere un rilievo decisivo tutta una serie di nuovi fenomeni quali le unioni monopolistiche dei capitalisti, che ebbero subito ad occupare una posizione dominante nella vita economica dei vari paesi capitalistici. Il dominio dei monopoli, poi, coinvolse non soltanto l’industria, ma anche l’attività bancaria, con il che le banche presero a svolgere un ruolo sostanzialmente nuovo rispetto al precedente periodo premonopolistico; tant’è che, accanto ad una crescita dell’esportazione delle merci, sorse ed assunse un grande rilievo la esportazione dei capitali. Le unioni internazionali dei monopolisti presero allora a dividere economicamente il mondo, mentre in seguito le conquiste coloniali delle potenze imperialistiche portarono a compimento la sua spartizione territoriale in sfere d’influenza.
Il passaggio dalla libera concorrenza ai monopoli ha rappresentato un fenomeno che è indissolubilmente legato al processo di diffusione dei rapporti capitalistici sull’intero globo terrestre. Nel suo principale lavoro e negli scritti ad esso preparatori Marx, con grande perspicacia, rilevò – come egli si espresse, – l’enorme e dirompente «forza propagandistica» del capitale, con la quale egli intendeva la capacità del capitalismo, a differenza dei precedenti modi di produzione, di conquistare rapidamente un paese dopo l’altro. Tuttavia, se con il passaggio all’imperialismo venne a formarsi un unico sistema economico capitalistico mondiale, questo, però, non significò affatto che il capitalismo fosse diventato un sistema economico che coinvolgeva l’intera umanità. E questo perché a un tale ruolo il capitalismo, per sua stessa natura e dato il tipo spontaneo e anarchico del suo sviluppo sulla base della proprietà privata sui mezzi di produzione, non è in grado di giungere. Un capitalismo «puro» non è mai esistito e nemmeno potrà mai esistere, perché i rapporti capitalistici – sia pure nell’ultimo stadio di sviluppo del sistema borghese, – inevitabilmente si combinano con un enorme mare di forme economiche precapitalistiche.
Questi sostanziali mutamenti nella vita economica e politica dei paesi capitalistici crearono una nuova situazione anche per la lotta di classe del proletariato per il socialismo.
Infatti, per realizzare la sua grande missione storica – l’abbattimento del capitalismo e la costruzione di una società socialista, – la classe operaia doveva, d’ora in poi, essere armata della conoscenza non soltanto delle leggi di sviluppo del capitalismo in generale, ma anche delle specifiche leggi del suo stadio monopolistico: l’intero complesso dei nuovi fenomeni che lo caratterizzano richiedeva imperiosamente dai marxisti una sua rigorosa e precisa analisi scientifica.
Lottando contro l’opportunismo della 2a Internazionale, Lenin sollevò allora in alto la bandiera di un marxismo creativo e attivo, in grado di evolversi efficacemente in relazione ai mutamenti della situazione storica. Mentre gli opportunisti cercavano di aggrapparsi a singoli principi del marxismo ormai invecchiati per trasformarli in un dogma che disarmava la classe operaia nella sua lotta contro la borghesia, Lenin fece invece avanzare la teoria marxista e la arricchì con nuove e grandi scoperte. A lui appartiene infatti il merito storico della prima e più rigorosa analisi scientifica marxista dello stadio monopolistico del capitalismo e di aver scoperto con essa la legge dell’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico dei paesi capitalistici nell’epoca dell’imperialismo. Su questa legge, poi, si basa la nuova teoria della rivoluzione socialista che rigettò come invecchiati i precedenti principi del marxismo sorti nel periodo del capitalismo preimperialistico, quando i marxisti ritenevano che la vittoria del socialismo in un solo paese fosse impossibile, dovendo essa prodursi simultaneamente in tutti i paesi civilizzati. Sulla base dello studio del capitalismo imperialistico, invece, Lenin, partendo dalla teoria marxista, rovesciò questa impostazione come invecchiata e la sostituì con una nuova teoria della rivoluzione socialista che pose la questione del carattere del crollo del capitalismo su di un piano più concreto e pratico: dalla asincronia di maturazione della rivoluzione socialista nei vari anelli del sistema capitalistico mondiale ne derivò la conclusione che il crollo del capitalismo e la vittoria del socialismo si hanno mediante il consecutivo distacco dei singoli paesi dal sistema capitalistico.
E l’intera esperienza storica dello sviluppo mondiale del secolo odierno ha brillantemente confermato questa conclusione.
Una serie di rilevanti aspetti dello stadio monopolistico del capitalismo attrasse la viva attenzione di Lenin fin dagli inizi della sua attività rivoluzionaria, e in particolare dagli inizi del XX secolo. Ma il suo principale lavoro sull’imperialismo egli lo scrisse nel 1916, nel periodo cioè della prima guerra mondiale, quando la Russia stava maturando una grande rivoluzione popolare e il Partito comunista preparava la classe operaia all’assalto diretto contro il capitalismo.
Il lavoro di Lenin sull’imperialismo, però, vide la luce soltanto dopo la rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 in Russia. Nella sua prefazione, scritta già dopo la caduta dello zarismo, Lenin rivolge l’attenzione del lettore sulla circostanza che questa sua opera era stata scritta per essere pubblicata nelle condizioni della censura zarista, e che quindi fu costretto a limitarsi rigorosamente ad una analisi esclusivamente teorica – economica in particolare, – e a formulare le necessarie notazioni politiche con la più grande cautela e ricorrendo ad un linguaggio esopico. Da qui il suo rinvio del lettore agli articoli da lui stesso pubblicati negli anni 1914-1916 nella stampa estera di partito, quali sono «Il socialismo e la guerra», «L’imperialismo e la scissione del socialismo», gli articoli sull’«economismo imperialista» e sul diritto della nazioni all’autodeterminazione, «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa», «Il programma militare della rivoluzione proletaria», e tutta una serie d’altri articoli che sono parte inscindibile e integrante della ricerca di Lenin sull’imperialismo.
Sulla base di una profonda analisi teorica e storica dello sviluppo del capitalismo durante il mezzo secolo trascorso dalla comparsa del «Capitale» di Marx, Lenin giunse alla conclusione che, dopo la guerra franco-prussiana degli anni 1870-1871 e dopo la Comune di Parigi del 1871, il capitalismo era giunto ad una epocale sua svolta verso la decadenza.
Se Marx, nel «Capitale», oltre ad aver svelato le leggi generali di sviluppo del modo di produzione capitalistico, aveva dimostrato che lo sviluppo del capitalismo e la crescita delle sue contraddizioni creano le basi materiali per il futuro rivolgimento socialista, nonché le sue premesse soggettive – la classe operaia rivoluzionaria, – Lenin, da parte sua, e sulla base di una analisi marxista dell’imperialismo, ha svelato quali debbano essere, con il sorgere di sempre nuovi antagonismi, le concrete condizioni che consentono il maturare della rivoluzione socialista.
Se Marx ha rivelato il carattere specifico delle leggi economiche del capitalismo e ha stabilito la loro reciproca interazione e interdipendenza, Lenin, sottoponendo ad una circostanziata analisi scientifica i principali indizi economici dello stadio monopolistico del capitalismo, chiarì che il discorso non riguarda qui fenomeni eterogenei e disgiunti, non reciprocamente legati tra loro, ma un’unica catena di mutamenti che compongono un solo e indissolubile insieme.
Marx aveva dimostrato che il «capitalismo puro» è soltanto un’astrazione, e Lenin, sulla base di una precisa indagine del capitalismo monopolistico, giunse alla conclusione che un «imperialismo puro» non c’è mai stato e nemmeno può esserci. L’imperialismo, infatti, è impensabile senza una larga base di forme economiche premonopolistiche e perfino precapitalistiche, dato che esso è, a suo modo, una «sovrastruttura» sopra il vecchio capitalismo. I monopoli, nel crescere dalla libera concorrenza, non la eliminano affatto questa base, ma esistono al di sopra di essa e accanto ad essa, generando con ciò tutta una serie di contraddizioni, attriti e conflitti particolarmente acuti e aspri. Proprio questa congiunzione di «principi» l’un l’altro contraddittori – la concorrenza e il monopolio, – è essenziale per l’imperialismo, e proprio essa, come Lenin ha indicato, ne predispone il crollo e quindi la rivoluzione socialista.
L’analisi di Lenin dell’imperialismo, inoltre, ha arricchito lo stesso metodo della dialettica materialistica, e in particolare con un riguardo specifico all’economia politica. L’analisi scientifica delle categorie economiche del capitalismo monopolistico data da Lenin ha rivelato fino in fondo il reale contenuto dei processi che si hanno nella vita economica della moderna società borghese. Il logico sviluppo di tali categorie, nella teoria leninista dell’imperialismo, riflette il processo del loro sviluppo storico nella sua effettiva realtà e riproduce un enorme materiale storico-concreto. Ad ogni livello dell’analisi leninista la generalizzazione teorica si arricchisce e assorbe in sé sempre nuovi aspetti della realtà, divenendo così più ricca, concreta e pregnante.
Esito ultimo dell’analisi leninista dell’imperialismo è la seguente conclusione: «L’imperialismo è un particolare stadio storico del capitalismo. E questa particolarità è triplice: l’imperialismo è (1) – capitalismo monopolistico; (2) – capitalismo parassitario e imputridente; (3) – capitalismo morente». In tale definizione il posto storico dell’imperialismo è delineato con esauriente compiutezza, – l’imperialismo interviene quale vigilia della rivoluzione socialista del proletariato.
Marx aveva elaborato la sua teoria economica in aspra lotta contro l’apologetica borghese e la critica reazionaria piccolo-borghese del capitalismo, mentre Lenin mise a punto la teoria dell’imperialismo in decisa e inesorabile lotta sia contro gli aperti difensori dell’imperialismo, sia contro i nemici della classe operaia che si atteggiano a suoi amici. Tant’è che il fuoco principale della sua critica, o per così dire la sua artiglieria pesante, egli la concentrò sulla teoria di Kautski dell’imperialismo, ritenendola come il più pericoloso procedimento di dissimulazione della essenza reazionaria del capitalismo morente. La notevole perspicacia della valutazione di Lenin del kautskismo è stata poi brillantemente giustificata dal corso stesso della storia. Sulla posizione kautskiana di servilismo dinanzi alla borghesia si sono di fatto uniti tutti i nemici della classe operaia intervenuti sotto la maschera del socialismo nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Una originale versione, poi, dell’interpretazione kautskiana dell’imperialismo quale uno dei possibili aspetti della politica è l’odierna affermazione secondo cui il vecchio imperialismo sarebbe morto e relegato nel passato, mentre oggi esisterebbero soltanto sue sopravvivenze e la problematica scientifica ad esso relativa. Inoltre, e ancora di recente, un difensore del capitale monopolistico come il Perroux è intervenuto sulle pagine di riviste sia tedesche che americane proponendo di sostituire l’odioso concetto di imperialismo con il nuovo e più «neutrale» termine di «economia dominante».
Nel «Capitale» e in altri suoi lavori Marx, con ferrea logica, ha dimostrato che ogni chiacchiera sulla preservazione dei lati «buoni» del capitalismo e sulla rimozione di quelli «cattivi», come pure qualsiasi sogno su di un ritorno dal capitalismo ai rapporti patriarcali della piccola produzione mercantile, altro non sono che una utopia reazionaria e piccolo-borghese. Parimenti a ciò, l’analisi scientifica marxista di Lenin dell’imperialismo ha anch’essa inferto un colpo distruttivo ad ogni sorta di illusioni piccolo-borghesi e opportunistiche circa la possibilità di una presunta «riformazione» del moderno capitalismo monopolistico mediante la conservazione dei suoi lati «buoni» e l’eliminazione di quelli «cattivi»: ogni sogno o promessa reazionaria di voler ripulire il moderno capitalismo dalle sue piaghe e dai suoi vizi sono soltanto un inganno e una ciarlataneria. La teoria leninista dell’imperialismo, poi, ha anche denunciato le menzogne dei nemici della classe operaia riguardo a che l’onnipotenza dei monopoli porterebbe ad esimere il capitalismo da sue piaghe quali la concorrenza selvaggia, l’anarchia della produzione e le crisi devastanti. In realtà, invece, essa porta inevitabilmente non a un «capitalismo organizzato», come essi dicono, ma a un eccezionale aggravamento dell’anarchia e del caos dell’intera produzione capitalistica, ad un inasprimento senza precedenti della lotta di concorrenza, ad un enorme accrescimento della forza distruttiva delle crisi economiche, nonché ad una continua crescita della miseria e della precarietà di esistenza delle masse popolari.
Il passaggio dal capitalismo premonopolistico all’imperialismo rappresentò un salto qualitativo entro i limiti della formazione socio-economica borghese predisposto dall’intero corso del suo sviluppo storico. Il dominio dei monopoli, come con grande forza Lenin ebbe a rilevare, inasprisce la contraddizione fondamentale del capitalismo fino al suo limite estremo.
Certo: imperialismo significa anche gigantesca crescita della socializzazione della produzione; ma sta di fatto che questa socializzazione si svolge nella forma antagonistica della appropriazione privata. E, come Lenin scrisse, nell’epoca dell’imperialismo il monopolio, che si crea in alcuni settori dell’industria rafforza e inasprisce il caos che è proprio dell’intera produzione capitalistica nel suo insieme, il che lascia il suo marchio indelebile su tutti gli aspetti del capitalismo monopolistico. Insomma, il giogo di alcuni monopolisti sull’intera restante popolazione diventa cento volte più pesante, rilevante e sensibile. La socializzazione della produzione accanto all’enorme peso del capitale e lo smisurato potere di un pugno di affaristi finanziari che si intascano tutti i frutti del gigantesco sviluppo delle forze produttive sono il quadro reale e più vero dell’imperialismo.
Nei paesi capitalistici la concentrazione della produzione ha portato a una rapida crescita del numero, relativamente esiguo, delle grandi e grandissime imprese rispetto alle quali milioni di piccole aziende svolgono un ruolo sempre più subordinato e di secondo piano. La prima guerra mondiale diede una forte spinta alla concentrazione della produzione e del capitale, mentre tra la prima e la seconda guerra mondiale l’accresciuto imputridimento del capitalismo nelle condizioni della sua crisi generale è stato indissolubilmente legato ad una accelerata concentrazione nelle mani dei monopoli di una sempre maggiore quota della produzione sociale.
A questo hanno inevitabilmente portato l’eccezionale asprezza della lotta di concorrenza e l’estremo acuirsi del problema dei mercati di smercio e fornitura delle materie prime, oltre che una particolare asprezza e profondità delle crisi economiche. Poi, il cronico sottoutilizzo dell’apparato produttivo dell’industria dei paesi capitalistici, caratteristico della crisi generale del capitalismo, concorre altresì alla rapida rovina e caduta delle piccole e medie imprese, e allo sfacelo e all’assorbimento delle aziende meno solide e meno salde da parte di potenti trust e consorzi. Come pure, un altro importante fattore del rafforzamento dello strapotere e dell’oppressione dei monopoli nel periodo tra le due guerre è stato l’estremo inasprimento dell’ineguaglianza di sviluppo dei paesi capitalistici.
In misura ancor maggiore l’oppressione dei monopoli, nei paesi capitalistici, si è rafforzata a seguito della seconda guerra mondiale, la quale ha portato a un incorporamento di molte imprese piccole e medie e alla loro trasformazione in filiali dei grandi monopoli. Arricchendosi sul sangue di milioni di persone, i monopoli hanno incorporato una notevole quantità di imprese costruite negli anni della guerra a spese dell’erario, vale a dire a spese delle vaste masse dei contribuenti. è noto infatti che negli Stati Uniti le più grandi corporazioni del paese si sono intascate, e per niente, ben il 70% delle grandi imprese costruite con i mezzi dello Stato. Di tali concentrazioni, negli Stati Uniti, se ne contano oggi 250, ed esse controllano ben i due terzi delle possibilità produttive dell’industria di lavorazione del paese.
Se già nei primi decenni del XX secolo gli Stati Uniti si definivano come il paese dei trust, oggigiorno questa espressione è ancor più vera di allora. Nel 1901, infatti, soltanto quattro corporazioni industriali disponevano di un capitale di 200 milioni di dollari e più, mentre nel 1951 esistevano già 15 corporazioni industriali con un capitale che superava il miliardo di dollari, e più di 30 corporazioni con capitale superiore ai 500 milioni di dollari.
La concentrazione dell’attività bancaria, poi, porta inevitabilmente al sorgere di giganteschi monopoli bancari, e questa conclusione di Lenin è stata del tutto confermata dall’intero corso di sviluppo dell’economia capitalistica. Negli Usa a quota delle 20 maggiori banche è toccato nel 1900 il 15%, nel 1929 il 19%, nel 1939 il 27% e nel 1952 il 29% dei depositi presenti in tutte le banche statunitensi. In Inghilterra la somma dei bilanci delle cinque maggiori banche costituiva, nel 1900, il 28%, nel 1916 il 37%, nel 1929 il 73% e, nel 1952, il 79% dell’intera somma dei bilanci delle banche inglesi di deposito. E questo mentre in Francia, la quota di sole sei banche di deposito, nel 1952 spettò ben il 66% dei depositi di tutte le banche francesi.
Nell’opuscolo «Le corporazioni miliardarie», pubblicato a New York dall’Associazione operaia di ricerca, è data una precisa analisi del peso specifico che, nell’economia americana, hanno oggi le maggiori corporazioni con un attivo che supera il miliardo di dollari. Verso la fine del 1952 di tali corporazioni se ne contavano soltanto 66. «Queste 66 corporazioni – si osserva in questo opuscolo, – costituiscono una quota molto piccola (l’un per cento) del numero generale delle corporazioni, – che negli Usa è di più di 660 mila, – e tuttavia nel 1952 a queste 66 compagnie apparteneva ben il 28,3% degli attivi di tutte le corporazioni del paese.
Grazie poi al sistema della partecipazione le filiali d’impresa, con i loro legami finanziari, vengono a controllare più del 75% di tutti gli attivi delle corporazioni». Poi, la maggior parte di queste grandi associazioni del capitale è legata con uno o più dei gruppi finanziari principali della plutocrazia americana. La somma generale degli attivi degli otto maggiori gruppi finanziari degli Usa (Morgan, Rockfeller, Dupont e altri) assomma a ben 121,4 miliardi di dollari.
Gli economisti e i politici borghesi decantano tanto e in coro l’«iniziativa privata» e la cosiddetta «libertà d’impresa», e al tempo stesso sono costretti a riconoscere fatti irrefutabili che comprovano l’incontrastato dominio dei monopoli dinanzi al quale questi imperituri «beni» del capitalismo si sono ormai trasformati in una finzione. Curioso, per esempio, è il riconoscimento contenuto in una ricerca pubblicata di recente da una rivista economica americana, in cui si possono leggere le righe seguenti: «Molti americani che credono fermamente nel sistema dell’imprenditoria in condizioni di concorrenza e che mai hanno letto Marx temono ciò che egli ha predetto, e cioè che la concentrazione dell’organizzazione d’affari acceleri il disfacimento del capitalismo concorrenziale privato». Il giogo dei monopoli urta a tal punto i vitali interessi delle vaste masse della popolazione che i lacchè del capitale sono costretti a intraprendere tutti i possibili tentativi per negare, smussare o abbellire una realtà che è davvero poco o per nulla attraente: essi propongono perfino di non utilizzare termini quali «monopolio» e «oligarchia», e di sostituirli con la più vaga espressione di «oligopolio».
Gli avvocati della borghesia monopolistica, inoltre, parlano di «democratizzazione del capitale», di «capitalismo popolare» e di «democrazia industriale», cercando così di avvelenare la coscienza di classe di chi è storicamente deputato ad esserne l’esecutore testamentario e il becchino, – il proletariato rivoluzionario.
La legge economica fondamentale dell’imperialismo rappresenta la concretizzazione e l’ulteriore sviluppo, relativamente alle condizioni del capitalismo monopolistico, della legge fondamentale del capitalismo in generale, – la legge del plusvalore, scoperta e argomentata da Marx nel «Capitale». Nelle condizioni del capitalismo premonopolistico il meccanismo della concorrenza tra capitalisti conduceva, mediante continue variazioni dei prezzi sulle merci, a una redistribuzione dell’intera massa del plusvalore prodotto, a seguito di che la norma di profitto ricevuta dai singoli capitalisti veniva più o meno a equipararsi. Il passaggio dal dominio della libera concorrenza a quello dei monopoli, invece, ha introdotto in questo processo dei mutamenti sostanziali. Il senso dell’esistenza e il fine primo dei monopoli è quello di assicurarsi il massimo e più elevato profitto monopolistico. Nell’imperialismo l’allargamento della produzione, nei settori decisivi dell’industria, richiede enormi investimenti di capitale; nella lotta di concorrenza si scontrano a morte imprese enormi, e questa lotta è legata a perdite colossali, mentre la dissipatezza del sistema capitalistico e le sue spese improduttive raggiungono proporzioni senza precedenti. In tali condizioni soltanto l’afflusso di sempre nuovi massimi profitti consente ai grandi e grandissimi monopoli di attuare, anche se più o meno regolarmente, la riproduzione allargata. I fatti degli ultimi anni indicano che i profitti dei monopoli crescono a ritmi da capogiro. E questo al punto che perfino gli apologeti borghesi sono costretti a riconoscere che il senso dell’esistenza dei monopoli risiede nel garantirsi, sempre e comunque, il massimo profitto. In una ricerca pubblicata da un istituto americano, per esempio, si può leggere un tale eloquente ragionamento: «Dal punto di vista degli interessi dei membri di un oligopolio le loro azioni coordinate sono sempre opportune.
Ognuno di tali produttori di merci rappresenta un grande e potente fattore sul mercato. Se egli decide di ridurre i prezzi, i concorrenti saranno costretti loro malgrado a seguirne l’esempio. E in seguito ogni riduzione dei prezzi al di sotto del prezzo di monopolio porterà soltanto a una diminuzione dei redditi puri di tutti. Precisamente come, quando uno dei grandi fornitori – di solito il più grande, – stabilisce dei prezzi più elevati al fine di ricavarne dei profitti più alti, gli altri ne seguono poi l’esempio e si avvalgono di questa possibilità per il comune arricchimento. In tal modo, qui la concorrenza dei prezzi quale strumento atto a ricevere ordinazioni supplementari ne risulta del tutto inutile. Per cui, in definitiva, i prezzi vengono stabiliti come se questo venisse fatto da un fornitore solo e, per di più, ad un livello che assicuri i massimi profitti per tutti i membri dell’oligopolio» (Corsivo dell’autore).
L’oligarchia finanziaria che negli Stati borghesi dispone del potere più assoluto cerca di frenare il corso del progresso sociale ricorrendo agli sperimentati metodi di tutte le classi reazionarie: l’inganno e la violenza, e predicando le guerre e lo sterminio di massa come «uscita» dalle loro difficoltà economiche e come «salvezza» dalle crisi che le investono. Il carattere reazionario e distruttivo del capitalismo monopolistico, poi, si manifesta in modo evidente nelle guerre imperialistiche. Una economia di guerra che significa lavoro forzato per gli operai e paradiso per i capitalisti: così Lenin definì il capitalismo monopolistico di Stato.
A questo livello la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione della società capitalistica, come pure la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la forma privata dell’appropriazione, raggiungono una accentuazione estrema. Nel capitalismo non è l’economia che si trova nelle mani dello Stato, ma, al contrario, «è lo Stato a trovarsi nelle mani della economia capitalistica» (Stalin). Mentre l’economia capitalistica si trova ad essere in potere di monopoli incapaci di rimuovere o di domare gli elementi delle leggi economiche della società borghese, il potere statale invece si trasforma sempre più apertamente in un’arma dei monopoli nella loro attività di sfruttamento e di aspirazioni espansionistiche, generando così tutta una serie di conflitti e di contraddizioni particolarmente acuti.
Certo, – capitalismo monopolistico di Stato significa la più completa preparazione materiale al socialismo. Ma le sole premesse materiali, per il passaggio dal capitalismo al socialismo, non bastano. Pur in presenza delle premesse materiali, infatti, un loro valore decisivo lo rivestono la coscienza e la coesione delle masse popolari nella loro lotta per il rovesciamento dello strapotere dei monopoli e per il socialismo. Un radicale mutamento nelle condizioni di lotta del proletariato per rimuovere il potere del capitale nel periodo dell’imperialismo è legato all’azione della legge dell’ineguaglianza di sviluppo dei paesi capitalistici.
L’inasprirsi di tale ineguaglianza e il valore decisivo della sua legge nell’imperialismo determinano, come Stalin ha dimostrato, due importanti circostanze: in primo luogo, la divisione del mondo tra gruppi imperialistici si è conclusa perché di terre «libere» non ce n’è più, e la spartizione del mondo mediante le guerre imperialistiche diventa necessità assoluta per conseguire l’«equilibrio» economico; in secondo luogo, il colossale sviluppo della tecnica, nel senso ampio di questa parola, facilita i gruppi imperialistici nel sorpassare i propri rivali nella lotta per la conquista dei mercati e delle fonti di materia prima.
La vecchia ripartizione del mondo in «sfere d’influenza» tra i singoli gruppi imperialistici viene ogni volta a scontrarsi con un nuovo rapporto di forze all’interno del sistema mondiale del capitalismo visto che per stabilire un «equilibrio» tra loro sono necessarie delle periodiche e sempre nuove ripartizioni del mondo mediante le guerre imperialistiche.
Queste guerre, poi, portano inevitabilmente a un reciproco indebolimento degli imperialisti, il che rende il fronte mondiale dell’imperialismo particolarmente vulnerabile per la rivoluzione proletaria. Questa rivoluzione compie la rottura del fronte imperialistico nell’anello in cui la catena di questo fronte è più debole, laddove viene a formarsi la situazione più favorevole per la vittoria del proletariato.
«La rivoluzione sociale – scrisse Lenin, – non può avvenire altrimenti che nella forma di un’epoca che unisca la guerra civile del proletariato contro la borghesia nei paesi avanzati e una intera serie di movimenti democratici e rivoluzionari nelle nazioni poco sviluppate, arretrate ed oppresse. Perché? Perché il capitalismo si sviluppa in modo irregolare, e l’oggettiva realtà ci indica, accanto alle nazioni capitalistiche altamente evolute, tutta una serie di nazioni molto debolmente o nient’affatto sviluppate economicamente».
La teoria leninista dell’imperialismo, con il potente faro della scienza marxista, ha illuminato tutti i processi che avvengono non soltanto nelle metropoli dell’imperialismo, ma anche nelle sue periferie coloniali. Essa ha rivelato le leggi che sottendono al sorgere, allo sviluppo e alla rovina del sistema coloniale dell’imperialismo, offrendo con ciò stesso a centinaia di milioni di persone una potente arma nella loro lotta per la propria libertà. Uno degli attributi principali dell’imperialismo Lenin lo vide proprio nel fatto che esso accelera lo sviluppo del capitalismo nei paesi arretrati e, al tempo stesso, allarga e inasprisce la lotta contro l’oppressione nazionale in questi stessi paesi. Una nuova era nella vita dell’intera umanità, e quindi anche dei popoli oppressi del mondo coloniale, l’ha aperta la grande Rivoluzione socialista d’Ottobre, che inferse al capitalismo mondiale un colpo mortale da cui esso non si è più ripreso. Essa poi non soltanto ha scosso il dominio dell’imperialismo nelle stesse metropoli, ma ha anche colpito le sue retrovie coloniali, aprendo così l’epoca delle rivoluzioni di liberazione nazionale in tutta la enorme periferia del capitalismo imperialista.
Nelle condizioni della crisi generale del capitalismo tutte le contraddizioni dell’epoca monopolistica raggiungono una tensione estrema. E le più importanti, come Stalin ha indicato, devono ritenersi tre di esse: 1) la contraddizione tra il lavoro e il capitale, 2) la contraddizione tra i vari gruppi finanziari e le potenze imperialistiche nella loro lotta per le fonti di materia prima e 3) la contraddizione tra un pugno di paesi imperialisti dominanti e le centinaia di milioni dei popoli coloniali e dipendenti del mondo intero. Tutte queste contraddizioni, poi, nel periodo della crisi generale del capitalismo, si approfondiscono e si inaspriscono ancor più per il fatto stesso dell’esistenza di una potenza del socialismo vittorioso, – l’Unione Sovietica. La rivoluzione socialista in Russia rappresentò la prima breccia nel sistema mondiale dell’imperialismo e un brillante modello del passaggio della quantità in una nuova qualità, in quanto lo sviluppo delle contraddizioni del capitalismo morente portò alla sua morte di fatto in una sesta parte del globo dove vinse la rivoluzione socialista.
Le immortali idee del leninismo esercitano un enorme influsso sull’intero corso dello sviluppo contemporaneo. Esse ispirano le masse lavoratrici di tutti i paesi e i continenti ad una grandiosa e risoluta lotta per i grandi ideali del socialismo e del comunismo. Nessuna forza potrebbe distruggere il capitalismo, insegna Lenin, se la storia stessa non l’avesse già eroso da tempo. I tentativi delle forze reazionarie dell’imperialismo di frenare il corso del progresso storico sono quindi votati al fallimento, non essendoci al mondo una tale forza che possa far tornare indietro la ruota della storia.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:12
view post Posted: 9/3/2013, 22:43 Engels e il socialismo italiano - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy Istorii», organo teorico dell’Istituto di Storia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, n° 8, 1953:


Engels e il socialismo italiano


Il problema della lotta di Marx e di Engels per il partito proletario in Italia, della loro azione sul movimento operaio italiano nel periodo della Prima Internazionale rappresenta uno degli aspetti meno studiati sia della storia del movimento operaio italiano, sia della biografia di Marx e di Engels. Se molti dei problemi di storia dello stesso movimento operaio in Italia negli anni 1860-1870 sono stati in certo qual modo studiati, il problema della penetrazione del marxismo e della instaurazione di rapporti tra Marx e Engels e le organizzazioni italiane, e della tattica della loro lotta contro l’influenza borghese nel movimento operaio, sia pure nella forma del mazzinismo e dell’anarchismo, è ancora tutt’altro che studiato.
Il compito di stabilire rapporti diretti con le organizzazioni operaie in Italia stava dinanzi al Consiglio dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, guidato da Marx, fin dalla stessa fondazione dell’Internazionale. Negli anni ’60, gli anni cioè dell’influsso mazziniano nel movimento operaio italiano, a Marx non riuscì di stabilire tali rapporti. Alcune speranze, dapprima, Marx e Engels le avevano riposte in M. Bakunin, che nel 1864 aveva rinnovato la sua conoscenza con Marx e gli aveva dichiarato che egli, Bakunin, ora avrebbe preso parte esclusivamente al movimento socialista. Tuttavia, al suo arrivo in Italia nel 1864, M. Bakunin si legò non con il movimento operaio e con le organizzazioni operaie, ma con i democratici borghesi, con i massoni, ecc., e fondò la sua società segreta «Fratellanza internazionale» – tipica organizzazione cospirativa democratico-borghese, – che fu il predecessore e il prototipo dell’«Alleanza» segreta bakuninista del 1868. Fino agli anni 1867-1868 il movimento operaio, come tale, non attirò la sua attenzione, e i rapporti con il Consiglio Generale e con Marx il Bakunin non li mantiene. Per ciò che invece riguarda i singoli rappresentanti delle società operaie italiane ai primi congressi dell’Internazionale, questi erano dei mazziniani ortodossi come, per esempio, Gasparo Stampa. La loro presenza ai congressi e le singole lettere al Consiglio Generale rispecchiano indubbiamente il grande interesse e la simpatia degli operai italiani nei riguardi dell’Internazionale, ma di stabilire attraverso di essi dei contatti con gli operai italiani era praticamente impossibile.

Contro l’influenza di Bakunin in Italia
La situazione venne di poco a mutare con la creazione delle prime sezioni dell’Internazionale in Italia (nel 1868 in Sicilia e nel 1869 a Napoli). Benché questo fatto rispecchiasse le spontanee tendenze degli operai verso l’Internazionale, tuttavia a capo delle sezioni stavano dei bakuninisti e le sezioni non tenevano alcun contatto con il Consiglio Generale, dato che, come Engels scrisse a Cafiero il 28 luglio 1871, tutti i tentativi del segretario-corrispondente del Consiglio Generale per la Francia E. Dupont di stabilire un regolare rapporto con la sezione napoletana non avevano portato a niente. Fino al maggio 1871 né Marx né Engels – che nel 1870 erano entrati a far parte del Consiglio Generale, – ebbero la possibilità pratica di stabilire un contatto diretto con le masse operaie italiane. Una tale possibilità apparve soltanto nel 1871, quando Carlo Cafiero decise di tornare in Italia.
Carlo Cafiero veniva da una abbastanza ricca famiglia aristocratica di Barletta. Il suo cammino egli lo aveva iniziato come democratico borghese. Assai espansivo e appassionato, Cafiero non ebbe mai un adeguato e sufficiente bagaglio teorico. Tuttavia, con la conoscenza di Marx e di Engels resasi possibile alla fine del 1870 attraverso degli emigranti italiani, egli, pur non divenendo un rivoluzionario autenticamente proletario che ha coscienza dei fini e dei compiti del movimento operaio e che abbia inteso il ruolo del proletariato nello sviluppo sociale, tuttavia si pone dalla parte della classe operaia. Egli si dichiara disponibile a consacrare tutte le proprie forze alla causa dell’organizzazione degli operai in Italia e a recare aiuto al Consiglio Generale. Le lettere di Engels a Cafiero mostrano che il primo vide chiaramente l’immaturità teorica del secondo. In seguito Cafiero, che non era riuscito a superare le sue concezioni democratico-borghesi, passò tra le file degli anarchici bakuninisti e svolse un ruolo di primo piano nell’organizzazione anarchica in Italia.
Ma nella primavera del 1871, in relazione con l’imminente ritorno di Cafiero in Italia, dinanzi a Marx e a Engels si apriva la possibilità di entrare in diretto contatto con il movimento operaio italiano; e una tale possibilità Engels non poteva lasciarsela sfuggire.
Il 1871 fu un anno di importanti e rapidi mutamenti nella vita sociale dell’Italia. La crisi del mazzinismo iniziatasi ancora negli anni 1865-1866 e il processo di distacco del movimento operaio dal mazzinismo (in rapporto con lo sviluppo degli scioperi e la creazione di organizzazioni realmente operaie di tipo professionale) si rafforzarono e accelerarono notevolmente sotto il possente influsso rivoluzionario della Comune di Parigi Il partito mazziniano si disgregò, – una parte dei democratici. si rivolse al movimento operaio e all’Internazionale, e una parte passò nel campo della reazione borghese. Dall’altro lato si ebbe un impetuoso sviluppo del movimento operaio. Sorsero nuove organizzazioni, comparve un notevole numero di giornali e, fatto ancor più importante, crebbe fortemente la spontanea tendenza degli operai all’unificazione e verso l’Internazionale.
Alla testa di questa spontanea ripresa si trovavano però gli anarchici. Il che fu condizionato dalla arretratezza generale dell’Italia, dove il numero del proletariato industriale era ancora esiguo e oltretutto concentrato fondamentalmente nel settentrione del paese; la condizione molto pesante delle masse che soffrivano sia di un arretrato capitalismo che dei residui di feudalesimo ancora presenti e, infine, la delusione generale per il programma e la tattica del mazzinismo. L’enorme insoddisfazione accumulatasi nelle masse si manifestò in rivolte spontanee.
Una delle ragioni di un certo rilievo, e specifiche per l’Italia, dell’influsso dei bakuninisti nel paese fu il ruolo particolare svolto dall’allora appena formatosi Stato nazionale italiano. Arrivato al potere a seguito dell’unificazione del paese, il blocco sociale tra la nobiltà imborghesita e la grande borghesia utilizzò tutte le possibilità e, in primo luogo, il potere dello Stato per rafforzare il proprio dominio economico e per una ulteriore offensiva contro il livello di vita dei lavoratori. La trasformazione, del Sud in una colonia interna, la pauperizzazione di massa della popolazione che non aveva trovato un impiego nell’industria e l’assenza di un qualsiasi minimo diritto politico aveva portato a che il popolo vedesse nello Stato soltanto un gendarme, un esattore di tasse o un ufficiale che coscrive delle reclute.
Dall’altro lato, Bakunin aveva larghi rapporti personali nell’ambiente degli elementi radicali della democrazia borghese. In rapporto con l’intervento di tutti gli elementi anarchici contro il Consiglio Generale dell’Internazionale, che avevano particolarmente rafforzato i propri attacchi dopo la Conferenza di Londra del 1871, Bakunin utilizzò tutti i suoi legami e svolse una intensa attività politica e di propaganda nell’intero paese, tanto da riuscire, a seguito di ciò, a guidare l’intero movimento.
Nell’articolo «In Italia» F. Engels scrisse: «I germi del movimento in Italia sono legati all’influsso bakuninista. Mentre tra le masse operaie ha dominato un appassionato, ma in sommo grado confuso, odio di classe contro i propri sfruttatori, in tutte le località in cui interveniva l’elemento operaio rivoluzionario assumeva la guida un pugno di giovani avvocati, dottori, letterati, commessi, ecc., sotto il comando personale di Bakunin».
Nella sua attività in Italia Bakunin aveva puntato non tanto sul movimento operaio, quanto su abbastanza significativi strati di piccola borghesia in rovina e di intellettuali disorientati e senza una precisa collocazione di classe, mentre gli operai lo attraevano soltanto come massa di manovra. Non è quindi casuale che principale focolaio dell’anarchismo fossero l’Italia meridionale e centrale, mentre il Settentrione, e in particolare la più evoluta Lombardia, lo fossero in misura assai minore.
Tale era la situazione quando Engels intraprese il tentativo di stabilire, attraverso Cafiero, un legame con le organizzazioni operaie in Italia. Come dimostrano le lettere, Cafiero prima della partenza ricevette delle indicazioni e, probabilmente, un determinato piano di azione sia dallo stesso Engels che dal segretario-corrispondente del Consiglio Generale per l’Italia Giovacchini. Dopo l’arrivo di Cafiero in Italia Engels, nelle lettere a lui inviate, continuò a dargli consigli su questioni concrete, a chiarire la linea di condotta e la tattica che Cafiero doveva tenere. Dal 1° agosto 1871 Engels, designato dal segretario-corrispondente del Consiglio Generale per l’Italia, prestò una attenzione particolare alle cose italiane. Di tutta la vasta corrispondenza tra Engels e Cafiero sono giunte fino a noi le tre prime lettere di Engels, una brutta copia di una sua lettera che risale al periodo della rottura di Cafiero con Engels, e nove lettere (probabilmente quasi tutte) dello stesso Cafiero. Già anche questi documenti, tuttavia, consentono di delineare le direttive principali degli inizi dell’attività di Engels nella sua lotta per il partito proletario in Italia.
Il primo e indubbiamente importantissimo compito posto dinanzi a Cafiero da parte di Engels consistette nello stabilire dei legami con le organizzazioni operaie, al fine di assicurare al Consiglio Generale la possibilità di trasferire la lotta contro il bakuninismo e il mazzinismo nell’Italia stessa.
Già nella prima lettera a Engels del 12 giugno 1871 Cafiero gli comunica di essersi legato alla «Società democratica internazionale» di Firenze e dà ad Engels l’indirizzo del presidente di questa società per stabilirvi un contatto diretto. In verità, Cafiero aveva erroneamente inteso questa società per una organizzazione operaia, essendo essa, in realtà, una organizzazione di democratici borghesi di sinistra in cui erano entrati degli operai. A seguito delle persecuzioni poliziesche contro i suoi membri e lo scioglimento della società che ne seguì, a Engels non riuscì di entrare in diretto contatto con la società. Il legame con essa e l’inoltro dei documenti dell’Internazionale si ebbe per il tramite di Cafiero. In una lettera del 16 luglio 1871 Engels raccomanda a Cafiero che ancora prima di ricostituire la società di Firenze è stata creata una sezione dell’Internazionale che potrebbe entrare poi a far parte della ricostituita società. Le persecuzioni poliziesche, però, non diedero attuazione a questo piano.

I mazziniani nemici della I Internazionale
Un grande merito di Cafiero fu che egli riuscì a creare un legame tra Engels e la redazione del giornale «La Plebe». In una lettera del 12 luglio 1871 Cafiero indicò «La Plebe» come l’unico giornale in Italia, secondo lui, che fosse vicino all’Internazionale e su cui ci si potesse appoggiare. Egli pure inviò a Engels alcuni numeri di questo giornale, e verso la fine di ottobre e gli inizi di novembre 1871 Engels stabilì un rapporto diretto con il redattore di questo giornale Enrico Bignami. Attraverso Cafiero Engels tenne rapporti con il giornale repubblicano di sinistra milanese «Il Gazzettino Rosa», che negli anni 1871-1872, in relazione con la crisi generale del mazzinismo, prestò una grande attenzione alle questioni sociali e al movimento operaio, e che intervenne appassionatamente in difesa della Comune. Nel 1871 e agli inizi del 1872 Engels vi pubblicò tutta una serie di documenti dell’Internazionale e pure la lettera di Engels medesimo contro Stefanoni e quella di Marx contro Mazzini.
Con l’arrivo di Cafiero a Napoli si riorganizzò e si rivitalizzò l’attività della sezione napoletana che, poco prima di questo, si era quasi disgregata del tutto in relazione alle persecuzioni delle autorità e il tradimento del suo precedente dirigente Caporusso. Engels, attraverso Cafiero, ebbe così la possibilità di influire sulla sezione e, sotto l’azione di Cafiero, il lavoro della sezione si riattivò notevolmente. Indiretta testimonianza di ciò sono le persecuzioni governative che ne seguirono nell’agosto 1871 e l’arresto dello stesso Cafiero.
A questi era riuscito di stabilire dei rapporti abbastanza larghi. Come infatti risulta dalle sue lettere, egli si era legato non soltanto con Firenze, ma anche con Roma, Torino, Milano e con una serie di organi democratici e operai (come «La Favilla», «Il Gazzettino Rosa», «Il Libero Pensiero», «Il Romagnolo» ed altri) a cui egli stesso aveva inviato singoli documenti dell’Internazionale e informazioni sulle sedute del Consiglio Generale. Con ogni sua lettera il Cafiero inviava a Engels tutta una serie di giornali. Tant’è che, in tal modo, già dalla fine di giugno e i primi di luglio Engels ebbe modo di ricevere un’ampia informazione sulla situazione in Italia (del che egli informò durante le sedute del Consiglio Generale), si legò direttamente con una serie di organizzazioni italiane e poté utilizzare assai più ampi rapporti che lo stesso Cafiero.
Un non minore valore lo ebbe l’attività di Cafiero nella diffusione dei documenti dell’Internazionale e nell’aiuto che egli recò a Engels nell’opera di propaganda del socialismo scientifico. La diffusione dei documenti dell’Internazionale rappresentò uno dei principali compiti nell’opera di risveglio della coscienza di classe del proletariato, e grande merito di Cafiero dinanzi al movimento operaio italiano fu che, con il suo aiuto, venne iniziata la soluzione di questo compito. E questo perché occorre tenere presente che prima di Cafiero i documenti autentici dell’Internazionale quasi non erano noti in Italia. Nell’insieme si può ritenere che essi, così come le opere di Marx e di Engels, prima del 1871 in Italia non erano stati diffusi, e in particolare tra quegli operai che non avevano la possibilità di avere pubblicazioni straniere (in lingua francese). E ciò mentre Bakunin svolgeva la sua propaganda interamente sulla base dei suoi scritti e dei documenti dell’Alleanza. In tal modo non soltanto i nemici dell’Internazionale (i mazziniani), ma anche suoi membri, invero poco numerosi, delle sezioni non erano a conoscenza nemmeno dello statuto della propria organizzazione. Cafiero fu così il primo esponente attraverso il quale Marx e Engels poterono iniziare una sistematica diffusione dei documenti dell’Internazionale e una propaganda delle idee del socialismo scientifico in Italia.
Engels, tenendo conto delle particolarità del movimento operaio italiano, cercò di indirizzare l’attività di Cafiero svolgendo nelle proprie lettere tutta una serie di importanti princìpi del marxismo sia teorici che tattici.
Engels aveva una chiara idea della situazione presente in Italia. In una lettera del 16 luglio 1871 egli scriveva: «Io comprendo benissimo la Vostra situazione a Napoli; essa è simile a quella in cui alcuni di noi si trovarono in Germania venticinque anni fa, quando iniziammo a organizzare il movimento sociale. Allora tra i proletari, da noi, c’erano soltanto alcune singole persone che, in Svizzera, Francia e Inghilterra, avevano recepito le idee socialiste e comuniste; per il lavoro tra le masse disponevano dei mezzi più insignificanti e, così come Voi, eravamo costretti a reclutare sostenitori tra gli insegnanti di scuola, i giornalisti e gli studenti. Purtroppo, in quel periodo del movimento era facile trovare di tali persone che non appartenevano in senso proprio alla classe operaia; più tardi, quando l’operaio divenne l’elemento prevalente nel movimento, essi divennero certamente una rarità».

Preziosa opera educativa verso il giovane movimento operaio italiano
Come un filo rosso, attraverso le lettere di Engels passa l’idea della necessità di una lotta contro ogni settarismo. Partendo dai compiti generali dell’Internazionale (Engels li spiegò in tutte e tre le lettere), e altresì dopo aver rilevato la tendenza a seguire la linea della via più facile e diretta, Engels perveniva alla necessità di lavorare tra le stesse masse proletarie di organizzarle attivamente nonostante la loro apparente passività. Criticando l’anarchismo, nelle sue lettere egli rivolse una particolare attenzione al settarismo degli anarchici, al loro distacco dal movimento operaio e al fatto che la loro fraseologia «rivoluzionaria» portasse a una divisione della classe operaia, quando invece compito principale era quello di una sua unione.
Che Cafiero avesse inteso abbastanza chiaramente il senso della linea tattica di Engels, – la quale non voleva affatto significare una rinuncia alla lotta ideologica di principio, – lo testimonia la sua lettera del 12 luglio 1871. Cafiero scrisse: «Sono del tutto d’accordo con la Vostra posizione circa la necessità di rigettare ogni settarismo e sul fatto che occorre aprirsi una strada appoggiandoci sul documento fondamentale della nostra Associazione», vale a dire lo Statuto. Più oltre, traendo le somme di quanto dettogli da Engels, egli scrisse: «All’inizio nel movimento entrano operai d’ogni sorta, di tutte le sfumature di credenze e di nazionalità, ma quando si comincia a ragionare sui mezzi per conseguire uno scopo, qui comincia la lotta». Poi Cafiero prega Engels, riferendosi a un desiderio dei membri della sezione, di indicargli il principio direttivo sotto la cui bandiera egli deve operare. Rispondendo a questa lettera, Engels scrisse: «Noi dobbiamo svolgere il lato positivo del problema, – in qual modo deve realizzarsi l’emancipazione del proletariato, – per cui la disamina delle differenti opinioni diviene non soltanto inevitabile, ma anche necessaria». E poi: «Noi dobbiamo liberarci dai proprietari terrieri e dai capitalisti, situando al loro posto la classe unita degli operai agricoli e industriali, avendo cura dello sviluppo di tutti i mezzi di produzione… A seguito di tutto questo l’ineguaglianza scomparirà. E per conseguire ciò fino in fondo è a noi necessario il dominio politico del proletariato. Credo che queste parole siano abbastanza concrete per gli amici napoletani».
La seconda importante linea indicata da Engels quale guida per il movimento operaio italiano fu quella di una particolare attenzione per la questione agraria, l’indicazione della necessità di una alleanza differenziata con i contadini, il tener conto delle particolarità locali e un approccio verso i differenti strati dei contadini. Più sopra si è riferito il passo della lettera di Engels del 28 luglio 1871 in cui egli indicava che la classe operaia deve stabilire il proprio dominio politico in alleanza con il proletariato agricolo. In seguito, nelle sue corrispondenze al giornale «La Plebe», Engels più volte si soffermerà sulla necessità di una alleanza tra il proletariato e i contadini.
In tal modo, indirizzando l’attività di Cafiero, Engels venne a definire i compiti essenziali degli esponenti del partito proletario. Essi consistevano in un rafforzamento dei legami con le masse, nella propaganda tra le stesse organizzazioni operaie, nel superamento di ogni settarismo, nel garantire una alleanza con i contadini e un approccio differenziato ad essi, nella propaganda delle idee del socialismo scientifico sulla base dei documenti dell’Internazionale e nell’educazione, sulla loro base, delle masse operaie. Al tempo stesso, come le lettere dimostrano chiaramente, Engels istruì Cafiero su come svolgere la lotta contro l’influsso dell’ideologia piccolo-borghese sia nella forma del mazzinismo sia nella forma dell’anarchismo di Bakunin.
L’attività di Engels nella lotta contro l’anarchismo in Italia si divide chiaramente in due fasi: dal novembre-dicembre 1871, che è il noto periodo preparatorio in cui Engels predispone i suoi legami con le organizzazioni operaie, e dagli inizi del 1872, quando egli inizia svolge una attiva lotta contro gli anarchici nella stampa servendosi dei legami organizzativi già stabiliti in precedenza.
Si è già detto dei princìpi teorici che Engels svolse nelle sue lettere a Cafiero e in quei documenti che egli gli aveva inviato. Queste lettere e questi documenti andavano a colpire il settarismo degli anarchici e dimostravano la necessità di svolgere una intensa attività politica, la necessità di conquistare il potere politico e di instaurare la dittatura del proletariato. La lotta contro l’anarchismo doveva basarsi sui documenti autentici dell’Internazionale e svolgersi apertamente all’interno delle varie organizzazioni. Inoltre Engels avvertì della doppiezza degli anarchici, indicando i loro tentativi di creare una propria organizzazione segreta all’interno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori erano inconciliabili con la loro permanenza all’interno dell’Internazionale.
Cafiero, tuttavia, non utilizzò nel suo lavoro tutte queste indicazioni di Engels. Egli, sotto l’influsso dei membri dell’Alleanza bakuniniana Gambuzzi e Tocci, a lui avvicinatisi, tendeva sempre di più verso l’anarchismo. Tuttavia le sue lettere ad Engels testimoniano di un processo straordinariamente importante: nel loro contatto con il socialismo scientifico le masse operaie venivano a porsi sul suo cammino e non su quello dell’anarchismo, e questo perfino in un paese «esitante» verso l’anarchismo quale era l’Italia. Le masse operaie tendevano spontaneamente verso l’Internazionale, e cercavano di conoscerne i documenti e i fatti riguardanti il movimento operaio degli altri paesi; tendevano infine a una larga organizzazione. Del che testimoniano indiscutibilmente le lettere di Cafiero, in cui egli parla della necessità di convocare un congresso italiano e di formare una federazione italiana dell’Internazionale, oltre che di creare. un giornale nazionale italiano. Nella lettera del 12 luglio 1871 egli scrive: «Qui tutti esprimono un gran desiderio di avere un giornale che sia organo dell’Internazionale, attraverso il quale sia possibile conoscere regolarmente tutti i successi della nostra Associazione nelle diverse parti del mondo, dati statistici, documenti ufficiali del Consiglio Generale e delle sezioni, ecc.».
Molto importante in relazione con la questione presa in esame è l’atteggiamento della sezione napoletana nei riguardi della Conferenza di Londra del 1871 e verso le sue risoluzioni. Come è noto, le risoluzioni della Conferenza di Londra vennero accolte dagli anarchici con una alzata di scudi: Bakunin profuse tutti i suoi sforzi per mobilitare l’Alleanza, e non soltanto gli anarchici, ma tutte le forze antiproletarie contro queste risoluzioni. La sezione napoletana, a quel tempo, ancora non si era ripresa dalla devastazione poliziesca dell’agosto 1871, e tuttavia Cafiero, nelle sue lettere, rispecchia in certa misura le idee dei suoi membri, con i quali egli continuava a tenere i contatti.
Qui è importante rilevare due momenti. In primo luogo, indubbiamente, Cafiero nella sua lettera rispecchia il punto di vista di una parte dei membri della sezione napoletana con cui egli continuò a tenere rapporti. Poi, assai notevole è il fatto che la sezione, alla cui testa stavano gli anarchici, si propose di dare mandato per la Conferenza a Engels. Le lettere di Cafiero testimoniano indiscutibilmente che sotto l’azione dei primi passi della propaganda del socialismo scientifico in Italia il movimento operaio mostrò di tendere verso il marxismo e che, nella misura in cui gli operai poterono ricevere materiali dal Consiglio Generale e da Engels, essi si posero dalla parte del Consiglio Generale e non degli anarchici.
Tuttavia, nella successiva lettera del 17 novembre 1871, Cafiero comunica a Engels delle dispute suscitate dalle risoluzioni della Conferenza di Londra e che dimostrano che gli anarchici avevano svolto in Italia una intensa attività politica. Lo stesso tono della lettera indica che anche Cafiero aveva cominciato un po’ ad esitare. La risposta di Engels in una lettera a Cafiero non giunta fino a noi aiutò quest’ultimo a superare per un certo tempo le sue esitazioni e ad intervenire ancora una volta a sostegno della linea del Consiglio Generale. Tant’è che egli pubblica ne «Il Gazzettino Rosa» la lettera del 7 dicembre 1871 inviatagli da Engels e non giunta fino a noi, e un articolo di Lafargue dal giornale «L’Emancipation» sulle risoluzioni della Conferenza di Londra. In una breve premessa a questo articolo il Cafiero ancora difese la celebre risoluzione della stessa Conferenza circa l’azione politica della classe operaia.
Tuttavia già agli inizi del 1872 Cafiero, sotto l’azione dei suoi diretti contatti personali con gli anarchici, passò definitivamente nel loro campo e, poco dopo, cessò ogni suo rapporto con Engels. In tal modo venne a interrompersi uno dei legami che avevano dato a Engels la possibilità di condurre la lotta contro l’anarchismo in Italia e di propagandare le idee del socialismo scientifico.
Nel novembre 1871 Engels ebbe nuove e più ampie possibilità di esercitare una azione sul movimento operaio italiano. Egli ricevette una lettera da Theodor Kuno da Milano e da un certo Enrico Bignami di Lodi.
Il fatto di avere rapporti diretti con l’Italia settentrionale ebbe, per Marx e Engels, una importanza di primo piano. Notevolmente più sviluppato sul piano industriale, il Nord era l’unica regione d’Italia dove esistesse un proletariato industriale nel senso proprio della parola; la conquista qui di posizioni svolse un ruolo decisivo, dato che proprio il proletariato di questa regione doveva determinare le sorti del movimento operaio dell’intero paese quale suo reparto più avanzato.
Per un caso davvero fortuito vi fu l’arrivo a Milano di Theodor Kuno. A differenza di Cafiero, questi era assai meglio preparato teoricamente e aveva già una certa esperienza di lavoro rivoluzionario pratico, anche se, secondo le parole di Engels, egli non apparteneva «al novero degli esponenti professionali del partito». Tuttavia, al momento del suo arrivo a Milano, dove il Kuno andò a lavorare in una delle maggiori aziende in qualità di ingegnere, egli aveva già alle spalle tre anni di attività nel Partito Operaio socialdemocratico tedesco. Giunto a Milano egli si provò a cercarvi una sezione dell’Internazionale o di legarsi con i suoi membri al fine di prendere parte al suo lavoro. Kuno si rivolse alla redazione de «Il Gazzettino Rosa», ma qui non poterono aiutarlo in alcun modo. Allora egli entrò in contatto con I.F. Bekker e questi lo accettò all’interno dell’Internazionale (nella sezione di lingua tedesca della Svizzera), ma non gli seppe indicare con chi legarsi a Milano. Dopo di che il Kuno si rivolse a Engels con la richiesta di indicargli indirizzi e nomi di membri dell’Internazionale e di inviargli della letteratura, di dargli consiglio, ecc.
Nella sua risposta Engels constatò che a Milano non esisteva alcuna sezione dell’Internazionale, ma che c’erano degli elementi appoggiandosi sui quali era possibile crearla, e fornì anche gli indirizzi delle sezioni presenti in altre città. In tal modo dinanzi a Kuno venne posto il compito di organizzare una sezione dell’Internazionale a Milano. E, per quanto sua base potesse servire la redazione del giornale mazziniano di sinistra «Il Gazzettino Rosa», Engels rivolse l’attenzione di Kuno sui mazziniani come sui primi avversari con cui ingaggiare la lotta. In realtà a Milano esisteva dal settembre 1871 una mazziniana «Società morale di Mutuo Soccorso per operai» in cui, a dire di Kuno, di operai quasi non ce n’erano e che era guidata da democratici borghesi. Come il Kuno comunicò per lettera a Engels, egli, insieme con due membri delle sezioni svizzere dell’Internazionale che lavoravano con lui nella stessa azienda, entrò in questa Società e portò con sè anche una serie di operai della ditta medesima. Il che, come egli ritenne, era pur sempre la conquista di una tribuna di lotta. Dopo qualche primo successo, però, sorsero nuove difficoltà con alcuni elementi anarchici presenti all’interno della Società, tant’è che il Kuno si rivolse a Engels per chiedergli consiglio su cosa fare.
Su consiglio di Engels il Kuno, facendo leva sugli anarchici contro i mazziniani, riuscì a conquistare dalla parte dell’Internazionale alcuni membri della Società mazziniana, a farli uscire da questa e a formare una propria organizzazione che prese il nome di «Circolo operaio di emancipazione del proletariato». Tale circolo tuttavia non si costituì subito in una sezione dell’Internazionale. Il 27 dicembre 1871 il Kuno comunicò a Engels che gli era riuscito di ottenere che nel primo articolo dello Statuto del circolo fosse dichiarato il pieno riconoscimento dello Statuto dell’Internazionale. Il 7 gennaio 1872 il Circolo operaio, durante una sua riunione, dichiarò la propria adesione all’Internazionale; l’11 gennaio il Kuno ne scrisse a Engels e questi, il 30 gennaio, comunicò al Consiglio Generale la formazione di una sezione dell’Internazionale a Milano, dichiarando che il suo Statuto era conforme ai princìpi dell’Internazionale; su proposta di Engels la sezione venne accolta nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
La circostanza che la sezione non venne subito a crearsi testimonia della lotta che si svolse tra gli anarchici e Kuno all’interno del gruppo che aveva rotto con la Società mazziniana. Gli anarchici entrati in questo gruppo si trovavano a Milano assai prima dell’arrivo di Kuno, ma di creare una sezione dell’Internazionale essi non si erano mai proposti. Il che dimostra che la richiesta di creare una sezione suscitò una certa resistenza da parte degli anarchici. La lotta, in sostanza, si svolse su questioni programmatiche e di tattica. E in questa lotta il Kuno riportò una vittoria, come dimostra il programma approvato al momento della creazione della sezione. All’inizio del programma si parlava di fraterna solidarietà del proletariato di tutto il mondo e poi si indicava: «La libertà politica è l’unica e necessaria conseguenza della emancipazione economica e, di conseguenza, la questione sociale è inseparabile dalla questione politica, e la soluzione della prima è condizione per la soluzione della seconda, per cui noi non riconosciamo nessun altro partito tranne il Partito social-democratico degli operai». Pur con tutta l’imprecisione della formulazione riportata, tuttavia risulta chiaro che l’inclusione nel programma di questo principio significò una sconfitta per gli elementi anarchici.
La situazione a Milano, come in tutta l’Italia, venne poi ad inasprirsi in rapporto con la diffusione della circolare di Sonvillers dei bakuninisti, approvata nel novembre 1871. Per Bakunin era particolarmente importante che il suo attacco contro il Consiglio Generale venisse sostenuto dalle esistenti sezioni dell’Internazionale. E, in queste condizioni, la posizione della sezione milanese rivestiva un valore del tutto particolare. Gli anarchici entrati nel comitato del Circolo operaio fecero tutti gli sforzi possibili per far approvare la circolare di Sonvillers, del che il Kuno informò subito Engels. Il 24 gennaio 1872 questi si rivolse a Kuno con una noto lettera in cui veniva data una brillante, per concisione e chiarezza, caratteristica dell’anarchismo e della storia della lotta del Consiglio Generale contro i bakuninisti dell’Alleanza.
Appoggiandosi sui documenti e sulla lettera di Engels, Kuno riuscì ad ottenere che la sezione milanese non sostenesse la circolare di Sonvillers e che «Il Gazzettino Rosa» pubblicasse la risposta di condanna della circolare da parte di un comitato federale svizzero. La posizione della sezione milanese preoccupò seriamente Bakunin, che svolse una intensa attività e istruì i propri sostenitori al riguardo. Il 27 febbraio 1872 si svolse una riunione generale della sezione e, dopo aspre discussioni, venne approvata la decisione di pubblicare una dichiarazione in cui si affermava che la sezione non sosteneva la circolare di Sonvillers.
Il 28 febbraio Kuno venne arrestato ed espulso dall’Italia; ed Engels perse così la possibilità di esercitare la sua azione sulla sezione milanese.
Questa circostanza indusse Marx e Engels a cercare la possibilità di inviare in Italia qualcuno dei fidati compagni votati alla causa della classe operaia a cui poter affidare il compito di organizzare il lavoro nel paese. E questi venne trovato in Vitale Regis.
Di lui ben poco ci è noto. Si sa che egli fu partecipe della Comune di Parigi e che il 5 dicembre 1871, su proposta di Engels sostenuta da Marx, egli venne accolto all’interno del Consiglio Generale. Il 26 gennaio 1872 il Regis comunicò a Engels la sua volontà di tornare in Italia e gli chiese istruzioni e denaro.
Rientrato in Italia, egli fece un viaggio di dieci giorni attraverso le zone settentrionali del paese, durante il quale soggiornò a Milano e a Torino. Dei risultati di questo viaggio il Regis scrisse in una grande lettera-relazione al Consiglio Generale, nella quale ebbe a soffermarsi in modo particolare sulla situazione da lui trovata a Torino.

La lotta per la nascita del partito del proletariato
Fino al 1871 a Torino il movimento operaio si trovò sotto l’influsso dei mazziniani. Tuttavia, in ragione del generale processo di disgregazione del partito mazziniano e di tendenza verso l’Internazionale allora comune a tutta l’Italia, tra il settembre e l’ottobre 1871 venne a crearsi a Torino una «Federazione operaia» in cui, pur prevalendo i mazziniani, si avevano anche elementi di sinistra che avevano dichiarato la propria adesione ai princìpi dell’Internazionale. E, nonostante che tale dichiarazione si dimostrasse puramente platonica, essa esprimeva tuttavia una spontanea tendenza degli operai verso l’Internazionale. Fin dalla sua creazione, all’interno di questa società si svolse una intensa lotta, dato che gli elementi di sinistra chiesero una espressa condanna del mazzinismo. Nel gennaio 1872 si ebbe una scissione, e i sostenitori del programma dell’Internazionale formarono una propria particolare società – «Emancipazione del proletario» – che divenne una sezione dell’Internazionale. In questa sezione entrarono a far parte sia i mazziniani di sinistra che gli anarchici e, oltre a ciò, per qualche tempo essa venne diretta da un avventurista che più tardi si rivelò come un agente della polizia.
Durante il suo soggiorno a Torino il Regis si era incontrato con questi, di nome Terzaghi, e si era legato alla stessa società «Emancipazione del proletario», avvertendo Engels che il Terzaghi, probabilmente, era legato alla polizia. Caratterizzando poi la società «Emancipazione del proletario», il Regis scrisse che questa organizzazione operaia contava fino a 700 persone e che si divideva in sezioni professionali, oltre al fatto che i suoi membri operai fossero tutt’altro che ben disposti verso l’anarchismo.
Al tempo stesso il Regis avvertì Engels che nella Società erano presenti anche elementi anarchici, i quali erano guidati dal dottor Jacobi. Il Regis ebbe una grande discussione con Jacobi, il quale dichiarò che il Consiglio Generale era responsabile della caduta della Comune di Parigi (!) e che esso non poteva dirigere il movimento operaio dato che è per lo più costituito da rappresentanti del lavoro intellettuale. Al che il Regis raccomandò a Engels di tenere una continua corrispondenza con la Società di Torino al fine di paralizzare gli insistenti tentativi di Bakunin di conquistarla. Egli inoltre gli comunicò il suo proposito di recarsi a Bologna per propagandarvi i princìpi dell’Internazionale, riportandovi informazioni su tentativi di creare sezioni dell’Internazionale ancora in una serie di località. Dal che risulta chiaro che Engels aveva posto dinanzi al Regis il compito non soltanto di chiarire la situazione nelle sezioni esistenti (Milano, Torino e Lodi) e di una lotta contro l’anarchismo, ma anche di stabilire rapporti diretti con gli operai e di organizzare nuove sezioni dell’Internazionale. Una parte di questi compiti al Regis non riuscì di portare a compimento, dato che il Terzaghi lo denunciò di fatto alla polizia, facendone il nome alle autorità; tant’è che il Regis stesso fu costretto a nascondersi immediatamente e a trasferirsi illegalmente in Svizzera.
Un importante canale di propaganda del socialismo scientifico in Italia negli anni ’70 fu la collaborazione di Engels al giornale «La Plebe». Il legame diretto con il suo redattore ed editore Enrico Bignami significò una importante svolta. nella storia della lotta di Engels per il partito proletario in Italia. I rapporti di questi con «La Plebe» costituiscono una rilevante pagina della sua biografia e una delle assai interessanti, ma poco studiate, pagine di storia del movimento operaio italiano.
La storia del giornale «La Plebe» rappresenta uno dei più chiari esempi di quei mutamenti e tendenze del pensiero sociale caratteristici dell’Italia degli anni ’60-’80 del XIX secolo. Fondato nel 1868 nella piccola città industriale di Lodi da un esponente del movimento borghese repubblicano, il garibaldino Enrico Bignami, alla fine degli anni ’70 il giornale divenne uno dei centri attorno al quale si saldarono gli elementi socialisti che nel 1882 vennero a formare il primo autonomo partito del proletariato italiano, – il «Partito operaio». L’evoluzione delle concezioni del gruppo riunitosi attorno alla «Plebe», come pure quella dello stesso giornale, è oltremodo significativa.
Il giornale «La Plebe» nacque come organo di mazziniani di sinistra che, a differenza di Mazzini, propendevano verso il materialismo e ritenevano necessario attrarre le masse popolari alla causa della rivoluzione democratico-borghese, che aveva lo scopo di compiere l’unificazione del paese e instaurare la repubblica. Per questo gruppo, che era influenzato dalle idee dei socialisti utopisti francesi, la soluzione delle contraddizioni sociali tra il lavoro e il capitale aveva un grande rilievo e non passava di certo in secondo piano, come invece lo era per Mazzini. Nel primo numero del giornale, nel suo articolo di redazione, affermando le proprie posizioni di democratici e repubblicani, i redattori scrivevano: «Noi siamo repubblicani, e non crediamo in nient’altro che nell’iniziativa delle masse». Negli anni 1868-1870 in quasi tutti i numeri del giornale vennero pubblicati articoli consacrati alla situazione degli operai, al posto dei lavoratori nella vita sociale e alla questione sociale. Illustrando le sofferenze, la miseria e l’ingiustizia delle masse popolari, il giornale era giunto alla conclusione che le questioni sociale e politica fossero inseparabili l’una dall’altra. Tant’è che in un articolo programmatico la redazione scrisse: «Non si può auspicare l’emancipazione politica del popolo e non desiderarne l’emancipazione economica»; in un altro articolo esso espresse la convinzione della necessità di una nuova rivoluzione che avrebbe risolto sia la questione sociale che quella politica.
La soluzione della questione sociale, secondo «La Plebe» poteva essere conseguita mediante «il trasferimento della terra ai contadini, del capitale agli operai», e a tal fine gli operai dovevano innanzitutto unirsi. La «questione operaia», la situazione dei lavoratori in Italia attrasse sempre più l’attenzione della redazione; nel giornale cominciarono ad apparire anche articoli sul socialismo che contenevano, in sostanza, una esposizione delle dottrine di Proudhon e Louis Blanc. Non a caso la redazione aveva rivolto la sua attenzione all’attività dell’Internazionale. La prima notizia circa l’Associazione Internazionale dei Lavoratori apparve ne «La Plebe» il 25 marzo 1870; in seguito le informazioni circa l’attività delle sezioni dell’Internazionale presero ad occuparvi uno spazio sempre maggiore. Cercando di stabilire più stretti contatti con gli operai italiani, il 6 marzo 1871 il giornale dichiarò che ogni operaio avrebbe potuto ricevere gratuitamente il giornale.

L’influenza benefica della Comune di Parigi
Punto culminante nella evoluzione de «La Plebe» fu la Comune di Parigi. Fin dall’inizio il giornale si pose interamente e del tutto dalla sua parte. Alla stessa Comune, ai suoi esponenti, alle prime memorie dei suoi partecipanti il giornale dedicò moltissimo spazio sulle sue pagine. E, in particolare, venne accentuata l’attenzione sul significato e sul valore internazionale della Comune. Le principali conclusioni degli articoli più seri che su di essa apparvero nel giornale (non pochi furono gli articoli di carattere romantico, che esaltavano l’eroismo delle barricate, ecc.) si riducono a quanto segue: 1) la Comune è un atto rivoluzionario del movimento operaio; 2) essa apre una nuova fase della lotta, dato che essa è stata il primo tentativo della classe operaia di distruggere lo Stato borghese; 3) benché l’eroico tentativo degli operai di rovesciare il dominio della borghesia abbia subìto una sconfitta, questo tentativo ha indicato il giusto cammino (il 26 marzo 1873, in uno dei suoi articoli, il giornale scriveva: «La Comune è caduta… Viva la Comune!»).
Intervenendo contro gli attacchi di Mazzini alla Comune, il giornale dedicò una sempre maggiore attenzione all’Internazionale e alla sua attività; a partire dal maggio-giugno 1871 quasi in ogni numero del giornale apparvero notizie sull’attività dell’Internazionale, grandi articoli su di essa e informazioni sul movimento operaio dei vari paesi. Oltre a ciò, la «Plebe» cercò, in questa o quella forma, di propagandare i princìpi programmatici e organizzativi dell’Internazionale.
Verso la fine di ottobre e agli inizi di novembre 1871 si iniziò una diretta corrispondenza tra il Bignami e Engels. Il fatto che il Bignami si fosse rivolto a Engels non fu casuale; il giornale aveva legato sempre più le proprie sorti al movimento operaio e aveva cercato di stabilire un contatto con le organizzazioni operaie e con i giornali operai sia dell’Italia stessa che dell’estero. Evidentemente, alla fine di ottobre e agli inizi di novembre 1871 a Lodi si intrapresero dei tentativi per creare una sezione dell’Internazionale, in rapporto al che il Bignami si rivolse a Engels.
Il 24 aprile 1872 nel giornale apparve la prima corrispondenza di Engels dal titolo «Lettere da Londra» e a firma F.E. A partire da questa corrispondenza la collaborazione di Engels al giornale divenne più o meno continuativa. In tutto, negli anni 1871-1873, ne «La Plebe» e nell’«Almanacco Repubblicano per l’anno 1874», edito dalla stessa redazione, vennero pubblicati 15 documenti di Marx e Engels, e di essi 6 documenti dell’Internazionale e 9 articoli (1 di Marx e 8 di Engels). L’11 maggio 1872 la redazione, nel novero dei corrispondenti permanenti del giornale, fece il nome anche di Friedrich Engels, corrispondente da Londra.
Un ruolo importante lo svolse il Bignami nella creazione di nuove sezioni dell’Internazionale. Direttamente di sua iniziativa venne a crearsi la sezione di Ferrara, anche se, di fatto, il ruolo decisivo nella formazione di questa sezione lo svolse lo stesso Engels. Il 14 novembre 1871 il Bignami scrisse a Engels che a Ferrara si era creata una sezione e che a lui essa si era rivolta per dei consigli. Il 12 marzo 1872 egli inviò a Engels una lettera della sezione di Ferrara con la richiesta di entrare a far parte dell’Internazionale. Il 19 marzo 1872 Engels riferì al Consiglio Generale circa la formazione della nuova sezione, indicando che nella sua lettera la sezione stessa avanzava la riserva di «mantenere l’autonomia della sezione», comprovando così il perdurante influsso, al suo interno, di idee anarchiche. In rapporto a ciò Engels inviò una lettera alla sezione, chiedendo delucidazioni riguardo a tale riserva e facendole recapitare lo Statuto generale dell’Internazionale. Sotto l’azione della lettera di Engels e, evidentemente, per azione dello stesso Bignami la sezione rivide la propria posizione, tant’è che Engels, ricevuta la risposta della sezione, comunicò al Consiglio Generale che essa accettava lo Statuto generale dell’Internazionale e vi si sottoponeva interamente; durante la seduta del Consiglio Generale del 7 maggio 1872 lo Statuto della sezione venne preso in esame ed essa fu unanimemente accolta nell’Internazionale.
Un enorme valore ebbe la collaborazione di Engels al giornale «La Plebe», dove egli trovò una tribuna per la lotta teorica contro l’anarchismo e per la propaganda dei princìpi del socialismo scientifico. Si deve però tenere conto del fatto che il giornale non era affatto marxista e che il Bignami non voleva intervenire risolutamente contro gli anarchici, non comprendendo il carattere di principio della lotta di Marx e di Engels contro Bakunin. Engels quindi, nella sua collaborazione al giornale, non poteva non tenere conto di ciò.
Nelle sue corrispondenze, e sulla base di materiale concreto, Engels dimostrò la necessità di svolgere una intensa lotta politica, di conquistare e di difendere le libertà democratiche e di avere una forte organizzazione centralizzata, ma anche la necessità di conquistare degli alleati per il trionfo della rivoluzione proletaria non soltanto con dichiarazioni e programmi, ma mediante il concreto sostegno alle loro esigenze e alla loro lotta quotidiana.
Due corrispondenze di Engels dell’1 e 5 ottobre 1872, e altresì una parte della corrispondenza dell’11 dicembre 1872, sono dedicate al Congresso dell’Aja dell’Internazionale. In questi articoli, che rappresentano in sostanza una relazione di Engels quale segretario-corrispondente del Consiglio Generale per l’Italia, in primo luogo si rileva che all’interno dell’Internazionale la maggioranza sosteneva il Consiglio Generale nella sua lotta contro l’anarchismo e che l’Internazionale era unita nell’approvare le principali risoluzioni che determinavano il carattere proletario del movimento. Engels inoltre vi indicava che gli anarchici si trovavano al di fuori del movimento generale del proletariato, e vi dimostrava che, pur definendosi «Federazione italiana dell’Internazionale», l’organizzazione creata dalla Conferenza di Rimini in realtà non aveva e nemmeno poteva avere niente in comune con l’autentica Internazionale, e che le organizzazioni italiane, se volevano entrare nelle file del movimento operaio internazionale, dovevano accettare lo Statuto generale dell’Internazionale e rispettare le decisioni dei suoi congressi.
Un posto particolare lo occupano gli articoli di Marx «L’indifferentismo politico» e di Engels «Sull’autorità». Questi articoli contengono una brillante critica dei dogmi teorici dell’anarchismo e ne rivelano l’essenza di classe. Al tempo stesso essi difendono e argomentano tutta una serie di princìpi della teoria marxista dello Stato e, in particolare, sulla dittatura del proletariato. E’ noto che Lenin studiò e prospettò attentamente questi scritti di Marx e di Engels, e poi se ne servì durante la scrittura del suo celebre lavoro «Stato e rivoluzione»; in essi Marx e Engels svelavano la natura piccolo-borghese dell’anarchismo e stabilivano un legame tra le sue idee e le teorie, già denunciate e ormai superate dal movimento operaio, di Brey e Proudhon: essi vi dimostravano la necessità per il proletariato di unire la lotta economica e quella politica, e di avere un forte e organizzato partito proletario. Denunciando l’inconsistenza delle «teorie» anarchiche della rivoluzione, Marx e Engels argomentarono nuovamente l’idea della dittatura del proletariato quale necessaria condizione della rivoluzione proletaria, oltre che rilevare che questa rivoluzione, alla fin fine, porterà in avvenire alla creazione di una società senza classi e alla morte dello Stato. Mostrando poi a che cosa possono condurre i dogmi anarchici, Marx e Engels traevano la conclusione che, nonostante tutto il loro arcirivoluzionarismo a parole, gli anarchici in realtà servivano la reazione e difendevano gli interessi non del proletariato ma, in sostanza, della borghesia.
Nel 1873 il legame di Engels con «La Plebe» si interruppe.
Le persecuzioni poliziesche (nel 1873 vennero pubblicati poco più di 50 numeri del giornale), l’arresto di Bignami e la cessazione dell’attività della sezione di Lodi, da un lato, e un arretramento generale del movimento operaio, dall’altro, determinarono che Engels cessasse la propria collaborazione con «La Plebe», nonostante che il Bignami l’avesse pregato di inviargli nel 1873 le sue corrispondenze settimanali. Evidentemente, un ruolo decisivo qui lo svolse anche la circostanza che «La Plebe», in questo periodo, ancora non aveva nettamente definito le proprie posizioni, non essendo ancora pervenuta a una definitiva rottura con gli anarchici.
Nel 1877, in condizioni di risveglio del movimento operaio in Italia, quando il giornale “La Plebe” divenne centro d’attrazione per tutti gli elementi antianarchici presenti nel movimento operaio italiano, Engels rinnovò l’invio al giornale delle proprie corrispondenze.
Negli anni 1875-1882 il giornale, che allora si pubblicava a Milano, intervenne in favore della creazione di un autonomo partito del proletariato. «La Plebe» pubblicò articoli che dimostravano che l’emancipazione del proletariato deve essere opera degli stessi operai e che, a tal fine, è loro necessario un partito politico. Lottando contro le tendenze paternalistiche della borghesia e contro l’anarchismo, il giornale riservò sulle sue pagine grande spazio ai princìpi programmatici del futuro partito. E tali princìpi esso riteneva essere l’unificazione delle organizzazioni operaie sulla base del riconoscimento del principio della lotta di classe, la necessità per gli operai di crearsi una organizzazione libera da influenze estranee, oltre che l’esigenza per il proletariato di condurre una propria lotta politica. Il giornale, inoltre, intervenne con appelli a convocare un congresso per la creazione in Italia di un partito socialista. Nel 1882 a Milano si svolse un tale congresso durante il quale, con la diretta partecipazione degli esponenti del gruppo de «La Plebe», venne creato il Partito Operaio Italiano. Pur con tutte le lacune e gli errori di questo partito, la sua creazione rappresentò comunque un grande passo avanti del movimento operaio italiano. La collaborazione di Engels e il suo legame con Bignami costituiscono indubbiamente uno dei fattori determinanti di questa evoluzione politica e ideologica del gruppo de «La Plebe».
La lotta di Engels per il partito proletario in Italia rappresenta un brillante esempio di quell’agile e flessibile tattica che Marx e Engels avevano sperimentato all’interno dell’Internazionale: il loro saper utilizzare per la propaganda le idee del socialismo scientifico e lo stabilire rapporti con le masse operaie sia da parte di eventuali compagni di strada, sia pure teoricamente ancora immaturi, e il loro saper utilizzare a tali scopi, senza per questo ridurre il livello della lotta ideologica di principio, anche i giornali democratico-borghesi e talvolta anche organi direttamente avversi al movimento proletario.
L’attività di Engels degli anni 1871-1873 aveva posto le basi ideologiche e tattiche per la creazione in Italia di un autentico partito proletario. Come già si è visto, le lettere e gli articoli di Engels avevano dimostrato la necessità della rivoluzione proletaria e della dittatura del proletariato. Una attenzione particolare, poi, egli prestò alla questione dell’alleanza tra la classe operaia e i contadini, mostrando l’importanza di un approccio differenziato nei riguardi dei diversi strati di contadini e tenendo conto delle loro particolarità locali. Engels inoltre difese la necessità, per il proletariato, di avere una sua propria, forte e unita organizzazione, oltre che mostrare un fulgido modello di inconciliabile lotta di principio contro l’influenza piccolo-borghese nel movimento operaio sia nella forma del mazzinismo, sia nella forma dell’anarchismo. Nei loro articoli Marx e Engels denunciarono l’essenza ideologica e di classe, l’idealismo e il carattere antiproletario dell’anarchismo. E, direttamente legato all’attività di Engels, fu anche l’inizio della diffusione in Italia delle principali opere del socialismo scientifico.
L’attività di Engels contribuì alla penetrazione delle idee del socialismo scientifico nell’ambiente dei proletari italiani. Nell’intenso periodo degli anni 1871-1873 egli diresse il lavoro di singoli rivoluzionari e organizzazioni che avversavano l’anarchismo ed esercitò un forte influsso sulla formazione di quel gruppo che intervenne quale iniziatore della creazione del primo e autonomo partito del proletariato in Italia, – il Partito Operaio Italiano. I documenti dimostrano che all’origine di quel complesso e difficile cammino del movimento operaio italiano verso il marxismo ci stava Engels. Non a caso negli anni 1895-1896 l’organo teorico del Partito Socialista Italiano «Critica Sociale» ristampò tutta una serie di corrispondenze di Engels dal giornale «La Plebe». Alla fine del XIX secolo, come anche oggi, quegli articoli hanno rappresentato un’arma del proletariato nella sua lotta contro l’ideologia anarchica e per l’unità ideologica del proletariato stesso.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:10
view post Posted: 9/3/2013, 21:59 La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy filosofii», rivista teorica mensile dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, n. 5, 1953:


La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo


La legge economica fondamentale del capitalismo nel suo insieme, che agisce già nell’epoca del capitalismo premonopolistico, è stata scoperta dal fondatore del comunismo scientifico Karl Marx. E’ la legge del plusvalore, che, come disse Engels, offre la chiave per comprendere l’intera produzione capitalistica.
La legge del plusvalore rivela quella che è l’essenza dello sfruttamento capitalistico e, con ciò stesso, rappresenta il fondamento economico dell’antagonismo di classe tra il proletariato e la borghesia insuperabile – entro i limiti del capitalismo, – e sempre più acuto. Questa legge spiega l’origine e la natura di tutte le forme di reddito delle classi e dei gruppi sfruttatori della società borghese: il profitto industriale e commerciale, l’interesse di prestito e la rendita fondiaria. Tutte queste forme di reddito, come Marx ha dimostrato nel terzo volume del «Capitale», altro non sono che forme trasformate del plusvalore stesso. Rilevando il valore determinante della produzione del plusvalore in tutt’intera l’economia capitalistica, Marx ha indicato che la creazione del plusvalore è «l’anima motrice della produzione capitalistica».
Tuttavia, la legge del plusvalore – essendo una legge generale del capitalismo che agisce in tutti gli stadi di sviluppo del modo di produzione capitalistico, – di per sé ancora non caratterizza la specificità del moderno capitalismo monopolistico.
La legge del plusvalore, nei diversi stadi di sviluppo del capitalismo, si realizza in forme concrete differenti. Nelle condizioni del capitalismo premonopolistico essa si attua innanzitutto nella forma di garantire un saggio medio di profitto. Nell’epoca del capitalismo monopolistico invece, come ha dimostrato Stalin, il motore della produzione capitalistica è non già un profitto medio e nemmeno un sovraprofitto, – che è, di regola, soltanto un certo superamento di quello medio, – ma il massimo profitto.
Concretizzando e sviluppando la legge del plusvalore relativamente alle condizioni del capitalismo monopolistico, Stalin ha scoperto la legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo.
«I tratti principali e le esigenze della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo – scrive Stalin, – potrebbero formularsi all’incirca in questo modo: realizzazione del massimo profitto capitalistico mediante lo sfruttamento, la rovina e l’impoverimento della maggioranza della popolazione di un determinato paese, mediante l’asservimento e la spoliazione sistematica dei popoli degli altri paesi, particolarmente dei paesi arretrati, e infine, mediante le guerre e la militarizzazione dell’economia nazionale, utilizzate per realizzare i profitti massimi» («Problemi economici del socialismo nell’URSS»). Questa classica definizione, che è la generalizzazione teorica della moderna realtà capitalistica, svela sia lo scopo della produzione capitalistica nelle condizioni del capitalismo monopolistico, sia i mezzi utilizzati dai monopoli per conseguire questo fine.
Il massimo profitto rappresenta una particolare categoria economica che si distingue in modo sostanziale dal profitto medio. Essi si distinguono: 1) per i destinatari, 2) per entità, 3) per le fonti.
Nell’epoca del capitalismo premonopolistico il profitto medio lo riceveva ogni capitalista individuale nella cui impresa ci fossero condizioni di produzione socialmente normali. Per ciò che riguarda il massimo profitto – tipico dell’epoca del capitalismo monopolistico, – esso invece non è affatto intascato da tutti i capitalisti, ma soltanto dalle unioni monopolistiche dei capitalisti: le piccole e medie imprese capitalistiche non monopolizzate non ricevono alcun massimo profitto. Per di più, siccome i monopoli accrescono i loro profitti a spese di un travasamento, con vari mezzi, di una parte del valore aggiunto delle imprese non monopolizzate, la ricezione del massimo profitto da parte dei monopoli porta a una diretta diminuzione del profitto delle imprese non monopolizzate.
Inoltre, per entità il massimo profitto supera di gran lunga il profitto medio. Certo, la statistica borghese non offre dati degni di fiducia né sul saggio medio di profitto, né sul massimo profitto intascato dai monopoli capitalistici. Tuttavia, perfino quelle poche informazioni che si hanno a tale proposito testimoniano di quanto il tasso di profitto dei monopoli capitalistici superi il saggio medio di profitto. Così, per esempio, nel 1929 il tasso di profitto di tutte le corporazioni degli USA, detratte le contribuzioni, consisteva del 6,7 %, mentre il tasso di profitto di 615 grandi compagnie del 13,4 %. Probabilmente queste cifre sono fortemente ribassate, dato che le compagnie capitalistiche, falsificando i propri bilanci, celano notevoli profitti sotto forma di esagerate detrazioni di ammortamento e di varie riserve più o meno nascoste. Nel suddetto caso, tuttavia, per noi sono importanti non tanto le cifre assolute, quanto la loro correlazione e il fatto che il tasso di profitto di 615 grandi compagnie si sia rivelato due volte maggiore di quella di tutte le corporazioni.
Questo superamento, poi, sarà assai più notevole se si prendono non tutte le grandi corporazioni, ma soltanto le maggiori associazioni monopolistiche. Per esempio, nel 1951 il tasso di profitto in tutta l’industria di lavorazione degli USA era del 27,9 %, ma, oltre a ciò, nel suo capitale la compagnia «Dupont de Nemours» ricevette il 43,3 % dei profitti, la «General Electric Company» il 52,8 %, e la «General Motors Company» il 61,6 %; e questo mentre, dall’altro lato, nelle piccole e medie compagnie con attivi fino a 250mila dollari il tasso di profitto equivaleva soltanto al 17,2 %.
Il profitto massimo si distingue da quello medio non soltanto sotto l’aspetto quantitativo, ma anche qualitativo. Mentre il profitto medio, nell’epoca del capitalismo premonopolistico, aveva quale sua fonte il plusvalore prodotto dal lavoro degli operai salariati, il massimo profitto – caratteristico dell’epoca del capitalismo monopolistico, – si ricava non soltanto a spese dello sfruttamento degli operai salariati, ma anche con lo sfruttamento dei piccoli produttori di merci sia negli stessi paesi capitalistici che in quelli coloniali e dipendenti. In tal modo, se la categoria «profitto medio» esprimeva i rapporti di produzione tra la classe degli operai salariati e la classe dei capitalisti, la categoria «massimo profitto» esprime i rapporti, in primo luogo, tra la borghesia monopolistica e la classe operaia; in secondo luogo tra la borghesia monopolistica e i piccoli produttori di merci all’interno dei paesi capitalistici e, in terzo luogo, tra il capitale monopolistico delle metropoli e le masse lavoratrici sfruttate dei paesi coloniali e dipendenti.
Il massimo profitto si distingue da quello medio anche per i metodi della sua appropriazione. Per il capitalismo monopolistico è innanzitutto caratteristica la vendita delle proprie merci, da parte dei monopoli, al di sopra del loro valore e l’acquisto da parte loro della forza-lavoro al di sotto del suo valore.
Tratto caratteristico del massimo profitto è altresì il fatto che esso esprime altri rapporti all’interno della classe dei capitalisti che non il profitto medio. Mentre la legge del plusvalore significa equiparazione del tasso di profitto per i capitalisti di tutti i settori della produzione, la legge del massimo profitto, al contrario, pone in una posizione diseguale i vari capitalisti in quanto essa presuppone una ridistribuzione del valore aggiunto all’interno della loro classe a tutto vantaggio dei monopolisti e a danno delle imprese non monopolizzate.
Sarebbe però sbagliato ritenere che col sorgere della legge del massimo profitto la legge del plusvalore cessasse la propria azione. Lenin ha indicato che il capitalismo monopolistico rappresenta una sovrastruttura sul vecchio capitalismo della libera concorrenza. Le leggi che sono proprie del capitalismo in generale non cessano di agire neanche nell’epoca del capitalismo monopolistico. Ma la questione di come propriamente agisce la legge del profitto medio nelle condizioni del capitalismo monopolistico esige una specifica elaborazione ed esula dai limiti del presente articolo.
Distinguendosi in modo sostanziale dal profitto medio, il massimo profitto si distingue anche dal comune sovraprofitto che si ricavava ancora nell’epoca del capitalismo premonopolistico.
Un tipico modo di ricavare il sovraprofitto è il perfezionamento della tecnica nelle singole imprese capitalistiche, il quale porta a una crescita del grado di sfruttamento nelle date imprese. A seguito dell’introduzione di perfezionamenti tecnici il valore delle merci, in queste imprese, si abbassa rispetto al valore sociale di queste stesse merci, mentre la differenza tra il valore sociale e quello individuale i singoli capitalisti la intascano nella forma di eccedente valore aggiunto o di sovraprofitto. Inoltre essi ricavano il sovraprofitto soltanto temporaneamente, fino a quando cioè le loro imprese superano le altre del dato settore industriale per attrezzamento tecnico e, di conseguenza, per il livello di produttività del lavoro.
A differenza del sovraprofitto il profitto massimo rappresenta un fenomeno non di breve durata, ma a lungo termine. Probabilmente anche il massimo profitto non è una grandezza costante, dato che esso è soggetto a oscillazioni spontanee, in particolare a seguito dell’alternarsi di riprese, crisi e depressioni industriali. Ciò nonostante, rispetto al profitto delle imprese non monopolizzate esso sta pur sempre ad un livello notevolmente più elevato.
Il concetto di massimo profitto quale motore della produzione capitalistica contemporanea ha un suo determinato contenuto. Il massimo profitto non è semplicemente un maggior profitto. Ogni capitalista cerca sempre di ricavare un maggior profitto. Marx, nel suo lavoro «Teorie del plusvalore», ha sottolineato che scopo della produzione capitalistica è sempre la creazione del massimo di valore aggiunto col minimo di capitale anticipato. Ed è proprio nella loro corsa per un maggior profitto che i capitalisti distolgono i capitali dai settori con una bassa norma di profitto e li investono nei settori con una norma di profitto più elevata. Questo travaso di capitale, tuttavia, e indipendentemente dalla volontà e dai desideri dei singoli capitalisti, porta alla creazione di una norma media di profitto.
Accanto alla concorrenza intersettoriale, che si esprime nel travaso di capitali da alcuni settori di produzione ad altri, si ha anche una concorrenza intrasettoriale. I capitalisti individuali, nella loro corsa per il maggior profitto, introducono nelle loro imprese dei perfezionamenti tecnici, elevano la composizione organica del proprio capitale. Ma, dato che tutti i capitalisti agiscono nella stessa direzione, risultato oggettivo di ciò è un aumento della composizione organica del capitale sociale complessivo, il che, a sua volta, genera la tendenza a una riduzione del tasso medio di profitto.
Il capitalismo monopolistico si distingue da quello premonopolistico per il fatto che il ricavo del massimo profitto, quale profitto che supera non soltanto quello medio ma anche il sovraprofitto, diventa per esso una necessità economica. La questione non sta tanto nel fatto che gli affaristi del capitalismo monopolistico contemporaneo tendano al massimo profitto, ma nella circostanza che l’appropriazione del massimo profitto è per loro una necessità obiettiva, una condizione obbligatoria della riproduzione allargata.
Perché per realizzare una riproduzione più o meno allargata, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, è necessario il massimo profitto, allorché nell’epoca del capitalismo premonopolistico per tale scopo era sufficiente il profitto medio?
Tratto caratteristico del capitalismo monopolistico è la concentrazione della produzione in grandi e gigantesche imprese capitalistiche. Stante l’enorme entità di tutto il capitale investito nelle grandi imprese, in esse assai elevato è il peso specifico del capitale fisso investito nelle macchine e nell’attrezzatura, negli edifici di fabbrica e officina e negli impianti. Stante una più rapida crescita del capitale costante rispetto a quello variabile, a più rapidi ritmi cresce quella parte del capitale costante che è investita nel capitale fisso. Così, per esempio, nell’industria americana, nel periodo 1899-1929, il valore delle materie prime consumate è cresciuto di 5,9 volte, allorché il valore dell’usura delle macchine è salito di 10,4 volte. Ma quanto maggiore è l’intero capitale che opera nelle imprese, e quanto maggiore, in particolare, è il capitale fisso, tanto maggiore sarà il capitale aggiunto che si richiede per la riproduzione allargata. Come Marx ha indicato, «le proporzioni in cui può allargarsi il processo della produzione si determinano non secondo arbitrio, ma sono imposte dalla tecnica». Stante un elevato livello della tecnica nelle grandi imprese capitalistiche, per la riproduzione allargata si richiede un notevole capitale aggiunto, e quindi non ogni profitto è sufficiente per la riproduzione allargata.
La necessità di grandi investimenti aggiuntivi di capitale condiziona altresì il fatto che, con un rapido sviluppo della tecnica, si ha un rapido invecchiamento delle attrezzature, cosicché ai capitalisti non di rado capita di dover rinnovare il proprio capitale fisso molto prima del suo invecchiamento fisico, per cui questo rinnovamento si accompagna solitamente con un aumento della somma generale del capitale operante. In verità, nell’epoca del capitalismo monopolistico agisce anche la tendenza opposta: i monopoli, investendo grandi capitali nei macchinari delle proprie imprese e temendo la perdita di una parte di questi capitali nel caso di un rinnovamento delle attrezzature prima della scadenza della loro utilità fisica, frenano il rinnovamento del capitale fisso. E, ciò nondimeno, la lotta di concorrenza impone necessariamente, di quando in quando, di rinnovare il capitale fisso giunto ad invecchiamento.
Se perfino per allargare le imprese già operative con un elevato livello tecnico si richiedono capitali assai notevoli, capitali ancor più cospicui sono necessari per organizzare nuove imprese.
Nelle condizioni del capitalismo monopolistico per la riproduzione allargata si richiede l’investimento di assai notevoli capitali aggiunti. Inoltre, via via che cresce la composizione organica del capitale il tasso medio di profitto diminuisce. Se la riproduzione allargata si fosse realizzata soltanto a spese del profitto medio le possibilità di crescita della produzione si sarebbero sempre più ridotte. Ancora Marx, rilevando che «con la riduzione del tasso di profitto si riduce anche la norma di accumulazione», indicò: «In quanto la norma di crescita del valore dell’intero capitale, il tasso di profitto, serve da stimolo della produzione capitalistica (parimenti a che la crescita del valore del capitale serve quale suo unico scopo), una riduzione del tasso di profitto rallenta la formazione di nuovi capitali autonomi e, in tal modo, rappresenta una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione» (K. Marx, «Il Capitale», vol. III).
Un importante fattore di riduzione del tasso di accumulazione è il crescente impiego improduttivo del reddito nazionale. Con la crescita del parassitismo e della putrefazione del capitalismo una sempre maggiore quota del reddito nazionale viene spesa sia per il consumo improduttivo degli stessi capitalisti, sia per la copertura di varie spese improduttive quali il mantenimento di un parassitario apparato statale borghese e di un sempre più pletorico apparato commerciale. Infine, la norma di accumulazione si riduce anche a seguito del fatto che, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, sono sempre più frequenti, si inaspriscono e rivestono un carattere di lunga durata le gravi crisi economiche che attanagliano il capitalismo, durante le quali l’accumulazione del capitale viene seguita da una drastica caduta della produzione.
Sicché, se da un lato la colossale concentrazione della produzione, l’elevato livello tecnico e il grande peso specifico del capitale fisso soggetto a rapida usura comportano che, per la riproduzione allargata, si richieda un investimento di enormi capitali aggiunti, dall’altro lato, a seguito della crescita del parassitismo e della putrefazione del capitalismo, aumenta l’impiego improduttivo del valore aggiunto e dell’intero reddito nazionale. E’ in forza di queste condizioni che, per assicurare una più o meno regolare riproduzione allargata si rende necessario, nell’epoca del capitalismo monopolistico, non già un profitto medio, ma il massimo profitto.
Sarebbe certamente sbagliato presumere che i monopoli capitalistici tendano a intascare i massimi profitti in nome della riproduzione allargata. Scopo dei monopoli, infatti, non è tanto la crescita della produzione come tale, ma proprio l’appropriazione del massimo profitto. Tuttavia, indipendentemente da questi motivi che guidano i capitalisti nella loro attività, una più o meno regolare attuazione della riproduzione allargata costituisce una necessità oggettiva. La lotta di concorrenza impone ai capitalisti di allargare la produzione, dato che ogni capitalista che non lo facesse inevitabilmente verrebbe eliminato da concorrenti più potenti e sarebbe privato dell’intero capitale. Come indica Marx, «lo sviluppo della produzione capitalistica rende la continua crescita del capitale investito nell’impresa industriale una necessità, mentre la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi esterne coercitive. Essa gli impone di allargare continuamente il proprio capitale al fine di conservarlo; ma allargare il proprio capitale egli può soltanto mediante una progressiva accumulazione» («Il Capitale», vol. I).
La necessità di un massimo profitto per attuare una più o meno regolare riproduzione allargata non significa affatto che la riproduzione allargata, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, abbia sempre luogo. Nel capitalismo in generale la riproduzione allargata non ha un carattere continuo, dato che la produzione capitalistica si sviluppa in modo ciclico e che, oltre a ciò, la crescita della produzione viene interrotta dalle crisi economiche. Nell’epoca del capitalismo monopolistico questo carattere discontinuo dello sviluppo della produzione capitalistica si rafforza ancor di più, mentre le crisi di sovrapproduzione, che portano a una distruzione delle forze produttive della società, sono più frequenti e si inaspriscono. Per una maggiore lunghezza, profondità e asprezza si caratterizzano le crisi economiche nel periodo della crisi generale del capitalismo, il che, in notevole misura, concorre a un rallentamento dei ritmi medi della riproduzione allargata. Tuttavia, una riduzione dei ritmi di crescita della produzione non significa che la riproduzione allargata cessi di essere una necessità oggettiva o che cessi del tutto. Perfino nella odierna fase della crisi generale del capitalismo, quando le forze produttive segnano il passo e le possibilità di crescita della produzione capitalistica si riducono fortemente a seguito del restringimento del mercato mondiale e della riduzione della sfera di applicazione delle forze dei principali paesi capitalistici alle risorse mondiali, «il carattere ciclico dello sviluppo del capitalismo – la crescita e la riduzione della produzione, – deve tuttavia mantenersi», benché nelle odierne condizioni «la crescita della produzione, in questi paesi, avviene su base ristretta, poiché il volume della produzione in questi paesi si ridurrà» (Stalin, Problemi economici del socialismo nell’URSS).
I monopoli capitalistici ricavano i massimi profitti innanzitutto mediante lo sfruttamento e l’immiserimento della più parte della popolazione di un dato paese e in primo luogo del proletariato.
Nell’epoca del capitalismo monopolistico l’intensificazione dello sfruttamento del proletariato si attua in vari modi, e in particolare mediante il meccanismo dei prezzi di monopolio, per mezzo di una intensificazione del lavoro, dell’inflazione e di una maggiore imposizione fiscale.
Accanto ai prezzi di monopolio un importante fattore della caduta del salario reale è l’inflazione, che rappresenta un fenomeno cronico per quasi tutto l’arco della crisi generale del capitalismo e in particolare per la sua fase attuale.
La crescita dei prezzi sulle merci, che è oggi un effetto sia dei prezzi di monopolio stabiliti dai cartelli e dai trust, sia per l’inflazione che si inasprisce sempre di più, porta a una repentina caduta del salario reale, dato che il salario nominale non aumenta in conformità con la crescita dei prezzi sulle merci di largo consumo. Il divario tra il movimento del salario monetario e il movimento dei prezzi sulle merci si allarga notevolmente in relazione con la politica di “congelamento” dei salari perseguita dai governi borghesi.
I monopoli rafforzano lo sfruttamento degli operai non soltanto con i prezzi di monopolio, ma anche con una intensificazione del lavoro che nell’epoca del capitalismo monopolistico raggiunge il suo massimo grado.
Le risorse carpite dagli Stati borghesi agli operai nella forma di imposte si travasano nelle tasche dei monopolisti attraverso il meccanismo delle redditizie ordinazioni statali. La crescita delle imposte, nelle condizioni dell’odierno capitalismo, è indissolubilmente legata alla corsa agli armamenti e alla militarizzazione dell’economia capitalistica, che serve quale importante strumento di ricavo dei massimi profitti da parte dei monopoli.
All’interno dei propri paesi i monopoli capitalistici spremono il massimo profitto non soltanto a costo di uno smisurato sfruttamento del proletariato, ma anche a spese di un intensificato sfruttamento delle masse lavoratrici non proletarie, e in particolare dei contadini. Lo sfruttamento di questi si attua principalmente attraverso il meccanismo dei prezzi di monopolio. Dominando sul mercato, i monopoli capitalistici stabiliscono elevati prezzi di monopolio sulle merci da essi vendute e bassi prezzi di monopolio sui prodotti agricoli da essi acquistati. Nel periodo dal 1931 al 1938 negli USA i prezzi sulle merci industriali acquistate dai contadini costituivano in media il 120 % rispetto al livello dei prezzi che esisteva prima della prima guerra mondiale, mentre i prezzi sui prodotti agricoli equivaleva soltanto al 94 %.
I monopoli capitalistici, facendo incetta dei prodotti agricoli a prezzi che non coprono il loro valore, vendono poi questi prodotti ai consumatori delle città a prezzi che superano il loro reale valore, ottenendo in tal modo il massimo profitto a spese dello sfruttamento delle masse lavoratrici sia delle città che delle campagne.
I monopoli capitalistici sfruttano le masse lavoratrici delle campagne anche attraverso il meccanismo del credito. Con lo sviluppo del capitalismo nell’agricoltura cresce anche l’indebitamento dei contadini. E, insieme con l’indebitamento, aumenta anche la somma di quelle risorse che il capitale monopolistico succhia alle masse lavoratrici contadine nella forma di pagamenti percentuali.
Un altro mezzo per assicurare il massimo profitto capitalistico sono, come insegna Stalin, l’asservimento e il sistematico saccheggio dei popoli degli altri paesi, e in particolare di quelli arretrati. Principali metodi di saccheggio dei popoli dei paesi coloniali e dipendenti da parte dei monopoli capitalistici sono lo scambio ineguale e l’esportazione di capitale.
Lo scambio ineguale, che si esprime in una esportazione di merci industriali dai paesi capitalistici in quelli coloniali e dipendenti ad elevati prezzi di monopolio e nella contemporanea estrazione da essi di materie prime e derrate alimentari a bassi prezzi di monopolio, dopo la seconda guerra mondiale si è intensificato.
Predicando una politica di blocco economico nei riguardi dei paesi del campo socialista, le potenze imperialistiche, con alla testa gli USA, ostacolano in tutti i modi le relazioni dei paesi coloniali e dipendenti con l’URSS e i paesi di democrazia popolare. Il che riduce artificiosamente le possibilità di smercio per i paesi coloniali e dipendenti e concorre alla caduta dei prezzi sulle loro merci.
Accanto allo scambio non equivalente un enorme ruolo nel saccheggio dei popoli coloniali e dipendenti lo svolge l’esportazione di capitali nei paesi arretrati, dove il profitto è solitamente elevato dato che i capitali sono pochi, il prezzo della terra relativamente basso, il salario pure è basso, e le materie prime a poco prezzo.
Dopo la seconda guerra mondiale gli USA hanno notevolmente aumentato l’esportazione di capitale e hanno superato tutti gli altri paesi capitalistici presi insieme per entità di capitale investito all’estero. La somma generale degli investimenti di capitale USA all’estero è cresciuta dai 12,5 miliardi di dollari del 1939 ai 36,1 miliardi del 1951, e di essi ben 20 miliardi spettano agli investimenti privati, il cui 70-80 % sono investiti nei paesi coloniali e dipendenti.
Il tasso di profitto sugli investimenti di capitale esteri supera notevolmente il tasso di profitto sui capitali investiti all’interno del paese. Così, se prendiamo 100 quale norma di profitto nell’industria di lavorazione degli USA per il 1951, il tasso di profitto sul capitale investito nei paesi dell’America Latina è di 166, nei paesi dell’Europa occidentale è di 145, e negli altri paesi coloniali e dipendenti è di 214.
Un importante mezzo per garantire il massimo profitto ai monopoli è l’artificiosa conservazione, da parte dell’imperialismo, dei residui feudali nei paesi coloniali e dipendenti. L’oppressione delle sopravvivenze feudali, insieme con quella coloniale imperialistica, frena lo sviluppo dell’industria in questi paesi, il che concorre a una crescita dei prezzi delle merci sui mercati coloniali e a un ricavo maggiore dei massimi profitti da parte dei monopoli stranieri.
Un terzo metodo per assicurare il massimo profitto per i monopoli sono le guerre e la militarizzazione dell’economia nazionale.
Lenin e Stalin hanno più volte rilevato che le guerre servono quale strumento per ricavare enormi profitti da parte dei monopoli capitalistici, e che colossali profitti di guerra sono ricavati a spese di un immiserimento delle masse popolari e di un estremo abbassamento del livello di vita dei lavoratori.
Durante la prima guerra mondiale i monopoli capitalistici guadagnarono enormi profitti, ma profitti ancor più grandiosi essi ricavarono nel periodo della seconda guerra mondiale. Particolarmente grandi furono i profitti dei monopoli americani, che ricevettero colossali ordinazioni militari dal governo a prezzi di favore. Dell’eccezionale arricchimento dei monopoli americani sul sangue delle masse popolari è prova il fatto che nei sei anni della seconda guerra mondiale (1940-1945) i profitti delle corporazioni americane hanno raggiunto i 116,8 miliardi di dollari contro i 26,6 miliardi dei sei anni prebellici; il che significa un aumento di 4,4 volte. Per ciò che riguarda i grandi monopoli, poi, i loro profitti sono aumentati in misura ancora maggiore. Così, per esempio, il profitto di 34 compagnie, nel 1942, superava il profitto medio annuo degli anni 1936-1939 di quasi 10 volte, mentre il profitto delle cinque maggiori compagnie di più di 100 volte.
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo determina tutti i principali aspetti e tutti i principali processi di sviluppo della produzione capitalistica nella sua fase monopolistica. Essa svolge un ruolo decisivo nell’economia capitalistica, e determina un estremo inasprimento delle contraddizioni che sono proprie all’imperialismo.
Questa legge spiega tutti i principali fenomeni presenti nell’economia e nella politica dell’imperialismo. E innanzitutto, si deve rilevare che l’azione di questa legge si rispecchia in tutti e cinque i contrassegni dell’imperialismo rivelati da Lenin.
Fondamento economico dell’imperialismo è il monopolio. Le unioni monopolistiche dei capitalisti, in tutta la loro attività, sono guidate dalla corsa al massimo profitto. E proprio per ricavare il massimo profitto i grandi capitalisti si uniscono in monopoli che stabiliscono prezzi elevati sulle merci e sottopongono a sfruttamento e a saccheggio le masse popolari sia all’interno dei propri paesi che all’estero. In nome del massimo profitto i monopoli conducono l’un l’altro una esasperata lotta di concorrenza.
La corsa al massimo profitto penetra anche l’attività dei monopoli bancari. Gli apologeti borghesi mascherano in tutti i modi il fatto che scopo effettivo sia dei monopoli industriali che di quelli bancari è l’appropriazione del massimo profitto; essi raffigurano falsamente i monopoli quali «organizzatori» della vita economica che attuano una «regolazione cosciente» dell’economia nell’interesse della società. Denunciando i lacchè del sacco di scudi, Lenin indicò invece che questa «regolazione cosciente» attraverso le banche consiste nel derubare la gente da parte di un pugno di monopolisti organizzati.
La fusione, o compenetrazione, del capitale bancario monopolistico con il capitale industriale monopolistico – che porta alla formazione del capitale finanziario e di una oligarchia finanziaria, – è altresì strettamente legata alla legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. La sempre maggiore penetrazione delle grandi banche nell’industria mediante l’accaparramento di azioni delle imprese industriali, l’emissione di carte valori e la partecipazione alla costituzione di nuove società per azioni, tutto questo serve quale strumento finalizzato al massimo profitto da parte dei monopoli bancari. «Il capitale finanziario concentrato in poche mani e che gode del monopolio di fatto, ricava un enorme e sempre crescente profitto dall’emissione di carte valori, dai prestiti statali, ecc., rafforzando il dominio dell’oligarchia finanziaria e obbligando l’intera società a pagare un tributo ai monopolisti» (Lenin, Opere, vol. 22).
Uno degli aspetti più tipici del capitalismo monopolistico è l’esportazione di capitale, anch’essa legata alla legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. Come si è già mostrato più sopra, l’esportazione di capitale serve quale importante strumento finalizzato al massimo profitto mediante il sistematico saccheggio dei popoli degli altri paesi, e in particolare di quelli arretrati.
Nell’epoca dell’imperialismo si inasprisce drasticamente la contraddizione fondamentale del capitalismo, quella cioè tra il carattere sociale della produzione e la forma capitalistica di appropriazione dei risultati della produzione. Nella corsa per il massimo profitto i monopoli concentrano nelle loro mani una sempre maggior parte del capitale sociale complessivo e della produzione, consolidano le proprie imprese, si impadroniscono delle fonti mondiali di materia prima, delle vie e dei mezzi di comunicazione, ecc. A seguito di ciò si accresce la socializzazione della produzione, in sorprendente contraddizione con la quale si ha la forma capitalistica privata dell’appropriazione.
La corsa dei monopoli al massimo profitto e lo sfruttamento, la rovina e l’immiserimento delle masse popolari portano ad un aggravarsi della incompatibilità tra la crescita delle possibilità produttive del capitalismo e la riduzione della domanda solvibile; il che, inevitabilmente, condiziona la frequenza, l’approfondirsi e l’acuirsi delle crisi economiche. Oltre a ciò i monopoli, cercando così di garantirsi elevati profitti, si provano a mantenere prezzi elevati sulle loro merci perfino durante le crisi, il che ostacola il riassorbimento dell’eccesso di merci presente sul mercato e porta a un perdurare delle crisi. Tuttavia, per quanto i monopoli cerchino di mantenere elevati i prezzi durante le crisi, l’interruzione della realizzazione delle merci e la repentina caduta dei loro prezzi portano inevitabilmente a che, negli anni di crisi, perfino i profitti dei monopoli cadano visibilmente. La dialettica è tale che, in nome del massimo profitto, i monopoli intensificano al massimo lo sfruttamento e l’immiserimento delle masse lavoratrici; poi l’immiserimento delle masse, stante una simultanea crescita della produzione capitalistica, porta alle crisi, e queste crisi sono seguite da una caduta della massa e del tasso di profitto.
L’imperialismo è capitalismo morente, la vigilia della rivoluzione socialista, perché nell’epoca dell’imperialismo raggiungono una asprezza estrema le contraddizioni tra il lavoro e il capitale, tra le metropoli e le colonie, e tra le stesse potenze imperialistiche.
Nell’epoca del capitalismo monopolistico la contraddizione tra il lavoro e il capitale si inasprisce al massimo grado in virtù del fatto che lo sfruttamento, la rovina e l’immiserimento delle masse lavoratrici a seguito dell’azione della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo raggiungono il loro limite estremo.
Lo sfruttamento e il saccheggio dei popoli coloniali portano a una crescita del malcontento di questi popoli, a una ripresa della lotta di liberazione nazionale contro l’imperialismo, e questo concorre alla trasformazione dei paesi coloniali e dipendenti da riserve dell’imperialismo in riserve della rivoluzione proletaria.
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo suscita un ulteriore inasprimento delle contraddizioni anche all’interno dello stesso campo imperialista. La lotta dei monopolisti dei singoli paesi per il massimo profitto li costringe a cercare di ottenere il possesso di monopolio delle colonie e delle sfere d’influenza, dato che proprio il dominio di monopolio sui mercati dei paesi coloniali e dipendenti garantisce loro la possibilità di appropriarsi del massimo profitto. Tuttavia, dato che il mondo è già diviso tra un pugno di «grandi potenze» e che i vari paesi capitalistici si sviluppano in modo estremamente ineguale, la lotta per il massimo profitto si trasforma inevitabilmente in una lotta per la spartizione del mondo mediante le guerre imperialistiche. In tal modo l’azione della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo, così come la legge – ad essa subordinata – dell’ineguale sviluppo del capitalismo nell’epoca dell’imperialismo, condiziona l’inevitabilità degli scontri, dei conflitti e delle guerre tra le potenze imperialistiche. Stalin, rilevando che la tesi leniniana sulla inevitabilità delle guerre tra paesi capitalistici rimane in vigore anche al tempo presente, osserva che l’Inghilterra e la Francia non possono contenere all’infinito l’espansione coloniale dell’imperialismo americano se non col risultato di minacciare una catastrofe per gli elevati profitti dei capitalisti anglo-francesi.
Il valore decisivo della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo nel preparare le condizioni di una trasformazione rivoluzionaria del sistema capitalistico è stato rilevato dal Rapporto al XIX Congresso del PC(b) dell’URSS con le seguenti parole: «Questa legge svela e spiega le stridenti contraddizioni del capitalismo, rivela le cause e le radici della aggressiva politica di rapina degli Stati capitalistici. L’azione di questa legge conduce ad un approfondirsi della crisi generale del capitalismo, ad un inevitabile accrescimento e scoppio di tutte le contraddizioni della società capitalistica».
La conoscenza di questa legge offre ai lavoratori un chiaro orientamento negli avvenimenti storici contemporanei, dischiude dinanzi a loro una chiara prospettiva rivoluzionaria e li arma della ferma convinzione nella vittoria finale del comunismo sul capitalismo.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:08
view post Posted: 9/3/2013, 20:28 Engels e la società comunista - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy filosofii», rivista teorica mensile dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, n. 8, 1955:


Engels e la società comunista


All’opera scientifica di Engels ci si deve accostare da posizioni storiche, legando cioè ogni suo passo nella scienza allo sviluppo del movimento rivoluzionario del proletariato, quale sua arma teorica, fin dal suo sorgere, è servito il marxismo. Benché il carattere del lavoro scientifico di Engels sia mutato in dipendenza della situazione storico-concreta, dei nuovi compiti sorti dinanzi al marxismo e al movimento operaio – e conformemente a questo si è venuta a mutare anche la tematica stessa delle sue indagini scientifiche, – tuttavia si è avuto in esso qualcosa che, pur restando se stesso, si è perfezionato e sviluppato ulteriormente e si è arricchito dei nuovi dati della scienza e della pratica, assimilando in se’ la loro quintessenza, la dialettica materialistica, – che si manifesta invariabilmente in tutti gli aspetti dell’attività scientifica di Engels, in tutti i suoi lavori scientifici.
Negli scritti di Engels, come anche nei lavori di Marx, ha ricevuto una sua circostanziata argomentazione quella parte integrante del marxismo che corona l’intero armonioso edificio della teoria marxista, – la teoria del comunismo scientifico. E una serie di suoi problemi, in modo più completo e profondo, li elaborò propriamente Engels stesso. Nel tempo presente, quando l’edificazione del comunismo è diventata opera pratica di centinaia di milioni di persone, un particolare valore lo riveste quella parte del comunismo scientifico che si potrebbe definire come teoria della società comunista.
Di concezioni di Engels sulla futura società comunista si può certamente parlare solo quando egli stesso è ormai passato al comunismo vero e proprio. E ci sono ragioni di credere che un tale passaggio egli l’avesse compiuto ancora prima del suo arrivo in Inghilterra, nell’autunno del 1842. Agli inizi questo era un comunismo prescientifico e nell’insieme ancora utopistico, ma tuttavia rivoluzionario. Nel contempo l’attenzione di Engels verso gli interessi materiali e la lotta di classe del proletariato predeterminarono sicuramente la tendenza di sviluppo delle sue originarie concezioni comuniste nella direzione di una teoria autenticamente scientifica. Ma il passaggio di Engels alla elaborazione di un comunismo scientifico si ebbe soltanto in Inghilterra, con tutta probabilità non più tardi del novembre 1843.

L’adesione al socialismo scientifico
Dell’originario passaggio di Engels al comunismo è prova la sua corrispondenza «Le crisi interne» (30 novembre 1842) alla fine della quale egli traccia una distinzione – caratteristica per i comunisti di quel tempo, – tra rivoluzione sociale e politica, per poi passare alla conclusione che in Inghilterra si è in vista di una violenta rivoluzione sociale del proletariato. Le prime dirette enunciazioni di Engels sulla futura società comunista appaiono quasi un anno più tardi in un suo articolo («I successi del movimento per la trasformazione sociale nel continente») in cui egli, per l’appunto, comunica il passaggio di una parte dei giovani hegeliani al cosiddetto «comunismo filosofico»: «Già nell’autunno del 1842 alcuni esponenti del partito giunsero alla conclusione che i soli mutamenti politici erano insufficienti, e dichiararono che soltanto in presenza di una rivoluzione sociale basata sulla proprietà collettiva si instaura un ordine sociale che risponde ai loro principi astratti».
Se al novero di questi «alcuni» apparteneva anche Engels, ciò significa che egli già allora si rappresentava la futura società come basata sulla proprietà sociale, cioè come una società comunista.
E l’esigenza di distruggere la proprietà privata è il tratto distintivo più comune e al tempo stesso più profondo di ogni teoria comunista. D’altronde, la proprietà comune, quale fondamento della società, rappresenta il principale tratto distintivo, la prima caratteristica della società comunista. Marx e Engels, caratterizzando il comunismo nella sua forma più generale, l’hanno più volte identificato con la distruzione della proprietà privata.
Così, per esempio, nei suoi «Manoscritti economico-filosofici» Marx ha definito il comunismo come «soppressione positiva della proprietà privata». Nell’«Ideologia tedesca», poi, la distruzione della proprietà privata si identifica con la rivoluzione comunista, mentre Engels, nei suoi «Principi del comunismo», scrisse che «la distruzione della proprietà privata rappresenta la più breve e più generalizzante espressione» della trasformazione comunista della società e che «quindi i comunisti avanzano del tutto giustamente, quale loro principale esigenza, la distruzione della proprietà privata». Infine, nel «Manifesto del Partito comunista» si afferma che «i comunisti possono esprimere la propria teoria con un solo principio: distruzione della proprietà privata».
Engels parte qui dal fatto che la base della futura società comunista sarà la proprietà sociale, mentre la via per conseguirla è una violenta rivoluzione sociale che deve essere attuata dal proletariato.
A questa idea direttiva se ne aggiunge ora un’altra, – quella del carattere storicamente regolare e al tempo stesso internazionale dell’incipiente rivoluzione sociale: «Il comunismo non è la conseguenza di una particolare situazione dell’Inghilterra o di qualsiasi altra nazione, ma una conclusione che deriva inevitabilmente dalle premesse poste nelle condizioni generali della moderna civiltà».

Distruzione della proprietà privata
Questo è un passo molto importante. Il comunismo, vi si dice, è il risultato dello sviluppo della società contemporanea. E in quanto le condizioni di esistenza dei moderni paesi civilizzati – Inghilterra, Francia, Germania, – siano per essi comuni, anche il risultato deve essere lo stesso per tutti, – la rivoluzione sociale, la distruzione della proprietà privata e l’instaurazione della proprietà sociale quale fondamento della nuova società comunista. Il passaggio decisivo verso l’elaborazione di una concezione veramente scientifica della futura società comunista Engels lo compì nel suo scritto «Abbozzi per una critica dell’economia politica», scritto, con tutta probabilità, non più tardi del novembre 1843. Gli «Abbozzi» sono la prima specifica ricerca economica di Engels. E al tempo stesso, è questa la prima esperienza di analisi scientifica dell’economia politica borghese dalle posizioni della classe operaia rivoluzionaria. «Negli “Abbozzi” – secondo le parole di Marx, – erano già formulati alcuni principi generali del socialismo scientifico». Le acquisizioni scientifiche di questo lavoro furono condizionate dal fatto che ai problemi dell’economia politica Engels si accostò da un punto di vista conseguentemente dialettico e comunista. Anche qui, come in precedenza, figura la tesi fondamentale della necessità di distruggere la proprietà privata. E, con la distruzione della proprietà privata, scompaiono la contrapposizione degli interessi e la concorrenza. Al posto della concorrenza, come lotta di interessi contrapposti, si avrà la concorrenza più autentica, vale a dire l’emulazione. Per la prima volta in Engels appare qui il principio dell’infinito sviluppo in avvenire delle forze produttive: «La forza produttiva che si trova a disposizione dell’umanità – egli dice, – è illimitata».
Lo sviluppo delle forze produttive, nella futura società, è necessario riportare a una riduzione del tempo di lavoro: «Questa illimitata capacità produttiva, essendo utilizzata coscientemente e nell’interesse di tutti, poco dopo verrebbe ridotta alla minima quota di lavoro che spetta all’umanità».
In tutte le enunciazioni riportate Engels, in sostanza, ancora quasi non esce dai limiti delle idee dei suoi predecessori. Ma in un campo egli sviluppa dei pensieri che in essi non troviamo, ed è proprio in quel campo che è direttamente legato alla sua propria analisi economica. Anche qui compare qualcosa di sostanzialmente nuovo. E questo nuovo viene a formare quel secondo, evidentemente più tardo, strato nelle sue concezioni di allora sulla società comunista e che si può distinguere dalle tradizionali rappresentazioni comuniste di quel tempo.
Una specificamente nuova deduzione di Engels è qui il principio della sorte del valore – e, di conseguenza, della legge del valore, – dopo la distruzione della proprietà privata. Sottoponendo ad analisi critica la categoria del valore, Engels giunge qui al seguente risultato: «Quando la proprietà privata sarà distrutta non si potrà più parlare di scambio nella forma in cui esso esiste ora. L’applicazione pratica del concetto di valore si limiterà allora sempre più alla soluzione della questione della produzione, e questa è la sua autentica sfera». In un passo degli «Abbozzi» noi troviamo perfino una allusione al processo di graduale limitazione in avvenire – cioè dopo la distruzione della proprietà privata, – della sfera di azione della legge del valore. Engels afferma letteralmente quanto segue: «L’applicazione pratica del concetto di valore («quando la proprietà privata sarà distrutta») si limiterà allora sempre più alla soluzione della questione della produzione…». Il che significa che nella futura società, nel corso di un certo tempo, l’azione della legge del valore, ed entro certi limiti, si conserverà.
Una fase decisiva nel processo di divenire della teoria della società comunista è poi costituito dal comune lavoro di Marx e di Engels sull’«Ideologia tedesca». Qui la concezione materialistica della storia viene elaborata quale diretto fondamento filosofico della teoria del comunismo scientifico. E, nei limiti di quest’ultima, anche qui si elabora la teoria della società comunista.
Nell’«Ideologia tedesca», in modo più esauriente e circostanziato di prima, si argomenta la stessa necessità della rivoluzione proletaria e comunista, e lo si fa in un modo puramente materialistico. Nel modo più deciso la necessità di un metodo propriamente rivoluzionario, e non altro, di trasformazione della società borghese in comunista viene formulata in quella parte del manoscritto del primo capitolo dell’«Ideologia tedesca» in cui gli autori riassumono le conclusioni che derivano dalla concezione materialistica della storia. E la principale di tali conclusioni è per l’appunto quella che riguarda la necessità di una rivoluzione comunista. Essa viene formulata nella forma di quattro punti, e l’ultimo di essi presenta nel dato caso il maggior interesse: «4) come per il prodotto di massa di questa coscienza comunista, come per il conseguimento del fine stesso, è necessario un mutamento di massa degli uomini che è possibile soltanto nel movimento pratico, in una rivoluzione; di conseguenza, la rivoluzione è necessaria non soltanto perchè in nessun altro modo è possibile rovesciare la classe dominante, ma anche perchè la classe rovesciante soltanto in una rivoluzione può togliersi di dosso tutto il vecchio marciume e rendersi capace di creare una nuova base della società».
Sicché la rivoluzione presenta un duplice processo: un mutamento delle condizioni di vita degli uomini e, al tempo stesso, un mutamento degli uomini stessi che compiono la rivoluzione.
Nell’«Ideologia tedesca», inoltre, Marx e Engels, e per la prima volta – anche se in forma ancora generica e non ben definita, – enunciarono l’idea di una dittatura del proletariato, che per la teoria politica del marxismo è a dir poco fondante. Ecco questa formulazione: «ogni classe che tende al dominio – perfino se il suo dominio determina, come si ha con il proletariato, la distruzione dell’intera vecchia forma sociale e del dominio in genere, – deve innanzitutto conquistarsi il potere politico».

La dittatura del proletariato
Per la prima volta nella storia del comunismo l’idea di una dittatura rivoluzionaria dei lavoratori nel periodo di transizione venne avanzata dai seguaci di Babeuf. Questa idea, poi, – la ereditò da essi Louis Blanqui, il quale però la intese come dittatura di un esiguo numero di rivoluzionari. Alla tradizione babuvista aderisce anche il Weitling, il quale riteneva che per instaurare una nuova organizzazione della società sarebbe stata necessaria una dittatura, da lui però non ben definita in termini concreti. A differenza dei loro predecessori Marx e Engels intesero invece la dittatura del proletariato come dittatura di una classe, e per di più di una classe creata dallo sviluppo della grande industria, – il moderno proletariato.
Alla distruzione della proprietà privata è direttamente legata la distruzione della divisione del lavoro e delle classi.
Una delle conseguenze della divisione del lavoro, nelle condizioni di una società che si è formata spontaneamente, è l’isolamento delle professioni e la soggezione di ogni individuo a questa o a quella di esse, vale a dire la fissazione praticamente a vita alla propria professione. A seguito di ciò l’attività d’insieme degli uomini viene ad estraniarsi dal loro controllo e si trasforma in una forza a loro estranea e contrapposta e che domina su di essi. Si ha così l’alienazione dell’attività sociale. La trasformazione comunista della società, distruggendo la divisione classista del lavoro, elimina anche queste sue conseguenze: «Non appena si inizia la divisione del lavoro in ognuno compare una qualsiasi determinata ed esclusiva cerchia di attività che a lui si impone e dalla quale egli non può uscire: egli è un cacciatore, un pescatore o un pastore, e tale deve rimanere se non vuole privarsi dei mezzi per la vita, – e questo allorchè nella società comunista, dove nessuno è limitato da una qualsiasi esclusiva cerchia di attività, ma ognuno può perfezionarsi in qualsivoglia ramo, la società regolerà l’intera produzione, e proprio per questo creerà per me la possibilità di fare oggi una cosa e domani un’altra; la mattina cacciare, dopo mezzogiorno pescare, la sera occuparmi dell’allevamento e dopo cena dedicarmi alla critica, senza rendermi, per questo, cacciatore, pescatore, pastore o critico». C’è da credere che questo pensiero derivi principalmente da Engels.
Per i nostri contemporanei che oggi osservano un processo di sempre maggiore specializzazione del lavoro sia fisico che intellettuale, una tale prognosi può forse apparire inverosimile. Ma chiariamoci una cosa: qui non si nega affatto l’esistenza nella società comunista di una divisione professionale del lavoro, – cioè l’esistenza di differenti specialità, – ma di professioni a vita, della fissazione ad una determinata specialità, della necessità in virtù di circostanze esterne (sotto minaccia di privarsi dei mezzi di vita) di occuparsi di un solo ed esclusivo tipo di lavoro, – questo, nella società comunista, non ci sarà più. E tale conclusione deriva rigorosamente dalla premessa che la divisione classista del lavoro sarà distrutta.
Ma nella prognosi degli autori dell’«Ideologia tedesca» c’è anche un altro elemento, – la concretizzazione di come sarà vista l’attività degli uomini quando scomparirà la divisione di classe del lavoro e con essa la fissazione a vita a una determinata professione. Anche qui gli autori tracciano un quadro che ricorda molto da vicino le rappresentazioni di Fourier. Ma di per sé una tale somiglianza ancora non è prova dell’erroneità di un simile quadro. Il Fourier avanzò assai seri argomenti a favore di un tal genere di cambiamenti di attività. Ma nella concezione qui svolta c’è una differenza sostanziale da Fourier: la possibilità del libero passaggio da un tipo di lavoro ad un altro si motiva col fatto che «la società regolerà l’intera produzione e proprio per questo creerà per me la possibilità di fare oggi una cosa e domani un’altra». Vale a dire, non lo spontaneo gioco delle passioni che staticamente si equilibrano reciprocamente l’un l’altra (come si ha, per l’appunto, in Fourier), ma la cosciente e pianificata organizzazione della produzione che crea la possibilità di una libera scelta per ogni suo partecipe.
La conclusione che nella società comunista gli uomini passeranno liberamente da una forma di attività ad un’altra è indiscutibilmente giusta. Ma come si attuerà tale passaggio (quanto sovente, ecc.), questo dipenderà da fattori che nell’«Ideologia tedesca» semplicemente non vengono presi in esame.
Allo stesso problema Engels ritornerà ancora una volta nell’«Antiduhring», dove esso riceverà un suo ulteriore sviluppo.
A questo problema ne è strettamente legato un altro, – la distruzione della contrapposizione tra la città e la campagna, contrapposizione che è altresì conseguenza della divisione di classe del lavoro. Benchè la necessità di distruggere la contrapposizione tra città e campagna sia stata prevista già dai predecessori di Marx e di Engels – e in particolare da Fourier e da Owen, – tuttavia soltanto la concezione materialistica della storia ha consentito anche qui di darne una motivazione rigorosamente scientifica.
Nella letteratura marxista questo problema compare per la prima volta nell’«Ideologia tedesca»: «La maggiore divisione del lavoro materiale e spirituale è la separazione della città dalla campagna… La contrapposizione tra la città e la campagna può esistere soltanto entro i limiti della proprietà privata. Essa esprime nella forma più drastica la soggezione dell’individuo alla divisione del lavoro e a una determinata attività a lui legata, – soggezione che trasforma l’uno in un limitato animale cittadino, e l’altro in un limitato animale di campagna, e che quotidianamente rigenera la contrapposizione tra i loro interessi… La distruzione della contrapposizione tra città e campagna rappresenta una delle prime condizioni della unità sociale, condizione che, a sua volta, dipende da una quantità di premesse materiali e che, come risulta evidente già a un primo sguardo, non può essere attuata da una sola volontà».

La divisione del lavoro e la contrapposizione tra città e campagna
La contrapposizione tra città e campagna è conseguenza della divisione del lavoro e può essere distrutta soltanto in presenza di determinate premesse materiali. E’ evidente che la prima di tali premesse deve essere un abbastanza elevato grado di sviluppo delle forze produttive. Tale è la concezione specificamente materialistica elaborata nell’«Ideologia tedesca».
«La contrapposizione tra città e campagna può esistere soltanto entro i limiti della proprietà privata». E’ chiaro che qui il discorso riguarda la contrapposizione di classe e non l’essenziale distinzione tra la città e la campagna. Tuttavia in avvenire scomparirà anche questa differenza. Una tale conclusione deriva da quel passo dell’«Ideologia tedesca» dove si parla di «eliminazione della città e della campagna». Si ha qui presente, naturalmente, non la distruzione fisica dell’una e dell’altra, ma la distruzione di ciò che le distingue e contrappone l’una all’altra, come città distinta dalla campagna e come campagna distinta dalla città. In tal modo il discorso riguarda qui non già la distruzione della contrapposizione classista, ma la distruzione, per così dire, della loro contrapposizione materiale, cioè la distruzione della diversità esistente tra la città e la campagna.
La produzione è la base dell’esistenza della società. Per cui l’attività produttiva degli uomini sarà, come prima, l’aspetto principale della loro attività vitale, anche se il suo carattere verrà a mutare radicalmente. Questo mutamento sarà così profondo che, nell’«Ideologia tedesca», Marx e Engels parlano continuamente perfino di «distruzione del lavoro».
Che cosa significa questa espressione? Che questa sia forse la manifestazione di una certa immaturità del pensiero degli autori dell’«Ideologia tedesca»? Niente affatto. L’affermazione di Marx e di Engels ha un suo senso pienamente razionale, benchè essa sia espressa in una forma per noi inusuale.
Nell’originale l’espressione «distruzione del lavoro» suona, in tedesco, così: «Aufhebung der Arbeit». «Aufhebung» è un termine della dialettica hegeliana che nella letteratura filosofica si traduce con la parola artificialmente inventata di «il togliere». Questo concetto significa, al tempo stesso, «distruzione» e «conservazione»: distruzione degli uni momenti e conservazione di altri. E oltre a ciò, esso significa anche «elevazione», cioè il passaggio a un più elevato grado di sviluppo. In tal modo, a rigor di termini, Marx e Engels parlano non già di «distruzione del lavoro», ma del «togliere lavoro», e quindi di un profondo mutamento del carattere stesso del lavoro.
Ma in che cosa si trasformerà l’attività degli uomini dopo la «distruzione del lavoro», vale a dire nella società comunista? Questa nuova forma di attività Marx e Engels la definiscono come iniziativa (in tedesco: Selbsbetatigung). Il lavoro si trasformerà in iniziativa, cioè da attività a costrizione esterna in attività a stimolo interiore. «Soltanto i moderni proletari, del tutto privi di ogni iniziativa, sono in grado di conseguire una propria completa e non più limitata iniziativa che consiste nell’appropriarsi di tutto l’insieme delle forze produttive e nel risultante sviluppo di tutto l’insieme delle loro capacità».
Nella società comunista il ruolo della coscienza sociale diverrà sostanzialmente altro. «La coscienza non potrà mai essere altro che l’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il reale processo della loro vita». La coscienza altro non è che «la presa di coscienza della pratica esistente». E’ naturale, quindi, che col mutare dell’essere degli uomini venga a mutare anche la loro coscienza. Insieme con la trasformazione della base economica della società si trasformerà l’intera società nel suo insieme e quindi anche le forme della coscienza sociale.
Ma in che cosa consisteranno i mutamenti della coscienza sociale durante la transizione al comunismo?
La coscienza degli uomini diventerà più ricca e, sotto ogni riguardo, più sviluppata. Ma «la effettiva ricchezza spirituale dell’individuo dipende interamente dalla ricchezza dei suoi rapporti effettivi». Nelle condizioni di una società basata sulla divisione del lavoro e sulla proprietà privata i rapporti tra gli uomini diventano unilateralmente limitati e si riducono, in sostanza, a un rapporto di compravendita. E, a tale situazione, corrisponde anche una coscienza unilateralmente limitata. Con la distruzione della divisione del lavoro e della proprietà privata, invece, l’attività dell’uomo diventerà più varia e multiforme e, con essa, diverrà più versatilmente sviluppata anche la sua coscienza.
Dopo la Comune di Parigi viene a crearsi una nuova situazione storica e, nel contempo, si inizia un nuovo periodo anche nella storia del marxismo, – uno dei più fecondi periodi nella vita di Engels-teorico.
In precedenza si è già indicato quali essenziali progressi avesse compiuto Engels nelle sue concezioni riguardanti le sorti dello Stato nell’avvenire e circa il ruolo della coscienza nella futura società. In tutta una serie di lavori, lettere e interventi egli sviluppa anche altri aspetti della teoria marxista della società comunista («Sulla questione delle abitazioni», «La letteratura dell’emigrazione», la lettera a Bebel del 18-28 marzo 1875 con la critica del progetto del Programma di Gotha, ecc.). Ma un posto particolare e centrale nella sua attività teorica, in questo periodo, lo occupa il lavoro sull’«Antiduhring», che rappresenta una autentica enciclopedia del marxismo.
Nel I capitolo dell’«Introduzione» e nel I capitolo della terza sezione Engels segue il processo di sviluppo del socialismo dall’utopia alla scienza. E, chiarendo le ragioni di questo sviluppo, egli al tempo stesso individua in che risiede la distinzione di principio tra l’utopia e la scienza.
La sua spiegazione presenta per noi un interesse niente affatto puramente storico. E questo perchè dal chiarimento di questa distinzione deriva poi la comprensione della specificità della prognosi scientifica dell’avvenire, della specificità della teoria scientifica della società comunista.
Iniziando la sua analisi, Engels indica subito una duplice dipendenza del moderno socialismo scientifico: dalla sua base sociale e, in ultima analisi, economica (che è poi la dipendenza principale e determinante) e dalle sue premesse teoriche, dal «materiale ideale accumulato prima di esso». La stessa cosa, evidentemente, si può dire anche di una parte integrante di questa moderna dottrina, – la teoria della futura società comunista. E questo perchè anch’essa non soltanto cresce dall’analisi della storia della società, della società esistente e delle tendenze del suo sviluppo, ma parte anche dal materiale ideale accumulato prima di essa.

Movimento operaio e socialismo scientifico
Le idee socialiste rappresentano una più o meno adeguata espressione teorica del movimento proletario, e dal grado di sviluppo del proletariato, dal grado di maturità della lotta di classe tra il proletariato e la borghesia dipende il carattere delle idee socialiste.
Per trasformare il socialismo in una scienza è stato necessario situarlo su di un terreno reale. Engels mostra qui in che modo si vennero a creare le oggettive premesse per fare ciò: sviluppo della grande industria, della lotta di classe tra il proletariato e la borghesia, e della concezione materialistico-dialettica.
Ma in che cosa risiede la specifica distinzione del socialismo scientifico da quello utopistico?
In primo luogo, la base teorica del socialismo scientifico sono: 1) il metodo dialettico, 2) la concezione materialistica della storia, e 3) la teoria del plusvalore. In secondo luogo, il socialismo scientifico è l’espressione teorica del movimento proletario, cioè esso esprime gli interessi del moderno proletariato industriale.
In terzo luogo, il socialismo scientifico è il prodotto specifico dell’epoca della grande industria, dato che in ogni altra epoca in cui non fossero ancora maturate le oggettive premesse materiali della trasformazione comunista della società esso sarebbe stato impossibile.
Tali sono le premesse teoriche, di classe ed economiche del socialismo scientifico.
Da qui derivano poi le specifiche particolarità della teoria scientifica della futura società comunista. E sua base è la concezione materialistico-dialettica dello sviluppo della società. Engels così rileva tali particolarità della teoria scientifica dell’avvenire: 1) gli elementi dell’avvenire essa cerca di rinvenire mediante l’analisi della società esistente (evidentemente, facendo leva sulla conoscenza delle regolarità di sviluppo della società evidenziate mediante l’analisi dell’intera sua storia precedente), 2) questa analisi è innanzitutto e principalmente rivolta alla base economica della società, il cui sviluppo in definitiva determina l’intero sviluppo della società, 3) la teoria scientifica rifugge la eccessiva dettaglizzazione delle deduzioni e delle rappresentazioni riguardo al futuro (è evidente che la misura della concretizzazione è definita dalle condizioni oggettive e non da considerazioni arbitrarie).
Un importante rilievo ha pure il II capitolo della terza sezione dell’«Antiduhring», nel quale Engels viene a chiarire la contraddizione fondamentale del capitalismo. Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico tra il carattere sociale della produzione e la forma privata dell’appropriazione, – di conseguenza, tra le nuove forze produttive e gli invecchiati rapporti di produzione, l’invecchiata forma di proprietà, che è propriamente quella privata, – è sorta una contraddizione. E «in questa contraddizione, che conferisce al nuovo modo di produzione il suo carattere capitalistico, già si contengono in germe tutte le collisioni del presente».
Ma in che cosa risiede la soluzione di questa contraddizione?
Lasciamo parlare Engels: «Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali si sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua…
Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all’anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico… verrà sostituito da un nuovo modo di appropriazione dei prodotti…: da una parte da un’appropriazione direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione, e dall’altra da un’appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza e di godimento.
Trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, il modo di produzione capitalistico crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento… Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma con ciò stesso esso sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e sopprime anche lo Stato come Stato… Quando lo Stato, infine, diventerà realmente il rappresentante dell’intera società, allora esso si renderà superfluo. Non appena non ci saranno più le classi sociali da mantenere nell’oppressione, non appena con l’eliminazione del dominio di classe e della lotta per l’esistenza individuale fondata sull’anarchia della produzione sinora esistente saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue.
Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società verrà eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori. L’anarchia all’interno della produzione sociale verrà sostituita dall’organizzazione cosciente secondo un piano. La lotta per l’esistenza individuale cesserà… Sarà questo il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà».
Il IV capitolo della terza sezione dell’«Antiduhring» è consacrato al problema della ripartizione. E, sul piano che a noi interessa, lo completa il materiale del VI capitolo della seconda sezione, dedicato al problema del lavoro semplice e complesso.
Engels parte qui dal fatto che il modo di produzione determina il modo della ripartizione.
Nel VI capitolo della seconda sezione egli dà una caratteristica generale di come sarà la ripartizione nella futura società: «Per il socialismo, che vuole liberare la forza-lavoro umana dalla sua condizione di merce, è di grande importanza il riconoscimento che il lavoro non ha né può avere un valore. Con questo riconoscimento cadono tutti i tentativi che il sig. Duhring ha ereditato dal primitivo socialismo operaio di regolare la futura ripartizione dei mezzi di sussistenza come una specie di salario più elevato. Da esso consegue ulteriormente il riconoscimento che la ripartizione, nella misura in cui viene dominata da considerazioni puramente economiche, sarà regolata nell’interesse della produzione e che la produzione viene favorita al massimo da un modo di ripartizione che permetta a tutti i membri della società di sviluppare, conservare ed esercitare le proprie capacità il più che sia possibile in tutte le direzioni».
Poi egli affronta la questione se, «nella società organizzata socialisticamente», la distinzione tra lavoro semplice e complesso influirà sulla ripartizione dei mezzi di sussistenza: «Come si risolve dunque tutta questa importante questione di un più elevato salario per il lavoro complesso? Nella società di produttori privati, i privati o le loro famiglie fanno fronte alle spese per l’istruzione dell’operaio qualificato; spetta allora anzitutto ai privati il più alto prezzo della forza-lavoro qualificata: lo schiavo abile è comprato a più caro prezzo, il salariato abile ha un salario più elevato. Nella società organizzata socialisticamente queste spese sono affrontate dalla società, ad essa appartengono perciò anche i frutti, i valori maggiori che vengono prodotti dal lavoro complesso. Lo stesso operaio non ha maggiori diritti da rivendicare». E’ qui evidente che, per «società organizzata socialisticamente», Engels intende la società comunista.
C’è qui da osservare che la futura società Engels la considera sempre nel suo sviluppo. Egli distingue un periodo di transizione, a cui corrisponderà un «diritto transitorio» (il che rammenta la «Critica del Programma di Gotha»), e la società comunista (il «sistema comunista»). Egli distingue altresì delle più o meno lontane condizioni della società comunista, quando parla della condizione che sarà raggiunta soltanto «attraverso alcune generazioni di sviluppo sociale nel sistema comunista».
In tal modo, anche da questo lato si manifesta una concezione coerentemente dialettica della futura società.
In conclusione, ci soffermeremo ora su di un momento particolarmente importante dal punto di vista metodologico, e cioè sulla difesa, da parte di Engels, della fondamentale conclusione socialista del I volume del «Capitale» di Marx circa l’espropriazione degli espropriatori.
Il Duhring fu uno dei primi critici del marxismo ad affrontare tale questione. E i suoi argomenti, in differenti varianti, vennero poi ripresi anche da altri avversari del socialismo scientifico. Per cui la controargomentazione di Engels non ha un interesse solamente storico.
La sostanza del problema, in due parole, si riduce a quanto segue.
Esaminando la tendenza storica di sviluppo del capitalismo, Marx giunge alla conclusione della inevitabilità di espropriare gli espropriatori, e cioè di distruggere la proprietà privata sui mezzi di produzione. Ed egli constata che l’intero processo storico di sviluppo dei rapporti di proprietà avviene in modo conforme alla legge dialettica della negazione della negazione.
Cercando di smentire questa fondamentale conclusione socialista di Marx, il Duhring afferma invece che la necessità di espropriare gli espropriatori Marx la deduce dalla legge della negazione della negazione.

Marxismo e opportunismo
Engels, da parte sua, discerne il corso dei ragionamenti di Marx e dimostra la completa inconsistenza delle congetture del Duhring. Questa anticritica da parte di Engels ha un valore particolarmente rilevante, e in sostanza il discorso riguarda il modo in cui si deve prevedere il futuro: come costruisce Marx la sua conclusione riguardo all’avvenire? – partendo da considerazioni genericamente dialettiche o da una analisi storico-concreta? Engels arriva al seguente risultato:
«Marx non pensa dunque, caratterizzando questo processo come negazione della negazione, di dimostrare per questa via che esso è un processo storicamente necessario. Al contrario: dopo aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata. E questo è tutto».
L’anticritica di Engels ci consente di trarre una importante conclusione metodologica. La metodologia marxista di previsione scientifica dell’avvenire riunisce organicamente in se’ due elementi fondamentali: 1) l’applicazione della dialettica materialistica, della concezione materialistico-dialettica del processo storico, e, su questa base, 2) l’indagine concreta dello stesso processo storico. Senza uno qualsiasi di questi due elementi non può esserci alcuna teoria della futura società che sia autenticamente scientifica e marxista.
Quali sono le più evidenti acquisizioni dell’«Antiduhring» nella teoria del comunismo scientifico e nella teoria della futura società comunista?
In primo luogo, la concezione delle due grandi scoperte di Marx quali premesse e basi della teoria del comunismo scientifico. Questa concezione ha offerto la chiave per comprendere la specifica distinzione tra comunismo scientifico e socialismo e comunismo utopistico, e, di conseguenza, anche la specificità della teoria scientifica della futura società comunista.
In secondo luogo, una esposizione d’insieme della teoria del comunismo scientifico, esposizione che riassume le precedenti acquisizioni di Marx e di Engels e che contiene tutta una serie di nuovi momenti.
In terzo luogo, la conclusione del mutamento qualitativo del ruolo della coscienza sociale nella società comunista.
In quarto luogo, l’applicazione di procedimenti specificamente dialettici per la prognosi dell’avvenire.
Tutto questo, nel suo insieme, comprova la eccezionale rilevanza del libro di Engels nello sviluppo del comunismo scientifico e, in questo, della teoria della società comunista.
L’analisi di tutto l’insieme del pensiero di Engels riguardo alla futura società, come pure l’analisi delle corrispondenti idee di Marx, dimostra che le rappresentazioni marxiste del futuro formano un sistema integrato di concezioni scientificamente fondate, una autentica teoria della società comunista il cui fondamento metodologico è costituito dalla concezione materialistico-dialettica della storia.
Queste rappresentazioni hanno percorso un lungo e complesso cammino di sviluppo, divenendo sempre più fondate, precise e concrete. I lavori di Engels degli anni 1842-1845 riflettono il processo di divenire delle sue concezioni scientifiche sul futuro. Negli anni 1845-1846 egli, insieme con Marx, rese in chiaro l’argomentazione filosofica e la prima più o meno integrale elaborazione della teoria della società comunista. Nel 1847 i più importanti principi di questa teoria vennero inclusi nel programma del partito proletario e comunista che si stava formando. Dopo la rivoluzione del 1848-1849, e tenendo conto della nuova esperienza storica, si ebbe un ulteriore sviluppo di vari aspetti della teoria. Dopo la Comune di Parigi si avanzò tutta una serie di nuove idee e la teoria conseguì il suo più completo sviluppo.
Il carattere dialettico della teoria marxista della futura società non sta soltanto nella sua metodologia, ma anche nel suo contenuto. In una serie di lettere e di interventi degli anni ’80 e ’90 Engels affronta la questione dello sviluppo della stessa futura società.
Il 27 gennaio 1886, in risposta a una richiesta di dare una breve esposizione delle principali esigenze economiche, sociali e politiche avanzate dai socialisti, Engels scrive a Eduard Pisou: «Il partito a cui appartengo non avanza nessuna proposta che sia pronta una volta per sempre. Le nostre idee sui tratti che distinguono la futura società non capitalista dalla società contemporanea sono le precise deduzioni che derivano dai fatti storici e dei processi di sviluppo e che, al di fuori del legame con questi fatti e con questi processi, non hanno alcun valore teorico e pratico».
Che cosa significa questo?
In primo luogo, questo significa, naturalmente, che la metodologia della previsione marxista del futuro parte dall’analisi dei fatti storici e dei processi di sviluppo.
Ma, in secondo luogo, questo significa anche qualcosa di più. Se le rappresentazioni del futuro si costruiscono partendo dall’analisi degli effettivi fatti storici e processi di sviluppo, allora col mutare di dati fatti e processi o con l’approfondirsi della loro analisi devono inevitabilmente mutare anche le rappresentazioni derivate per questa via sulla futura società comunista.

Il passaggio dal socialismo al comunismo
Due anni prima della morte, l’11 maggio 1893, egli così si espresse in una intervista concessa al giornale francese «Figaro», rispondendo alla domanda di quale fosse stato lo scopo finale dei socialisti tedeschi: «In noi non c’è alcuno scopo finale. Noi siamo sostenitori di uno sviluppo continuo e ininterrotto, e non ci siamo mai proposti di dettare all’umanità una qualsivoglia legge definitiva. Idee già pronte riguardo ai dettagli dell’organizzazione della futura società? In noi non ne troverete traccia. Noi saremo già soddisfatti quando ci riuscirà di trasferire i mezzi di produzione nelle mani dell’intera società».
Poi, agli inizi del 1894, il socialista italiano Giuseppe Canepa si rivolse a Engels con la richiesta di formulare in due parole l’idea principale della futura nuova era. E, nella sua lettera di risposta del 9 gennaio 1894, Engels scrive: «Formulare in poche parole l’idea della futura nuova era senza cadere nell’utopismo e in una vuota fraseologia è compito quasi irrealizzabile… Io non ho trovato niente di più adatto che la seguente frase del “Manifesto comunista”…: “Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e contrapposizioni di classe si avrà una associazione in cui il libero sviluppo di ognuno sarà condizione del libero sviluppo di tutti”».
Così, un anno prima della morte, Engels ancora una volta rileva con tutta forza l’idea umanistica centrale con cui si concludeva la parte teorica del primo documento programmatico del movimento comunista internazionale. Il libero sviluppo dell’uomo, – ecco lo scopo finale della trasformazione comunista della società.
Il nome di Engels è inseparabile da tutto ciò che è stato fatto da Marx. Come Lenin ha rilevato, «non si può comprendere il marxismo e non si può esporlo interamente senza tenere conto di tutte le opere di Engels». Il che è assolutamente giusto sia riguardo alla teoria marxista nel suo insieme che nei riguardi della teoria della futura società comunista. Insieme con Marx Engels ha elaborato la questione delle premesse materiali della trasformazione comunista della società, ha dimostrato la necessità storica della rivoluzione proletaria e della dittatura del proletariato, ha chiarito molte particolarità del periodo di transizione dal capitalismo al comunismo e ha previsto i tratti fondamentali della società comunista.
Engels non è stato soltanto un teorico, ma anche un grande combattente per l’avvenire comunista dell’umanità. Insieme con Marx egli creò la prima organizzazione comunista internazionale del proletariato, – la Lega dei comunisti, e insieme con Marx fu a capo della prima organizzazione internazionale di massa del proletariato, – la I Internazionale. Dopo la morte di Marx, e nel corso di più di dieci anni, egli fu il dirigente ideologico del movimento rivoluzionario internazionale della classe operaia.
Nella nuova epoca storica tutte le parti integranti della teoria marxista – e dunque anche della teoria della società comunista, – hanno avuto un loro molteplice sviluppo innanzitutto negli scritti di Lenin e di Stalin. Sotto la guida di Lenin e del partito da lui creato la classe operaia del nostro paese ha compiuto una vittoriosa rivoluzione socialista e, per la prima volta, ha posto mano alla trasformazione comunista della società.
Lo studio delle concezioni dei fondatori del comunismo scientifico sulla futura società umana, come pure il tener conto di tutto ciò che di nuovo hanno apportato alla teoria del comunismo i geniali prosecutori della loro causa Lenin e Stalin, ha un enorme valore sia teorico che pratico. Una profonda indagine scientifica dei problemi della formazione e dello sviluppo di queste concezioni costituisce la necessaria premessa dell’ulteriore elaborazione creativa dei problemi della società comunista nell’epoca della transizione rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo su scala dell’intero nostro pianeta.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:07
view post Posted: 9/3/2013, 19:16 L’essenza di classe del gandhismo - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy filosofii», rivista teorica mensile dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, n. 3, 1953:



L’essenza di classe del gandhismo


Il 30 gennaio 1948, a Delhi, veniva ucciso Mohandas Karamchand Gandhi, – il più influente leader del Congresso Nazionale indiano e uno tra i più popolari esponenti politici dell’India.
Nonostante che scopo della sua attività Gandhi ritenesse l’unificazione e l’indipendenza dei popoli indiani, il contenuto utopistico-reazionario della sua teoria sociale e i metodi di lotta riformistici ad essa legati hanno portato a che la sua attività non soltanto non favorisse il rovesciamento del giogo coloniale, ma che fosse anche largamente utilizzata dall’imperialismo inglese per i suoi egoistici interessi.
Dopo la seconda guerra mondiale la crisi del sistema coloniale inglese legata alla crisi generale del capitalismo spinse gli imperialisti, inglesi a una nuova manovra politica che consisteva nel tendere a smembrare l’India in due Stati al fine di rinfocolare al massimo l’ostilità tra questi e conservare così il dominio su di essi. E l’ostilità indo-musulmana, riaccesa dai colonizzatori inglesi in India, assunse anche la forma di conflitti militari tra stati (per esempio, nel Kashmere e nel Pejambé). Gandhi, essendo sostenitore di un’India unita, cercò da parte sua di far cessare i sanguinosi scontri tra le comunità religiose provocati dall’imperialismo inglese, e invitò alla pace tra gli indù e i musulmani. Un anno e mezzo dopo la divisione dell’India egli veniva ucciso da un attivista indù di un’organizzazione politica di tipo parafascista. La borghesia imperialistica inglese, dopo aver utilizzato pienamente Gandhi in quelle fasi in cui ciò era stato possibile, nella nuova fase della lotta vide in questa figura un ostacolo per il proprio dominio ed egli venne tolto di mezzo. L’essenza sociale del gandhismo e il suo ruolo reazionario nella storia del movimento di liberazione nazionali dell’India, fino ad oggi, non sono stati ancora chiariti nella letteratura marxista.
Dopo la seconda guerra mondiale la crisi del sistema coloniale dell’imperialismo fu strettamente legata alla possente ascesa del movimento di liberazione nazionale nell’Oriente coloniale. In India, una delle colonie più grandi e industrialmente evolute, la fine della seconda guerra mondiale aveva schiuso una nuova fase nello sviluppo del movimento di liberazione nazionale, e questa si caratterizzò per la grande ripresa del movimento operaio e contadino e per il passaggio della borghesia nazionale nel campo dell’imperialismo.
Un compito di primo piano del proletariato indiano, in quella fase, divenne l’emancipazione delle masse contadine dall’influenza ideologica e politica della borghesia e, in particolare, dall’influsso dell’ideologia gandhiana. Senza una tale emancipazione, infatti, è impossibile, come indica Stalin, «far avanzare la rivoluzione e conquistare una completa indipendenza delle colonie capitalisticamente sviluppate e dei paesi dipendenti».
Una svolta radicale nello sviluppo dei movimenti nazionale delle colonie e dei paesi dipendenti la produsse la grande Rivoluzione d’Ottobre, la quale attivizzò grandemente anche i contadini indiani, il cui risveglio politico prese a trasformare il movimento di liberazione borghese dell’India in un movimento di liberazione popolare.
La nuova fase di tale movimento, aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre, si iniziò con la possente ripresa rivoluzionaria degli anni 1919-1922. La grande borghesia indiana si trovò così di fronte al fatto di una enorme crescita del movimento antimperialista delle masse popolari indiane e, utilizzando la forza del movimento di massa come arma di pressione sull’imperialismo inglese, al tempo stesso cercò i mezzi che le avrebbero dato la possibilità di contenere l’energia rivoluzionaria delle masse entro limiti ad essa necessari ed accettabili. «Temendo la rivoluzione più che l’imperialismo – ha scritto Stalin, – preoccupandosi degli interessi della propria borsa più che degli interessi della propria Patria, questa parte della borghesia – la più ricca e influente, – con entrambe le gambe si pone nel campo degli acerrimi nemici della rivoluzione e conclude un blocco con l’imperialismo contro gli operai e i contadini del suo proprio paese». Ed è proprio in quel momento, allarmante per la borghesia nazionale, che apparve sull’arena politica dell’India una nuova figura di predicatore politico quale era Gandhi, con la sua teoria della «nonviolenza» e della tattica «nonviolenta», e in un’aureola di gloria da mezzo santo che egli si era procurato nel periodo della sua ventennale attività politica in Sud Africa, dove gli era riuscito di ottenere un certo successo nella lotta contro la discriminazione razziale degli indiani.
Gandhi aveva costruito la sua dottrina socio-politica sui principi della religione dell’induismo, largamente diffusa tra i contadini indiani, uno dei cui dogmi principali si riduce all’esigenza di non causare violenza ad alcuno. Elementi di tolstoismo, poi, mescolati a questo dogma, conferirono al gandhismo una sua originale «ricerca della verità», indicando quali vie per conseguirla l’amore, la sofferenza e l’autosacrificio. Data la sua intima simbiosi con l’ideologia religiosa delle masse indiane, è difficile determinare dove finisce l’influsso del gandhismo e dove cominci quello della religione. Il gandhismo, come anche la religione in genere, è uno degli aspetti «dell’oppressione spirituale che sta dovunque tra le masse popolari schiacciate da un eterno lavoro per gli altri, dal bisogno e dalla solitudine» (Lenin). La combinazione di religione e politica, caratteristica del gandhismo, non rappresenta certo niente di nuovo in linea di principio. Il ruolo storico della religione consiste nel fatto che essa è uno strumento di asservimento spirituale delle masse popolari e, di conseguenza, un determinato strumento politico. Parlando delle radici di classe della religione odierna, Lenin scrisse: «Oppressione sociale delle masse lavoratrici, apparente completa loro impotenza di fronte alle cieche forze del capitalismo… – ecco in cosa consiste la più profonda radice odierna della religione». Va da sé, quindi, che la principale radice del gandhismo quale fenomeno delle masse contadine è la stessa indicata da Lenin. Infatti, gli elementi anticapitalistici presenti nel ganhdismo sono espressi debolmente e in modo estremamente inconseguente (per esempio, l’atteggiamento critico di Gandhi verso l’industria capitalistica e la cultura borghese), anche se anch’essi hanno favorito la sua popolarità tra le masse. In India, paese il cui sviluppo è stato contenuto dai colonizzatori inglesi al livello di rapporti semifeudali, le condizioni di vita socio-economiche aiutarono senz’altro la diffusione del gandhismo, il quale, e non a caso, ha un suo rapporto diretto con l’ideologia feudale ancora presente nella società indiana.
Gandhi esorta a volgere la ruota della storia verso un sistema comunitario di tipo medioevale – base del dispotismo orientale, – ed esalta la miseria, l’ascetismo e una primitiva vita agreste. Egli propone poi di non elevare il livello di vita dei contadini pauperizzati, mentre a tutte le classi chiede di abbassarlo a un grado minimo di sopravvivenza che rimane la sorte di milioni di indiani.
Le sue reazionarie concezioni utopistiche sullo sviluppo economico dell’India Gandhi le espose nella sua «Confessione di fede». Il programma economico del gandhismo consiste nella conservazione dell’arretratezza feudale delle campagne indiane e nella sua ferma opposizione a qualsiasi forma di industrializzazione (o «macchinismo» secondo la terminologia di Gandhi). L’attuazione pratica di questo programma egli la vede: 1) nello sviluppo dell’artigianato contadino; 2) nella diffusione della «ciarka» (filatoio a mano); 3) nella propaganda del «Khadi» (metodo di tessitura manuale).
I piani di riforme economiche di Gandhi si basano su di una infima produttività del lavoro, su di una tecnica primitiva e su primitivi metodi di produzione. Il suo atteggiamento verso l’industrializzazione è in diretto rapporto con la sua predica del lavoro rurale. Ma in tale questione le concezioni di Gandhi subirono anche alcuni mutamenti, passando da una totale negazione della «satanica» civiltà e del «macchinismo» al riconoscimento, ma soltanto a certe condizioni, di una loro eventuale opportunità. Infatti, dopo aver iniziato col negare la meccanizzazione nel 1909, dopo trent’anni egli giunse alla conclusione che «la meccanizzazione è buona quando non richiede mani per il lavoro. Ma è un male quando si hanno più mani di quanto il lavoro richieda, come in India».
Il programma socio-economico di Gandhi è inoltre pieno di inconciliabili contraddizioni. Così, per esempio, egli riconosce la necessità (non la possibilità, ma la necessità!) di conservare la proprietà terriera latifondista e feudale in India – che considera inviolabile, – e al tempo stesso si dichiara per un miglioramento delle condizioni di vita dei contadini indiani. Gandhi, inoltre, difende la necessità di conservare un tale sostegno della reazione e del dispotismo quali sono i principati indiani, giungendo a una diretta giustificazione dell’ineguaglianza sociale e al riconoscimento della necessità delle caste. Secondo le sue stesse parole, la necessità di conservare le caste «è basata sull’economia dell’energia sociale (sulla sua giusta ripartizione) e su di una sana autolimitazione dell’uomo per mezzo della volontà». In tal modo l’«economia delle forze sociali» deve attuarsi, per Gandhi, in favore della condizione privilegiata delle classi sfruttatrici, mentre ad una «sana autolimitazione» egli richiama soltanto le affamate classi inferiori. Sotto una simile fraseologia pseudoscientifica non è certo difficile scorgere una giustificazione dei privilegi sociali, uno smussamento dell’antagonismo di classe e un’esaltazione del conservatorismo e della reazione.
A Gandhi, naturalmente, è estranea una impostazione storico-concreta dei problemi: egli ragiona per astrazioni, dal punto di vista dei cosiddetti «eterni principi» della morale e della religione, e un tale modo di pensare non è che il riflesso ideologico del vecchio ordine di vita feudale. A proposito dei consimili filosofemi «sovrastorici» di Tolstoj Lenin ha scritto: «… una ideologia del sistema orientale, del sistema asiatico, – questo è il tolstoismo nel suo reale contenuto storico. Di qui l’ascetismo, la non resistenza al male con la violenza, le profonde noterelle di pessimismo e la convinzione che “tutto è nulla, tutto è il nulla materiale”». La teoria gandhiana della «nonviolenza», nella sua forma, è sì equivalente alla teoria tolstoiana della «non resistenza al male». Ma il contenuto sociale del gandhismo è diametralmente opposto al tolstoismo. Quest’ultimo, infatti, a dire di Lenin, è espressione della spontanea protesta e dell’indignazione del contadino patriarcale russo, e ne riflette i lati deboli e quelli forti. Il gandhismo, invece, è sorto quale determinata forma della lotta di classe della borghesia reazionaria indiana contro il movimento rivoluzionario delle masse popolari indiane. Gandhi, in definitiva, utilizza «la spontanea protesta e l’indignazione» delle masse contadine indiane, oppresse da un duplice giogo, e ne sfrutta l’ideologia religiosa per i fini di classe della borghesia e dei latifondisti indiani.
Oltre al suo programma socio-economico, il gandhismo include in sé la teoria etico-religiosa della «nonviolenza» – il cui metodo pratico è la «resistenza nonviolenta», – e la teoria dell’«armonia» degli interessi di classe, la cui conclusione pratica è l’appello alla collaborazione della classi. In risposta alle sanguinose repressioni con cui gli imperialisti inglesi soffocarono il movimento popolare, Gandhi chiese al popolo indiano di «… imparare a mantenere il proprio equilibrio spirituale alla vista non di un solo migliaio di uccisioni di uomini e donne innocenti, ma di molte migliaia di loro… Che ognuno guardi alla forca come ad una cosa comune nella vita». Nel febbraio 1922, ancora, egli faceva la seguente dichiarazione: «Io apprezzo la mia propria salvezza più di qualsiasi altra cosa, anche più della salvezza dell’India», e «quindi io sono dapprima un indù, e poi un patriota». Inoltre, in questo momento decisivo per l’India, Gandhi – pur riconosciuto leader del movimento, – concluse un vile e a dir poco spregiudicato compromesso con il governo inglese, decapitando con ciò stesso il movimento rivoluzionario di massa (febbraio 1922). In seguito, nel suo articolo «la mia colpa» («Mea culpa»), Gandhi motivò questo «sviamento» (più esattamente, tradimento) del movimento con il fatto che le masse avevano violato il principio della «nonviolenza». E come tale, come «violenza delle masse», egli stigmatizzava il rifiuto dei contadini di pagare la rendita terriera ai latifondisti! Va qui da sé che soltanto la logica degli interessi di classe induceva Gandhi a vedere in tale pacifica forma di protesta delle «azioni violente». Caratteristica, a tale proposito, è la seguente sua dichiarazione: «Se non vogliamo che la violenza sia creata dalla non resistenza al male con la violenza, noi dobbiamo alla svelta tornare indietro… Che l’avversario ci accusi pure di codardia, – meglio una cattiva gloria che il tradimento del proprio dio».
La dottrina gandhiana della «nonviolenza» era il riflesso della paura delle classi sfruttatrici dinanzi al crescente movimento popolare di emancipazione. Più tardi, nel 1930, Gandhi stesso riconobbe apertamente la necessità di una lotta su due fronti: contro il nemico esterno – l’imperialismo inglese, – e contro il nemico interno, vale a dire il movimento rivoluzionario delle masse. «Il mio scopo – egli scrisse al viceré dell’India, – consiste nell’indirizzare il movimento della nonviolenza sia contro la violenza della forza organizzata del dominio britannico, sia contro il crescente partito della violenza».
L’essenza di classe del gandhismo, poi, si rivela con particolare evidenza nella teoria della cosiddetta «armonia» tra gli interessi degli sfruttatori e degli sfruttati. Essa rappresenta la parte nodale del gandhismo, dalla quale derivano conseguentemente il carattere riformistico della politica e della tattica di Gandhi e la sua continua tendenza al compromesso e alla collaborazione di classe. Si è qui in presenza della chiave che ci rivela il senso sociale delle altre sue parti: la dottrina etico-religiosa della «nonviolenza», la tattica della «resistenza nonviolenta» e il suo programma socio-economico.
Facciamo qualche esempio. Quale unico mezzo per la soluzione dei conflitti tra il contadino e il proprietario terriero Gandhi propone l’arbitrato: la lotta di classe, per lui, è cosa da vietarsi in modo categorico e incondizionato. Pur reclamandosi difensore dei contadini indiani, al tempo stesso egli cerca di smussare le contraddizioni antagonistiche che oppongono il contadino al proprietario. Inoltre, se da un lato Gandhi teorizza l’«autentico democratismo» in una idealizzata «semplice vita agreste», dall’altro lato – e malgrado tutti i suoi raziocini di tipo tolstoiano, – non soltanto riconosce la necessità di conservare il sistema del latifondo, ma trova anche che tale sistema sia «auspicabile» per gli interessi dell’economia indiana.
Per quanto poi riguarda i rapporti tra capitale e lavoro Gandhi propone agli operai di appellarsi al «buon senso» dei capitalisti, mentre riduce l’intera lotta in questione alla sola aspirazione a conquistare il «cuore dei padroni», e non certo i diritti umani. Su questo punto egli si espresse in modo significativo nel suo articolo «Salari e valori» («Wages and values»), affermando: «Io so che lo sciopero è un diritto imprescindibile degli operai per garantire la giustizia, ma esso deve considerarsi come un delitto subito dopo che i capitalisti adottano il principio dell’arbitrato… Quando gli operai di fabbrica cominciano a identificare i propri interessi con gli interessi del fabbricante, allora si innalzano anch’essi, e con essi l’industria del nostro paese».
In una completa e più totale antitesi con le idee del socialismo scientifico, poi, Gandhi propagandò anche un suo tipo particolare di «socialismo», fatto apposta per tutte le classi sociali, – sfruttatori e sfruttati. Nel 1934 egli scrisse: «Il nostro socialismo e comunismo deve essere fondato sulla nonviolenza e sulla armonica collaborazione tra il lavoro e il capitale, tra il proprietario terriero e l’affittuario». Per poi, dopo sei anni, dichiarare pubblicamente: «Spero che non si possa credere che io abbia iniziato una lotta che si potrebbe concludere con l’anarchia e il pericolo rosso». Sul caso di una possibile rivoluzione, poi, egli si espresse nel modo seguente: «Io non prenderò mai parte alla privazione delle classi proprietarie della loro proprietà privata senza che ci sia una giusta (!) causa. Voi potete star certi che io impiegherò tutta la forza del mio influsso per evitare una guerra di classe. Nel caso in cui sarà fatto il tentativo di privarvi ingiustamente della vostra proprietà io lotterò dalla vostra parte». L’essenza reazionaria e antipopolare del gandhismo non potrebbe esprimersi meglio.
Nel pieno del movimento rivoluzionario degli anni 1919-1922 il governo inglese aveva emanato una legge che abrogava le consuete procedure giudiziarie e che autorizzava a infliggere la carcerazione senza alcun processo preventivo (la cosiddetta «legge Rowlett»). Questa legge suscitò una seria preoccupazione tra le vaste masse popolari, e Gandhi, che agiva per delega e a nome del Congresso Nazionale indiano, e di conseguenza della borghesia indiana, cercò di assoggettare il movimento popolare mediante l’organizzazione di una «resistenza nonviolenta» a tale progetto di legge. Le masse dell’intero paese, invece, risposero all’appello di Gandhi con forme attive di lotta che superavano di molto i desideri e la volontà del «grande saggio»: nel paese dilagò una grande ondata di scioperi, dimostrazioni e rivolte in cui si esprimeva la straordinaria umanità di tutti i popoli dell’India, senza differenze di caste, religioni e lingue. Questo movimento venne poi schiacciato con atroci e violentissime repressioni. Al che Gandhi, spaventato dall’attivismo rivoluzionario delle massa, tradì gli interessi del suo popolo, e dichiarò di non avere alcun rapporto «con le dubbie persone che hanno commesso i disordini». Cercando poi di riportare il movimento entro limiti accessibili al controllo dei leaders del Congresso, Gandhi stesso, e per la prima volta in India, avanzò un piano di «non collaborazione nonviolenta» che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, porre gli imperialisti inglesi nella necessità di concedere l’indipendenza ai popoli indiani. Esso prevedeva in sé varie fasi: dal boicottaggio delle merci inglesi a quello degli organi legislativi e degli istituti d’insegnamento, e infine – ma solo quale ultima ed estrema misura, – il rifiuto di pagare le imposte. Il movimento di massa, tuttavia, e fin dai suoi primi passi, travalicò di gran lunga i limiti del programma politico riformista di Gandhi, dato che le masse non erano affatto propense ad attendere elemosine dai loro sfruttatori, organizzando invece scioperi, rivolte contro i proprietari e, infine, un grandioso sciopero generale della durata di alcuni giorni. La «nonviolenza» di Gandhi, che significava condanna della lotta di classe dei lavoratori in ogni sua forma e condanna dell’azione rivoluzionaria del proletariato e dei contadini indiani, ne subì così una seria sconfitta, rivelando alle masse che essa non si presentava affatto al suo predicatore come un fine in sé, ma quale strumento di lotta politica e sociale nelle mani della grande borghesia reazionaria e dei latifondisti feudali.
«In nessun caso la violenza delle masse» era il motto di Gandhi, e gli imperialisti inglesi, il cui dominio in India veniva minacciato ad ogni ripresa della lotta di liberazione, consideravano il gandhismo – lo volesse o meno lo stesso Gandhi, – come un loro fedele alleato, tant’è che Gandhi stesso, quando cadde il dominio inglese in India, dichiarò che ciò che aveva consentito tale caduta era «funesto» per… l’India medesima, in quanto la violenza delle «folle» è inammissibile «perfino in risposta a una grave provocazione». In realtà egli non si era mai posto il compito di rovesciare concretamente e attivamente il dominio coloniale inglese: il suo scopo si limitava soltanto ad influire «moralmente» sui colonizzatori al fine di «convincerli» della necessità di concedere all’India l’autonomia.
Un altro esempio di come Gandhi intendesse la sua famigerata teoria della «nonviolenza», il cui metodo di lotta egli definiva come «omeopatico», lo si ebbe nel 1930, durante i grandi fatti accaduti a Peshavar. Quando il movimento di massa raggiunse proporzioni di un certo rilievo, i soldati indù dei due plotoni del 18• Reggimento reale inviati a Peshavar per reprimerlo si rifiutarono di sparare sulla folla dei musulmani. Si iniziò così una fraternizzazione, e molti dei soldati presenti consegnarono ai peshavari le proprie armi. Vennero allora immediatamente evacuate tutte le truppe di stanza a Peshavar, e così per dieci giorni la città si trovò nelle mani del popolo. In seguito 17 soldati del Reggimento vennero severamente condannati dal tribunale militare di campo.
In che modo Gandhi accolse questa manifestazione di «alleanza tra fedi e classi»? Siccome questa «nonviolenza» e questa «alleanza delle classi» avevano creato una reale minaccia non solo all’imperialismo inglese ma anche per l’esistenza stessa delle classi dirigenti nazionali, Gandhi condannò nel modo più risoluto i fatti e i soldati di Peshavar, dichiarando: «Il soldato che non si sottomette all’ordine di aprire il fuoco viola il giuramento da lui stesso prestato, rendendosi colpevole di una criminale insubordinazione…». Assai più tardi, nel 1946, Gandhi stesso rivelò fino in fondo i veri motivi della sua indignazione del 1930, non mascherandosi più con parole come «giuramento» e «insubordinazione», ma dichiarando apertamente che l’unità di operai e contadini, come anche di musulmani e indù, «… avrebbe significato abbandonare l’India alla mercé della gentaglia… Io non vorrei vivere nemmeno 125 anni per vedere una simile fine. Piuttosto vorrei bruciare vivo nel fuoco». Così egli disse!
Poi, nei casi in cui Gandhi fece invece appello alla disubbidienza, egli chiese che essa fosse «breve», «umile» e «volontaria». Amore verso gli oppressori, umiltà e volontaria sottomissione ai colonizzatori imperialisti – ecco a che cosa, in definitiva, esortava Gandhi il suo popolo. Caratteristico è poi il fatto che egli, temendo più di tutto le azioni rivoluzionarie delle masse, in tutta la sua lunga vita sociale e politica non abbia mai indetto delle campagne di disobbedienza civile di massa!
Predicando la «nonviolenza» quale principale metodo di lotta politica e sociale il gandhismo ha causato un enorme danno alla lotta di classe e di liberazione nazionale dell’India, distogliendo il movimento di massa dai suoi obiettivi rivoluzionari e indirizzandolo nel solco di un inconseguente quanto contraddittorio socialriformismo. Inoltre, esso non è stato un fenomeno casuale. Infatti, il gandhismo è sorto proprio quando le masse indiane si affacciarono per la prima volta alla vita politica, quando la coscienza di classe del proletariato e dei contadini, nonché il loro spirito organizzativo, erano ancora molto bassi. L’oppressione, l’arretratezza e il basso livello della coscienza di classe delle masse indiane, uniti all’enorme ruolo della religione in ogni sua forma, rappresentarono un terreno più che favorevole al diffondersi del gandhismo e al rafforzamento del suo influsso tra le masse popolari. Ed è in queste condizioni che le teorie utopistiche e reazionarie di Gandhi – che si richiamavano all’antichità, idealizzavano la vita patriarcale e consacravano le vecchie tradizioni e i canoni dell’induismo, – trovarono facilmente sostegno tra le masse contadine. Insomma, portando sugli scudi i dogmi e gli istituti dell’induismo, e rafforzando così quanto vi era di più retrivo, immobile e consuetudinario nella vita e nella coscienza dei contadini indiani, il gandhismo, con i suoi ideali sociali, si è palesemente rivelato quale difensore della schiavitù spirituale del suo popolo e quale riconosciuto strumento della grande borghesia reazionaria indiana nella sua lotta contro il movimento rivoluzionario delle masse. Ed è proprio in questo che si deve vedere la sua reale missione storica.
Nel suo rapporto politico al XVI Congresso del PC(b) Stalin ha dato la seguente definizione degli esponenti politici borghesi del tipo di Gandhi: «I signori borghesi fanno conto di inondare di sangue questi paesi e di basarsi sulle baionette della polizia, chiamando in aiuto gente del tipo di Gandhi. Non può esserci dubbio che le baionette della polizia siano un cattivo sostegno. Anche lo zarismo, a suo tempo, si appoggiò sulle baionette della polizia, ma quale altro sostegno ne venne fuori è a tutti noto. Per ciò che riguarda poi i coadiutori del tipo di Gandhi, lo zarismo ne ebbe un intero gregge nei conciliatori liberali d’ogni risma».
Il gandhismo sta oggi vivendo una sua profonda crisi interna. E lo sviluppo del movimento di liberazione nazionale ha svolto un ruolo decisivo nell’approfondirne questa crisi. la missione storica di Gandhi, dal punto di vista delle classi sfruttatrici, si è conclusa con il passaggio della grande borghesia indiana a una politica di incondizionata capitolazione dinanzi al capitale inglese e americano. E questo anche se il ruolo del gandhismo, quale strumento di oppressione spirituale delle masse arretrate dell’India, non si è ancora affatto concluso. Il suo terreno sociale, infatti, è ancora presente nella realtà del paese, e la lotta contro di esso rappresenta una delle forme della lotta di classe del proletariato indiano. Ancora nel 1924 Stalin così indicava le enormi possibilità rivoluzionarie dell’India: «Vi è un giovane e combattivo proletariato rivoluzionario che ha con sé un alleato come il movimento di liberazione nazionale, – vale a dire, un alleato indubbiamente grande e indubbiamente serio. Dinanzi alla rivoluzione, invece, ci sta un avversario, a tutti noto, come l’imperialismo straniero, – privo di credito morale e che si è conquistato l’odio generale delle masse oppresse e sfruttate dell’India».
Con la fine della seconda guerra mondiale il movimento di liberazione nazionale indiano è entrato in una nuova e superiore fase del suo sviluppo, il cui tratto caratteristico sono principalmente lo spirito organizzativo dimostrato dal proletariato e la crescita della sua coscienza di classe. La ripresa della lotta rivoluzionaria delle masse ha poi portato a una divisione delle forze sociali del paese e alla formazione di due campi distinti: quello antimperialista, che riunisce in sé tutti gli elementi rivoluzionari con alla testa la classe operaia, e quello imperialista e reazionario della grande borghesia e dei feudali indiani. Il gandhismo non può ormai più contenere il crescente movimento rivoluzionario delle masse, e l’emancipazione dei lavoratori indiani dall’influsso dell’ideologia gandhiana è ora il passo necessario e non più rinviabile sulla via verso la vittoria della rivoluzione indiana.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:04
view post Posted: 9/3/2013, 18:12 Leggi economiche e lotta di classe - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy Istorii», organo teorico dell’Istituto di Storia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, n. 5, 1954:


Leggi economiche e lotta di classe

L’azione delle leggi economiche nelle formazioni antagonistiche di classe


Il riconoscimento del carattere oggettivo delle leggi dello sviluppo sociale, come si sa, rappresenta una delle pietre angolari del materialismo storico. Il marxismo infatti muove dall’idea che il processo di sviluppo della società, come anche quello della natura, ha carattere regolare ed è quindi soggetto all’azione di leggi oggettive, indipendenti dalla volontà degli uomini.
Questo principio marxista si contrappone a tutti i sistemi idealistico-soggettivi e volontaristici della sociologia borghese, la quale – al contrario – nega allo sviluppo sociale qualsiasi conformità a leggi che ne regolino il corso, e presenta la storia come fosse un’assurda congerie di casualità risultanti dalla «libera creazione» di singole eminenti personalità. Nel palese intento di diffamare la teoria scientifica del materialismo storico, i filosofi e i sociologi borghesi affermano che essa, «riducendo a nulla» l’attività storica dell’uomo, porta inevitabilmente al fatalismo e al quietismo; o meglio, come essi dicono, se la storia è creata da leggi oggettive, allora per l’attività cosciente degli uomini non può esserci alcun posto, mentre se essa è creata dall’uomo, allora non c’è posto per leggi oggettive che ne regolino il corso. Se voi riconoscete il socialismo come oggettivamente necessario e ineluttabile, disse per esempio Stammler, perché allora organizzate un partito che lotti per il socialismo?
In realtà il marxismo non ha mai avuto, e nemmeno potrebbe avere, niente in comune con il fatalismo. Anzi, nella concezione marxista la legge non è né un destino e nemmeno un fato, ma soltanto il riflesso di più sostanziali nessi interni oggettivamente inerenti alle cose e ai fenomeni del mondo reale, e quindi non un qualcosa di esterno ai rapporti sociali, ma che è loro intrinsecamente proprio. Come Marx ha infatti più volte rilevato, nei rapporti sociali (come anche, del resto, nella natura) la legge che esprime il nesso interno e necessario tra due fenomeni esteriormente in contraddizione tra loro si manifesta non in forma pura, ma soltanto «come tendenza dominante, come una certa media – peraltro mai fissata con certezza – tra continue variazioni». Lenin, da parte sua, osservò che il marxismo intende il carattere oggettivo delle leggi di sviluppo sociale non nel senso che esse esistono indipendentemente dalla società umana, «non nel senso che la società degli esseri coscienti, degli uomini, possa esistere e svilupparsi indipendentemente dall’esistenza degli esseri coscienti… ma nel senso che l’essere sociale è indipendente dalla coscienza sociale degli uomini». Che è come dire, in altre parole, che tutti i rapporti sociali – nel cui novero quelli economici – sono sempre e comunque un risultato dell’attività umana, anche se questa non abbraccia mai interamente la coscienza sociale, ma anzi le resiste come qualcosa di oggettivo e da essa indipendente.
L’attività umana, dunque, si svolge sempre sulla base di oggettive leggi inerenti allo sviluppo sociale e di cui l’uomo può valersi in vario modo. Quando infatti non sono intese esse si manifestano come una forza cieca ed elementare, mentre gli uomini, pur agendo in conformità ad esse (per esempio, scambiando merci sulla base della legge del valore), non ne conoscono l’esistenza e quindi non possono servirsene coscientemente nell’interesse della società e prevenirne così l’azione distruttiva.
Come Stalin ha giustamente rilevato, riconoscere il carattere oggettivo delle leggi dello sviluppo sociale significa riconoscere che gli uomini non possono né agire a loro dispetto e «creare» la storia secondo fantasia, né mutare a priori gli indirizzi dello sviluppo sociale. Ciò nondimeno, i tempi e le concrete forme di attuazione di una tendenza storica oggettiva sono unicamente determinati dall’attività umana nel suo insieme e da tutte quelle infinite condizioni empiriche venutesi a creare nel corso di tale attività. Se dunque gli uomini non possono né abolire, né trasformare o creare leggi di per sé oggettive, essi possono tuttavia influire attivamente sulle condizioni alla cui esistenza è legata l’azione stessa di queste leggi, e cercare quindi di conseguire, per questa via, dei mutamenti nella sfera d’azione o nel carattere di queste o quelle leggi.
Ne consegue che il principio secondo cui è l’uomo stesso che crea la propria storia, e quello invece per il quale lo sviluppo della società si compie sulla base di leggi oggettive la cui esistenza è indipendente dalla volontà degli uomini; ebbene, entrambi questi principi non soltanto non sono in contraddizione tra loro, ma, al contrario, possono essere intesi solamente nella loro dialettica unità. Per essere più precisi, senza conoscere le oggettive leggi di sviluppo della società non è possibile concepire la creazione storica dell’uomo come un processo unico e regolare, mentre, per inverso, senza aver compreso il ruolo di tale creazione è altresì impossibile intendere adeguatamente tanto il contenuto che il meccanismo d’azione delle oggettive leggi economiche. Queste dunque, per loro essenza, sono sempre leggi proprie all’attività sociale degli uomini, la quale può essere intesa solo e unicamente sulla base di esse, mentre le leggi, a loro volta, lo possono essere soltanto in rapporto con la vivente storia concreta. Di qui la prova di quanto assurde siano le affermazioni di sociologi ed economisti borghesi circa il fatto che il marxismo, a loro dire, verrebbe a separare i risultati dell’attività umana dall’uomo stesso.
L’opera di Stalin «Problemi economici del socialismo in URSS» ha di recente richiamato l’attenzione dell’intera comunità scientifica sull’importante problema teorico dell’impiego delle leggi economiche, da parte dell’uomo, nell’interesse della società.

Leggi economiche e classi sociali
Nel rilevare che questa non è affatto impotente dinanzi a tali leggi, e che quindi – conoscendole – può utilizzarle nel proprio interesse limitando la sfera d’azione delle une e creando favorevoli condizioni per le altre, Stalin sottolinea altresì che nella storia, sempre e comunque, il ruolo decisivo lo svolgono le larghe masse popolari, cioè i produttori diretti dei beni materiali. Tuttavia, egli precisa, se è giusto in generale affermare che in ogni fase del suo sviluppo l’umanità si è sempre valsa di leggi economiche oggettive, è pur vero che in condizioni storiche differenti i limiti, il carattere e le forme di un tale impiego sono e non potrebbero non essere differenti tra loro. Per chiarire dunque il problema dell’impiego di queste leggi oggettive nelle formazioni di classe sfruttatrici – a cui è proprio per l’appunto, l’antagonismo di classe – un grande rilievo teorico ha la questione della causa intrinseca che determina un tale loro impiego e, quindi, del rapporto che intercorre tra queste leggi e la lotta di classe in generale. Il quale problema però, a sua volta, si divide in altre due questioni strettamente legate tra loro e che sono: 1) in che modo le leggi economiche si manifestano nell’attività degli uomini e quale importanza assume la lotta di classe (indipendentemente dal suo grado di consapevolezza) nell’attuazione di queste o altre tendenze economiche; 2) come e in che misura gli uomini possono, in condizioni di formazione antagonistica, valersi coscientemente delle leggi economiche oggettive nel proprio interesse di classe e in quello dell’intera società.
A tutti questi importanti quesiti cercheremo ora di dare una risposta sulla base della teoria scientifica del materialismo storico e della metodologia marxista-leninista.
Dunque, come si è detto, le leggi oggettive della storia si manifestano nell’attività sociale degli uomini, che quindi ne sono – di fatto – i creatori. Ma, come si sa, in condizioni di formazioni sociali antagonistiche la società è anche divisa in classi i cui interessi sono inconciliabilmente opposti tra loro. Com’è allora possibile, qui, valersi delle leggi dello sviluppo sociale, se ciò che è vantaggioso per una classe non lo è per l’altra? Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto aver presente che queste leggi, riflettendo gli essenziali nessi intrinsechi tra condizioni oggettive assai diverse tra loro e in complessa interdipendenza l’una con l’altra, non sono affatto degli schemi rigidi e fissi a cui ogni azione dell’uomo è passivamente soggetta, ma possono assumere – come vedremo più avanti – forme, caratteri e tempi loro propri, dovuti alle circostanze in cui l’attività umana viene a svolgersi. In ogni società si intrecciano strettamente e lottano tra loro il vecchio e il nuovo, ciò che ha fatto il suo tempo e ciò che invece sta per nascere. Ma dato che, come Marx ebbe più volte a rilevare, non è possibile figurarsi la storia della società nei toni mistici di una generale predeterminazione, assolutamente necessaria per noi è soltanto la tendenza generale dello sviluppo storico, vale a dire le leggi di sviluppo e il succedersi delle formazioni economico-sociali in cui queste agiscono, e che tuttavia si attuano pur sempre in circostanze empiriche infinitamente varie. Per cui, in definitiva, tutte le leggi economiche – nessuna esclusa – operano non in modo fatale e in forma pura secondo un piano prestabilito, ma sotto forma di tendenze dominanti che determinano la direzione dello sviluppo.
Ogni formazione economico-sociale rappresenta un insieme unico che si caratterizza per sue determinate condizioni oggettive e per una qual certa sua unità tra forze produttive e rapporti di produzione. L’unità e l’interrelazione tra tutti i processi economici di una data formazione sono riflesse nella sua legge economica fondamentale, la quale ne determina tutti gli aspetti principali; inoltre, il fine della produzione da un lato, e le esigenze di questa legge dall’altro, hanno entrambi carattere oggettivo, e non dipendono quindi da alcuna volontà delle classi di una data società. Anzi, queste classi sono esse stesse un prodotto delle condizioni economiche date, il che tuttavia non impedisce all’azione di questa legge di essere sempre e comunque contraddittoria, ossia che le sue leggi si attuino non in modo meccanico, ma in complessa interazione con altre leggi, nella lotta tra contraddittorie (e, nelle formazioni antagonistiche, contrapposte) tendenze economiche.
Prendiamo, per esempio, la questione dello sviluppo proporzionale dei vari settori dell’economia nazionale socialista e, per inverso, dell’anarchia produttiva invece tipica del sistema economico capitalistico. È noto che nessuna produzione può esistere senza un qualche relativo equilibrio tra i suoi diversi settori. E questa tendenza ha avuto un suo particolare riflesso negli schemi marxisti della riproduzione allargata, che ci hanno mostrato quale realmente sia – per ogni riproduzione allargata – la forza di una legge economica oggettiva. A questa tendenza alla proporzionalità, tuttavia, si oppone, nelle condizioni del capitalismo, la legge dell’anarchia produttiva dovuta all’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, la quale esclude sì la possibilità di uno sviluppo pianificato, sistematico e costante della produzione, ma non potrà mai eliminare l’oggettiva tendenza a una certa, relativa proporzionalità della produzione. Al contrario, trasferendo capitali da un settore produttivo all’altro la produzione capitalistica si livella in modo spontaneo proprio in condizioni di azione della legge dell’anarchia produttiva e della concorrenza. Per cui, come Marx ebbe a rilevare, nel capitalismo «la produzione proporzionale è sempre e soltanto il risultato della produzione non-proporzionale basata sulla concorrenza» («Teorie del plusvalore», vol. II).
Dato che ogni formazione economico-sociale si caratterizza per un suo particolare tipo di rapporti di produzione e per una sua particolare struttura di classe, sarebbe un serio errore metodologico comparare per analogia il sistema schiavistico o feudale con quello capitalistico. Una via, questa, su cui purtroppo si sono posti alcuni dei nostri economisti e storici, i quali hanno cercato di formulare la legge economica fondamentale della formazione feudale o di quella schiavistica basandosi, per l’appunto, sul modello della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. Questo errore, in modo particolare, si evidenzia nell’articolo di D.K. Trifonov «La questione delle leggi economiche fondamentali delle formazioni precapitalistiche», dove l’autore definisce quella del modo di produzione schiavistico come «l’assicurazione del sovraprodotto in misura soddisfacente i bisogni parassitari della classe schiavista mediante l’asservimento dei popoli allogeni, la trasformazione dei produttori diretti-schiavi in proprietà assoluta degli schiavisti, e l’intensificazione del loro sfruttamento sulla base di una tecnica infima».

La legge economica fondamentale
Con una simile concezione della legge economica fondamentale ciò che non risulta affatto chiaro – o che, anzi, è assolutamente incomprensibile – è in che modo le forze produttive potessero dunque svilupparsi se, come afferma l’autore, il fine oggettivo della produzione era tutto nel solo soddisfacimento di bisogni improduttivi e parassitari. Del problema, infatti, questa formula non considera alcuni aspetti essenziali, e in primo luogo che non tutti gli schiavisti – e nemmeno per l’intero periodo di esistenza della formazione schiavistica – condussero un genere di vita parassitario; poi che sia in Grecia che a Roma esisteva anche un’economia di liberi contadini e artigiani i quali, pur utilizzando anch’essi degli schiavi come forza-lavoro supplementare lavoravano essi stessi; e infine la circostanza che in una tale economia (peraltro apparsa soltanto nel periodo di decadenza della formazione schiavistica) le forze produttive ebbero comunque a svilupparsi. Infatti non è per niente casuale che la crisi della forma schiavistica sia stata organicamente legata alla rovina del libero contadino e dell’artigianato. Evidentemente la formula del Trifonov che considera la classe dominante come parassita tout court, se pur giusta in generale, può tuttavia essere applicata soltanto al periodo di decadenza e di crisi del sistema schiavistico, non potendo in alcun modo servire quale spiegazione dell’intero sviluppo della data formazione sociale.
Ne risulta dunque che non è in alcun modo possibile semplificare l’oggettiva complessità dello sviluppo sociale in genere o anche di una data formazione dovendosi invece considerare questo processo in tutta la sua varietà e contraddittorietà, legando cioè la lotta delle diverse tendenze economiche alle alterne vicende della lotta di classe.
Cercando di mascherare e di dissimulare la lotta di classe in atto nella società capitalistica, la sociologia reazionaria borghese si prova, e non da ora, a insidiare il concetto marxista di classe sociale. Afferma infatti il sociologo americano O’Boyle che il concetto di classe è di per sé molto vago, e che la classe non costituisce affatto alcuna unità, ma si scinde in gruppi più piccoli. L’ineguaglianza di classe, gli fa eco il francese Chaix-Ruy, ha le sue radici «non nelle condizioni economiche, e nemmeno in un determinato sistema di produzione, ma in un sistema di credenze e di pregiudizi». La cosiddetta «psicologia sociale» poi, largamente diffusa negli Stati Uniti, si prova a sostituire il concetto di «classe» con quello di «gruppo sociale» inteso come una certa «comunanza psichica» di persone. Quanti poi debbano rientrare in questo gruppo e che cosa li possa unire – l’impegno politico o il gioco al poker – è per essa del tutto inessenziale. Lo stesso senso ha anche la proposizione del concetto di «generazione» (Lorenz, Ortega y Gasset e altri) quale categoria storica fondamentale.
Spacciando la storia come collaborazione e lotta tra differenti generazioni d’età, la sociologia borghese cerca così di occultare e di sminuire il fatto decisivo della lotta di classe.
In antitesi a queste teorie reazionarie borghesi il marxismo sottolinea invece che la scoperta e l’impiego delle leggi economiche hanno sempre un intrinseco movente di classe, e che quindi si possono realizzare soltanto nel corso della lotta di classe. Le condizioni economiche di ogni data società si riflettono nella coscienza sociale soprattutto nella forma di interessi che nelle formazioni antagonistiche assumono immancabilmente un carattere di classe. Gli stessi e medesimi processi economici, cioè, riflettendosi nella coscienza degli uomini, generano interessi del tutto diversi tra loro a seconda di quale posto una determinata classe occupa nel processo della produzione e di quale sia il suo rapporto con gli strumenti e i mezzi di produzione. Per cui, in forza di ciò, classi diverse sono atte a recepire e ad utilizzare le stesse leggi in modo diverso. Classi tra loro differenti, dunque, rappresentano tendenze economiche differenti, e quale di queste debba poi vincere sarà la lotta di classe a deciderlo, per quanto – in ultima analisi – lo sia sempre quella progressista espressa dalla nascente classe avanzata.
Quanto alla legge economica fondamentale del feudalesimo l’autore formula i suoi principali aspetti ed esigenze come «assicurazione del sovraprodotto, nella forma di rendita terriera feudale, in misura soddisfacente i bisogni improduttivi della classe dei feudali e della sua numerosa servitù, mediante l’asservimento dei produttori diretti, la spartizione dei loro mezzi di produzione, e l’intensificazione dello sfruttamento in forma di barscina e obròk sulla base di una tecnica consuetudinaria». Anzitutto, anche qui si dà un unilaterale risalto al consumo improduttivo della classe dei feudali, allorché Engels parla della produzione feudale in termini di produzione «finalizzata al consumo diretto dei prodotti da parte del produttore stesso o del suo signore feudale». In secondo luogo, se l’intero sovraprodotto viene consumato dal feudale e se questo sfruttamento feudale, poi, non fa che intensificarsi tutto il tempo, viene allora da chiedersi da dove l’economia contadina possa prendere quel certo prodotto eccedente senza il quale è impossibile ogni ulteriore sviluppo delle forze produttive che predisponga il passaggio al capitalismo. Infine, quale principale mezzo per assicurare il fine della produzione l’autore indica, in sostanza, la costrizione extraeconomica, cioè la dipendenza servile dei contadini dal loro signore, mentre in realtà, come è risaputo, nel feudalesimo il ruolo decisivo ebbe a svolgerlo la proprietà feudale sulla terra.
Queste stesse obiezioni, poi, nella loro gran parte, possono essere riferite anche alla concezione espressa da B.F. Porsnev. È infatti sua opinione che «nella legge della rendita feudale, come in un unico focus, si sono riflessi tutti i rapporti di produzione del feudalesimo», mentre invece le cose stanno ben altrimenti. Nel produttore diretto l’accumulazione del prodotto eccedente grazie alla quale si ha l’ulteriore sviluppo delle forze produttive, non può essere affatto spiegata con la legge della rendita feudale, come pure non è possibile convenire con l’affermazione dello stesso circa l’aumento della rendita feudale e l’intensificazione dello sfruttamento dei contadini. Se infatti la rendita fosse sempre aumentata e lo sfruttamento pur intensificato, l’accumulazione nell’economia contadina sarebbe stata impossibile; il contadino, in tal caso, avrebbe perso ogni interesse per il proprio lavoro, e l’intero feudalesimo avrebbe poggiato esclusivamente sulla costrizione extraeconomica. Invece sarebbe stato più logico legare l’avvicendamento delle forme della rendita feudale non già all’intensificazione dello sfruttamento, ma alla crescita delle forze produttive e allo sviluppo della produzione mercantile.

La lotta di classe del proletariato
La stessa cosa può vedersi anche sull’esempio della lotta per la giornata lavorativa. Contrariamente al capitalista, l’operaio è vitalmente interessato a una sua riduzione. Ma all’offensiva del capitale, però, il singolo operaio – com’è ovvio – non è assolutamente in grado di esercitare alcuna resistenza che sia minimamente efficace, per cui la lotta non può che manifestarsi nella forma di una lotta di classe tra gli operai e la borghesia. Generalizzando la storia della legislazione di fabbrica inglese, Marx scrisse che «l’istituzione della normale giornata lavorativa è il prodotto di una continua e più o meno latente guerra civile tra la classe dei capitalisti e quella operaia». E ciò anche se la lotta, come si sa, non finisce affatto qui, dato che la borghesia – in particolare nell’epoca dell’imperialismo – prosegue la sua offensiva contro gli operai anche a dispetto di accordi o di legislazioni, che per essa hanno un valore del tutto irrisorio.
Ne consegue che nel capitalismo il livello del salario e la durata della giornata lavorativa sono sempre determinati, in ultima analisi, da oggettive leggi economiche la cui esistenza non dipende né dalla volontà dell’operaio, né da quella del capitalista. Tuttavia, il modo in cui tali leggi operano in ogni singolo caso concreto e quale poi dovrà essere la concreta norma di sfruttamento, questo dipenderà in primo luogo dal rapporto esistente tra le varie forze di classe e dal grado di sviluppo assunto dalla lotta di classe del proletariato in quel dato periodo o momento particolare.
Nelle formazioni antagonistiche, dunque, sulla concreta attuazione delle leggi economiche si dispiega un’accanita lotta di classe il cui indirizzo e carattere – per quanto sia sempre la lotta di classe, poi, a decidere della vittoria di questa o quella tendenza – sono determinati da leggi economiche oggettive. Dal che si può ben comprendere, tra l’altro, quanto errate ed estranee al marxismo siano, da un lato, le astratte costruzioni del cosiddetto «materialismo economico» (che nega il ruolo della lotta di classe nello sviluppo della società, e che presenta la storia come se fosse un lineare sviluppo autogeno di processi economici avulsi dall’uomo) e, dall’altro lato, il distacco idealistico-soggettivo della lotta di classe dalla sua base economica. Ma il fatto che ogni azione dell’uomo poggi, in un modo o nell’altro, su determinate leggi economiche non significa affatto che ogni classe sia in grado di valersene nello stesso modo e in ugual misura delle altre.
Un ruolo decisivo dello sviluppo di ogni data formazione lo svolgono le specifiche leggi sue proprie, e prima fra tutte la legge economica fondamentale. Va da sé tuttavia che, nel modo ad essa più vantaggioso, di tali leggi potrà valersi soltanto la classe che in quella data formazione è dominante o che, per meglio dire – secondo l’espressione di Lenin – «gestisce» il dato ordinamento economico e detiene, quindi, gli strumenti e i mezzi di produzione. Il fine oggettivo di questa poi, espresso nella legge economica fondamentale della formazione data, è al tempo stesso – e pur con tutte le sue possibili e infinite modificazioni – il fine soggettivo di chi è parte di quella data classe dominante. Se cioè il fine della produzione capitalistica è il conseguimento del massimo profitto capitalistico, questo, al tempo stesso, è anche il fine soggettivo della classe dei capitalisti. Per cui, ne consegue, la legge economica fondamentale del capitalismo (pur essendo, com’è ovvio, tra le cause prime che porteranno alla rivoluzione sociale e, dunque, ad una sostituzione del capitalismo con un nuovo e superiore ordinamento economico) risponde pienamente agli interessi della classe dominante, la quale – anche senza averne coscienza – su di essa fa leva ed in essa ha il suo movente.
Questa classe inoltre, valendosi del suo potere politico, non soltanto può utilizzare nel proprio interesse le oggettive leggi della sua formazione, ma in certa misura può anche neutralizzare alcune delle tendenze che per essa sono pericolose. Così, per esempio, nelle condizioni del capitalismo opera la legge – scoperta da Marx – in forza della quale, a misura dello sviluppo del capitalismo, si ha una riduzione del saggio generale di profitto. L’azione di questa legge di tendenza, ovviamente, è svantaggiosa per la borghesia, e quindi essa, per ridurne gli effetti, pone in atto altre oggettive tendenze economiche quali l’intensificazione del lavoro, il ribasso del salario al di sotto del valore della forza-lavoro, la riduzione degli elementi di capitale costante, una relativa sovrappopolazione che consenta di ridurre il salario per eccedenza di manodopera, oppure il commercio estero con il cosiddetto «Terzo mondo» che permette una più elevata norma di profitto. Nell’epoca dell’imperialismo, poi, la creazione di giganteschi monopoli rende assolutamente inevitabile la tendenza del capitale non già ad un profitto medio, ma al suo massimo possibile; per cui l’azione della suddetta legge di tendenza viene a paralizzarsi ancor di più. È qui applicabile, dunque, la tesi di Marx secondo cui «le stesse cause che portano alla diminuzione del saggio generale di profitto provocano anche contraddizioni che frenano questa diminuzione, la rallentano e, in parte, la paralizzano. Esse non distruggono la legge, ma ne indeboliscono l’azione» («Il Capitale», vol. III). Per cui, se ne desume, ogni classe dominante dispone sempre di più o meno larghi margini di azione, o, per meglio dire, di impiego delle oggettive leggi economiche della propria formazione.
Il capitalista però, è bene precisare, vede soltanto la superficie dei fenomeni economici; e una superficie, oltretutto, falsata dalla rivalità di concorrenza e dall’anarchia stessa della produzione. Egli, cioè, non è affatto in grado di discernere, dietro l’ingannevole esteriorità, l’essenza intrinseca e la struttura interna del processo economico che storicamente egli stesso rappresenta. Ed anche se ne fosse capace, comunque, egli non sarebbe in grado di rimuovere od eliminare il carattere spontaneo che è alla base delle leggi stesse del capitalismo, dato che questo, per l’appunto, ha origine in quel dominio della proprietà privata sui mezzi di produzione che rende inevitabile lo scontro degli interessi umani e che genera, quindi, la più aspra ed accanita lotta di classe.
Certo è che nella storia dell’umanità nessuna classe sfruttatrice ha mai potuto prendere chiara coscienza delle oggettive leggi dello sviluppo sociale; e a maggior ragione, di quella della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive. Lo sviluppo della società, per meglio dire, è determinato non soltanto dalle specifiche leggi inerenti alle sue singole formazioni, ma anche da leggi sociologiche generali che rispecchiano l’oggettivo nesso esistente tra le diverse formazioni economico-sociali e l’unità dell’intera storia umana. Anzi, si può senz’altro affermare che tutte le specifiche leggi delle varie formazioni non possono che agire sulla base di queste leggi più generali. Fintanto che un dato sistema di rapporti di produzione, in un modo o nell’altro, sa rispondere al carattere delle forze produttive della sua formazione, finquando cioè le esigenze della legge della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive verranno esaudite dalla classe che è al potere, questa allora potrà utilizzare la suddetta legge a proprio vantaggio e nel proprio interesse. Ma appena tale corrispondenza dovesse essere violata o venire meno, in tal caso verrebbe a maturare la necessità di una sostituzione rivoluzionaria dei vecchi rapporti con altri e nuovi rapporti di produzione più conformi alle esigenze di questa legge. La borghesia, per esempio, quando compì le sue rivoluzioni inglese e francese dei secoli XVII e XVIII, di tale legge si valse senz’altro nell’interesse della società, ma soltanto nella misura in cui questo interesse della società poteva coincidere o corrispondere con gli interessi di classe della borghesia al potere. Per cui, inevitabilmente, una simile coincidenza – oltreché del tutto inadeguata e contraddittoria – non poteva che rivelarsi anche, sul piano storico, di breve durata.
Per altro verso, invece, quando nell’antica Roma si iniziò la crisi della formazione schiavistica la classe dominante si provò ad uscirne cercando di adeguarsi alle nuove condizioni che allora andavano maturando all’interno della società. Più in particolare, il lavoro degli schiavi era allora diventato economicamente poco produttivo e – men che meno – redditizio, e inoltre esso non consentiva alcun perfezionamento tecnico di qualche rilievo. Per cui gli schiavisti cercarono essi stessi di passare ad una forma di produzione più progressiva e meglio conforme alle nuove esigenze, la quale venne trovata nel colonato. Il colono, pur essendo formalmente indipendente dal suo signore, era comunque obbligato a lavorare per lui e a pagargli una rendita. Ma a differenza dello schiavo, egli già poteva disporre di una sua economia e di una famiglia, mentre lo schiavo – ma soltanto a certe condizioni – poteva tutt’al più accrescere di poco la quota di prodotto spettante a lui e alla sua famiglia. All’allora livello delle forze produttive, dunque, la piccola economia del colono corrispondeva assai meglio che non i vasti latifondi basati sul lavoro schiavizzato, rappresentando essa, anche se solo in germe, l’inizio di un nuovo modo di produzione – di tipo feudale – cresciuto nelle viscere del sistema schiavistico.
Pur con l’aiuto del colonato, tuttavia, agli schiavisti non riuscì di venir fuori dalla crisi in cui essi si dibattevano, dato che la sua efficacia economica era come paralizzata da altre tendenze proprie al modo di produzione schiavistico. Come Engels ha scritto, «la morente schiavitù aveva lasciato il suo aculeo velenoso nello spregio dei liberi verso un lavoro produttivo. Quello in cui cadde il mondo romano era un vicolo senza uscita: la schiavitù si era resa economicamente impossibile, mentre il lavoro dei liberi era ancora moralmente disprezzato». E gli stessi tentativi di frenare il degrado dell’economia mediante un nuovo asservimento dei coloni, peraltro duramente contrastato, non fecero che avvilire nuovamente questi ultimi alla loro precedente condizione di schiavi. Non restava, dunque, che un’unica e sola via di uscita: una radicale rivoluzione dei rapporti economici che li adeguasse al nuovo carattere delle forze produttive sulla base di un nuovo modo di produzione, di tipo feudale, che allora andava sorgendo dalla crisi del sistema schiavistico.
Questa legge della necessaria corrispondenza, per la prima volta, venne scoperta nel secolo scorso dal genio di Karl Marx. E ciò nonostante, per parecchi secoli, gli uomini se n’erano valsi sulla sola base delle sue manifestazioni più immediate ed esteriori (ad essi, peraltro, ben note), ossia in un modo del tutto incosciente. Diverso è invece il discorso, come si sa, per quanto riguarda il moderno proletariato industriale, il quale – oltre che essere l’unica classe della storia i cui interessi si possano identificare con quelli della stragrande maggioranza della società – è anche vitalmente interessato alla conoscenza delle oggettive leggi dello sviluppo sociale. La vittoria della proprietà sociale, socialista, dei mezzi di produzione, infatti, ha posto la produzione materiale, e per la prima volta nella storia, sotto il cosciente controllo della società nella persona della classe, per l’appunto, che sola può rappresentarla nella sua generalità, la classe operaia. Non più dunque una cieca necessità di breve momento come per il passato, ma l’atto cosciente di una nuova umanità che, ormai infrante le catene della sua preistoria con l’arma della lotta di classe, si è resa infine padrona dei propri destini.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 22:57
view post Posted: 28/2/2013, 22:01 Sulle critiche previane al marxismo leninismo - Articoli dei membri della Scuola quadri
Complimenti, compagno. Il tuo scritto, nonostante alcuni inevitabili difetti, ha il grande merito di aver aperto la discussione attorno a temi di grande interesse, come il carattere delle leggi economiche e il rapporto della filosofia con le scienze positive, ponendo numerosi interrogativi e abbozzando una risposta. In seguito interverrò in modo più approfondito. Per ora mi limito a due osservazioni di dettaglio:

CITAZIONE
parlare di “modo produzione asiatico” dimenticando la natura di paese ex-semicoloniale parlando di fantomatici modi di produzione asiatici (?)

Il modo di produzione asiatico esiste e Marx ne parla nelle sue opere. Per esempio, egli scrive:

«A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere definiti le epoche progressive delle forme economiche della società» (Per la critica dell'economia politica, p. 18).

Il modo di produzione asiatico è caratterizzato da uno spezzettamento della popolazione in varie comunità, da un'economia prevalentemente naturale e basata su di una tecnica arretrata, ma praticata su estensioni di terreno molto ampie; quest'ultima circostanza rendeva possibile la costruzione di immense opere idrauliche, come nel caso dell'Egitto o della Mesopotamia, specialmente sotto l'autorità di un potente sovrano.
Questo concetto compare prevalentemente nelle opere giovanili di Marx e fu in seguito abbandonato, quando Marx si rese conto che non si trattava di un ordinamento stabile e a sé stante.

CITAZIONE
Feuerbach però era ,per dirla con Engels,”metà materialista,metà idealista”;

Questa frase dà l'idea della presenza, in Feuerbach, di un cinquanta per cento di materialismo e di un cinquanta per cento di idealismo. Simili formulazioni erano ricorrenti nella Storia della filosofia dell’Europa occidentale di G. F. Alexandrov, criticata da Andrei Zdanov nel 1947, il quale afferma:

...il sistema raccomandato dal compagno Alexandrov per valutare i vari sistemi filosofici: «oltre ai meriti ci sono anche i difetti» (cfr. p. 7 del suo manuale) oppure «grande importanza ha anche la teoria...», ha il difetto di un’estrema indeterminatezza, è metafisico e capace soltanto di confondere le cose.

Che cosa significa questo? Significa che il metodo di analisi che caratterizza i sistemi filosofici come un'equivalenza di pregi e difetti è un metodo indeterminato, in quanto non indica la tendenza prevalente all'interno del sistema filosofico, ed è metafisico, in quanto stabilisce un equilibrio "perfetto" tra le due tendenze, rendendo così impossibile lo sviluppo.
La storia scientifica della filosofia deve indicare quale sia la tendenza prevalente in ogni filosofo, in ogni scuola o corrente, in ogni sistema filosofico, in modo da poterli classificare con precisione in uno dei due grandi campi: l'idealismo o il materialismo.
Gli indirizzi contraddittori, contenuti in un sistema filosofico, non sono in uno stato di equilibrio e di quiete (come non lo sono, in generale, gli aspetti di una qualunque contraddizione), bensì in lotta l'uno con l'altro e, di conseguenza, in mutamento.
Nel caso specifico di Feuerbach, l'indirizzo prevalente nella sua filosofia è indubbiamente il materialismo, come ben si comprende leggendo il saggio di Engels su di lui.
view post Posted: 27/2/2013, 19:40 Sulla letteratura - Arte e socialismo
CITAZIONE
letteratura più giovane

Qui si allude al fatto che la letteratura sovietica esisteva da molto meno tempo rispetto alle letterature degli altri paesi, essendo nata solo dopo la rivoluzione.

CITAZIONE
più ricca di contenuto, più avanzata

Il contenuto ideologico di un'opera d'arte, secondo Zdanov, è tanto più elevato quanto più quest'opera ispira, in coloro che la contemplano, idee e azioni rivoluzionarie. Per esempio, La storia di un vero uomo di Boris Polevoj costituisce un modello di patriottismo sovietico e di devozione alla causa del popolo, capace di ispirare i lettori all'eroismo e all'impegno nel servire la causa comunista.
La letteratura sovietica è avanzata nel senso che si fa portatrice di tutte le idee più progressive, di emancipazione sociale degli sfruttati e di lotta contro la reazione. Inoltre, sul versante dell'estetica, la letteratura e la critica sovietica detengono la superiorità scientifica nei confronti delle loro controparti borghesi, poiché, in conformità con il materialismo storico, applicano uno storicismo totale.
view post Posted: 19/2/2013, 14:25 Imperialismo culturale statunitense - Politica e cultura oggi
da socialismo-solucion.blogspot.it/2012/03/imperialismo-cutural-estadounidense.html
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Imperialismo culturale statunitense

di James Petras

23/03/2012

Estratto dal giornale "Madres de la Plaza de Mayo" (Argentina)

"Stile di vita" della classe media nordamericana imposto come forma di imperialismo culturale dagli USA nel mondo

L'imperialismo culturale nordamericano ha due obiettivi principali, uno di carattere economico ed un altro politico: imbrigliare i mercati per le sue merci culturali e catturare conformando la coscienza popolare. L'esportazione di merci culturali è una delle fonti più importanti di accumulazione del capitale e di profitti globali per il capitalismo nordamericano e ha modificato le esportazioni di beni manufatti.

Nella sfera politica, l'imperialismo culturale svolge un ruolo importantissimo nel processo di dissociazione della popolazione dalle sue radici culturali e dalle sue tradizioni di solidarietà, sostituendole con "necessità" create dai mezzi di comunicazione che cambiano con ogni campagna pubblicitaria. L'effetto politico consiste nell'alienare ai popoli i legami con le loro comunità e classi tradizionali, atomizzare e separare gli individui fra loro. L'imperialismo culturale acutizza la segmentazione della classe operaia ed incoraggia la popolazione lavoratrice a pensare sé stessa come parte di una gerarchia, enfatizzando le piccole differenze di stili di vita con coloro che stanno sotto di lei più che le grandi disuguaglianze che li separano da chi sta sopra.

L'imperialismo non può essere compreso semplicemente come un sistema economico-militare di controllo e sfruttamento. La dominazione culturale è una dimensione integrale per qualunque sistema basato sullo sfruttamento mondiale. L'imperialismo culturale si può definire come invasione e dominazione sistematica della vita culturale delle classi popolari da parte delle classi che governano l'Occidente, con l'obiettivo di ri-orientare le scale di valori, le condotte, le istituzioni e le identità dei paesi oppressi per farli coincidere con gli interessi delle classi imperialiste. L'imperialismo culturale ha forme "tradizionali" e moderne. Nei secoli scorsi la chiesa, il sistema educativo e le autorità pubbliche, svolgevano un ruolo fondamentale, inculcando ai popoli nativi idee di sottomissione e lealtà, in nome di principi divini o assolutisti.

Mentre stavano ancora funzionando quei meccanismi "tradizionali" dell'imperialismo, le nuove mediazioni moderne, radicate nelle istituzioni contemporanee, sono diventate sempre più centrali per la dominazione imperialista: i mezzi di comunicazione, la pubblicità, i presentatori ed i personaggi del mondo dello spettacolo e vecchi intellettuali svolgono oggi questo ruolo principale.

Nel mondo contemporaneo, Hollywood, CNN e Disneyland sono molti più influenti che il Vaticano, la Bibbia o la retorica delle relazioni pubbliche dei politici.

Nuove caratteristiche del colonialismo culturale

Il colonialismo culturale convenzionale (CCC) si distingue dalle pratiche del passato per vari motivi:

1. Mira a catturare un grande pubblico e non solo la conversione delle élites

2. I mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione, invadono la casa e funzionano da "dentro" e "dal basso" tanto quanto da "fuori" e "dall'alto". Il messaggio è doppiamente alienante: proietta uno stile di vita imperialista e un'atomizzata serie borghese di problemi e situazioni.

3. Il CCC è globale per la sua portata e l'omogeneità del suo impatto: la pretesa di universalità serve per mistificare i simboli, gli obiettivi e interessi del potere imperialista.

4. I mezzi di comunicazione di massa, come strumenti dell'imperialismo culturale, sono oggi "privati" solo nel senso formale: l'assenza di vincoli formali con lo Stato offre una copertura che legittima i media privati proiettando gli interessi dello Stato imperialista come "notizie" o "spettacoli".

5. L'imperialismo culturale nell'era della "democrazia" deve falsificare la realtà nel paese imperialista per giustificare l'aggressione, trasformando le vittime in aggressori e gli aggressori in vittime. A Panama, per esempio, lo Stato imperialista nordamericano e i mezzi di comunicazione di massa proiettarono l'immagine di quel paese come una minaccia del narcotraffico per la gioventù degli Stati Uniti, mentre lanciavano bombe sulle comunità della classe lavoratrice panamense.

6. Il controllo culturale assoluto è la contropartita della separazione totale tra la brutalità del capitalismo reale esistente e le illusorie promesse del mercato libero.

7. Al fine di paralizzare le risposte collettive, il colonialismo culturale cerca di distruggere le identità nazionali. Per rompere la solidarietà promuove il culto della "modernità" come conformità ai simboli esterni.

Mentre le armi imperialiste disarticolano la società civile e le banche saccheggiano l'economia, i mezzi di comunicazione imperialisti modellano gli individui con varie fantasie per fuggire dalla miseria quotidiana.

Mezzi di comunicazione di massa: propaganda e accumulazione di capitale

I mezzi di comunicazione di massa costituiscono una delle principali fonti di salute e potere del capitale nordamericano. Oggi, praticamente uno ogni cinque tra i nordamericani più ricchi trae ricchezza dagli utili nei mezzi di comunicazione, a discapito di altri settori industriali.

I mezzi di comunicazione si sono trasformati in una parte integrante del sistema nordamericano di controllo politico e sociale e in una delle principali fonti di super profitti. Man mano che aumentano i livelli di sfruttamento, disuguaglianza e povertà, i mezzi di comunicazione controllati dagli Stati Uniti agiscono per trasformare un pubblico critico in una massa passiva. Le celebrità dei media e dello spettacolo di massa sono diventati importanti ingredienti nella deviazione di potenziali inquietudini politiche.

Esiste una relazione diretta tra l'incremento del numero di apparecchi televisivi in America Latina, la riduzione dei redditi e la diminuzione delle lotte popolari. Tra il 1980 e il 1990, il numero di televisori per abitante in America è cresciuto del 40%, mentre la media reale dei redditi è scesa del 40% e una moltitudine di candidati politici neoliberali molto dipendenti dall'immagine televisiva, hanno conquistato la presidenza. L'incremento dell'invasione dei mezzi di comunicazione di massa tra le classi più povere, i crescenti investimenti e profitti delle corporazioni nordamericane nei mezzi di comunicazione e l'onnipresente saturazione di messaggi che offrono alla popolazione esperienze di consumo individuale e di avventure rappresentative delle classi medio-alte, definiscono l'attuale fase del colonialismo culturale. Mediante le immagini televisive si stabilisce una falsa intimità ed un vincolo immaginario tra gli individui fortunati che appaiono nei mezzi di comunicazione e gli impoveriti spettatori dei quartieri periferici. Questa relazione offre un canale attraverso il quale diffondere il metodo delle soluzioni individuali ai problemi privati. Il messaggio è chiaro: s'incolpano le vittime della propria povertà, riconducendo il successo allo sforzo individuale.

Imperialismo e politica del linguaggio

La strategia dell'imperialismo culturale consiste nel rendere insensibile il pubblico, per far accettare la massiccia mattanza compiuta dagli stati occidentali come un'attività di routine giornaliera. Per esempio, proponendo i massicci bombardamenti sull'Iraq in forma di videogiochi.

Ponendo enfasi nella modernità delle nuove tecnologie belliche, i mezzi di comunicazione glorificano il potere raggiunto dall'elite: la tecno-guerra dell'occidente. L'imperialismo culturale promuove attualmente reportage "informativi" nei quali le armi di distruzione di massa vengono presentate con attributi umani ("bombe intelligenti") mentre le vittime del Terzo Mondo sono "aggressori-terroristi" senza volto.

La manipolazione culturale mondiale si sostenta nella corruzione del linguaggio della politica. Una delle maggiori "innovazioni" recenti dell'imperialismo culturale è l'appropriazione del linguaggio della sinistra e il suo uso per razionalizzare pratiche e politiche profondamente reazionarie. Questa è una politica di "disinformazione" che ruba alla sinistra il linguaggio e i concetti utilizzati per attaccare la dominazione della classe capitalista.

Terrorismo culturale: la tirannia del liberalismo

Il terrorismo culturale è responsabile della liquidazione fisica degli artisti e delle attività culturali locali. Proietta nuove immagini di "mobilità" e "libertà di espressione", distruggendo gli antichi vincoli comunitari. Gli attacchi contro le restrizioni e i vincoli tradizionali costituiscono un meccanismo per il quale il mercato e lo Stato capitalista si trasformano nel centro essenziale del potere esclusivo.

In nome della "auto-espressione", l'imperialismo culturale opprime le popolazioni del Terzo Mondo che temono di essere considerate come "tradizionali", seducendole e manipolandole mediante false immagini di "modernità" senza classi. I popoli del Terzo Mondo ricevono divertimento, coazioni e stimoli per essere "moderni": si arrendono davanti al moderno rifiutando i propri confortevoli e tradizionali capi d'abbigliamento larghi, per rimpiazzarli con jeans stretti e scomodi.

La nordamericanizzazione e il mito della "cultura internazionale"

E' diventato di moda evocare termini come "globalizzazione" e "internazionalizzazione" per giustificare gli attacchi contro qualsiasi forma di solidarietà, comunità e/o valori sociali. Sotto il travestimento dell'"internazionalismo", Europa e Stati Uniti si sono trasformati negli esportatori dominanti di forme culturali più efficaci di depoliticizzazione e banalizzazione dell'esistenza quotidiana. Le immagini di mobilità individuale, di self-made person, l'enfasi nella "esistenza autocentrata" (prodotta e distribuita massicciamente dall'industria nordamericana dei mezzi di comunicazione) si sono trasformati in importanti strumenti di dominazione del Terzo Mondo.

I nuovi modelli culturali - predominio del privato sul pubblico, dell'individuale sul sociale, del sensazionalismo e della violenza sulle lotte quotidiane e le realtà sociali - contribuiscono ad inculcare con precisione valori egocentrici e a minare l'azione collettiva. Questa cultura delle immagini, delle esperienze transitorie, della conquista sessuale, agiscono contro la riflessione, il compromesso e i sentimenti condivisi di affetto e solidarietà. La nordamericanizzazione della cultura significa focalizzare l'attenzione popolare sulle celebrità, sul personalismo e sui pettegolezzi privati e non sulle profondità sociali, le questioni economiche sostanziali, nella condizione umana.

La cultura che glorifica il "provvisorio" riflette lo sradicamento del capitalismo nordamericano. Il suo potere di contrattare e licenziare, di muovere capitali senza considerazione alcuna per le comunità. Il mito della "libertà di movimento" riflette l'incapacità della popolazione di stabilire e consolidare le proprie radici comunitarie prima dei cambiamenti che esige il capitale. La cultura nordamericana glorifica le relazioni fugaci e impersonali come "libertà", quando in realtà quelle condizioni riflettono l'anomia e la subordinazione burocratica di una massa di individui al potere del capitale transnazionale.

La nuova tirannia culturale è attecchita nell'onnipresente, ripetitivo e semplice discorso del mercato, di una cultura omogeneizzata del consumo, in un sistema elettorale degradato. La nuova tirannia mediatica si orienta in parallelo alla gerarchizzazione statale e delle istituzioni economiche. Il segreto del successo dell'aggressione culturale nordamericana è la sua capacità di modellare fantasie per fuggire dalla miseria. Gli ingredienti essenziali del nuovo imperialismo culturale sono la fusione della commercialità-sessualità-conservatorismo, ognuno di questi presentati come espressioni idealizzate delle necessità private, un'autorealizzazione individuale.

Impatto dell'imperialismo culturale

La violenza statale negli anni '70 e inizio '80 produsse un danno psicologico e di sfiducia su larga scala e, rispetto alle iniziative radicali, un sentimento di impotenza davanti all'autorità stabilita, anche se questa stessa autorità era odiata. Il terrore portò la gente "verso il dentro", verso l'ambito privato. Il "terrorismo economico" susseguente la chiusura delle fabbriche, l'abolizione della protezione legale del lavoratore, l'incremento del lavoro temporaneo, la moltiplicazione delle imprese individuali molto mal pagate, aumentarono la frammentazione della classe lavoratrice e delle comunità urbane. In questo contesto di frammentazione, diffidenza e privatizzazione, il messaggio culturale dell'imperialismo trova terreno fertile per esplorare sensibilità di popolazioni vulnerabili, incoraggiando ed approfondendo sempre l'alienazione personale, le attività autocentrate e la competizione individuale per risorse sempre scarse.

L'imperialismo culturale e i valori che promuove hanno svolto un ruolo fondamentale nel prevenire la risposta collettiva degli individui sfruttati al peggioramento delle loro condizioni. La maggiore vittoria dell'imperialismo non è solo l'aver ottenuto profitti, bensì la conquista dello spazio interno della coscienza attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La dove sia possibile un risorgimento della politica rivoluzionaria, questa dovrà cominciare con l'aprire un fronte di lotta non solo contro le condizioni di sfruttamento, ma anche contro la cultura che sottomette le sue vittime.

Limiti dell'imperialismo culturale

Contro le pressioni onniscienti del colonialismo culturale vi è un principio di realtà: l'esperienza personale della miseria e dello sfruttamento, realtà quotidiane che non potranno mai essere cambiate dagli evasivi mezzi di comunicazione. Nella coscienza delle popolazioni esiste una lotta costante tra il demonio dell'evasione individuale (coltivata dai media imperialisti) e la conoscenza intuitiva che l'azione collettiva e la responsabilità è l'unica risposta pratica.

La Coca Cola si trasforma in un cocktail esplosivo, la promessa di opulenza si trasforma in un affronto per quelli che perpetuamente rimangono relegati. L'impoverimento prolungato e l'estesa decadenza erodono l'incantesimo e l'attrattiva delle fantasie dei mass media.

Le false promesse dell'imperialismo culturale si trasformano in amare beffe.

In secondo luogo, le risorse dell'imperialismo culturale sono limitate dal perdurare di vincoli di collettivi. Lì dove perdurino i vincoli di classe, etnia, di sesso e dove sono forti le pratiche di azione collettiva, l'influenza dei mezzi di comunicazione di massa è limitata o respinta.

In terzo luogo, dal momento in cui esistono tradizioni e culture preesistenti, queste formano un "circolo chiuso" che integra pratiche sociali e culturali orientate verso il dentro e verso il basso, non verso l'alto e verso il fuori. Lì dove il lavoro, la comunità e la classe convergono con le tradizioni e le pratiche culturali collettive, l'imperialismo culturale retrocede e fa irruzione l'imperialismo militarizzato.

La lotta culturale è radicata nei valori di autonomia, comunità e solidarietà, necessari per creare una coscienza favorevole alle trasformazioni sociali.

Ma soprattutto, la nuova visione deve ispirare la popolazione affinché desideri non solo di essere libera dalla dominazione, ma essere libera di creare una vita personale piena di senso, costituita da relazioni affettive non strumentali, che trascendano il lavoro quotidiano anche quando ispirino la gente a continuare a lottare. L'imperialismo culturale si alimenta delle novità, delle manipolazioni personali e transitorie, ma mai di una visione di autentici e profondi vincoli, basati sull'onestà personale, l'uguaglianza tra i sessi e la solidarietà sociale.
view post Posted: 17/2/2013, 13:17 Speech at the election meeting voters Volodarsky constituency mountains. Leningrad, February 6, 1946 - Русский
Источник: http://alter-vij.livejournal.com/205736.html.


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Товарищи! Разрешите мне выразить глубокую благодарность за ту высокую честь, которой удостоили меня трудящиеся Володарского избирательного округа города Ленинграда, выдвинув кандидатом в депутаты Верховного Совета Союза ССР от Володарского избирательного округа.

В том доверии, которое вы мне оказали, я вижу прежде всего выражение доверия к нашей большевистской партии и ее правильной мудрой политике. (Бурные аплодисменты).

Я считаю также своим долгом передать в вашем лице горячий привет всем ленинградцам, представлять которых в Верховном Совете Союза ССР вместе с другими депутатами от города Ленинграда я считаю почетной обязанностью, которой я особенно горжусь, так как связан с вами, с Ленинградом многолетними узами совместной работы и дружбы. Я приложу все силы к тому, чтобы оправдать ваше высокое доверие. (Бурные аплодисменты).

Через несколько дней состоятся выборы в Верховный Совет Союза ССР. В предстоящих выборах, как и в предыдущих, наша партия выступает в блоке с беспартийными рабочими, крестьянами и интеллигенцией. Партия рассчитывает, что, как и в прошлые выборы, избиратели окажут доверие к ее политике и единодушно проголосуют за кандидатов блока коммунистов и беспартийных.

В связи с выборами трудящиеся нашей страны обозревают пройдённый путь, проверяют результаты политики большевистской партии и советского государства, намечают задачи на будущее. Итоги политики большевистской партии и платформа её дальнейшей деятельности изложены в известном вам Обращении Центрального Комитета партии ко всем избирателям.

Истекший со времени последних выборов в Верховный Совет период дал всем гражданам Советского Союза возможность вновь и вновь убедиться в правильности политики партии, убедиться, что наша партия является признанным и испытанным руководителем советского народа, его передовым отрядом, неразрывно связанным с народом, беззаветно защищающим его насущные интересы и пользующимся его безграничным доверием.

Предвоенные годы были годами, когда большевистская партия, укрепляя мощь и силу советского государства, направляла все усилия народа на подготовку к отпору возможного нападения со стороны империалистических агрессоров на нашу страну. Товарищ Сталин своим гениальным оком прозорливо предвидел возможность нападения на нашу страну и непрерывно готовил народ к тому, чтобы это нападение не застало его врасплох. Предвоенные годы были годами неустанной борьбы советского правительства за мир, за коллективную безопасность.

Вероломное нападение фашистской Германии на СССР поставило нашу страну перед крайне тяжёлыми испытаниями. Дело шло о жизни и смерти для советского государства и для народов Советского Союза. Это был тяжёлый и исключительно ответственный период для нашей партии, для советского государства.

В предвоенные годы на основе победы социализма были заложены устои нашего современного советского общества. Были ликвидированы эксплуататорские классы, построена новая, социалистическая экономика, создано на основе братского содружества рабочих, крестьян и интеллигенции морально-политическое единство советского общества. Мы упрочили дружбу народов, которая является основой крепости такого многонационального государства, каким является СССР.

Война явилась генеральной проверкой огнём всех основ нашего советского строя и всех наших моральных и политических устоев. В ходе войны прошли суровую проверку все качества наших советских людей.

Наша страна, наш народ с честью выдержали эту суровую проверку. Государство, рождённое Великой Октябрьской социалистической революцией, оказалось способным не только отбить нападение сильного врага, но и под водительством испытанного и мудрого полководца товарища Сталина нанести врагу сокрушительный удар и разгромить его в собственной берлоге. (Аплодисменты).

По зову партии весь советский народ поднялся на защиту Родины, объединился в единый боевой лагерь под лозунгом: «Всё для фронта, всё для победы», не жалел ни сил, ни жизни, героически сражался и трудился во имя защиты и спасения Родины.

В войне со всей силой сказался тот морально-политический капитал, который накопила партия за предвоенные годы. Когда нас постигли в начале войны временные военные неудачи, когда положение было отчаянным, когда враг докатывался до наших основных жизненных центров, тогда наш великий советский народ и его руководящая сила — русский народ оказал величайшее доверие нашей партии, её большевистскому сталинскому руководству, проявив исключительную ясность ума, стойкость характера и терпение. Это была проверка огнём связей, близости и доверия трудящихся к нашей партии, проверка, которая показала, что наш народ сплочён вокруг партии, что наша партия и народ - это единое целое. (Аплодисменты).

Эти качества советских людей со всей силой проявились и здесь, в Ленинграде, положение которого в первые дни и месяцы блокады было исключительно трудным. В те критические дни, когда на Ленинград была выпущена свора гитлеровских псов, вооружённых до зубов всевозможной военной техникой и получивших приказ во что бы то ни стало захватить Ленинград,— в это время со всей силой сказались мужество и стойкость ленинградцев.

Товарищи, у меня в руках находится полученный в ходе Нюрнбергского судебного процесса документ, который звучит сейчас очень странно, но который в своё время имел значение одной из главных гитлеровских директив. Это выписка из секретного документа начальника штаба гитлеровских вооружённых сил от 24 сентября 1941 года. В нем речь идёт «о будущности г. Петербурга». Содержание пункта 2 документа гласит:
«Фюрер решил стереть город Петербург с лица земли. После поражения Советской России нет никакого интереса к дальнейшему существованию этого большого населенного пункта. Финляндия точно так же заявила о своей незаинтересованности в дальнейшем существовании города Петербурга непосредственно вблизи ее новых границ».

Вот о чём бредил враг! Но теперь итоги налицо: стёрты с лица земли фюреры, а Ленинград стоял, стоит и будет стоять впредь нерушимо. (Бурные аплодисменты).

На примере героической обороны Ленинграда мы знаем, как упорно стремился осуществить свои кровавые замыслы враг. Гитлер и его орды переходили от плана удушения Ленинграда голодом к плану военного штурма, сочетали эти планы один с другим, упрямо стремясь сломить могучий дух великого города. Однако все планы и намерения врага были опрокинуты и сорваны героическими усилиями бойцов и командиров Ленинградского фронта совместно с трудящимися Ленинграда, день и ночь трудившимися на дело победы.

Вся тяжёлая, трудная, героическая и славная борьба ленинградцев против вражеской блокады связана с именем товарища Сталина. В самое трудное для Ленинграда время ленинградцы черпали бодрость духа в сталинской заботе об обороне города. Товарищ Сталин направлял все дело обороны города, и благодаря его руководству Ленинград был спасен. Товарищ Сталин был творцом, организатором плана прорыва блокады под Шлиссельбургом и плана Окончательного освобождения города от блокады в январе 1944 года.

Товарищ Сталин впитал в себя весь передовой военный опыт. Он не только является продолжателем самой передовой военной науки, представителями которой являлись великие русские полководцы Суворов и Кутузов. Товарищ Сталин является созидателем советской поенной науки и организации, перед которой оказалась бессильна военная наука и организация врагов советского государства. Фашизм выдвинул против нас свою систему военной науки и военной организации. Социализм во главе с товарищем Сталиным выдвинул свою военную науку, свою военную организацию. Победила сталинская военная организация, сталинская военная наука. (Бурные аплодисменты).

Сложнейшие и труднейшие вопросы руководства встали в начале войны перед нашей партией и государством. Нужно было в условиях вражеского нападения реорганизовывать на военный лад экономику, реорганизовывать армию, развёртывать военную промышленность на востоке, поднимать народ на борьбу против захватчиков, организовывать партизанское движение.

Наше счастье, что в эти ответственные дни стал во главе вооруженных сил советского государства товарищ Сталин. Под руководством товарища Сталина были использованы все преимущества советского строя, были приведены в действие все движущие силы советского общества, мобилизованы все возможности для достижения победы. И это обеспечило победу. (Бурные аплодисменты).

В итоге победоносной войны СССР укрепил безопасность своих границ, отстоял интересы народов нашей страны, обеспечил их национальную самостоятельность, независимость, свободу и культуру. Границы советского государства простираются теперь от Курильских островов на востоке до Кенигсберга на западе.

Советское государство полностью учло интересы укрепления северо-западных границ Советского Союза. В восстановлении советско-финского договора 1940 г., в приобретении Советским Союзом базы в Порккала-Удде, в отходе к Советскому Союзу незамерзающего порта Кенигсберг на Балтийском море, в присоединении к Советскому Союзу на севере района Печенги мы видим заботу нашей партии и правительства об охране безопасности северо-западных границ, безопасности Ленинграда. (Аплодисменты).

Товарищи, Ленин и Сталин учат нас укреплять могущество советского государства. С особой силой задачи укрепления советского государства в условиях победы социализма в одной стране и наличия капиталистического окружения были развиты товарищем Сталиным на XVIII съезде партии. Советский строй оказался не только лучшей формой экономического и культурного подъёма страны в годы мира, но и лучшей формой мобилизации всех сил народа для отпора врагу в военное время.

Война показала, насколько прав был товарищ Сталин. Конечно, царская Россия, на её глиняных ногах, не устояла бы перед такими военными испытаниями. Только советскому государству это оказалось по плечу Будем же и впредь крепить могущество нашего родного советского государства, могущество Советского Союза! (Бурные аплодисменты).

Товарищи! Война явилась также испытанием морально-политического единства нашего советского народа. Проверка показала, что это единство прочно, как никогда.

Рабочий класс свершил величайший трудовой подвиг в годы войны, отдавая все силы для дела победы.

Наша интеллигенция, слившаяся с народом и составляющая его активную передовую силу, смело шла по пути новаторства в области техники и культуры, двинула вперёд современную науку и своим созидательным трудом внесла неоценимый вклад в дело разгрома врага. Сталинские премии за 1943-44 гг. достаточно ярко свидетельствуют об успехах и усилиях нашей интеллигенции в тяжёлых условиях военного времени.

Наше колхозное крестьянство также не осталось в долгу перед Родиной. Благодаря его заботам Красная Армия была обеспечена продовольствием. Колхозное крестьянство активно и с полным сознанием своего долга содействовало Красной Армии в достижении победы над врагом.

В основе трудовых подвигов наших советских людей, а равно и в основе ратных подвигов наших воинов лежит горячий, животворный советский патриотизм. В советском патриотизме, как учит товарищ Сталин, сочетаются национальные традиции народа и общие жизненные интересы всех трудящихся Советского Союза.

Если порочность фашизма заключается в том, что фашизм пытается строить отношения между народами на основе расовой ненависти и звериного национализма, то сила советского патриотизма заключается не в расовых или национальных предрассудках, а в глубокой преданности народа своей советской Родине, в тесном, братском содружестве всех наций нашей страны.

Если фашистский расизм и национализм — звериный, человеконенавистнический, мерзкий национализм разъединяет людей, тo советский патриотизм, наоборот, сплачивает все нации и народности нашей страны в единую братскую семью. Вот почему в час грозной опасности все народы СССР самоотверженно защищали советскую Родину.

Теперь для всех очевидно, что только объединённые и Советский Союз народы нашей страны смогли отстоять свою свободу и независимость.

Вот почему наша военная победа над фашизмом стала также и морально-политической победой, ибо в этой войне была разбита наголову человеконенавистническая идеология неравноправия рас и наций, которая вскружила голову немцам, привела их к сумасбродной мысли о мировом господстве и в конце концов довела до бесславной и позорной катастрофы.

Всё это свидетельствует об исторической роли советского народа, того народа, который не только нанес военное поражение врагу и освободил свою Родину от фашизма, но и спас цивилизацию Европы от фашистских погромщиков.

Советский народ пронёс знамя передовых демократических идей, знамя культуры и прогресса через все страны Европы, находившиеся под фашистским игом.
Поэтому-то советский народ .по праву является настоящим и подлинным другом всех народов, освобожденных от фашистского ига. (Аплодисменты).

Товарищи, мы победили также потому, что товарищ Сталин и наша партия во время войны проводили мудрую внешнюю политику. Наша внешняя политика заключалась в том, чтобы Советский Союз не остался в изоляции, как на это рассчитывали гитлеровцы.

Товарищу Сталину, советскому правительству удалось своим активным участием создать и закрепить блок свободолюбивых, миролюбивых государств против германского фашизма. В этом мудрость внешней политики нашего советского государства. (Аплодисменты).

Товарищи, мы вступили в период мирного развития. На очереди подготовка нового пятилетнего плана развития народного хозяйства, который предусматривает не только полное восстановление народного хозяйства в районах, подвергавшихся немецкой оккупации, но и послевоенную перестройку народного хозяйства и дальнейшее развитие всех районов СССР с тем, чтобы далеко оставить позади довоенный уровень. Встает вопрос о дальнейшем развитии социалистических производительных сил.

Война, как известно, произвела значительную передвижку нашей промышленности с запада на восток. Развились в промышленном отношении такие районы, как Урал, Сибирь, Казахстан, Средняя Азия.

Задача сейчас заключается в том, чтобы не только дальше укреплять и развивать промышленность на востоке, что является абсолютно целесообразным и необходимым, но также и в том, чтобы восстановить промышленность и двинуть её дальше вперед и в старых промышленных районах, в частности в районах, подвергавшихся немецкой оккупации.

Сейчас, после окончания войны, наши фабрики и заводы переводятся на производство продукции мирного времени. Перед нашей страной открываются широкие возможности развития промышленности и всего народного хозяйства. Советской стране не угрожают кризисы и потрясения, какие происходят в капиталистических странах. В Советском Союзе нет и не будет ни кризисов, ни безработицы.

Перед советским народом стоит задача быстрейшего восстановления и дальнейшего развития социалистической промышленности и транспорта. В предстоящей пятилетке необходимо обеспечить дальнейший подъем нашей тяжёлой промышленности, чтобы дать стране больше металла, угля, нефти, выпускать больше станков, больше паровозов, .автомобилей, тракторов и других машин. Надо добиться, чтобы наша промышленность и транспорт были оснащены еще более совершенным оборудованием и машинами, мощными двигателями, чтобы на службу народного хозяйства страны были поставлены все достижения передовой науки и техники.

Колхозное хозяйство сильно пострадало за время войны. Задача партии и советского народа заключается в том, чтобы в возможно кратчайший срок вновь насытить колхозное хозяйство машинами, укрепить МТС, дать им тракторы, комбайнов значительно повысить урожайность колхозных полей; поднять качественно и количественно животноводство; добиться, чтобы все колхозники жили зажиточно и культурно.

Особое значение приобретает восстановление районов, пострадавших от немецкой оккупации. Пока ещё сделаны только первые шаги в деле восстановления всего того, что было разграблено и уничтожено немецко-фашистскими захватчиками.

Говоря о восстановительных работах, я должен коснуться вопроса о восстановлении города Ленинграда.
Очень важный вопрос — в каком направлении будет дальше развиваться народное хозяйство Ленинграда?

Нет никакого сомнения, что Ленинград и впредь будет развиваться как крупнейший центр машиностроения, судостроения, электромашиностроения, как город передовой машиностроительной техники. Вместе с тем в Ленинграде, в котором были развиты различные отрасли производства предметов широкого потребления, как текстильная, кожевенная, пищевая промышленность и т, д., должны развиваться и эти отрасли.

Опыт показывает, что трудностью для Ленинграда является его зависимость от дальнепривозного топлива и металла. Отсутствие вблизи Ленинграда мощной металлургической и топливной базы ставило серьёзные пределы развитию ленинградского машиностроения. Речь идет о создании около Ленинграда крупной металлургической базы. Речь идёт о развитии добычи печорских углей, кольских железных руд, о развитии транспортных связей Ленинграда с Печорой и Кольским полуостровом. Речь идёт о том, чтобы не возить металл с Урала или с юга для Ленинграда, а иметь металл под боком у Ленинграда.

Таким образом, одна из основных задач, которую товарищ Сталин поставил еще до войны, заключается в том, чтобы Ленинград как крупнейший машиностроительный центр обеспечить всем необходимым и чтобы его машиностроительная база не находилась в зависимости от далёких баз, снабжающих и другие машиностроительные районы страны. Свой газ, свой металл, свой уголь, свои транспортные связи, объединяющие и прорезывающие весь ленинградский экономический район, — вот что нужно, чтобы в кратчайший срок Ленинград и его промышленный район стали ещё более могущественными и еще более цветущими, чем были до войны. (Аплодисменты).

Очень большое значение приобретает вопрос о перестройке нашего производства на мирный лад. Нельзя сказать, что везде к этой задаче относятся в должной мере серьезно. Иные думают, что перевести хозяйство на условия мирного времени лёгкое дело. Оказывается, не так дело обстоит. Перестройка на продукцию мирного времени и, в частности, переход на производство предметов широкого потребления означает перестройку не только самих предприятий, выпускающих предметы широкого потребления, но и в значительной мере предприятий, снабжающих лёгкую промышленность.

Однако в этом деле нам не дано много времени для перестройки, ибо народ, несший в течение многих лет войны жертвы и лишения, законно требует, чтобы материальные и бытовые условия были быстро улучшены.

Всё это отнюдь не мелочь. Дело улучшения бытового и материального благосостояния масс, расширения производства товаров широкого потребления есть дело, за которое надо поратовать, побороться, вложить в него тот же большевистский энтузиазм и страстность, с которыми мы шли на разрешение военных задач. Народ нам за это скажет только спасибо. (Аплодисменты).

Так же дело обстоит и в области культуры, и в области коммунального и жилищного строительства. В этом отношении я хотел бы отметить положительный и поучительный опыт Ленинграда. Ленинградцы правильно поступили, когда начали восстановительные работы еще в период блокады. Известное решение правительства о восстановлении завода «Электросила», завода имени Ленина и других заводов начало осуществляться тогда, когда только-только была прорвана блокада и когда вся связь ещё держалась на одной железнодорожной нитке по берегу Ладоги, обстреливавшейся врагом. Но ленинградцы — люди, сделанные из большевистского теста, — они не остановились перед этой трудностью и взялись за восстановление своего города и его промышленности ещё в условиях неполного освобождения от блокады. От этого получился чистый выигрыш. (Аплодисменты).

Опыт Ленинграда в деле восстановления ценен также тем, что Ленинграду, его партийной организации удалось дело восстановления сделать общенародным делом. Ленинградцы также правильно поступили, когда взяли расчёт не на снабжение всем необходимым из центра, а на энергичное развитие местной строительной промышленности и строительной организации.

Позвольте пожелать Ленинграду, его трудящимся, его партийной организации и его руководству всяческих успехов в разрешении всех этих имеющих крупное государственное значение задач. (Бурные аплодисменты).

Товарищи! Победа над фашизмом изменила в корне международную обстановку. Авторитет Советского Союза, его мощь и значение на международной арене поднялись, как никогда. Советский Союз сейчас играет огромную роль в решении всех международных дел, Наша задача заключается в том, чтобы и впредь неуклонно отстаивать сталинскую внешнюю политику мира и дружбы между народами.

Мы не скрываем от себя, что проведение этой политики связано со многими трудностями. Если фашизм разгромлён, то корни его ещё не везде ликвидированы. Имеются еще и в рядах свободолюбивых наций реакционные элементы, люди, недружелюбно относящиеся к Советскому Союзу. Советский Союз приобрёл много друзей во всех странах мира, ибо он нёсёт знамя передового и цивилизованного человечества. Но это не означает, что на нашем пути не осталось никаких рифов и мелей. Ещё много придётся работать над реализацией решений Ялтинской и Потсдамской конференций для укрепления организации Объединённых наций, над закреплением итогов нашей победы.

Вы все следите за печатью и видите, что организация мира и подлинной безопасности, проведение в жизнь нашей политики дружбы народов не всем нравится. Конечно, на всех не угодишь, но мы должны быть бдительны. Во всяком случае, Советский Союз стал сейчас таким важным международным фактором, что как-либо умалить его значение или недооценить его интересы никому не удастся. Такого рода попытки, которые идут из лагеря людей, не вполне дружелюбно к нам относящихся, — попытки умалить роль СССР или представить её в невыгодном свете, — обречены на провал. (Аплодисменты).

Мирный созидательный труд советского народа и его безопасность защищает наша славная Красная Армия. Под руководством партии большевиков, под водительством товарища Сталина Красная Армия в ходе войны превзошла противника своей силой и умением воевать. Советские воины проявили геройство и храбрость в сражениях за Родину. Коммунистическая партия будет и впредь неуклонно бороться за дальнейшее укрепление вооружённых сил советского государства. (Аплодисменты).

Товарищи, как в годы войны, так и в предстоящие годы мирного строительства организующей, направляющей, вдохновляющей силой во всей нашей работе являлась и остаётся наша большевистская партия. Нег никакого сомнения в том, что сейчас, при переходе к новым задачам мирного строительства, наша партия будет с такой же мудростью, с такой же энергией, с такой же неутомимой волей и настойчивостью вести наш народ по пути осуществления новых задач социалистического строительства, как это она делала все годы своей славной истории, как это она делала в годы Великой Отечественной войны.

Велики и почётны задачи, стоящие перед советским государством и советским народом. Наше советское государство сильно сознательностью масс. Для нас, советских людей, всякая задача становится понятной, близкой, выполнимой, потому что труженики советского общества могут обо всём судить и идут на всё сознательно.

Ещё Суворов говорил: всякий солдат должен понимать свой маневр. Мы, большевистская партия, мы, советский народ, безусловно справимся с новыми грандиозными планами социалистического строительства, ибо у нас свою задачу понимают не единицы, не сотни, не одни только руководители, но весь народ, вся масса, все граждане нашей великой страны. В этом сила советского демократизма.

Предстоящие выборы в Верховный Совет станут исходным пунктом для нового расцвета нашего советского государства и социалистического хозяйства.

В этих выборах еще более закалится боевой союз нашей партии и беспартийных трудящихся. Эти выборы будут яркой демонстрацией любви и преданности народа к нашему родному Сталину. (Бурные аплодисменты).

Да здравствуют трудящиеся Володарского избирательного округа!
Да здравствуют мужественные ленинградцы!
Да здравствует наш советский народ!
Да здравствует наша великая советская Родина!
Да здравствует наша славная большевистская партия!
Да здравствует наш вождь и учитель товарищ Сталин!
Ура!
(Бурная, долго не смолкавшая овация. «Ура!» всего зала. Все встают. Возгласы: «Да здравствует великий Сталин!»).

/Жданов А.А. «Речь на предвыборном собрании избирателей Володарского избирательного округа гор. Ленинграда 6 февраля 1946 г.» М., Госиздат, 1946 г./
view post Posted: 17/2/2013, 12:57 Discussione sul film “Ivan il Terribile, Parte II” - Documenti biografici e opere minori
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sono contento per te! C'è qualcos'altro che posso fare per questo grandioso forum? :D

Cercare le opere di Zdanov in altre lingue. Se visiti la sezione in lingue estere, vedrai quali opere mancano; in particolare, mancano le edizioni delle opere di Zdanov nelle lingue dell'Europa orientale; finora ho trovato solamente qualcosa in ceco e in tedesco (oltre, naturalmente, al russo).
view post Posted: 16/2/2013, 20:14 Discussione sul film “Ivan il Terribile, Parte II” - Documenti biografici e opere minori
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Compagno, sei più riuscito a risolvere il problema dello sfondo? Cos'era che volevi, di simile a Scintilla Rossa?

Sì. Tutti i problemi principali sono stati risolti. Adesso ho la skin di Scintilla Rossa.
181 replies since 24/6/2011