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Posts written by Alaricus Rex

view post Posted: 26/3/2013, 19:02 Trionfano le grandi idee di Lenin sulla lotta di liberazione nazionale nelle colonie dell’Oriente - Opere dei dirigenti e documenti storici

LAVORATORI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!


KIM IL SUNG


TRIONFANO LE GRANDI IDEE DI LENIN
SULLA LOTTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE NELLE COLONIE DELL’ORIENTE


Articolo pubblicato il 16 aprile 1970 nella Pravda,
organo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica,
per il centenario della nascita di V. I. Lenin


Commemoriamo ora, in modo significativo, con tutti i popoli progressisti del mondo, il centenario della nascita di V. I. Lenin.
Lenin, grande capo della rivoluzione e genio dell’umanità, ha dedicato tutta la sua vita alla causa rivoluzionaria consacrata alla libertà e all’emancipazione della classe operaia internazionale e delle nazioni oppresse di tutto il mondo, e ha compiuto opere imperiture per il trionfo del socialismo e del comunismo
Durante la lotta intransigente contro le correnti opportuniste di ogni tipo, Lenin difese l’essenza rivoluzionaria del marxismo, sviluppò in modo creativo e arricchì ancor più il marxismo in conformità alle nuove condizioni storiche dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria. Sviluppando la sua attività nell’epoca dell’imperialismo, in cui le contraddizioni della società capitalista erano arrivate al loro punto estremo. Lenin illuminò in modo scientifico, alla luce della legge dell’avvento, dello sviluppo e della rovina del capitalismo, legge scoperta da Marx, la natura e la posizione storica dell’imperialismo, stadio supremo e ultimo del capitalismo, dimostrò con ciò anche l’ineluttabilità della sua rovina ed elaborò per la prima volta la teoria della vittoria della rivoluzione socialista in un paese solo. Sviluppò ulteriormente le idee sulla dittatura del proletariato, formulò le basi organizzative ed ideologiche e i principi tattici del partito marxista, di tipo nuovo, ed elaborò il programma di edificazione del socialismo, chiamando con questo la classe operaia e le masse lavoratrici sfruttate e e oppresse di tutto il mondo al decisivo combattimento rivoluzionario per il socialismo.
Il leninismo è il marxismo creativo dell’epoca dell’imperialismo; è la teoria, la strategia e la tattica della rivoluzione proletaria, la potente arma dei popoli rivoluzionari per il rovesciamento della società che ormai ha espresso tutte le sue possibilità e per la creazione di un mondo nuovo, e la grande bandiera di lotta della nostra epoca. La realtà prova nettamente la forza invincibile del leninismo, dottrina rivoluzionaria del proletariato che trasforma il mondo. La bandiera rivoluzionaria immortale di Lenin sventola sul mondo, dà un impulso ogni giorno più potente alla lotta dei popoli progressisti di tutto il mondo e conduce sicuramente tutta l’umanità verso un avvenire radioso.
Nella dottrina di Lenin, la questione coloniale-nazionale occupa un posto importante.
Lenin elaborò in sistema perfetto la teoria della rivoluzione nazionale-coloniale nell’epoca dell’imperialismo, epoca dell’oppressione nazionale basata sul dominio del capitale finanziario. Nell’epoca del capitalismo monopolistico il mondo è stato diviso in due parti: il piccolo gruppetto delle potenze imperialiste e i paesi coloniali e dipendenti abitati dalle nazioni oppresse che costituiscono la maggioranza schiacciante delle popolazioni della terra. In queste nuove circostanze, Lenin collegò la questione nazionale alla questione coloniale, ne allargò il quadro trasformandola da questione particolare, limitata al quadro delle nazioni dei paesi “civilizzati” dell’Europa, in questione generale dell’emancipazione delle nazioni oppresse dal giogo dell’imperialismo e considerò la questione coloniale-nazionale come una parte del problema generale della rivoluzione proletaria e della dittatura del proletariato.
Lenin indicò la necessità di trasformare i popoli dei paesi coloniali e dipendenti, da riserva dell’imperialismo in alleati della rivoluzione proletaria, e per la classe operaia il dovere di respingere fino in fondo il social-sciovinismo e di lottare unendosi strettamente con le nazioni oppresse di centinaia di milioni di individui tenuti fino ad allora ai margini della storia e considerati solo oggetto della medesima. lenin approfondì e e sviluppò ulteriormente le idee scientifiche di Marx sull’autodeterminazione delle nazioni, che costituisce il principio fondamentale per la risoluzione della questione nazionale coloniale. Indicò che tutte le nazioni sono uguali e indipendenti, che non bisogna mai accordare privilegi a nessuna nazione e che bisogna dichiarare illegale ogni misura che violi i diritti delle minoranze nazionali, e preconizzò che tutte le nazioni devono avere la libertà di separarsi per costituirsi in Stato indipendente e il diritto all’autodeterminazione politica.
Contemporaneamente, si pronunciò per una solidarietà autentica fra le nazioni, basata sui principi dell’internazionalismo proletario e respinse risolutamente il gretto egoismo nazionale e il nazionalismo borghese che, “riconoscendo a parole l’uguaglianza delle nazioni, difendono in realtà (spesso furtivamente, alle spalle del popolo) i privilegi di una delle nazioni e si sforzano sempre di ottenere maggiori profitti per la “loro propria” nazione (cioè, per la borghesia della propria nazione), di dividere ed isolare le nazioni, di sviluppare l’esclusivismo nazionale, ecc.” (Lenin, Opere, vol. 19).
Lottando per la libertà e l’indipendenza dei popoli dei paesi coloniali e dipendenti, Lenin dedicò particolare attenzione soprattutto alla lotta di liberazione nazionale dei popoli dell’Oriente.
Dalla fine del XIX secolo all’inizio del XX secolo, i paesi dell’Oriente furono divisi in colonie dalle potenze imperialiste del mondo e il continente asiatico si trasformò in fonte di materie prime, in zona per l’esportazione di capitali, in mercato di vendita dei surplus delle merci per le potenze capitaliste del mondo e in una vasta retrovia dell’imperialismo. Ciò frenava enormemente il normale sviluppo dell’economia dei paesi dell’Oriente, nei quali i rapporti capitalistici germogliavano in proporzioni notevoli in seno alla società feudale. L’inasprimento dell’oppressione e dello sfruttamento dei paesi dell’oriente da parte delle potenze imperialista e la limitazione dello sviluppo socio-economico dei paesi dell’Asia esasperarono inevitabilmente le contraddizioni nazionali fra le potenze imperialiste e i popoli di questa regione.
I popoli dell’oriente erano sfruttati anche due o tre volte più crudelmente di quanto non lo fossero i popoli dei paesi capitalisti evoluti, e subivano un’oppressione nazionale e razziale da parte degli imperialisti. L’inasprimento dell’aggressione dell’Oriente da parte delle potenze imperialiste e l’accelerazione del processo di colonizzatone e di semi-colonizzazione dei paesi dell’Asia resero estremamente acute le contraddizioni di classe in questa regione. Il saccheggio da parte degli imperialismi stranieri, assieme allo sfruttamento da parte delle classi dominanti reazionarie indigene, divenne sempre più insopportabile. In questa regione si urtavano violentemente le contraddizioni tra le potenze imperialiste e tra i gruppi del capitale monopolistico, che si disputavano le concessioni coloniali e sue sfere d’influenza. In effetti, questa regione era il punto di convergenza di diverse contraddizioni che generano la rivoluzione; essa era l’anello più debole della catena del fronte imperialista e il teatro di scontri decisivi della lotta politica mondiale. L’Oriente divenne il centro della questione nazionale-coloniale. I popoli dell’Oriente si svegliarono dal loro sonno secolare e, dalla fine del XIX secolo, il movimento rivoluzionario dei popoli per la libertà e l’indipendenza esplose ovunque in Asia.
Lenin ha affermato quanto segue: “Al periodo in cui l’oriente si risveglia segue, nella rivoluzione attuale, l periodo in cui tutti i suoi popoli partecipano alla determinazione dei destini del mondo al fine di non essere più soltanto una fonte di arricchimento. I popoli dell’oriente si risvegliano all’azione pratica affinché ogni nazione sia chiamata a decidere le sorti di tutta l’umanità”. (Lenin, Opere, vol. 30).
La Grande rivoluzione Socialista dell’Ottobre in Russia ha aperto una uova era nella lotta di liberazione nazionale dei popoli dell’Oriente. La vittoria della Rivoluzione d’ottobre risvegliò ancor più i popoli dell’Oriente, i quali, a causa della politica medievale, si trovavano fino a quel momento nell’ignoranza e servivano solo da concime alla civiltà capitalista; essa sviluppò la lotta di liberazione delle nazioni oppresse ad un nuovo e superiore livello, coordinandola con il movimento rivoluzionario della classe operaia internazionale.
I popoli dell’oriente, avendo attinto una forza e un coraggio inestinguibili dalle grandi idee di lenin sulla questione nazionale-coloniale e avendo trovato la giusta via della lotta nella vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, condussero sotto la direzione della classe operaia, decise e valorose lotte contro l’imperialismo e il colonialismo, riportando storiche vittorie. In particolare, dopo la seconda guerra mondiale, grandi trasformazioni rivoluzionarie sono sopravvenute in oriente e l’assetto dell’Asia è radicalmente cambiato.
Portando a compimento la sua lunga lotta di liberazione anti-imperialista, il popolo cinese scacciò finalmente gli imperialisti stranieri e rovesciò la dominazione del feudalesimo e del capitalismo burocratico. La vittoria della rivoluzione cinese fu un grande avvenimento internazionale che per la sua importanza segue da vicino la grande Rivoluzione d’Ottobre. Il fatto che il popolo cinese, che rappresenta circa un quarto della popolazione del mondo, abbia scosso il giogo imperialista per impegnarsi nella vi del socialismo significava un altro colpo inferto al sistema coloniale dell’imperialismo e ciò modificò in modo decisivo i rapporti di forza tra il socialismo e l’imperialismo a vantaggio del socialismo.
L’eroico popolo vietnamita, conducendo una lotta sanguinosa, cacciò gli aggressori stranieri, a cominciare dai colonialisti francesi, e fondò il primo stato socialista del sud-est asiatico. Il Vietnam è oggi divenuto il fronte dove si svolge il più aspro combattimento anti-imperialista e anti-USA. È proprio sul territorio del Vietnam che si svolge una lotta accanita tra le forze rivoluzionarie anti-imperialiste e le forze aggressive dell’imperialismo USA. Le forze dell’Armata popolare di Liberazione e il popolo del Vietnam del Sud hanno già liberato i quattro quindi del territorio nazionale e i due terzi della popolazione e hanno creato il Governo Rivoluzionario Provvisorio della repubblica del Vietnam del Sud. Essi continuano a infliggere cocenti e irrimediabili sconfitte militari e politiche agli aggressori imperialisti USA e costringono a una impasse l’imperialismo USA e i fantocci sud-vietnamiti.
Sotto la direzione di Néo Lao Haksat, il popolo laotiano ha impugnato le armi per la liberazione e l’indipendenza del paese, per la difesa della pace e della sicurezza in Indocina e nel sud-est asiatico e moltiplica ogni giorno i successi nei combattimenti sferrando attacchi successivi agli imperialisti USA e ai loro lacchè. La classe operaia e il popolo del Giappone conducono vigorosamente la lotta anti-USA e anti-monopolista e infliggono gravi colpi alla politica di guerra degli imperialisti USA e alla rinascita del militarismo giapponese. I popoli thailandese e malese sviluppano energicamente la lotta armata contro gli imperialisti USA e il potere dittatoriale pro-USA; il popolo e la gioventù studentesca delle Filippine si incamminano valorosamente sulla via della resistenza contro l’asservimento politico ed economico del paese da parte dell’imperialismo USA. Il popolo cambogiano lotta per la sovranità della nazione e l’integrità territoriale e i popoli dell’India, di Ceylon, della Birmania, dell’Indonesia, del Pakistan e di tutti gli altri paesi dell’Asia avanzano unendosi alle schiere di quelli che lottano contro l’imperialismo e il colonialismo.
Tutto il processo della rivoluzione coreana, pieno di dure prove e di avvenimenti eroici, avviene sulla via della vittoria gloriosa della bandiera immortale di Lenin. È nelle grandi idee di Lenin che il popolo coreano ha trovato l’arma per la liberazione ed è sotto la sua bandiera che ha condotto la lotta sacra per la libertà e l’indipendenza e avviato una storia di creazione e di vittoria.
Nel periodo più oscuro della dominazione coloniale dell’imperialismo giapponese quando un destino tragico pesava sulla nazione, i comunisti coreani, prendendo come guida strategica e tattica le idee rivoluzionarie di Lenin e portando alta la bandiera della lotta anti-imperialista di liberazione nazionale, hanno sviluppato un’eroica lotta armata durata quindici anni contro gli aggressori imperialisti giapponesi e hanno in questo modo sconfitto l’imperialismo giapponese e riportato la storica vittoria della liberazione della patria.
Il nostro popolo che si è avviato, dopo la liberazione del 15 agosto, sulla strada di una nuova vita ha trasformato la parte settentrionale del paese in base rivoluzionaria sicura, portando a completa realizzazione la rivoluzione democratica antimperialista e anti-feudale, ed ha salvaguardato con onore le conquiste della rivoluzione respingendo eroicamente la barbara invasione armata dell’imperialismo USA e dei suoi lacchè nella Guerra di Liberazione della Patria.
La vittoria del nostro popolo nella Guerra d Liberazione della Patria ha dimostrato che nessuna forza aggressiva dell’imperialismo può sottomettere un popolo che si è levato a combattere, sotto la direzione di un partito marxista-leninista, per la libertà e l’indipendenza della sua patria; essa ha rivelato la debolezza e la putrefazione dell’imperialismo USA e inculcato nelle nazioni oppresse del mondo la ferma convinzione che l’imperialismo USA non è assolutamente invincibile e che è possibilissimo lottare contro di esso e riportare su di esso la vittoria.
Il nostro Partito ha riportato grandi vittorie e grandi successi nella rivoluzione socialista e nell’edificazione del socialismo, legandosi strettamente alla linea di juche consistente nell’applicare in modo creativo i principi universali del marxismo-leninismo e le esperienze degli altri paesi, adattati alle condizioni storiche e alle particolarità nazionali del nostro paese, e nel risolvere i nostri problemi ad ogni costo sotto la nostra diretta responsabilità, dando prova di spirito rivoluzionario e dimostrando di saper contare sulle nostre proprie forze. Il nostro paese è divenuto oggi uno Stato socialista con il diritto alla completa autodeterminazione politica, con una solida economia nazionale indipendente, una cultura nazionale evoluta e una potente capacità di autodifesa.
I grandi cambiamenti socio-economici introdotti nella parte settentrionale della Repubblica, esercitano una grande influenza rivoluzionaria sul popolo sud-coreano che geme sotto la crudele dominazione coloniale dell’imperialismo USA. Il popolo sud-coreano, che guarda come ad un faro all’esperienza della parte settentrionale del nostro paese che prospera e si sviluppa continuamente, ha lottato ostinatamente, sin dai primi giorni dell’occupazione della parte meridionale della Corea da parte dell’imperialismo USA, contro la politica di asservimento coloniale e la politica di aggressione militare dell’imperialismo statunitense. La resistenza popolare dell’ottobre 1946, il sollevamento popolare di massa dell’aprile 1960 che ha rovesciato il regime fantoccio di Syngman Rhee, il vecchio lacchè dell’imperialismo USA, e le altre lotte vigorose del popolo sudcoreano, che si sono succedute contro le “trattative sudcoreano-giapponesi”, accordi che rappresentano un tradimento verso la nazione, e contro le manovre degli attuali governanti della Corea del Sud miranti a mantenersi più a lungo al potere, hanno scosso fin dalle fondamenta la dominazione coloniale dell’imperialismo USA.
Attualmente, nella Corea del Sud, la lotta rivoluzionaria si fa sempre più organizzata e si radica profondamente fra gli operai e i contadini che rappresentano le forze principali della rivoluzione, e larghe masse delle diverse classi e strati sociali si impegnano nella lotta contro gli occupanti americani e i loro fantocci sud-coreani.
Estendendo e rafforzando ulteriormente le loro organizzazioni rivoluzionarie, i rivoluzionari e il popolo patriota della Corea del Sud sviluppano ovunque attivamente lotte di massa di grande portata per liquidare la dominazione coloniale dell’imperialismo USA, ottenere la sovranità e l’indipendenza complete della nazione e realizzare l’unificazione della patria, per opporsi alla dittatura fascista militare fascista e conquistare le libertà politiche e i diritti democratici. Attraverso la lotta, il popolo sud-coreano si risveglierà e si temprerà ancor più e, finalmente, scaccerà gli aggressori imperialisti USA, rovescerà i loro valletti, realizzando così la vittoria della rivoluzione.
L’Asia, un tempo continente colonizzato, è divenuta una regione dove si scatena una potente tempesta rivoluzionaria che abbatte l’imperialismo. Questa regione è divenuta oggi l’avamposto del fronte rivoluzionario internazionale che si oppone all’imperialismo e l’arena principale della lotta rivoluzionaria che si sviluppa su scala mondiale per la libertà e la liberazione. Avendo ricevuto ferite mortali causate dai potenti colpi della lotta di liberazione nazionale dei popoli dell’Oriente, gli imperialisti sono coperti di ferite su tutto il corpo e si vedono isolati da ogni parte. L’imperialismo e il colonialismo infami che obbligano centinaia e centinaia di milioni di uomini alla miseria e alla fame vivono oggi l’ora fatale in Oriente, dove la loro completa liquidazione è all’ordine del giorno.
La lotta rivoluzionaria antimperialista dei popoli del continente asiatico che comprende più della metà della popolazione del mondo e che possiede un immenso potenziale naturale ed economico, inasprisce la crisi generale del sistema capitalista mondiale e colpisce in pieno l’imperialismo, creando così le condizioni favorevoli al consolidamento della posizione dei paesi socialisti nell’arena mondiale e allo sviluppo continuo nel movimento operaio internazionale.
Le nazioni dell’oriente, le quali, per molti secoli, sono state preda dell’oppressione e del saccheggio degli aggressori stranieri e oggetto del disprezzo nazionale e della discriminazione razziale più crudeli, si sono oggi affermate come grandi forze rivoluzionarie della nostra epoca che si oppongono all’imperialismo e al colonialismo, e sono divenute la grande forza motrice che fa progredire la storia dell’umanità.
Lenin ha già affermato: “... Nessun dubbio che nelle future decisive battaglie della rivoluzione mondiale, il movimento della maggior parte dei popoli della terra, orientati all’inizio verso la liberazione nazionale, si svolgerà contro il capitalismo e l’imperialismo, e svolgerà forse un ruolo rivoluzionario molto più importante di quanto noi non pensiamo”. (Lenin, Opere, vol. 32).
La storia moderna dell’umanità, segnata da avvenimenti straordinari, prova giorno dopo giorno chiaramente la giustezza dell’insegnamento di Lenin.
Gli imperialisti, con a capo quelli statunitensi, terrorizzati davanti alle forze rivoluzionarie antimperialiste che crescono e si rafforzano giorno dopo giorno in Asia, si sforzano disperatamente di reprimere la lotta antimperialista di liberazione nazionale dei popoli di questa regione, lotta che si propaga come un fuoco in una prateria, e di mantenere il loro dominio coloniale che si sfalda.
Gli imperialisti USA assegnano alla regione dell’Asia la maggior parte del complesso dei loro aiuti militari destinati all’estero, vi installano numerose basi militari e vi introducono i due terzi delle loro forze armate d’aggressione stanziate all’estero. Rafforzando le loro forze armate di aggressione, essi sognano stupidamente di realizzare facilmente l’aggressione dell’Asia utilizzando il militarismo giapponese come “truppa d’assalto”, mobilitando i paesi satelliti e i fantocci dell’Asia e ricorrendo essenzialmente al “processo consistente nel contrapporre gli asiatici agli asiatici”.
Gli imperialisti USA hanno riarmato i militaristi giapponesi e li hanno collegati ai fantocci sud-coreani, e si dimenano freneticamente per costruire un’alleanza militare “anti-comunista” asiatica prendendo quel collegamento come asse portante. Soprattutto in questi ultimi tempi, le manovre del complotto degli imperialisti con a capo l’imperialismo USA, miranti a invadere l’Asia si intensificano enormemente. Gli imperialisti USA hanno cominciato ad utilizzare attivamente per la loro aggressione in Asia il potenziale militare ed economico del Giappone che è il loro alleato subalterno e la loro base militare d’aggressione, e i militaristi giapponesi, appoggiandosi all’imperialismo USA, si sforzano sotto gli occhi di tutti di realizzare il loro antico sogno della “sfera di prosperità comune della grande Asia orientale”.
Fin d’ora, i militaristi giapponesi prendono parte attiva all’aggressione dell’imperialismo USA nel Vietnam, accelerano apertamente i preparativi di guerra miranti ad invadere la Corea e altri paesi dell’Asia e intensificano la penetrazione economica e culturale nei paesi di questa regione.
L’imperialismo USA e i suoi valletti hanno un bel dimenarsi, essi non sapranno portare alcun rimedio alla loro situazione votata ormai al tramonto in Asia. Più gli imperialisti USA intensificheranno la loro politica di aggressione e di guerra in Asia, più grande sarà la resistenza che incontreranno da parte dei popoli dell’Asia. I popoli dell’Oriente demoliranno definitivamente il sistema coloniale degli imperialisti, con a capo l’imperialismo USA, attraverso una intransigente lotta ad oltranza per edificare un’Asia nuova, indipendente e prospera.
Dall’epoca di Lenin, il popolo sovietico, levando alta la bandiera della lotta antimperialista di liberazione nazionale, ha dato un grande contributo all’opera di liberazione dei popoli oppressi del mondo. Il popolo sovietico ha dato il suo aiuto al nostro popolo nella sua opera di liberazione dal giogo della dominazione coloniale dell’imperialismo giapponese ed ha accordato un grande aiuto sia materiale che morale alla lotta del nostro popolo per difendere la libertà e l’indipendenza della patria ed edificare una società nuova. Il nostro popolo non dimentica il sostegno e l’aiuto internazionalista che il popolo sovietico gli ha concesso. Il popolo coreano tiene in gran conto l’amicizia e la solidarietà con il popolo sovietico sul fronte della lotta antimperialista e anti USA.
Oggi la solidarietà militante tra il nostro popolo e il popolo sovietico si rafforza sempre più. La solidarietà militante tra i popoli dei due paesi, Corea e Unione Sovietica, solidarietà che è stata stretta nel fuoco della lotta comune contro l’imperialismo e il colonialismo, per il socialismo e il comunismo, e che ha superato le prove della storia, non cesserà di consolidarsi e di svilupparsi anche in futuro.
Viva la causa rivoluzionaria antimperialista della classe operaia internazionale, e delle nazioni oppresse di tutto il mondo, strettamente unite sotto l’invincibile bandiera di Lenin.

Traduzione in italiano pubblicata in opuscolo da Il Calendario del Popolo, Milano, 1971.
view post Posted: 26/3/2013, 18:35 Dichiarazione di Pyongyang - Opere dei dirigenti e documenti storici

Dichiarazione di Pyongyang

Difendiamo e facciamo progredire il socialismo!

15 Aprile 1992


I delegati dei partiti politici di diversi paesi del mondo in lotta per la vittoria del socialismo, animati dalla ferma volontà di difendere e far progredire la causa del socialismo, pubblicano la seguente dichiarazione.

La nostra è l'epoca dell'indipendenza e la causa del socialismo è sacra per l'emancipazione delle masse popolari.

Basandosi sulle sconfitte subite dal socialismo negli ultimi anni in diversi paesi, gli imperialisti e i reazionari parlano di "fine" della esperienza socialista. Ma questo non è che un sofisma che serve in realtà ad abbellire il capitalismo e a sostenere l'antico ordine.

Il rovesciamento del socialismo e la restaurazione del capitalismo in certi paesi costituiscono una perdita enorme per la causa socialista, ma non smentiscono né la superiorità del socialismo né il carattere reazionario del capitalismo.

Il socialismo è un ideale che l'umanità ha sognato per molto tempo e ne rappresenta il futuro.

Il socialismo per sua essenza è una società veramente popolare, in cui le masse popolari sono padrone in ogni campo e ogni cosa è al loro servizio.

La società capitalistica invece, caratterizzata com'è dall'onnipotenza del denaro, è un sistema iniquo in cui domina una minoranza di sfruttatori e "i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri". Inevitabilmente una tale società si accompagna alla privazione dei diritti, alla disoccupazione, alla miseria, a ogni sorta di mali sociali che violano la dignità dell'uomo.

Solo il socialismo permette di eliminare ogni sorta di dominazione, di asservimento, di ineguaglianza sociale e di assicurare veramente ai popoli la libertà, l'uguaglianza, la democrazia autentica e i diritti dell'uomo.

Le masse popolari hanno lottato per molto tempo e duramente per costruire la società socialista e hanno dovuto versare molto sangue per questa causa.

Il fallimento del socialismo in alcuni paesi deriva dal fatto che non sono riusciti a costruire la società modellandola sulle esigenze fondamentali del socialismo sulla base della teoria scientifica socialista.

Quando le masse popolari sono veramente padrone della società, questa progredisce vittoriosamente, come dimostrano tanto la teoria quanto la pratica.

I partiti impegnati a costruire il socialismo e l'umanità progressista ne hanno fatta una lezione preziosa.

Per difendere la causa del socialismo e farla progredire bisogna che ogni partito mantenga con fermezza la propria autonomia e sviluppi le proprie forze.

Il movimento socialista è un movimento autonomo. Il socialismo si disegna e si costruisce nel quadro di ogni paese e di ogni stato nazionale, sotto la responsabilità esclusiva del partito e del popolo di ogni paese.

Ogni partito deve stabilire la propria linea politica in base alla realtà del proprio paese e alle esigenze del proprio popolo e deve attuarla facendo affidamento sulle masse popolari.

I partiti non devono mai abbandonare i principi rivoluzionari, quali che siano le difficoltà e le circostanze, ma devono sempre tenere alta la bandiera del socialismo.

La causa del socialismo è la causa di ogni nazione ma è anche, al tempo stesso, la causa comune di tutta l'umanità.

Tutti i partiti sono chiamati perciò a stringere i rapporti di unità, cooperazione e solidarietà tra compagni basandosi sui principi della autonomia e dell'uguaglianza.

L'unità internazionale è una necessità urgente nella lotta per il socialismo. In una fase in cui a livello internazionale gli imperialisti e i traditori del socialismo si coalizzano contro il socialismo e contro i popoli, bisogna che i partiti che stanno edificando il socialismo e quelli che ad esso aspirano difendano e facciano avanzare il socialismo su scala internazionale e al tempo stesso si sostengano e si aiutino reciprocamente nella lotta contro il dominio imperialista, l'asservimento capitalista e il neocolonialismo, per la giustizia sociale, la democrazia, il diritto alla vita e la pace.

Questo è un dovere internazionalista che si impone a tutti i partiti e a tutte le forze progressiste che aspirano al socialismo, ma è anche un impegno necessario alla causa di ciascuno.

Noi avanzeremo tenendo alta la bandiera del socialismo, in stretta unione con tutti i partiti, le organizzazioni e i popoli del mondo che lottano per la difesa del socialismo e contro il capitalismo e l'imperialismo.

Forti di una convinzione incrollabile, lottiamo uniti fino alla fine per aprire la strada al futuro dell'umanità.

La vittoria finale spetterà ai popoli che lottano uniti per il socialismo.

La causa del socialismo è invincibile.
view post Posted: 26/3/2013, 18:24 [Kim Jong Il] Per una corretta comprensione del nazionalismo - Opere dei dirigenti e documenti storici

LAVORATORI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!


KIM JONG IL


PER UNA CORRETTA COMPRENSIONE DEL NAZIONALISMO

Discorso ai dirigenti del Comitato Centrale del Partito del Lavoro di Corea
26 e 28 Febbraio, Juché 91 (2002)


È importante avere una corretta concezione del nazionalismo: solo così il popolo può raggiungere l’unità della nazione, difenderne gli interessi e contribuire a modellarne il destino.
Il nazionalismo si è formato come ideologia di difesa degli interessi di una nazione nel corso della formazione e dello sviluppo nazionali. Sebbene le nazioni differiscano le une dalle altre per quanto riguarda il periodo della loro formazione, ogni nazione è una comunità sociale che è stata storicamente formata e consolidata sulle basi di una comune discendenza, di una lingua comune, area di stanziamento e cultura, ed è composta da varie classi e strati sociali. Nessuna persona, in nessuna società, esiste al di fuori della propria nazione, separata da essa. Ogni persona appartiene ad una classe o strato sociale, ed allo stesso tempo appartiene ad una nazione: questi elementi formano quella persona con un carattere nazionale e con un carattere di classe. Il carattere di classe ed il carattere nazionale e le necessità delle classi e della nazione sono tra di essi inseparabili. Infatti, le classi e gli strati sociali di una nazione coltivano differenti necessità ed interessi, dovuti alle loro funzioni sociali ed economiche. Tuttavia, tutti i membri di una nazione hanno lo stesso punto fermo nella difesa dell'indipendenza e del carattere nazionali e nell’aspirazione alla prosperità della nazione senza distinguere tra gli interessi della propria classe o strato sociale. Questo accade poiché il destino di una nazione è precisamente il destino dei suoi membri individuali; in altre parole, il destino dei singoli individui dipende dal destino della nazione. Nessuno potrebbe essere felice, vedendo la sovranità della propria nazione calpestata e il carattere nazionale disprezzato. Amare la propria nazione, curare le sue tipicità ed i suoi interessi, desiderarne la prosperità, sono il sentimento e la psicologia comuni dei membri di una nazione. Il nazionalismo riflette questo sentimento e questa psicologia. In altre parole, il nazionalismo è l’ideologia che sostiene l’amore per la nazione e la difesa dei suoi interessi. Da quando il popolo traccia il proprio destino vivendo unito in uno stato-nazione, l’autentico nazionalismo costituisce il patriottismo. La natura progressista del nazionalismo risiede nel fatto che esso è una ideologia patriottica che sostiene la difesa degli interessi nazionali.
Il nazionalismo è emerso come idea progressista durante la formazione e lo sviluppo di ciascuna nazione. Tuttavia, esso è stato inteso nel passato come una ideologia che difende gli interessi della borghesia. È vero che all’epoca dei movimenti nazionali contro il feudalesimo, l’allora emergente borghesia, sventolando la bandiera del nazionalismo, era alla testa del movimento. In quel periodo, gli interessi delle masse popolari e dell’allora emergente borghesia erano basilarmente coincidenti, nella loro lotta contro il sistema feudale. Di conseguenza, la bandiera del nazionalismo sembrava riflettere i comuni interessi della nazione. Con lo sviluppo del capitalismo e l’ascesa della borghesia a classe dominante reazionaria in seguito alle vittoriose rivoluzioni borghesi in vari paesi, il nazionalismo venne usato come mezzo per difendere gli interessi della classe borghese. La borghesia spacciò i suoi interessi di classe per interessi nazionali, ed utilizzò il nazionalismo come strumento ideologico per consolidare la propria dominazione di classe. Ciò portò ad intendere il nazionalismo, tra le masse popolari, come una ideologia borghese contraria agli interessi nazionali. Dobbiamo distinguere chiaramente tra vero nazionalismo, che ama la nazione e ne difende gli interessi, e nazionalismo borghese, che difende gli interessi di classe della borghesia. Il nazionalismo borghese si manifesta come egoismo nazionale, esclusivismo nazionale e come superpotere dello sciovinismo nelle relazioni tra paesi e nazioni; esso è reazionario, crea antagonismo e disaccordo tra i paesi e le nazioni e ostacola lo sviluppo di relazioni amichevoli tra i vari popoli de mondo.
La teoria rivoluzionaria originaria della classe operaia ha trascurato di spiegare correttamente il nazionalismo, concentrando l’attenzione sul rafforzamento dell’unità internazionale e della solidarietà tra gli operai di tutto il mondo (che era allora il problema fondamentale nel movimento socialista) senza concentrarsi sul problema nazionale. Il nazionalismo venne considerato come una tendenza ideologia antisocialista, poiché il nazionalismo borghese stava danneggiando enormemente il movimento socialista. Ecco perché il popolo progressista, in passato, rigettò il nazionalismo, considerandolo incompatibile con il comunismo.
È sbagliato considerare il comunismo come incompatibile con il nazionalismo. Il comunismo non difende solo gli interessi della classe operaia, ma difende anche gli interessi della nazione in quanto è una ideologia che ama il paese ed il popolo. Anche il nazionalismo è una ideologia che ama il paese ed il popolo, in quanto difende gli interessi del paese e della nazione. L’amore per il paese e per il popolo è un sentimento comune al comunismo ed al nazionalismo: questa è la base ideologica sulla quale questi possono allearsi. Quindi, non c’è alcuna ragione per cui debbano contrapporsi, o per cui si debba rigettare il nazionalismo.
Il nazionalismo non è in conflitto con l’internazionalismo. Il mutuo soccorso, il sostegno e l’alleanza tra i paesi e le nazioni: questo è l’internazionalismo. Ciascun paese ha i suoi confini, ed ogni nazione ha la sua identità, e la rivoluzione e la costruzione vanno portate avanti considerando il paese e la nazione come un tutt’uno. Per questa ragione, l’internazionalismo trova la sua espressione nelle relazioni tra i paesi e tra le nazioni, di cui il nazionalismo è un presupposto. L’internazionalismo avulso dai concetti di nazione e nazionalismo è solo un guscio vuoto. Un uomo indifferente verso il destino del proprio paese e della propria nazione non può essere correttamente internazionalista. I rivoluzionari di ogni paese devono essere correttamente internazionalisti lottando, in primo luogo, per la prosperità del proprio paese e della propria nazione.
Per la prima volta nella storia, il grande leader Presidente Kim Il Sung ha dato la giusta spiegazione del nazionalismo, ed ha chiarito la relazione tra comunismo e nazionalismo, e tra comunisti e nazionalisti, nella sua pratica rivoluzionaria, tracciando il destino del suo paese e del suo popolo. Egli disse che per essere dei veri comunisti bisogna per prima cosa diventare dei veri nazionalisti. Con la determinazione di dedicare la sua vita al paese e ai suoi compatrioti, egli ha intrapreso la via della rivoluzione sin dagli anni giovanili, ed ha creato l’immortale idea del Juché, che ha orientato il punto di vista sulla nazione, ed ha esposto scientificamente l’essenza ed il carattere progressista del nazionalismo. Attraverso una corretta combinazione del carattere di classe col carattere nazionale e del destino del socialismo col destino della nazione, egli ha realizzato un’alleanza tra comunisti e nazionalisti, cementando le posizioni di classe e quelle nazionali del nostro socialismo ed ha portato i nazionalisti a sostenere gli sforzi per l’edificazione socialista e per la riunificazione nazionale. Attratti dalla sua grande magnanimità e dalla nobile personalità, molti nazionalisti presero la via del patriottismo verso l’unità e la riunificazione nazionali, rompendo in modo netto con il loro erroneo passato: Kim Ku, che fu anticomunista per tutta la vita, si alleò con i comunisti, un cambiamento radicale proprio alla fine della sua esistenza; Choe Tok Sin, un nazionalista, trovò la salvezza, da patriota, grazie al Presidente Kim Il Sung. Il grande leader attribuiva grande peso e difese l’indipendenza non solo della nostra nazione, ma anche dei popoli del resto del mondo. Egli ha dedicato tutti i suoi sforzi alla causa dell’indipendenza mondiale, così come alla causa della rivoluzione coreana. Possiamo dire che non c’è mai stato al mondo nessun uomo grande come lui, che ha dedicato l’intera vita all’indipendenza della nazione, alla sua prosperità e ad un luminoso futuro per l’umanità. Egli è stato il comunista più inflessibile e, allo stesso tempo, un impareggiabile patriota, vero nazionalista ed un esempio per gli internazionalisti.
Anch’io affermo, come ha insegnato il leader, che per diventare un sincero rivoluzionario, un comunista, si debba essere un ardente patriota e vero nazionalista. I comunisti che lottano per realizzare l’indipendenza delle masse popolari devono essere prima di tutto dei veri nazionalisti. Coloro che si battono per il proprio popolo, per il proprio paese e per la propria patria sono sinceri comunisti, veri nazionalisti ed ardenti patrioti. Coloro che non amano i loro stessi genitori, fratelli e sorelle non possono nemmeno amare il proprio paese ed i propri compatrioti. Allo stesso modo, coloro che non amano la propria patria ed il proprio popolo non possono diventare comunisti. Noi ereditiamo con fedeltà dal grande leader la nobile idea di amare il paese, la nazione ed il popolo, e di fare ogni sforzo per chiamare a raccolta tutti i settori della nazione attraverso una politica ampia, per portarli sulla via del patriottismo.
Non sono i comunisti, ma gli imperialisti che si contrappongono al nazionalismo e ostacolano lo sviluppo indipendente delle nazioni. Gli imperialisti stanno manovrando astutamente per realizzare le loro ambizioni di dominio, con la scusa della “globalizzazione” e della “integrazione”. Essi affermano che l’ideale di costruire uno stato-nazione sovrano e l’amore per un paese o una nazione siano “un pregiudizio nazionale anacronistico” mentre la “globalizzazione” e la “integrazione” sarebbero le tendenze della presente situazione, in cui la scienza e la tecnologia stanno sviluppandosi rapidamente e gli scambi economici tra i paesi vengono condotti velocemente su scala internazionale. Oggi, mentre ogni paese ed ogni nazione tracciano il proprio destino con ideologia, sistema e cultura propri, non può esserci spazio per una “integrazione” politica, economica, ideologica e culturale mondiale. Le manovre degli imperialisti statunitensi per la “globalizzazione” e per la “integrazione” sono volte a trasformare il mondo in quello che loro chiamano “mondo libero e democratico”, fatto su modello degli USA, assoggettando quindi tutti i paesi e le nazioni alla loro dominazione e subordinazione. L’era presente è l’era dell’indipendenza. La storia umana è spinta dalla lotta delle masse popolari per l’indipendenza, non dalle ambizioni dominatrici e dalla politica aggressiva degli imperialisti. Le manovre degli imperialisti per la “globalizzazione” e per la “integrazione” sono destinate al fallimento, poiché sono contrastate dai vigorosi sforzi dei popoli del mondo che aspirano all’indipendenza.
Dobbiamo opporci risolutamente e respingere queste manovre degli imperialisti, e dobbiamo lottare fermamente per preservare le notevoli caratteristiche della nostra nazione e per salvaguardarne l’indipendenza. Spesso evidenziamo il principio della “nazione coreana al primo posto”, appunto per preservare il carattere nazionale e difendere gli interessi della nazione.
Un compito molto importante che dobbiamo affrontare oggi per sostenere e realizzare l’indipendenza nazionale è la riunificazione del paese. La nostra nazione, che ha ereditato, intatte nel tempo, storia e cultura e la tradizione del patriottismo, è stata divisa tra nord e sud da forze straniere per più di mezzo secolo. La divisione del territorio e della nazione sta bloccando la via per uno sviluppo comune della nazione, ed infligge ad essa indicibili miserie e difficoltà. La riunificazione nazionale non è solo una necessità vitale del nostro popolo, ma è anche la volontà unanime e l’aspirazione dell’intera nazione.
Lo storico Meeting di Pyongyang e la Dichiarazione Congiunta tra Nord e Sud del 15 giugno hanno inaugurato una nuova era di grande unità nazionale per la riunificazione indipendente. La Dichiarazione Congiunta tra Nord-Sud definisce tutti i principi e il modo per risolvere i problemi riguardanti la riunificazione del paese in modo indipendente, attraverso lo sforzo comune della nostra nazione. La dichiarazione è un programma di unità nazionale ed un principio generale per la riunificazione nazionale, basata sull’idea che essa sia realizzata “dalla nostra stessa nazione” e permeata dallo spirito d’amore per il paese e per il popolo. La garanzia sostanziale per l’indipendenza, per la pace e per la riunificazione nazionale risiede nel sostenere e realizzare completamente la dichiarazione. Innalzando la Dichiarazione Congiunta tra Nord e Sud a principio generale di riunificazione, l’intera nazione deve lanciare una battaglia di portata nazionale per compiere la storica causa della riunificazione nazionale.

Traduzione condotta sull’edizione inglese del testo: Kim Jong Il, On having a correct understanding of nationalism, Foreign Languages Publishing House, Pyongyang, Korea, Juché 96 (2007).

Edited by Andrej Zdanov - 10/12/2013, 15:06
view post Posted: 26/3/2013, 18:13 [Kim Il Sung] La lotta dei comunisti coreani per la fondazione del Partito - Opere dei dirigenti e documenti storici

LAVORATORI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!


KIM IL SUNG


LA LOTTA DEI COMUNISTI COREANI
PER LA FONDAZIONE DEL PARTITO


Tratto da “L’esperienza storica della costruzione del Partito del Lavoro di Corea”,
lezione agli insegnanti e agli studenti della Scuola Superiore di Partito Kim Il Sung,
31 maggio 1986


Il nostro Partito è cresciuto da profonde radici storiche. Esso è stato fondato nel 1945, ma nel nostro paese la lotta per la sua fondazione iniziò molto tempo prima. Attraverso lunghi anni di ardua lotta i comunisti coreani hanno posto le basi per la fondazione del Partito rivoluzionario e, su queste basi, hanno fondato il nostro Partito.
Sotto l’influenza della Rivoluzione Socialista d’Ottobre in Russia, il marxismo-leninismo si è diffuso nel nostro paese e, mentre la classe operaia assumeva un ruolo attivo nella lotta, il movimento comunista iniziò a svilupparsi. Tuttavia nei primi anni il movimento comunista coreano soffriva di seri limiti e debolezze.
I membri del primo movimento comunista sostenevano solo a parole la rivoluzione e si contendevano tra loro “l’egemonia”, staccati dalle masse, invece di fondersi col popolo per educarlo, organizzarlo e spingerlo verso la lotta rivoluzionaria. Affetti da servilismo, non pensavano a rafforzare il Partito basandosi sulle proprie forze. Gruppi di questi militanti viaggiavano ovunque per ottenere il riconoscimento dell’Internazionale Comunista, supponendo, ciascuno di essi, di essere il “gruppo ortodosso” o il vero “gruppo marxista”. Conseguentemente, il primo movimento comunista nel nostro paese fu incapace di svilupparsi in maniera corretta e lineare; il movimento attraversò momenti strazianti e tortuosi, e il Partito Comunista Coreano che fu fondato nel 1925 non solo fallì nello svolgere propriamente la sua funzione di avanguardia della rivoluzione, ma fu anche incapace di mantenere a lungo la sua esistenza sotto la repressione degli imperialisti giapponesi [1].
La rivoluzione coreana richiedeva un nuovo tipo di Partito rivoluzionario, e la nobile causa dell’organizzazione di questo Partito toccò ai giovani comunisti della nuova generazione.
Noi, i giovani comunisti della nuova generazione, imparammo l’importante lezione che se avessimo seguito lo stesso percorso dei primi militanti comunisti non saremmo stati capaci di completare la rivoluzione. Noi scegliemmo una strada completamente nuova. Noi credevamo fermamente che al fine di fare una rivoluzione, avremmo dovuto fonderci con le masse e lottare con loro, costruire noi stessi un Partito e fornire alla rivoluzione una direzione, capace di adattarsi alla situazione specifica del nostro paese; credevamo fermamente che in questo modo avremmo sicuramente guadagnato il riconoscimento e la simpatia dei popoli degli altri paesi. Abbiamo lottato con questa convinzione. Questa è stata la nuova linea rivoluzionaria, questa è stata la politica per la costruzione di un partito rivoluzionario adottata dai giovani comunisti della nuova generazione.
Mentre aprivamo la strada della rivoluzione e lottavamo con le nostre forze applicando creativamente il marxismo-leninismo alle nostre condizioni, concepimmo una nuova idea rivoluzionaria, l’idea del Juché [2].
L’idea del Juché, assieme al marxismo-leninismo, diventò un saldo punto di riferimento per la nostra rivoluzione.
L’Unione per Abbattere l’Imperialismo (U.A.I.), che organizzammo nel 1926, è stata all’avanguardia nel condurre la causa rivoluzionaria del Juché alla vittoria. Questa è stata la prima vera organizzazione comunista rivoluzionaria nel nostro paese.
Il programma dell’U.A.I. era il raggiungimento della liberazione e dell’indipendenza della Corea e, successivamente, lottare per la vittoria del comunismo nel mondo.
La formazione dell’U.A.I. fu la storica dichiarazione di un nuovo inizio per la nostra rivoluzione. Con la costituzione dell’U.A.I., la lotta rivoluzionaria del nostro popolo ruppe con il servilismo, col dogmatismo e ogni altra tendenza di idee superate per accedere ad una nuova era di avanzamento sul principio del Chajusong [3]: così i movimenti comunista e di liberazione nazionale divennero capaci di svilupparsi con forza, con obiettivi di lotta corretti, strategia corretta e tattica corretta.
La nascita dell’U.A.I. segnò il punto d’avvio della costruzione nel nostro paese di un nuovo tipo di Partito rivoluzionario; le gloriose radici del nostro Partito iniziarono a crescere proprio dall’U.A.I.. L’Unione della Gioventù Comunista di Corea, che successe all’U.A.I., ebbe un ruolo importante nella fondazione del Partito rivoluzionario. L’U.G.C.C. lavorò duramente per raggiungere l’unità e la solidarietà tra le file rivoluzionarie sconfiggendo gli intrighi dei frazionisti e dei servilisti che miravano a dividerle. Allo stesso tempo, l’U.G.C.C. ha organizzato e unito la gioventù progressista e l’ha istruita ad essere la spina dorsale del Partito che sarebbe stato fondato; essa ha dato una direzione unitaria alle organizzazioni antigiapponesi di massa così da porre solide fondamenta per il Partito.
Alla storica Conferenza di Kalun, che si tenne nel 1930, abbiamo adottato una linea rivoluzionaria orientata sul Juché. Guidati da questa linea, ci siamo preparati per la lotta armata e abbiamo lavorato duramente per formare le organizzazioni di base del Partito e ne abbiamo costituito la prima, con i giovani comunisti delle nuove generazioni.
La prima organizzazione di Partito formata a Kalun fu la gloriosa origine del nostro Partito e il prototipo di quelle organizzazioni di Partito che sarebbero state formate successivamente, l’una dopo l’altra. Abbiamo incrementato velocemente le organizzazioni di Partito, basandoci sul modello della prima. In poco tempo abbiamo formato un gran numero di organizzazioni di base del Partito su un’ampia area che includeva il distretto del fiume Tuman, dando loro la direzione organizzativa. A mano a mano che venivano formate le organizzazioni e che ne veniva intensificata l’attività, i comunisti coreani diventavano essi stessi più organizzati e sotto la guida di queste organizzazioni di Partito lanciammo la lotta rivoluzionaria con maggiore intensità.
La lotta per fondare il Partito si estese con l’inizio della lotta armata antigiapponese.
La lotta armata antigiapponese è stata una nobile guerra di liberazione, al fine di salvare il paese e la nazione. Essa è anche stata un combattimento estremo per la vittoria dell’alta idea comunista, così come una gloriosa lotta per fondare il Partito rivoluzionario della classe operaia.
La lotta armata antigiapponese aprì una fase nuova, decisiva, nello sforzo per fondare il Partito. Nel fuoco della lotta armata siamo stati abili nell’istruire gran parte della spina dorsale organizzativa che avrebbe fondato il Partito, nel raggiungere l’indistruttibile unità e coesione dei ranghi comunisti e nel porre solide basi di massa sulle quali edificare il Partito.
Costituimmo delle organizzazioni di Partito di vario livello all’interno dei ranghi armati antigiapponesi e nelle zone della guerriglia incrementando continuamente il loro ruolo e la loro funzione. Formammo altresì un gran numero di organizzazioni di Partito presso i confini settentrionali del nostro paese e negli insediamenti coreani nella Cina nord-orientale. Mentre le organizzazioni di Partito crescevano rapidamente, di pari passo col rafforzamento della lotta armata antigiapponese, organizzammo il Comitato di Partito dell’Armata Rivoluzionaria Popolare Coreana per dare ai diversi scaglioni una direzione unitaria e assicurare alla lotta armata antigiapponese una riuscita direzione di Partito. Questo comitato di Partito diede una direzione unitaria non solo alle organizzazioni di Partito interne all’esercito, ma anche a quelle che erano attive in molte regioni sia in patria che all’estero.
Col Comitato di Partito dell’A.R.P.C. che esercitava la funzione di direzione unitaria, il sistema di direzione delle organizzazioni di Partito su tutti gli scaglioni divenne ben integrato e sia la lotta armata che la rivoluzione coreana nella sua totalità avanzava saldamente sotto la direzione del Partito. Tutte le organizzazioni del Partito divennero integrate ed agivano sotto la direzione del Comitato di Partito dell’A.R.P.C..
Con al centro tale Comitato di Partito, estendemmo la rete delle organizzazioni di Partito in aree sempre più vaste in patria e all’estero. In patria formammo un gran numero di organizzazioni di base particolarmente nei centri urbani, nei villaggi contadini e nei villaggi dei pescatori di importanza strategica e demmo loro un’effettiva direzione strategica unitaria. Come risultato, le organizzazioni di Partito si radicarono profondamente in ampi settori delle masse, inclusi i lavoratori delle maggiori industrie cosicché la preparazione della fondazione del Partito procedeva con forza in tutto il paese.
In questo modo abbiamo lavorato duramente per fondare il Partito rivoluzionario della classe operaia durante tutto il periodo della lotta rivoluzionaria antigiapponese. Nel corso di quegli eventi, la debolezza fatale del primo movimento comunista coreano venne superata o ponemmo una solida base sulla quale sarebbe stato fondato il Partito rivoluzionario.
Durante l’ardua lotta rivoluzionaria antigiapponese furono poste le fondamenta organizzative e ideologiche del Partito.
Porre tali fondamenta è un’esigenza basilare per la costruzione di un Partito rivoluzionario. Il lavoro per la costruzione di un Partito operaio inizia con la lotta per porne le fondamenta organizzative e ideologiche. Se queste fondamenta non vengono gettate, è impossibile fondare un Partito rivoluzionario e anche se il Partito venisse fondato non sarebbe capace di interpretare come dovrebbe il ruolo di Stato Maggiore della rivoluzione e non potrebbe evitare di essere distrutto da un attacco controrivoluzionario. Ciò è stato provato dalla lezione storica del primo movimento comunista coreano e dall’esperienza del movimento comunista internazionale.
Un altro fattore importante, quando si gettano le fondamenta organizzative e ideologiche di un Partito, è formare le organizzazioni di Partito, instaurare fino in fondo il sistema organizzativo di direzione del Partito e svilupparne la spina dorsale organizzativa istruendo i veri comunisti.
Come ho spiegato in precedenza, durante la lotta rivoluzionaria antigiapponese formammo le organizzazioni di base del Partito e le organizzazioni di vario livello, instaurando un sistema attraverso il quale dare loro una direzione unitaria. Abbiamo teorizzato e lavorato duramente per mettere in pratica la politica di fondare il Partito formando, innanzi tutto, le organizzazioni di base con un’adeguata preparazione per poi ampliarle e rafforzarle - piuttosto che fondare il Comitato Centrale del Partito. Ovviamente è possibile organizzare un Partito partendo dalla fondazione del Comitato Centrale che raccoglie lo zoccolo duro dei comunisti per poi formare gradualmente le istanze subordinate. Tuttavia questo era impossibile nel nostro paese. In quel periodo, molti di coloro che si dichiaravano comunisti erano in realtà frazionisti e servilisti: prendevano gli altri a modello ed erano concentrati soprattutto in scontri frazionistici e ad una adesione formale ai princìpi. Era quindi impossibile fondare un Partito rivoluzionario contando su di loro. Per fondare un Partito rivoluzionario, dovevamo formare organizzazioni di base del Partito radicate tra i lavoratori, i contadini e altri ampi settori delle masse, affinché istruissero le nuove generazioni di comunisti (non influenzate dal servilismo né dal frazionismo) attraverso la vita organizzativa del Partito e le lotte rivoluzionarie assicurando l’unità ideologica e di intenti tra i militanti comunisti e la solidarietà tra questi. Quindi, per prima cosa ci assicurammo che venissero costituite le organizzazioni di base del Partito, poi che questo fosse seguìto gradualmente dalla formazione di organismi di più alto livello adatti alla situazione specifica delle unità o dei distretti interessati e infine che tutte le organizzazioni di Partito agissero sotto la direzione unitaria del Comitato di Partito dell’A.R.P.C..
Durante la lotta rivoluzionaria antigiapponese abbiamo istruito un gran numero di veri comunisti.
Quando parlo dei veri comunisti, mi riferisco a persone che hanno acquisito una visione rivoluzionaria del mondo, che non esitano nelle difficoltà e nelle avversità e che sono capaci di adempiere ai compiti assegnati sulla propria responsabilità. I veri comunisti sono indispensabili per formare la spina dorsale organizzativa del Partito, assicurare l’unità ideologica, l’unità di intenti, la solidarietà tra i militanti e consolidare la base di massa per la fondazione del Partito.
La via rivoluzionaria più breve per istruire i veri comunisti è stato reclutare gli uomini e le donne nei ranghi armati antigiapponesi e forgiarli nell’ardua lotta rivoluzionaria. I ranghi armati antigiapponesi sono stata una scuola che ha forgiato e istruito il popolo creando rivoluzionari fedeli alla causa, veri comunisti. Nei ranghi armati antigiapponesi abbiamo arruolato i figli migliori della classe operaia e dei contadini. Essi sono stati costantemente rafforzati nel sanguinoso combattimento contro il nemico: in questo modo li abbiamo istruiti per diventare indomabili combattenti rivoluzionari dotati di spirito rivoluzionario comunista, per diventare veri comunisti, abili politicamente e militarmente.
La vita organizzativa rivoluzionaria è un potente mezzo per educare e forgiare il popolo. Consapevoli di questo, abbiamo ammesso nelle organizzazioni del Partito, istruito e rafforzato continuamente attraverso la vita organizzativa, operai, contadini e intellettuali progressisti che avevano un’alta coscienza di classe e che erano stato testati nella lotta. Come risultato, le organizzazioni del Partito hanno istruito un gran numero di persone, facendole diventare veri comunisti, la spina dorsale del Partito, compagni con forte senso di organizzazione e disciplina.
Anche le organizzazioni di massa antigiapponesi hanno avuto un ruolo importante nell’istruzione dei veri comunisti. Organizzammo varie organizzazioni di massa antigiapponesi nelle zone della guerriglia, in vaste aree del paese e all’estero. Attorno a queste organizzazioni abbiamo raccolto lavoratori, contadini ed altri soggetti contrari all’imperialismo giapponese. Abbiamo impartito loro un’istruzione rivoluzionaria nella lotta pratica contro l’imperialismo giapponese e in questo modo abbiamo trasformato un gran numero di persone in ferventi comunisti.
I veri comunisti che formammo durante la lotta rivoluzionaria antigiapponese diventarono la spina dorsale del Partito che sarebbe stato fondato successivamente.
Un altro fattore importante, quando si gettano le fondamenta organizzative e ideologiche del Partito, è preservare la purezza dei ranghi, dei militanti comunisti ed assicurare la solida unità della loro ideologia e della loro volontà.
Un Partito rivoluzionario può essere fondato, e la sua forza può aumentare, solo quando la purezza dei ranghi comunisti e l’unità della loro ideologia e della loro volontà è assicurata. L’unità dell’ideologia e della volontà tra i ranghi comunisti e la solidarietà tra i militanti sono la condizione basilare per la fondazione, il consolidamento e lo sviluppo del Partito e la sorgente della sua insuperabile forza.
Durante la lotta armata antigiapponese abbiamo lavorato instancabilmente per assicurare la purezza dei ranghi comunisti e rafforzarne l’unità dell’ideologia e della volontà. Abbiamo smascherato tutti i crimini che erano stati commessi dai frazionisti del primo movimento comunista in Corea, abbiamo fatto lottare risolutamente i comunisti contro i frazionisti e abbiamo instaurato una disciplina di ferro nell’organizzazione per prevenire anche la minima infiltrazione del frazionismo tra i ranghi rivoluzionari. Abbiamo anche voluto infondere, nei comunisti e nei membri delle organizzazioni rivoluzionarie, la linea rivoluzionaria coreana orientata sul Juché, le sue strategia e tattica per assicurare l’unità ideologica dei ranghi comunisti e la loro unità d’azione.
Porre una solida base di massa è importante quando si preparano le fondamenta organizzative e ideologiche su cui va costruito il Partito.
Una base di massa è una garanzia importante per la fondazione di un Partito potente, profondamente radicato tra le masse di settori differenti. Solo un Partito che ha una solida base di massa non può essere espugnato.
Al fine di porre la base di massa per la fondazione del Partito è necessario far aprire gli occhi ed organizzarle. Anche se il popolo è il padrone della rivoluzione, esso non può giocare il ruolo che gli spetta e servire da fidata base politica del Partito se non viene destato e organizzato.
Durante tutto il periodo della lotta rivoluzionaria antigiapponese abbiamo lavorato duramente per destare e organizzare le masse. In quei giorni inviammo un gran numero di lavoratori politici tra le masse, in molte località. Questi compagni hanno lavorato a fondo, instancabilmente, nel popolo, lo hanno rivoluzionato ed hanno formato organizzazioni di massa per inquadrare ampi settori popolari a livello organizzativo. Facemmo uno sforzo gigantesco per organizzare e mobilitare i lavoratori, i contadini e altri nella lotta rivoluzionaria e li abbiamo temprati nella lotta. Nella lotta pratica, ampi settori delle masse popolari hanno acquisito una coscienza di classe e sono diventati una potente forza politica.
La lotta per porre la base di massa per la fondazione del Partito procedette di pari passo col movimento del fronte unito nazionale antigiapponese. Il 5 maggio del 1936 formammo l’Associazione per la Liberazione della Patria, un evento storico che ha segnato una nuova fase nel consolidamento della fondazione di massa del Partito.
La formazione di questa associazione ha reso possibile unire le ampie masse popolari, di varie estrazioni, sotto la bandiera della liberazione nazionale.
La rete che costituiva l’associazione di estese rapidamente. Le organizzazioni subordinate dell’A.L.P. ricoprirono ben presto un vasto territorio, coprendo non solo i distretti sull’Amnok o del fiume Tuman ma spingendosi anche all’interno del paese. Queste organizzazioni adottarono nomi differenti, a seconda delle specifiche condizioni delle località. A mano a mano che l’A.L.P. si estendeva in patria e all’estero, attorno ad essa si radunavano sempre più ampi settori delle masse popolari, inclusi quelli religiosi che entrarono nelle organizzazioni locali per combattere contro i giapponesi. Il risultato fu che avvenne un passo avanti nell’assicurare la direzione del Partito sui vari settori delle masse, e si rafforzò la base di massa per la fondazione del Partito.
Poiché la solida base organizzativa e ideologica su cui costruire il Partito venne posta durante la lotta rivoluzionaria antigiapponese, noi eravamo completamente preparati per fondare il Partito della classe operaia nel nostro paese non appena vi fosse l’opportunità favorevole.
Le brillanti tradizioni rivoluzionarie del nostro Partito furono stabilite durante l’ardua lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo giapponese.
Attraverso la lotta rivoluzionaria antigiapponese, che ci costò un enorme tributo di sangue, venne instaurato il sistema dell’idea Juché, ottenemmo immortali risultati rivoluzionari ed esperienze di combattimento e creammo il nostro metodo di lavoro rivoluzionario e il nostro stile di lavoro popolare. Le tradizioni rivoluzionarie antigiapponesi racchiudono un ricco patrimonio ideologico e spirituale, nonché preziose imprese ed esperienze rivoluzionarie.
Le tradizioni rivoluzionarie antigiapponesi fornirono una solida base sulla quale fondare, rafforzare e sviluppare il nostro Partito dopo la liberazione e diventarono le possenti radici storiche del nostro Partito e della rivoluzione.
Basandoci, per fondare il Partito, sulla base ideologica e organizzativa e sulle brillanti tradizioni rivoluzionarie stabilitesi durante la lotta rivoluzionaria antigiapponese, immediatamente dopo aver liberato il paese abbiamo iniziato ad occuparci dell’organizzazione del Partito.
La situazione del nostro paese dopo la liberazione era estremamente complicata. In particolare, per via dell’occupazione statunitense della Corea meridionale, c’era un contrasto impressionante tra la situazione nel nord e quella nel sud del paese. Nel nord infatti tutto il popolo si trovò a capo del paese e prendeva parte, con la massima unità, all’edificazione del nuovo paese con la felicità della liberazione. Questo però non era il caso del sud, dove venne istituito un governo militare dagli USA, dove l’avanzata rivoluzionaria dei comunisti e degli altri patrioti venne stroncata senza pietà ed i comitati popolari formati su iniziativa del popolo furono sciolti con la forza. In questa situazione era difficile costituire un Partito unito che potesse raccogliere immediatamente i comunisti del nord e del sud della Corea. Nello stesso tempo però, non potevamo permetterci di aspettare a braccia conserte che maturassero le condizioni per fondare un Partito unito. Queste situazioni differenti nel nord e nel sud del paese richiedevano che la rivoluzione si sviluppasse - e che la fondazione del Partito procedesse - conformemente alle specifiche situazioni in entrambe le zone.
Fondammo immediatamente il Partito nel nord, dove s’era creata una situazione favorevole. Questo era necessario perché solo allora fu possibile dare una direzione unitaria alle organizzazioni del Partito Comunista formate e attive in tutto il paese, raggiungere l’unità ideologica e organizzativa dei ranghi comunisti, raccogliere le vaste masse attorno al Partito e portare avanti con successo la costruzione del paese. Ciò significava anche trasformare la metà settentrionale del paese in una potente base per la rivoluzione coreana.
Ci assicurammo che il Partito venisse fondato coi i veri comunisti temprati e istruiti durante i molti anni della lotta rivoluzionaria antigiapponese e con quei comunisti che erano stati attivi in diverse zone, in patria come all’estero. In quel tempo, girava la proposta di fondare il Partito solo con i comunisti che avevano preso parte alla lotta rivoluzionaria antigiapponese. Fare in questo modo sarebbe ovviamente rientrato nelle nostre capacità, ma ci rifiutammo. Se avessimo formato il Partito solo con loro, altri avrebbero cercato di formare dei propri partiti e ciò avrebbe portato alla divisione del movimento comunista nel nostro paese. Questo fu il motivo per cui ogni comunista venne ammesso nel Partito quando fu fondato. Era vero che alcuni comunisti che avevano operato individualmente in alcune zone non avevano la necessaria preparazione organizzativa ma poiché c’era l’affidabile corpo della spina dorsale del Partito, forgiato e maturato nella lotta rivoluzionaria antigiapponese, potemmo ammetterli e unirli a livello organizzativo.
Inviammo i veri comunisti istruiti durante la lotta rivoluzionaria antigiapponese in varie parti del paese allo scopo di riorganizzare ed espandere le organizzazioni di Partito e unire i comunisti che avevano operato individualmente. Allo stesso tempo acceleravamo i preparativi per la fondazione del Partito. Infine, il 10 ottobre del 1945, formammo il Comitato Centrale Organizzativo del Partito Comunista della Corea del Nord [4], un potente organo di direzione centrale del Partito, proclamando la fondazione del nostro Partito al mondo intero.
La fondazione del nostro Partito è stata la nascita del Partito rivoluzionario di tipo Juché, il primo del genere nella storia, il superbo risultato di lunghi anni di lotta dei comunisti coreani per fondare un Partito rivoluzionario della classe operaia. Ciò fornì alla rivoluzione coreana il suo potente, militante stato maggiore e rese capace il nostro popolo di portare avanti la rivoluzione e la costruzione vittoriosamente sotto la sua direzione.

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Note

1 Il Partito Comunista Coreano si sciolse verso la fine del 1928. Nell’estate dello stesso anno, durante il suo 6° Congresso, l’Internazionale Comunista aveva tolto il proprio riconoscimento al Partito espellendolo di fatto dall’organizzazione.

2 “Juché” significa letteralmente “autosufficienza”, “autonomia”, per esteso “contare sulle proprie forze”, ed è il principio che guida la Repubblica Popolare Democratica di Corea, in quanto “idea rivoluzionaria per il raggiungimento dell’indipendenza delle masse popolari” (Art. 3 della Costituzione della R.P.D.C.).

3 Indipendenza.

4 Il nome attuale, Partito del Lavoro di Corea, venne adottato l’anno seguente, dopo la fusione col Partito Neo-Democratico. Il Congresso Inaugurale del Partito del Lavoro si tenne a Pyongyang dal 28 al 30 agosto 1946. Nelle relazione presentata al Congresso, Kim Il Sung affermò che l’unione dei due partiti costituisce un grande progresso sulla via dell’unità delle grandi masse: operai, contadini, lavoratori intellettuali.

Traduzione condotta sull’edizione inglese del testo: Kim Il Sung, The struggle of the Korean communists to found the Party, in Historical experience of building the Workers’ Party of Korea, Foreign Languages Publishing House, Pyongyang, Korea, 1986.
Per una coerente resa in italiano dei nomi si è fatto riferimento all’opera: Kim Il Sung, Attraverso il secolo, Memorie, Roma, 2004 (vol. 1 e 2).
view post Posted: 23/3/2013, 20:49 Sulle critiche previane al marxismo leninismo - Articoli dei membri della Scuola quadri
Questo articolo, come il compagno Mikojan stesso dice, è stato scritto senza avere una preparazione approfondita sugli argomenti trattati. Questo, che a prima vista parrebbe un difetto, si rivela essere invece il grande pregio di questo articolo. Esso ci mostra come un marxista mediamente acculturato cerca di risolvere i problemi in merito ai quali non ha ancora preso visione, del tutto o in parte, delle formulazioni dei classici; esso è uno straordinario quadro dell'atteggiamento istintivo di un marxista in relazione a tali problemi.
Passiamo a vedere come ciascuno di questi problemi è stato affrontato dal compagno Mikojan.
Il primo grande problema è legato alle osservazioni di Preve su Lenin e Stalin, considerati rispettivamente come il revisionista del marxismo e il suo neutralizzatore. Tali osservazioni si fondano sull'assioma, tipico di Preve e del suo allievo Fusaro, che concepisce la Weltanschauung, la concezione del mondo, la dottrina, la teoria generale o come la si vuole chiamare, come un sistema di per sé chiuso e dogmatico per definizione, ostile al cambiamento e men che mai sviluppabile creativamente. Alla luce di ciò, qualunque arricchimento, qualunque cambiamento, qualunque sviluppo creativo appare come una forma di revisionismo. E' evidente che questo modo di affrontare la questione è a dir poco parodistico. Stalin disse:

Secondo Zinoviev, ogni miglioramento ed ogni messa a punto delle vecchie forme e di singole proposizioni dottrinarie di Marx o di Engels, e più ancora la loro sostituzione con altre formule meglio rispondenti alle nuove condizioni, volevano dire revisionismo. Mi chiedo perché. Non è forse il marxismo una scienza, e la scienza non si evolve arricchendosi di nuove esperienze e migliorando le vecchie formule? Ma poiché revisione significa riesame, e d’altronde non è possibile attuare un miglioramento ed una messa a punto delle vecchie formule senza, in certo qual modo, riesaminarle, ogni messa a punto o miglioramento delle vecchie formule ed ogni arricchimento del marxismo con formule nuove e nuove esperienze, sarebbe dunque revisionismo. Naturalmente tutto ciò è ridicolo.
(La settima sessione plenaria allargata del CE dell'IC)


La differenza tra Zinoviev e Preve è che il primo considera il revisionismo come un fenomeno negativo, mentre il secondo lo approva fortemente. Dunque prima Preve attribuisce al marxismo connotati ad esso estranei, per renderlo inaccettabile e poter così facilmente rifiutarlo senza suscitare troppe proteste. Bel modo di imbrogliare le carte, non c'è che dire!
Nei classici del marxismo-leninismo non si trova nessun elemento con le caratteristiche attribuitegli da Preve, nessuna formula dogmatica. Secondo Preve il leninismo altro non è che la sistematizzazione di punti di vista espressi in modo arbitrario e financo casuale, in balìa degli eventi storici; dunque il leninismo, nella sua "sistematizzazione" staliniana sarebbe un corpus dogmatico e inerte. Al contrario, è assai significativo come Yuri Andropov, nel discorso del 1964 Il leninismo illumina il nostro cammino, polemizzi proprio contro i dogmatici, che vedono qualsiasi arricchimento e sviluppo della dottrina come una sua revisione.
In realtà, il revisionismo non è qualsiasi sviluppo della teoria; il revisionismo è un "arricchimento" che giunga a contraddire i principi di base del marxismo, che contrasti con il materialismo dialettico e storico. Lo sviluppo creativo del marxismo-leninismo avviene invece sulla base dei suoi principi fondamentali e delle nuove condizioni storiche. I postulati della teoria marxista non sono delle idee platoniche, sospese nell'Iperuranio e date una volta per sempre; al contrario, esse sono frutto dell'intersezione tra il materialismo dialettico e storico e la realtà concreta e storicamente determinata. Il secondo di questi fattori si modifica nel tempo e nello spazio; dunque, i postulati del marxismo devono adattarsi di conseguenza. Se una tesi viene a cozzare con le circostanze storiche concrete, essa va rigettata e sostituita; questo non è revisionismo, ma sviluppo creativo del marxismo-leninismo, in pieno accordo con i suoi principi fondamentali, i quali esigono che una realtà dialettica sia indagata con un metodo dialettico. Quanto al materialismo dialettico e storico, si tratta di teorie generali, valide rispettivamente per tutta la realtà e per tutta la storia umana (il materialismo storico è l'applicazione del materialismo dialettico allo studio della società e della sua storia).
Questo è l'unico modo effettivamente serio e marxista di porre la questione. Giocare con le parole, come fa Preve, è solo un'occupazione oziosa e improduttiva, che non aiuta il dibattito e può solo confondere la questione.
Il compagno Mikojan, malgrado le differenze di forma, risolve questo problema in modo assolutamente identico a me e per questo a lui vanno i miei complimenti.
Successivamente prenderò in esame anche le altre questioni. Nel frattempo, invito i compagni ad esprimersi in merito.

Edited by Andrej Zdanov - 23/11/2013, 21:55
view post Posted: 21/3/2013, 18:38 Inflazione, capitale, lavoro - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy ekonomiki», rivista teorica mensile dell’Istituto di Economia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, n. 2, 1954:


Inflazione, capitale, lavoro


Quello dell’inflazione è da tempo uno dei problemi più acuti e irrisolvibili del capitalismo contemporaneo. L’inflazione, che in epoca di crisi generale del capitalismo assume un carattere cronico, porta con sé un maggiore inasprimento delle contraddizioni di classe ed anche esercita un’azione distruttiva sull’economia nazionale dei paesi capitalistici.
L’inflazione, prima di tutto, significa svalutazione della carta moneta rispetto all’oro e generale aumento dei prezzi sulle merci dovuto a un intasamento dei canali della circolazione monetaria da parte di una eccessiva massa di carta moneta. Di per sé, tuttavia, queste manifestazioni esteriori dell’inflazione ancora non ne rivelano l’essenza sua propria. Come insegna la teoria marxista-leninista, infatti, le categorie economiche sono espressione di ben determinati rapporti di produzione tra le persone, per cui ridurre l’inflazione soltanto ad una eccessiva emissione di carta moneta che ne comporta la svalutazione significherebbe darne una definizione soltanto formale e di superficie (che è poi, e non da ora, quella invalsa nell’economia politica borghese. E vedremo il perché). Per il momento ci limiteremo a svelare, nei suoi aspetti più generali, il contenuto reale dell’inflazione, – a stabilire, cioè, per quali classi sociali essa si rivela utile e vantaggiosa, e contro quali di esse, invece, l’inflazione è diretta.
Nell’immediato l’emissione di carta moneta produce un sicuro effetto finanziario per lo Stato che ne dà luogo, dato che esso, con questo denaro, può pagarsi eventuali spese militari, risolvere qualche «buco» di bilancio, gratificare funzionari e lacché, ecc. ecc. Attraverso il meccanismo della emissione e svalutazione della carta moneta si hanno il prelievo di una parte dei redditi della popolazione e la sua rimessa a disposizione dello Stato.
Questa redistribuzione del reddito nazionale tra popolazione e Stato borghese, tuttavia, ancora non ci rivela, per intero e in ogni aspetto, l’essenza di classe dell’inflazione. Se infatti, a seguito di una emissione di carta moneta, si avesse una riduzione proporzionale dei redditi di tutti gli strati della popolazione, anche in questo caso l’inflazione servirebbe gli interessi delle classi sfruttatrici.
Esiste poi una merce specifica – la forza-lavoro – il cui prezzo non cresce mai in proporzione diretta con la crescita dei prezzi delle altre merci, ma aumenta in misura assai più lenta e graduale. In condizioni di inflazione, inoltre, – e quale sua inevitabile conseguenza, – si ha una vera e propria caduta verticale del salario reale, con connessa crescita dell’immiserimento assoluto e relativo del proletariato.
Il peso dell’inflazione, che ricade principalmente sulle spalle della classe operaia, si riflette poi pesantemente anche sulla piccola borghesia di città e delle campagne. Solitamente, in periodi di inflazione, la crescita dei prezzi sui prodotti del lavoro dei piccoli produttori di merci segue di qualche tempo quella sui prodotti della grande industria capitalistica. E la ragione è che, parimenti ai cerchi provocati da un sasso gettato in acqua, l’ondata di aumento dei prezzi provocata dall’inflazione si allarga dal centro alla periferia soltanto un poco alla volta e con tempi diversi tra loro. Un ruolo importante, poi, lo svolge anche il fatto che i piccoli produttori, a causa della loro sfavorevole condizione sul mercato, hanno una minore possibilità e capacità di reagire all’inflazione con un aumento dei prezzi sulle merci. Essi, di solito, vendono le proprie merci non direttamente ai consumatori, ma a degli intermediari o capitalisti del commercio i quali, valendosi della propria posizione di incettatori monopolistici di quei prodotti, possono esercitare sui prezzi una pressione tale che ostacoli od impedisca ad artigiani e contadini di aumentare i prezzi sui loro prodotti in misura adeguata alla svalutazione generale del denaro.
L’inflazione, in tal modo, rafforza sul mercato le posizioni concorrenziali della grande borghesia, e indebolisce invece quelle della piccola. I costi di produzione dei capitalisti non aumentano in misura conforme alla crescita dei prezzi sulle merci da essi prodotte, dato che in tali costi rientra anche il salario operaio che, come s’è visto, in tempi di inflazione cade verticalmente proprio nella sua espressione reale. Al contrario, i costi dei piccoli produttori di merci crescono più rapidamente che i prezzi dei loro prodotti, dato che l’aumento dei prezzi sui mezzi e gli strumenti di produzione da essi acquistati presso la grande industria capitalistica supera di gran lunga un eventuale aumento dei prezzi sui loro propri prodotti.
Tuttavia, occorre anche dire che sarebbe senz’altro un errore vedere nell’inflazione soltanto il risultato di una cosciente politica delle classi dominanti. Essa infatti rappresenta un fenomeno oggettivo generato dalle leggi stesse del capitalismo e del suo modo di produzione, alla cui base stanno il disordine e il caos propri dell’economia e delle finanze capitalistiche. La sua determinazione oggettiva, però, non ne esclude affatto il cosciente impiego da parte delle classi sfruttatrici nel proprio interesse e la loro coerente attuazione di una politica monetaria inflazionistica.
Nella storia del capitalismo essa era già ricorsa più d’una volta, ma fino all’epoca della crisi generale del sistema capitalistico ebbe soltanto un carattere episodico e locale, – si produceva, cioè, soltanto in presenza di circostanze eccezionali (per esempio, nel corso di grandi guerre) e interessando, di solito, un solo singolo paese. Nell’epoca odierna, al contrario, l’inflazione ha invece assunto un carattere cronico e di proporzioni mondiali (entro, naturalmente, il mondo capitalistico). Per essere più precisi, a partire dalla prima guerra mondiale, ed ancora a tutt’oggi, il mondo capitalistico ha conosciuto un solo breve periodo con valute relativamente stabili, e che è detto per l’appunto «periodo di relativa e precaria stabilizzazione del capitalismo» (1924-1928), che rispetto all’intera epoca della sua crisi generale – che perdura ormai da sei decenni, – fu davvero un episodio di breve durata. Mentre prima dell’epoca della crisi generale del capitalismo le crisi economiche, benché influissero certamente sulla circolazione monetaria, non portarono mai ad un crollo delle valute e all’inflazione, la crisi degli anni 1929-1933 invece – che si distinse anche per la sua insolita durata, profondità ed asprezza, – provocò il crollo delle valute capitalistiche ed aprì la strada all’inflazione.
Nell’epoca dell’imperialismo l’inflazione, quale suo prodotto «genetico» e permanente, è soggetta alle esigenze della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo.
Come era da attendersi, l’estrema attualità ed acutezza del problema non potevano non attrarre l’interesse dell’economia politica borghese, la quale però, sotto il velo delle più diverse definizioni pseudoscientifiche, si prova a dissimularne la reale natura economica e l’essenza di classe, e a giustificare l’inflazione con false argomentazioni circa una sua presunta «azione stimolante» sul «progresso economico», purché – «s’intende» – non «sfrenata» o «a briglia sciolta», ma opportunamente «regolata» dalla politica finanziaria degli Stati borghesi. Vediamone ora alcune di queste «teorie».
Anzitutto, un aspetto tipico o comunque comune a molte di esse è la loro riduzione della sostanza dell’inflazione ad una delle forme in cui essa si manifesta, vale a dire all’aumento dei prezzi sulle merci. Confondendo cioè la forma con la sostanza, una gran parte degli economisti borghesi identifica l’inflazione con l’aumento dei prezzi, e questo al fine di dissimularne l’essenza di classe e la natura di strumento volto ad accrescere lo sfruttamento delle masse lavoratrici ed a conseguire il massimo profitto per i monopoli capitalistici. Quale esempio caratteristico di una tale confusione di concetti può ben servire il testo americano «Denaro, credito e finanze», pubblicato alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel quale i suoi autori dichiarano, senza ambagi o inutili circonlocuzioni, che ogni aumento dei prezzi, e per quali che ne siano le ragioni, costituisce di per sé inflazione. «In ogni libro – essi scrivono – i termini “inflazione” e “deflazione” saranno utilizzati soltanto per indicare la direzione in cui si muove il livello dei prezzi. Essi cioè non spiegheranno affatto le cause di questo movimento. Ogni periodo in cui il livello dei prezzi aumenta – sia pure essa una variazione secolare, ciclica o irregolare, – è un periodo di inflazione. Al contrario, ogni periodo durante il quale il livello dei prezzi cade è un periodo di deflazione».
Con una simile «definizione» dell’inflazione, come è facile capire, vengono confusi dei fenomeni del tutto diversi tra loro. Infatti, che cosa può esserci in comune tra un aumento dei prezzi dettato da un ribasso del valore dell’oro, un aumento dei prezzi dovuto a una ripresa ciclica dell’industria capitalistica, e un aumento dei prezzi a seguito di una eccessiva emissione di carta moneta? Ebbene, nient’altro che un aumento dei prezzi. A suo tempo Engels, rivolgendosi al Dühring che pure confondeva fenomeni diversi riducendoli ad un solo concetto, osservò ironicamente che riassumere una spazzola da calzolaio sotto il concetto di «mammifero» è certamente possibile, ma non per questo vi compaiono le ghiandole da latte. Inoltre, questa intenzionale confusione di concetti non è semplicemente dovuta ad una particolare inettitudine degli economisti borghesi a pensare in modo logico. Anzi, questo loro esplicito nonsenso – come ora vedremo – ha un suo preciso e mirato senso di classe. Infatti, identificando con l’inflazione ogni generale aumento dei prezzi sulle merci essi, in primo luogo, «staccano» l’inflazione dalla circolazione della carta-moneta, poiché allargano il concetto anche alla crescita dei prezzi in condizioni di valuta-oro, mentre, in secondo luogo, spiegano le variazioni cicliche della produzione capitalistica con l’avvicendarsi di «inflazione» che genera aumento dei prezzi in periodo di ripresa, da un lato, e «deflazione» che porta alla caduta dei prezzi e alla crisi, dall’altro. Tutto questo, se ne desume, allo scopo di negare la inevitabilità delle crisi economiche nel capitalismo e per «motivare» la tesi di una loro possibile liquidazione entro i limiti dello stesso capitalismo mediante «regolazione» della circolazione monetaria e dei prezzi. Che è come dire, in altre parole, che si negano le contraddizioni interne del modo di produzione capitalistico e, in primo luogo, quella sua principale tra il carattere sociale della produzione e la forma privata capitalistica di appropriazione dei suoi risultati, che genera inevitabilmente le crisi economiche.
In altri economisti borghesi, invece, l’identificazione tra inflazione e aumento dei prezzi come tale si presenta nella forma di una domanda eccessiva. Così per esempio dichiara, nel suo libro «Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta», il noto economista borghese John Maynard Keynes: «Quando un’ulteriore crescita della domanda effettiva non porta più ad una crescita della produzione, ma si esaurisce per intero in un aumento dell’unità di spesa rigorosamente proporzionale alla crescita della domanda effettiva, allora si perviene ad una situazione che è del tutto opportuno definire di autentica inflazione». In questa «definizione» apparentemente compiuta, tuttavia, dall’inflazione si è come «evirato» ciò che vi è di più essenziale o che, per meglio dire, ne costituisce il tratto specifico, – l’intasamento, cioè, dei canali della circolazione monetaria da parte di una eccessiva massa di indici di valore svalutati (denaro), nonché la sua essenza di classe quale strumento per arricchire la borghesia mediante il depredamento della classe operaia e delle masse lavoratrici in genere.
Un’altra «definizione» ancora, ma per molti versi affine a quella keynesiana, si ha nella più recente opera dell’economista svedese Bent Hansen, il quale afferma: «Di solito, quando si parla dell’inflazione, le si associa un aumento dei prezzi e/o del reddito; è chiaro che, essendo la domanda eccessiva una delle cause della crescita dei prezzi, si può anche affermare che l’inflazione indica (tra le altre cose) senz’altro una situazione in cui sui mercati si ha presente un’“ampia” domanda eccessiva su molte singole merci». Che è come voler porre, aggiungiamo noi, un segno di uguaglianza tra domanda eccessiva, aumento dei prezzi e inflazione, senza poi dire nulla della sostanza economica e di classe del fenomeno nel suo insieme. Per fare ciò, in genere, gli economisti borghesi circoscrivono l’inflazione a due suoi diversi tipi che essi definiscono come «aperto» e «contenuto». Esaltando il ruolo dello Stato borghese nella vita economica ed attribuendogli una certa capacità di «domare», «frenare» o «controllare» il fenomeno inflazionistico, essi – per esempio – considerano quello sviluppatosi durante la seconda guerra mondiale come di un tipo del tutto particolare, – di un tipo, come essi dicono, «contenuto». Ma a parte il fatto che una simile divisione dell’inflazione in «aperta» e «contenuta» non ne spiega proprio nulla della sostanza sua propria, essa inoltre prende ancora le mosse da quella sua medesima identificazione con l’aumento dei prezzi che s’è vista più sopra. Prima di tutto gli economisti borghesi esagerano oltre misura l’importanza del «controllo» statale sui prezzi, tacendo invece il fatto che durante la seconda guerra mondiale una progressiva crescita dei prezzi, nonostante un tale «controllo», si ebbe comunque. E poi anche se questo, e fino a un certo punto, dovesse davvero contenerne la crescita (ma proprio soltanto fino a un certo punto) ciò non muterebbe affatto la sostanza dell’inflazione come tale, – che vi sia o meno un simile «controllo».
Le «definizioni» borghesi, come s’è detto, hanno carattere soltanto formale: esse cioè mettono in evidenza le sole forme esteriori dell’inflazione, tacendo invece la reale essenza di classe del fenomeno nel suo insieme. Un esempio caratteristico ne può essere quella data dall’economista borghese americano A. Lerner, il quale, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi, non identifica e nemmeno circoscrive l’aumento dei prezzi all’inflazione, osservando che una crescita dei prezzi è possibile anche senza inflazione, così come questa può aver luogo anche in assenza di una crescita dei prezzi. A riprova di questa tesi egli fa riferimento alla famigerata «inflazione contenuta». Questo termine il Lerner lo considera impreciso, sottolineando che una inflazione non si liquida nemmeno quando la domanda eccessiva non può manifestarsi in un aumento dei prezzi a seguito del controllo su di essi. Proponendo quindi di sostituire il termine «inflazione» con quello di «soppressione», egli scrive: «Soltanto l’aumento dei prezzi si riesce a contenere, mentre l’inflazione che ne è alla base resta forte quanto prima. La soppressione è soltanto un particolare tipo di inflazione… L’inflazione è domanda eccessiva. La soppressione è una inflazione durante la quale la domanda eccessiva non è in grado di lievitare i prezzi».
Ma che cos’è la «domanda eccessiva»? Questo concetto il Lerner lo interpreta, diciamo, in un senso «psicologico-soggettivo», asserendo che la domanda eccessiva ha luogo non tanto quando la domanda supera l’offerta, ma solo se, in presenza di un tale superamento, la gente si sente ingannata nelle proprie aspettative e nei suoi interessi. «L’essenza dell’inflazione – egli scrive – consiste in una eccedenza di domanda: nell’attesa o nel proposito, cioè, di acquistare più di quanto si abbia a disposizione per l’acquisto, – il che porta con sé disillusione e crollo dei piani».
Questa «concezione», come si può vedere, è altrettanto inconsistente e viziata delle altre più sopra riferite.
Anzitutto, in condizioni di azione della legge di concorrenza e anarchia della produzione, che è propria del capitalismo, il movimento dei prezzi ha carattere spontaneo e affatto prevedibile. In secondo luogo, dando dell’inflazione una interpretazione di tipo «psicologico» e riducendola a «disillusione e crollo dei piani», il Lerner – come, del resto, tutti gli altri suoi colleghi borghesi prima di lui, – non fa che procedere a un ennesimo tentativo di oscurarne l’essenza di classe.
Si deve infine osservare che non di rado gli economisti borghesi utilizzano il concetto di «inflazione» in un senso onnicomprensivo che ne smarrisce il nesso con una particolare e determinata situazione della circolazione monetaria. Essi cioè estendono concetti quali «inflazione» e «deflazione» anche ad altri fenomeni o aspetti più ristretti e particolari della vita economica, parlando per esempio di «inflazione dei redditi», «della domanda», «delle merci», «dei capitali», ecc., facendone così dei semplici sinonimi od equivalenti di «eccedenze» e «carenza».
Un più recente aspetto – e forse anche più indicativo per valutare appieno, nella sua immediata essenza di classe, l’oggetto in questione, – è che tra le «teorie» borghesi oggi invalse nel mondo capitalistico una larga diffusione ha avuto la cosiddetta «teoria della spirale inflattiva dei salari e dei prezzi», il cui fondo sta nell’asserire che l’aumento dei salari sarebbe una delle cause della crescita inflattiva dei prezzi. L’«argomentazione» dei sostenitori di tale concezione si riduce, in sostanza, a quanto segue: se l’aumento della massa monetaria provoca una crescita dei prezzi sulle merci e gli operai ottengono un aumento dei salari, questo aumento, a sua volta, non può che essere fattore di una ulteriore scalata dei prezzi, dato che esso comporta una crescita dei costi di produzione (il che, inevitabilmente, provoca un aumento dei prezzi). Tra i molti economisti borghesi che predicano la «teoria della spirale inflattiva» si può senz’altro citare l’americano Hart, il quale suddivide l’inflazione in due suoi tipi differenti. Egli dichiara: «L’inflazione di domanda eccessiva si determina per uno squilibrio tra la domanda e il valore (su base non inflazionata) dell’offerta effettiva. Esiste poi anche una inflazione dei costi crescenti, determinata questa da una elevata pressione del salario e dei prezzi sui materiali». Di rincalzo a ciò, un altro economista reazionario, il Chandler, proponendo la stessa «teoria» del primo, scrive: «Il raddoppio dell’incidenza finanziaria del salario è stata un fattore importante dell’inflazione… L’inflazione sarebbe certo inferiore se l’incidenza dei salari non aumentasse così fortemente».
Tutte queste asserzioni si basano sulla teoria volgare dei costi di produzione, da tempo immemore non solo criticata, ma anche scientificamente demolita da Marx stesso. Come questi aveva allora dimostrato, infatti, i prezzi delle merci sono sempre determinati non dai costi di produzione, ma dal valore o, per meglio dire, dalla quantità di lavoro astratto socialmente necessario oggettivizzato nelle merci. Voler determinare i prezzi con i costi di produzione significherebbe quindi volerli assurdamente determinare in ragione dei prezzi medesimi: porsi cioè in un circolo vizioso e senza fine come quel famoso «gatto che si mangia la coda». Una variazione del salario non provoca affatto una corrispondente variazione dei prezzi sulle merci. La lotta degli operai per degli aumenti salariali in condizioni di inflazione è appunto determinata dalla crescita dei prezzi sulle merci dovuta all’inflazione stessa e che riduce il loro livello di vita. Non genera affatto un aumento dei prezzi, come invece dichiarano gli economisti borghesi. E il senso di classe di una simile «teoria» è così evidente da non richiedere altre parole se non per riaffermare, più in generale, che nessun «congelamento» o riduzione del salario nominale potrà mai esercitare una azione stabilizzante sui prezzi delle merci e né, tantomeno, ostacolare in qualche modo una ulteriore crescita del processo inflazionistico.
All’alba del modo di produzione capitalistico l’economia politica borghese si dichiarava in favore di uno stabile e saldo sistema monetario, esprimendo così i bisogni e le necessità di un capitalismo che procedeva lungo una linea di sviluppo ascendente. I classici della economia politica borghese vedevano la base della circolazione monetaria nella valuta metallica. Nello scritto «L’alto prezzo dei lingotti è prova di svalutazione delle banconote», da lui redatto nel 1809, Ricardo, rilevando la «grandissima preoccupazione» con cui egli «osserva la progrediente svalutazione della cartamoneta», definì l’eccessiva emissione di cartamoneta e la sua conseguente svalutazione come un «male» che occorre rimuovere il più presto possibile mediante la sostituzione della cartamoneta con denaro pregiato.
Sicché, in tempi ormai remoti, la scienza economica borghese vedeva nell’inflazione un indubbio male da evitarsi con ogni mezzo possibile. Tutt’altro quadro, invece, ci si presenta nelle condizioni dell’odierno capitalismo, quando, esprimendo gli interessi dei monopoli, gli economisti borghesi contemporanei intervengono in qualità di apologeti di una politica monetaria inflazionistica. L’apologia dell’inflazione essi la mascherano con riferimenti agli interessi dell’economia nazionale, affermando che una politica monetaria inflazionistica può stimolare la crescita della produzione e consentire il conseguimento della «piena occupazione».
Prima della seconda guerra mondiale, in qualità di difensore di una politica monetaria inflazionistica, intervenne John Maynard Keynes, il quale inserì sottilmente la propria apologia dell’inflazione nella sua teoria della «piena occupazione». Predicando che la disoccupazione – che in realtà è un prodotto genetico e inevitabile del modo di produzione capitalistico, – può essere liquidata entro i limiti del capitalismo, il Keynes dà un sostegno particolare alla politica creditizio-monetaria in quanto strumento, secondo lui, che può garantire una «piena occupazione». Egli non vede le radici della disoccupazione nel modo di produzione capitalistico, ma soltanto in una insufficiente domanda di merci dovuta, come egli ritiene, ad una elevata norma di interesse che limita il volume degli investimenti. A sua volta, una delle principali cause dell’alto livello di interesse è, a suo dire, la limitata quantità di denaro presente nelle condizioni della valuta aurea. Per cui, partendo da questa premessa, egli giustifica l’abolizione dello standard aureo, liberando così una quantità di denaro in circolazione dalle «catene d’oro» in cui si trova, aprendo ampie possibilità per una supplementare emissione di denaro e, con ciò stesso, consentendo una riduzione della norma di interesse, una crescita degli investimenti e un aumento dell’occupazione.
Caratterizzando poi le proprietà essenziali del denaro che, secondo il Keynes, ostacolano il conseguimento della piena occupazione, egli indica i seguenti tre tratti caratteristici del denaro: 1) la inelasticità della sua produzione, cioè il fatto che, a differenza delle merci, «il denaro non si può produrre a piacimento»; 2) la inelasticità della sua sostituzione, cioè il fatto che ad un aumento del valore di scambio del denaro non sorge la tendenza ad una sua sostituzione con qualcos’altro, allorché ad un aumento del prezzo su una qualsiasi merce essa può essere sostituita con un’altra merce; 3) la massima liquidità del denaro, cioè il fatto che il denaro rappresenta la più sicura forma di ricchezza e può sempre essere trasformato in questi o quei valori materiali, per cui la conservazione della ricchezza nella forma di denaro presenta i più grandi vantaggi per i suoi detentori. Tutto questo preso insieme genera, quindi, una elevata norma di interesse che è uno dei principali freni alla crescita degli investimenti e dell’occupazione. Ma dov’è la via di uscita? «L’unica uscita… – dichiara il Keynes, – può risiedere (anche se tuttora la tendenza alla liquidità rimane immutata) in un aumento della quantità del denaro…».
Ma come aumentare la quantità del denaro? Per fare questo, secondo il Keynes, è necessario superare la «inelasticità» propria al denaro metallico e creare un sistema monetario «elastico» con cui la quantità di denaro potrebbe crescere con maggiore facilità. E un tale sistema egli ritiene quello delle banconote non convertibili emesse dalla banca centrale sotto il controllo del governo.
Va da sé che tutt’intera questa «teoria», sotto il riguardo scientifico, è assolutamente inconsistente e rappresenta praticamente una apologia della politica inflazionistica dello Stato borghese.
Ma vediamoci chiaro. Determinando la norma di interesse con la quantità del denaro (in rapporto con la cosiddetta «preferenza di liquidità»), il Keynes confonde il denaro con il capitale di prestito. La quantità del denaro, malgrado le sue affermazioni, non determina affatto il livello assunto dall’interesse, il quale dipende invece dalla domanda e dall’offerta dei capitali di prestito erogati. Che il capitale di prestito intervenga pure nella forma di denaro, ma esso non può affatto identificarsi con il denaro stesso. Una medesima unità monetaria può più volte passare di mano in mano non soltanto nel corso della circolazione delle merci, ma anche a conclusione di transazioni creditizie. Per cui, in presenza di un’unica somma di denaro liquido, la somma dei capitali dati a prestito – come Marx ha indicato, – può sia aumentare che diminuire. E dato che è così, la quantità di denaro non può affatto determinare la norma dell’interesse.
Quale dimostrazione empirica della autonomia delle norme di interesse dalla quantità di denaro che è in circolazione può servire il movimento della norma di interesse nelle diverse fasi del ciclo industriale. Durante una depressione la norma di interesse, come è noto, cade al suo livello minimo, data la presenza di una gran massa di capitali liberi circolanti e che non trovano una loro applicazione; inoltre, la quantità di denaro in circolazione durante la depressione è inferiore rispetto a un periodo di espansione industriale, poiché il volume della circolazione delle merci è esiguo e il livello dei prezzi delle merci è basso. Con il passaggio dalla depressione alla ripresa e a uno sviluppo dell’industria la circolazione delle merci si accresce, i prezzi delle merci aumentano e la quantità di denaro in circolazione si accresce anch’essa; inoltre, la norma di interesse non soltanto non cade, ma, al contrario, aumenta.
Radicalmente inconsistenti, poi, sono anche i ragionamenti del Keynes riguardo alla cosiddetta «inelasticità» del denaro. Probabilmente, se in qualità di materiale monetario si utilizzasse l’oro la quantità del denaro non potrebbe essere aumentata «a piacimento»; ma anche la quantità di ogni altra merce, pure, non si può aumentare semplicemente a proprio arbitrio, dato che per fare questo si richiede una tale condizione oggettiva quale è la crescita della produzione. Tuttavia, una crescita della produzione può aver luogo anche nell’industria dell’oro, che offre la possibilità di accrescere la quantità di denaro pregiato. In tal modo l’affermazione del Keynes circa l’elasticità «nulla» del denaro, nel senso dell’entità della sua produzione, non è che una palese falsificazione dei fatti. Certo, si può anche dire che la circolazione puramente metallica è in realtà inadeguatamente elastica, dato che in sua presenza la produzione di metallo monetario dovrebbe aumentare nella stessa misura che la produzione complessiva di tutte le merci; il che però sarebbe legato a una enorme crescita delle spese improduttive della circolazione. Tuttavia, una inadeguata elasticità puramente metallica si può superare mediante una parziale sostituzione del denaro pregiato con strumenti creditizi propri della circolazione; e inoltre, una simile sostituzione ancora non significherebbe il perseguimento di una politica monetaria inflazionistica. Se in presenza di un libero scambio delle banconote in oro le banche di emissione emettono denaro creditizio, mentre le banche commerciali praticano largamente i bancogiro con l’aiuto della circolazione di assegni, i bisogni della circolazione possono essere attesi da una sufficiente quantità di mezzi di circolazione in assenza di inflazione.
Dichiarandosi in favore di un sistema monetario «elastico», il Keynes ha poi presente una «elasticità» di un genere particolare: il discorso riguarda infatti il sistema delle banconote o del denaro cartaceo non convertibile, la cui quantità potrebbe aumentare oltre il limite delle normali necessità della circolazione del denaro, esercitando così una azione inflazionistica. Per dirla con il Keynes, trasformare la banca centrale di emissione – che si trova sotto il controllo dello Stato, – in una «fabbrica di materia prima verde» significa dare la possibilità al governo di ricorrere alla emissione inflattiva di denaro cartaceo per coprire le spese statali improduttive – in primo luogo quelle militari, – e per concedere vantaggiose ordinazioni ai monopoli capitalistici.
In una serie di passi di un suo libro il Keynes si dichiara senza mezzi termini a favore dei «vantaggi» di una politica monetaria inflazionistica, indicando, tra essi, la riduzione del salario reale degli operai e avanzando la tesi della «resistenza» opposta dal salario monetario ai mutamenti. A suo dire, gli operai rivolgono una attenzione eccessiva proprio al loro salario monetario ed esercitano una caparbia opposizione ai tentativi dei capitalisti di ridurlo. Per cui, a un diretto ribasso del salario monetario il Keynes preferisce una emissione inflattiva di denaro che porti a un aumento dei prezzi sulle merci e a una caduta del salario reale stante il precedente livello del salario monetario. Dolendosi poi del fatto che attuare una generale riduzione del salario monetario «riuscirebbe possibile, probabilmente, soltanto a seguito di una onerosa e disperata lotta», egli aggiunge qui cinicamente: «D’altra parte, un mutamento nella quantità del denaro è già fin d’ora in potere della maggior parte dei governi… Tenendo conto della natura umana e delle nostre constatazioni, solamente un cieco potrebbe preferire una politica dei salari flessibile a una politica monetaria flessibile…». Per dirla altrimenti, il Keynes dà un «buon consiglio» ai capitalisti: visto che una riduzione frontale del salario monetario comporta grandi difficoltà dovete doppiare il problema accrescendo i vostri profitti con l’aiuto di una «flessibile» politica monetaria inflazionistica. La sua tesi, poi, che «il livello generale del salario monetario deve sostenersi in modo massimamente stabile almeno in applicazione a brevi periodi» rappresenta una diretta giustificazione del «congelamento» del salario nominale e della massima riduzione del salario reale dei lavoratori.
Uno dei tratti caratteristici della «teoria» keynesiana è poi la demarcazione tra inflazione «assoluta» o «autentica» e «seminflazione». Secondo il Keynes una inflazione autentica e assoluta si ha soltanto con una crescita della domanda effettiva in condizioni di «piena occupazione», mentre prima del conseguimento di una situazione di «piena occupazione» la crescita della massa monetario-cartacea e l’aumento dei prezzi da essa suscitato possono considerarsi soltanto in qualità di «seminflazione». Una simile demarcazione viene argomentata col fatto che in presenza di mezzi di produzione inutilizzati e di una forza-lavoro eccessiva la crescita della massa del denaro solo in parte si esprime in un aumento dei prezzi sulle merci, essendo il suo principale effetto la crescita dell’occupazione. La differenza tra «seminflazione» e «inflazione autentica», secondo il Keynes, consiste nel fatto che la seconda si manifesta interamente in un aumento dei prezzi, allorché la prima porta non tanto a una crescita dei prezzi, quanto invece a un aumento della produzione.
Alla luce di quanto esposto risulta quindi comprensibile il perché la «teoria» del Keynes si sia rivelata come un espediente tanto opportuno per la borghesia monopolistica ed abbia così trovato larga diffusione nella moderna economia politica volgare. Per l’epoca della crisi generale del capitalismo è caratteristica una inflazione cronica; e il Keynes giustifica una politica monetaria inflazionistica che rechi una ricca messe di profitti agli affaristi del capitale monopolistico. Nell’epoca della crisi generale del capitalismo la borghesia, e con furia particolare, conduce un violento attacco al livello di vita della classe operaia con svariati metodi, e tra i quali l’inflazione; e il Keynes le offre il fondamento «teorico» a tale offensiva. Nelle condizioni dell’odierna inflazione i capitalisti, col concorso dello Stato borghese, utilizzano largamente una politica di «congelamento» dei salari per un ancor maggiore sfruttamento del proletariato; e il Keynes presenta il congelamento dei salari come un provvedimento a suo dire «benefico». Nell’epoca della crisi generale del capitalismo la classe operaia soffre per una disoccupazione e una inflazione croniche, e il Keynes cerca di convincerci che in condizioni di disoccupazione una autentica inflazione è impossibile. Beh, il noto detto che «il desiderio è padre del pensiero», applicato al Keynes, significa che il desiderio di giustificare la rapina inflazionistica delle masse popolari da parte dei monopoli capitalistici è l’autentica causa intrinseca del suo pensiero «teorico». E ci si è soffermati in modo particolare sulla critica della «teoria» dell’inflazione del Keynes perché essa è tipica e caratteristica di tutt’un intero indirizzo dell’economia politica borghese contemporanea.
Come si è detto più sopra, l’apologia dell’inflazione è il tratto più caratteristico delle «teorie» monetarie borghesi contemporanee. Tuttavia, per le masse lavoratrici la gravità dell’inflazione è tale che perfino gli economisti borghesi, sovente, non rischiano di affermare che l’inflazione rappresenta un «bene» per il popolo. E d’altra parte, essa porta a un tale acuirsi delle contraddizioni di classe da poter minacciare l’esistenza stessa del capitalismo. Ecco perché molti economisti borghesi, negli ultimi tempi, hanno preso a indossare la toga di «lottatori» contro una inflazione che essi definiscono come «smisurata». In una raccolta di articoli e saggi pubblicata di recente negli Usa col titolo «Mobilitazione economica e stabilizzazione» il Chandler, l’Harris e altri autori intervengono in favore di una «frenata» dell’inflazione, motivando questo, in particolare, col fatto che, a misura che si intensifica la lotta di classe del proletariato, l’inflazione diventa sempre più minacciosa e che essa può portare «a rivolte di massa e perfino alla rivoluzione». Si deve poi aver presente che, a un determinato grado di sviluppo del processo inflazionistico, il dissesto dell’economia capitalistica dovuto all’inflazione diviene tanto marcato da minare le condizioni stesse dell’accumulazione del capitale. Ma quali sono i principali metodi di «lotta» contro l’inflazione proposti dagli economisti borghesi?
Da un lato, e com’era da presumere, sotto forma di politica «antinflazionistica» molti economisti borghesi caldeggiano un «congelamento» dei salari. Appoggiandosi sulla «teoria della spirale inflattiva», essi affermano infatti che il mantenimento del salario nominale a un livello invariato deve senz’altro esercitare un influsso stabilizzante sui prezzi delle merci e impedire così un ulteriore sviluppo del processo inflazionistico.
Dall’altro lato, sotto il vessillo di una «frenata» dell’inflazione o della «lotta» contro di essa gli economisti borghesi predicano un rafforzamento dell’onere fiscale che, anche già senza di questo, ricade pesantemente sulle masse popolari. Essi, inoltre, affermano che le imposte, come tali, svolgono un ruolo decisamente antinflazionistico, come nella seguente dichiarazione: «L’eccessiva domanda di denaro può essere ridotta mediante la tassazione, che riduce le possibilità di consumo». Inoltre, essi affermano, se si vuole trovare metodi di lotta più efficaci contro l’inflazione mediante la tassazione d’imposta, occorre dare la preferenza proprio alle imposte sugli strati di popolazione meno abbienti, e questo perché – a loro avviso, – nei gruppi di contribuenti con reddito minore la «tendenza al consumo» è più elevata che in quelli ricchi, i quali spendono per i propri consumi una minor quota del loro reddito, mentre una sua gran parte la «risparmiano».
Ma se a scopo delle imposte deve realmente servire il prelievo di una parte della forza d’acquisto eccessiva, evidentemente questa occorre sottrarla a chi ne ha in eccesso, cioè ai capitalisti, e non certo ai lavoratori che arrivano appena appena alla fine del mese. E poi, dato che il ruolo delle imposte deve risiedere, quale strumento «antinflazionistico», in una riduzione della domanda di denaro eccessiva, ci si chiede: perché soltanto la domanda dei consumi? Non deve altresì essere ridotta la rilevante domanda inflattiva presente sui mezzi di produzione o, come la definiscono solitamente gli economisti borghesi, la domanda di investimenti?! Ma laddove parla la voce dell’interesse di classe, tace quella della ragione.
Per concludere, da tutto quanto s’è detto più sopra ne segue che gli economisti borghesi non soltanto pervertono l’essenza dell’inflazione quale prodotto derivato e permanente del sistema economico capitalistico, ma si propongono anche essi stessi quali apologeti della politica inflazionistica perseguita dagli Stati borghesi nell’interesse del capitale monopolistico. E tutto questo, a rigor di conti, soltanto per un misero salario da lacchè, e per di più inflazionato! Uno scambio davvero ineguale, non c’è che dire!

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:14
view post Posted: 21/3/2013, 15:55 Il ruolo dei corsi valutari nel mercato capitalistico mondiale - Dalla stampa sovietica
Da «Voprosy ekonomiki», rivista teorica dell’Istituto di Economia dell’Accademia delle scienze dell’URSS, n. 11, 1952:


Il ruolo dei corsi valutari nel mercato capitalistico mondiale


La situazione dei rapporti valutari internazionali nel mondo capitalistico, nel periodo della crisi generale del capitalismo, si caratterizza per un loro cronico dissesto che si può definire come crisi valutaria. Le sue ragioni stanno, da un lato, in una cronica e sempre più intensificantesi inflazione e, dall’altro lato, in un dissesto dell’intera sfera dei rapporti economici internazionali che si esprime in uno squilibrio di lunga durata delle bilance di pagamento dei paesi capitalistici.
L’instabilità dei corsi valutari e il loro irregolare e caotico abbassamento rappresentano uno dei principali fattori della crisi valutaria.
L’inizio di questo processo di svalutazione delle valute, caratteristico per il periodo della crisi generale del capitalismo, venne posto dalla prima guerra mondiale, quando in tutti i principali paesi capitalistici lo standard aureo subì un vero e proprio tracollo. Negli anni ’20, poi, il ripristino dello standard aureo nella forma del cosiddetto «standard in lingotti d’oro» e in divisa aurea, unito a una precaria stabilizzazione delle valute, servì soltanto da preludio a un nuovo acuirsi della crisi valutaria nel periodo della crisi economica mondiale degli anni 1929-1933. Ancor maggiori proporzioni il deprezzamento delle valute lo raggiunse durante e dopo la seconda guerra mondiale, il che non fece che generare tutta una serie di profondi mutamenti nel settore dei corsi valutari. Questi mutamenti si riferiscono, in primo luogo, ai fattori che li determinano, e quindi alla loro formazione, e, in secondo luogo, al ruolo economico che essi svolgono nel sistema economico capitalistico.
Il corso di una valuta, vale a dire il suo rapporto di cambio con le altre valute, si trova ad essere in dipendenza causale da due importanti fattori economici: la situazione della circolazione monetaria del paese e la situazione della sua bilancia dei pagamenti. Entrambi questi fattori si trovano in una continua interazione tra di loro. Le condizioni e il carattere della loro azione mutano in notevole misura con lo sviluppo del sistema economico capitalistico.
Nelle odierne condizioni noi abbiamo a che fare esclusivamente con la formazione dei corsi delle valute cartacee inconvertibili. Come Marx ha dimostrato, il denaro cartaceo non può adempiere alla funzione di misura del valore, e rappresenta soltanto l’oro che è in circolazione.
In presenza dello standard aureo la parità monetaria (cioè la correlazione delle unità monetarie in base alla quantità specifica dell’oro) è stata la base e il centro delle oscillazioni del corso valutario avvenute nei ristretti limiti dei punti aurei sotto l’azione della corrente bilancia dei pagamenti. La svalutazione del denaro cartaceo dovuta all’inflazione significa una diminuzione delle quantità di oro da esso di fatto rappresentato. Il corso di una valuta inconvertibile svalutata rispetto alle valute convertibili deve cadere nello stesso grado in cui si è ridotta la quantità di oro rappresentata dall’unità monetaria, dato che nel mercato mondiale, per i documenti che danno diritto a ricevere una determinata somma di banconote inconvertibili, pagano soltanto quanto oro essi rappresentano. Si deve poi notare che a determinate condizioni (limitazione dell’esportazione di oro o una particolare domanda tesaurizzata di esso all’interno del paese) il grado di svalutazione della valuta cartacea rispetto all’oro e rispetto alle valute estere può in certa misura divergere. Con una tale riserva si può ritenere che il corso di due valute cartacee inconvertibili, rispetto l’una all’altra e in assenza di limitazioni del loro cambio reciproco, si determina in sostanza con la quantità di oro realmente rappresentata da ognuna di esse nella circolazione.
Se il potere d’acquisto di ogni valuta rispetto alle merci si è ridotto parimenti alla quantità di oro rappresentata dall’unità monetaria, allora la variazione dei corsi delle valute coinciderebbe con una relativa variazione del loro potere d’acquisto.
Tuttavia, la riduzione del corso – che esprime più o meno precisamente la svalutazione del denaro cartaceo rispetto all’oro, – dipende direttamente dalla situazione della bilancia dei pagamenti del paese in questione, che condiziona le particolari oscillazioni della domanda di oro quale moneta mondiale indipendentemente dalla domanda di merci.
Una azione particolarmente forte sul corso valutario la esercita la bilancia dei pagamenti (s’intende la bilancia di un momento dato, che è dovuta non soltanto alla correlazione tra l’import e l’export delle merci, ma anche ad altre operazioni che, nel dato momento, richiedono urgenti pagamenti in denaro) durante le crisi economiche, quando il meccanismo del credito internazionale cessa di funzionare normalmente e quando si producono più pagamenti in contanti rispetto agli obblighi prima assunti e si intensifica un febbrile movimento di capitali a breve scadenza.
L’azione dell’inflazione e quella della bilancia dei pagamenti sul corso valutario si intrecciano strettamente. In particolare, l’inflazione suscita una maggiore domanda di oro per la tesaurizzazione, un aumento del «prezzo» dell’oro in denaro cartaceo e una riduzione del corso. L’aumento dei prezzi interni delle merci, in condizioni di inflazione, crea di regola la tendenza a una crescita dell’importazione e a una riduzione dell’esportazione, il che porta a un deciso peggioramento della bilancia commerciale e dei pagamenti e a una riduzione del corso della valuta. Dal paese in cui si ha un processo inflazionistico particolarmente intenso di solito si accresce il riflusso di capitali, il che concorre a un drastico peggioramento della sua bilancia dei pagamenti.
Poi, sul corso valutario può esercitare una azione straordinariamente forte anche la caduta di fiducia verso la valuta cartacea, il che suscita una forte domanda di valuta estera e una diminuzione di valuta locale da parte degli stranieri, e si rafforza la speculazione sulla riduzione del corso.
Nell’epoca dell’imperialismo e della crisi generale del capitalismo il numero dei fattori che influiscono sul corso valutario attraverso la bilancia dei pagamenti si accresce e la loro azione si fa più complessa. Tenendo conto della crescita d’influsso sul corso di una serie di fattori che non hanno un diretto rapporto con la situazione della circolazione monetaria presente nel paese, l’irregolarità del deprezzamento delle valute rispetto all’oro e alle merci si accresce, mentre i rapporti di corso tra le valute divergono dai rapporti del loro potere d’acquisto. Un relativo livellamento di entrambe le forme di svalutazione del denaro cartaceo (le si potrebbe definire come svalutazione esterna e interna) si ha nel corso di aspre contraddizioni, essendo esso legato ai contrapposti interessi dei capitalisti dei diversi paesi e altresì agli interessi delle differenti classi e gruppi sociali in ogni singolo paese.
In rapporto con l’ampio sviluppo dell’esportazione di capitali i pagamenti degli interessi e dei dividendi, e altresì i pagamenti in estinzione della somma fondamentale dei prestiti, formano un greve fardello sulle bilance dei pagamenti dei paesi dipendenti e coloniali, e concorrono ad indebolire la stabilità delle valute. Dall’altro lato, una repentina riduzione o cessazione dell’introito di redditi dagli investimenti genera un grave peggioramento delle bilance dei pagamenti dei paesi creditori. In entrambi i casi l’azione di questi fattori è particolarmente forte nei periodi di crisi economica.
Nelle odierne condizioni l’azione del riflusso dei capitali a breve scadenza sulla stabilità delle valute si è accresciuta. La pratica del periodo del dopoguerra dimostra che l’azione di questo fattore è assai notevole anche in presenza di restrizioni valutarie. Per fare un esempio, il grande riflusso di capitali dall’Inghilterra ha svolto un ruolo rilevante nella svalutazione della lira sterlina nel 1949. Questo riflusso si è avuto, in particolare, attraverso tutta una serie di canali illegali, eludendo le restrizioni valutarie: gli esportatori inglesi, cioè, ridussero la somma delle vendite, celando agli organi di controllo valutario il ricavo in valuta ricevuto dalle banche estere nella forma di avoirs; e poi, essi non hanno richiesto l’immediato pagamento della merce in valuta estera, facendo conto su un rialzo del suo corso rispetto alla lira sterlina, ecc.
La crisi economica genera un drastico peggioramento delle bilance commerciali e dei pagamenti dei vari paesi, il che può condurre a una svalutazione esterna della valuta al di fuori di una sua diretta dipendenza dalla sua svalutazione interna, cioè dalla caduta del suo potere d’acquisto. L’inasprimento della lotta concorrenziale sui mercati esterni crea nei monopoli di ogni paese la tendenza a deprezzare artificialmente la valuta, e con ciò stesso a creare o ad accrescere il divario tra il corso valutario e il potere d’acquisto del denaro all’interno di un paese al fine di attuare un dumping valutario.
Nella formazione dei corsi valutari un ruolo importante lo svolgono altresì i fattori della dipendenza imperialistica. Le valute-vassalle si intrecciano strettamente con quelle dei principali paesi imperialistici, e i loro corsi sono artificialmente tenuti, per un più o meno lungo periodo di tempo, a un livello immutato indipendentemente dai mutamenti del loro potere d’acquisto. Il deprezzamento di una valuta di questa o quella potenza imperialistica, di regola, comporta la svalutazione delle valute dei paesi da essa dipendenti, e sovente a scapito degli interessi di questi ultimi.
L’azione di questi due ultimi fattori (cioè l’aspra lotta concorrenziale e la dipendenza imperialistica) si è manifestata in modo particolarmente visibile con la svalutazione di massa delle valute capitalistiche che si è avuta nel settembre 1949. In condizioni di aggravamento della crisi economica e di ulteriore acuirsi della lotta per i mercati, e altresì di soggezione di molte valute capitalistiche al dollaro e di dipendenza di una serie di valute dalla lira sterlina, la svalutazione assunse un carattere di massa, mentre il grado di ribasso dei corsi, come di regola, ha corrisposto molto poco al grado di relativa riduzione del potere d’acquisto delle valute.
Un rilievo assai grande nel divario tra la svalutazione esterna di una valuta e quella interna l’hanno le manifestazioni del capitalismo monopolistico di Stato nel campo dei rapporti valutari internazionali e dei corsi valutari, caratteristiche del periodo della crisi generale del capitalismo e in particolare della sua fase odierna. Qui occorre indicare, innanzitutto, le restrizioni valutarie, che hanno la tendenza a fissare e a rafforzare le discordanze nel grado di svalutazione interna ed esterna, creando nel paese, su un dato corso, un artificialmente elevato livello dei prezzi rispetto agli altri paesi e frenando temporaneamente e artificialmente l’azione dell’inflazione sul corso valutario.
All’azione dei fattori monopolistici di Stato è legata una delle principali cause della instabilità del sistema dei corsi valutari nel mondo capitalistico dopo la seconda guerra mondiale, e cioè l’artificiale riducibilità del potere d’acquisto dell’oro, condizionata dal mantenimento della parità aurea del dollaro Usa a un livello irrealmente elevato.
Il «prezzo» ufficiale dell’oro in dollari (35 dollari all’oncia) è rimasto immutato dal 1934, mentre il livello dei prezzi sulle merci in dollari, nello stesso periodo, è aumentato all’incirca di 2,5 volte, portando a una forte sottovalutazione dell’oro. La possibilità di accrescere il contenuto aureo del dollaro conferisce un carattere artificioso e instabile all’intero sistema dei corsi valutari, che è basato in gran parte sulla fissazione di molte valute capitalistiche al dollaro.
Sottovalutazione dell’oro significa, innanzitutto, un basso livello dell’effettivo potere d’acquisto delle riserve auree e dell’oro nuovamente estratto, ed è quindi un importante fattore di squilibrio e di instabilità delle bilance dei pagamenti dei paesi capitalistici.
Il che, altresì, rafforza sistematicamente l’instabilità dei corsi valutari. Alla sottovalutazione dell’oro è poi legato anche un brusco accrescimento della tesaurizzazione dell’oro stesso negli anni del dopoguerra nonché la diversione di una enorme massa di oro a tesoro, il che riduce rispettivamente l’entrata di oro nelle riserve centrali e indebolisce le valute capitalistiche.
Il mantenimento di una elevata parità del dollaro e la sottovalutazione dell’oro sono una delle principali manifestazioni del diktat valutario degli Usa nel mondo capitalistico. Le contraddizioni tra gli Usa e gli altri paesi – e in particolare l’Inghilterra, – sulla questione relativa al «prezzo» dell’oro si acuiscono sempre più.
I numerosi deprezzamenti delle valute rispetto al dollaro prodottisi dopo la seconda guerra mondiale non hanno affatto eliminato la generale elevata capacità di contenuto aureo delle valute, condizionata da quella della parità aurea del dollaro, ma hanno solo generato un ulteriore rafforzamento della fissazione delle valute capitalistiche al dollaro, che si impone agli altri paesi quale misura fondamentale del valore delle loro valute. Una svalutazione del dollaro rivelerebbe indubbiamente tutta l’artificiosità di tale fissazione, e insidierebbe la posizione «particolare» del dollaro. In questo sta una delle principali ragioni per cui gli imperialisti americani cercano tenacemente di evitare una crescita del «prezzo» ufficiale dell’oro, vale a dire una svalutazione del dollaro.
L’analisi dei fattori che determinano un corso valutario in condizioni di crisi valutaria cronica e di un suo acuirsi nella seconda fase della crisi generale del capitalismo, dimostra che i mutamenti, in questo campo, si riducono a due tendenze principali.
In primo luogo si ha un generale accrescimento del volume e dei ritmi di caduta dei corsi valutari che esprime un aggravamento della svalutazione del denaro cartaceo rispetto all’oro, il che è innanzitutto legato a un aumento dell’inflazione. Nel contempo, il cronico squilibrio delle bilance dei pagamenti e l’acuirsi della lotta per i mercati di smercio generano – in particolare nei periodi di crisi economica, – una caduta verticale dei corsi valutari che può essere indipendente dalle condizioni della circolazione monetaria e a cui la circolazione monetaria stessa e il potere d’acquisto del denaro rispetto alle merci in seguito si adeguano.
In secondo luogo si ha una straordinaria crescita dell’ineguaglianza e del caos nella caduta dei corsi valutari, il che è legato alla grande ineguaglianza di sviluppo dell’inflazione dei differenti paesi. Questa, a sua volta, è altresì legata all’azione dei fattori esaminati più sopra e che agiscono attraverso la bilancia dei pagamenti e che generano grandi deviazioni dei corsi valutari dai quozienti del potere d’acquisto della valute. L’artificiosità e l’irregolarità proprie dei corsi valutari dopo la seconda guerra mondiale sono altresì legate al mantenimento di una elevata parità aurea del dollaro Usa.
Nell’economia capitalistica contemporanea il ruolo economico di un corso valutario è determinato dal fatto che il funzionamento dell’intero meccanismo dei rapporti valutari e dei corsi valutari è subordinato all’azione della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo, – la legge del massimo profitto.
L’impiego da parte dei monopoli del meccanismo dei corsi valutari come di uno degli strumenti atti a garantire i massimi profitti è legato all’impiego, da parte loro, del meccanismo dei prezzi. La dipendenza del corso valutario dal livello dei prezzi non è però unilaterale. Le oscillazioni del corso valutario, che possono essere indipendenti dal potere d’acquisto del denaro o solo indirettamente dipendenti da esso, esercitano una grande azione sui prezzi. I monopoli utilizzano e accrescono artificialmente l’irregolarità di questa azione nel tempo e su singoli gruppi di merci.
L’impiego del deprezzamento della valuta – cioè, più precisamente, della caduta del suo corso, che temporaneamente supera la caduta del suo potere d’acquisto come strumento di lotta per i mercati di smercio e di garanzia dei massimi profitti per i monopoli nei settori economici di esportazione, – rappresenta uno degli aspetti caratteristici dell’economia del capitalismo contemporaneo.
La possibilità di una redistribuzione degli introiti in una società legata a manipolazioni valutarie è basata sulla irregolarità del movimento dei prezzi in condizioni di inflazione, e in particolare di una inflazione il cui sviluppo può essere in parte condizionato o accresciuto da una svalutazione esterna della valuta.
Consentendo ai monopoli di ridurre i prezzi di esportazione in valuta estera e, con ciò stesso, di concorrere con maggior successo sui mercati esterni, – e in una serie di casi di produrre un dumping valutario, – la riduzione del corso valutario genera una crescita dei prezzi delle merci di importazione. Il che, in sommo grado, concorre a un generale aumento dei prezzi, in particolare in presenza dei fattori di inflazione presenti all’interno del paese (deficit di bilancio, crescita del debito pubblico, allargamento della circolazione monetaria e del credito bancario). Utilizzando la congiuntura inflazionistica, poi, i monopoli aumentano altresì i prezzi delle merci di produzione interna.
In presenza di un aumento dei prezzi sulle merci, in minor misura aumenta anche il prezzo della merce forza-lavoro, cioè del salario, il che rappresenta una caratteristica particolarità del capitalismo che i monopoli utilizzano largamente in presenza di inflazione e delle manipolazioni valutarie ad esse legate.
Accanto a una riduzione del salario reale degli operai, fonte dei profitti aggiuntivi dei monopoli è solitamente la riduzione dei redditi effettivi di contadini, artigiani e altri strati della popolazione lavoratrice, e che è legata a un aumento dei prezzi sulle merci di importazione, all’artificioso mantenimento a un basso livello dei prezzi delle merci vendute dai piccoli produttori stante una crescita del livello generale dei prezzi, ecc. Infine, può aversi una redistribuzione dei profitti, a tutto vantaggio dei monopoli, nei settori dell’esportazione a spese dei loro concorrenti in altri settori, e in particolare a scapito di quei capitalisti che sono poco cartellizzati.
Il meccanismo dei corsi valutari viene utilizzato dai monopoli non soltanto per intensificare lo sfruttamento e l’immiserimento della più parte della popolazione di un dato paese, ma anche per rapinare i popoli degli altri paesi, in particolare quelli coloniali e dipendenti.
Aspetto caratteristico della politica valutaria imperialistica è la creazione di blocchi valutari da un lato, e la fissazione delle valute dei paesi dipendenti a quelle dei principali paesi imperialistici dall’altro. Col concorso della fissazione delle valute al dollaro, accanto alla rimozione delle restrizioni valutarie e di quelle al commercio con l’estero, i monopoli americani cercano di creare le condizioni a loro più favorevoli per un largo sviluppo dell’esportazione di capitale e per l’espansione commerciale all’estero, garantendosi in tal modo i massimi profitti.
Le manipolazioni valutarie svolgono un ruolo essenziale nel rafforzare l’ineguaglianza dello scambio a tutto vantaggio dei grandi paesi capitalistici. Grandi proporzioni assunse, per esempio, l’inequivalenza dello scambio a seguito della svalutazione del 1949, e che riguardò non soltanto i paesi poco sviluppati, ma anche quelli industrializzati dell’Europa occidentale che sono oggetto dell’espansione americana.
In presenza di una svalutazione i prezzi sulle merci di importazione in valuta locale aumentano in conformità con la riduzione del corso della valuta, mentre i prezzi delle merci di esportazione, a pari condizioni, restano sul precedente livello o aumentano in misura minore. Insomma, la relazione di scambio, cioè il rapporto tra prezzi di esportazione e di importazione, peggiora per i paesi che hanno deprezzato la valuta e migliora invece per gli altri paesi. Per esempio, dopo la svalutazione del 1949 i prezzi delle merci acquistate dall’Inghilterra negli Usa in dollari aumentarono subito in lire sterline in conformità con la crescita del corso del dollaro rispetto alla prima (al 44%). Al tempo stesso i prezzi dei prodotti inglesi esportati negli Usa restarono, in lire sterline, all’incirca al precedente livello. Il che significò una riduzione dei loro prezzi in dollari di quasi il 30% e creò per gli industriali e gli esportatori inglesi la possibilità di un dumping valutario i cui costi sono poi ricaduti sulla classe operaia inglese.
Le teorie borghesi del corso valutario cercano di dissimularne e mascherarne il ruolo effettivo, sostituendo l’analisi socio-economica con una analisi formale. Esse solitamente rappresentano il corso valutario soltanto come uno strumento atto a stabilire dei legami tra i diversi sistemi economici nazionali.
La teoria borghese della parità del potere d’acquisto, la cui tesi principale si riduce a che i corsi delle valute cartacee si determinano direttamente con la correlazione del loro potere d’acquisto e che le deviazioni da questa parità hanno soltanto un carattere temporaneo con tendenza ad autoregolarsi, ignora di fatto il dumping valutario e in generale il ruolo dei corsi valutari nella lotta per conquistare i mercati di smercio. Questa teoria nega altresì l’azione del corso sul livello dei prezzi e l’importanza delle manipolazioni valutarie nell’attacco dei monopoli al livello di vita delle masse lavoratrici.
La falsità di questa teoria, esposta più compiutamente agli inizi degli anni ’20 dall’economista svedese Kassel e poi ripresa dalla maggior parte degli economisti borghesi, è stata poi dimostrata da numerosi fatti relativi ai corsi valutari già nel periodo della grande crisi economica mondiale degli anni 1929-1933.
Dato che ignorare semplicemente i fattori che generano i lunghi divari tra svalutazione esterna e interna delle valute, e altresì le conseguenze economico-sociali di questi fenomeni nel campo dei corsi valutari, si è rivelato impossibile, gli economisti borghesi hanno allora cercato di «migliorare» la teoria della parità del potere d’acquisto conferendole un aspetto più «scientifico».
La tesi principale della teoria della parità è stata cioè sostituita con quella secondo cui sia possibile un sistema dei corsi (di cosiddetti «corsi di equilibrio», normali, ideali, ecc.) con cui i rapporti economici internazionali si svilupperebbero in modo piano e armonico nonostante l’assenza di una completa conformità dei corsi effettivi ai quozienti del potere di acquisto. Una simile concezione apologetica venne esposta dal Keynes verso la metà degli anni ’30 in rapporto con la sua «teoria» economica generale, ed ebbe una larga diffusione nella letteratura borghese.
In conformità con la sua concezione generale il Keynes assegnò un valore particolarmente grande all’apparente capacità del sistema «ideale» dei corsi di garantire un tale livello e una direzione del commercio internazionale e dell’export di capitale da poter concorrere alla liquidazione della disoccupazione di massa tanto pericolosa per i monopoli. L’economista borghese americano Bloomfield scrive, a tale proposito, riferendo le concezioni di Keynes e dei suoi seguaci: «Il sistema ideale dei corsi valutari si può definire come un sistema che tiene in equilibrio gli interessi internazionali pur in presenza di un livello di piena occupazione».
Nel creare e sostenere il «sistema ideale» dei corsi valutari gli economisti borghesi assegnano un ruolo decisivo alla ingerenza dello Stato e alla «regolazione internazionale».
Il Fondo Monetario Internazionale è uno strumento dell’imperialismo americano, e da esso viene utilizzato per fini aggressivi. Il principio fondamentale della politica valutaria del Fondo – che è in sostanza espressione della politica Usa – consiste nel sostenere una «stabilità» coatta dei corsi delle valute legate al dollaro e nel controllo, da parte del Fondo, sulla variazione dei corsi valutari. La politica del Fondo è una politica di mantenimento, nel mondo capitalistico, di un artificioso «ordine valutario» che crei condizioni favorevoli all’espansione dei monopoli americani.
Questa politica si persegue col concorso del sistema delle parità fisse. Secondo lo statuto del Fondo, una modificazione della parità può aversi soltanto al fine di una «correzione di uno squilibrio fondamentale», oltre che – per cambiare la parità di più del 10% rispetto al livello oridinario – è necessaria l’approvazione del Fondo stesso. In tal modo gli Usa cercano di tenere nelle proprie mani il controllo sui corsi delle valute degli altri paesi, di non ammettere variazioni dei corsi che potrebbero essere svantaggiose per i monopoli americani, e di assicurarsi che l’attuazione delle variazioni dei corsi (in sostanza, delle svalutazioni) si svolga in base alle loro indicazioni e sotto il loro controllo.
La presenza del Fondo Monetario Internazionale e l’attuazione da parte sua della politica economica di Wall Street non solo non hanno attenuato le contraddizioni tra gli Usa e gli altri paesi capitalistici in campo valutario, ma, al contrario, le hanno inasprite. E un importante oggetto di queste contraddizioni è, in particolare, la questione delle parità fisse delle valute.
La fissazione di parità in conformità con lo statuto del Fondo priva i paesi capitalistici della possibilità di manovrare liberamente i corsi delle valute. Nelle condizioni di un processo inflazionistico che si sviluppa irregolarmente nei diversi paesi, di una cronica passività delle bilance dei pagamenti e di un acuirsi della lotta per i mercati di smercio il mantenimento di queste parità sovente diventa oggettivamente impossibile o svantaggioso per i monopoli dei relativi paesi. Per il che alcuni paesi membri del Fondo non hanno stabilito parità fisse. In molti paesi, poi, le parità sono spesso fittizie, data l’applicazione di una pluralità di corsi o di «liberi» corsi controllati accanto alla parità.
Una brusca caduta del potere d’acquisto delle valute in ragione dell’inflazione crea una continua tendenza alla irrealtà e a una maggiorità delle parità, rafforzata altresì dalla passività delle bilance dei pagamenti. Una variazione della parità «per decreto» è possibile soltanto dopo una complessa procedura di esame della questione da parte del Fondo, vale a dire, di fatto, degli uffici bancari di Wall Street. Il lungo processo di maturazione e di preparazione della svalutazione genera una speculazione di massa sull’aumento del corso della valuta, un riflusso dei capitali nella forma di una riduzione dei conti esteri, ritardi dei pagamenti nella valuta data, un accelerato pagamento delle merci da parte degli importatori, ecc. Il che peggiora ancor più la situazione valutaria del paese e mina il corso stesso della sua valuta.
I ribassi a sbalzi e simultanei dei corsi, prodotti in conformità con la procedura del Fondo, generano di regola un rialzo repentino dei prezzi di importazione che ha, quale sua conseguenza, un rafforzamento dell’inflazione e un acuirsi dei conflitti sociali in rapporto con una drastica e troppo evidente caduta del salario reale. L’aumento dei prezzi conseguente alla svalutazione, in particolare se esso si rafforza per l’azione di altri fattori inflattivi, sovente porta a temporanei vantaggi concorrenziali che la svalutazione consente ai settori dell’esportazione.
Le restrizioni valutarie rappresentano uno dei principali aspetti della crisi valutaria. Tutta una serie di fenomeni nel campo dei corsi valutari, e innanzitutto la pluralità dei corsi, è legata all’azione delle restrizioni valutarie.
In presenza di restrizioni valutarie si adotta un corso ufficiale in base al quale gli organi dello Stato e le banche incaricate delle operazioni valutarie acquistano e vendono la valuta. E se la domanda di valuta estera non soddisfa interamente in base al corso ufficiale, consueto effetto delle restrizioni valutarie è la formazione di un libero corso nel cui ribasso rispetto a quello ufficiale si esprime una svalutazione della valuta per azione dell’inflazione della passività della bilancia dei pagamenti che non rispecchia il corso ufficiale artificialmente sostenuto.
Quanto più basso è il libero corso della valuta locale rispetto a quella estera e tanto maggiori sono gli stimoli per gli esportatori e gli altri acquirenti di valuta estera a sottrarsi a una sua restituzione in base al corso ufficiale e a venderla sul libero mercato. Per cui una caduta del libero corso porta a un ulteriore peggioramento della situazione valutaria del paese, mina il corso ufficiale e, in determinate condizioni, rende talvolta inevitabile un suo abbassamento.
Il libero corso della valuta di un dato paese può funzionare sia in questo stesso paese (mercato interno), sia oltre i suoi confini (mercato estero). Sui liberi mercati valutari si effettuano operazioni con valuta estera nella forma di banconote, ma al tempo stesso la valuta si vende anche nella forma di mezzi bancari: di avoirs in valuta estera nascosti agli organi di controllo valutario o autorizzati alla libera vendita, nel mercato interno; nella forma di avoirs bloccati o inconvertibili nella valuta dei paesi che hanno restrizioni valutarie, nei mercati esteri.
Il libero mercato e il corso che in esso viene a formarsi hanno un differente grado di legalità nei singoli paesi. In una serie di casi, per esempio, il libero mercato viene utilizzato dagli organi della Stato, mentre il corso del libero mercato di fatto viene da essi controllato col concorso di restrizioni valutarie e di altre misure. In questi casi accanto a un tale «libero» mercato esiste solitamente ancora un mercato nero (illegale). E un tale fenomeno ha luogo per esempio in Francia, dove, prima del 1949, esistevano tre corsi principali: quello ufficiale, quello «libero» controllato e il corso del mercato nero. Con la sostituzione del corso ufficiale fisso avutasi nel settembre 1949 il corso «libero» (di borsa) ha preso di fatto a svolgere un ruolo di oscillante corso ufficiale, mentre il corso del mercato nero rappresenta un suo inevitabile completamento. Si deve poi osservare che l’illegalità di questo mercato è assai convenzionale e relativa: alle sue operazioni, infatti, prendono parte anche le grandi banche e vi si pubblicano quotidianamente le quotazioni delle valute.
La presenza di un corso ufficiale e di uno libero può considerarsi come una forma originaria della pluralità dei corsi che spontaneamente viene ad aversi in condizioni di restrizioni valutarie, avendo essa quale sua base economica l’inflazione e la passività delle bilance dei pagamenti.
L’applicazione di differenti tipi di restrizioni alle varie operazioni porta a una differenziazione dei liberi corsi. Per esempio, con un diversificato regime di conti esteri nella data valuta sui liberi mercati esterni sorge un intero sistema di liberi corsi per i differenti tipi di conti. Il più caratteristico esempio di ciò è la pluralità dei corsi della lira sterlina dopo la seconda guerra mondiale, che si è ridotta soltanto nel corso degli ultimi anni in rapporto con il relativo miglioramento della situazione valutaria dell’Inghilterra e con l’unificazione e l’attenuazione del regime dei conti esteri.
Per il periodo del dopoguerra è poi caratteristico un largo sviluppo della pluralità dei corsi, che è stabilita dallo Stato borghese e da esso utilizzata quale particolare strumento di politica valutaria e commerciale estera. Il numero dei paesi capitalistici che in varie forme adottano la pluralità dei corsi raggiunge all’incirca i tre decimi.
La differenziazione dei corsi in base ai gruppi di merci dell’import-export e dei tipi di operazioni valutarie svolte, oltreché dei paesi contraenti e delle valute estere, esercita una azione essenziale sulla bilancia commerciale e su quella dei pagamenti di un paese, nonché sulla struttura commerciale e sulla ripartizione geografico-valutaria dell’export e dell’import. Uno dei principali scopi dell’applicazione della pluralità dei corsi è l’artificiosa accelerazione dell’export finanche al dumping. Il che si ottiene di solito mediante la fissazione di diversi corsi ribassati dalla valuta nazionale per l’esportazione. Dall’altro lato, la differenziazione dei corsi sull’import viene utilizzata quale strumento per ridurre l’importazione di singole merci, in particolare di quelle che farebbero concorrenza ai prodotti locali. La pluralità dei corsi non di rado si applica per una particolare accelerazione dell’export nella zona del dollaro e in conformità con una restrizione dell’import dalla stessa zona, il che si ottiene con la fissazione di un corso ribassato della valuta rispetto al dollaro.
Di regola la pluralità dei corsi viene applicata dai paesi poco sviluppati e per i quali le condizioni di un mercato capitalistico che si restringe risultano particolarmente sfavorevoli. Il peggioramento della situazione economica, e in particolare l’acuirsi della «fame di dollaro», ha portato, nei primi anni del dopoguerra, al diffondersi della pluralità dei corsi anche in paesi capitalisticamente evoluti come la Francia e l’Italia.
La pluralità dei corsi concorre ad esasperare le contraddizioni tra i paesi capitalistici. Nella maggior parte dei casi essa ostacola uno sviluppo dell’espansione economica degli Usa, i quali hanno ottenuto di includere nello statuto del Fondo Monetario Internazionale un punto particolare riguardante la inammissibilità di principio della applicazione della pluralità dei corsi. E ciò anche se, in rapporto con la pesante situazione economica e valutaria dei paesi capitalistici, esso è rimasto soltanto sulla carta.
La pratica e i metodi di applicazione della pluralità dei corsi, nei diversi paesi, sono differenti e cambiano continuamente. Anzi, in molti paesi i sistemi di restrizione valutaria e dei corsi valutari sono diventati talmente complessi e confusi da creare un vero e proprio caos valutario.
Accanto a una pluralità dei corsi ufficiali fissi o anche in presenza di un unico corso ufficiale, molti paesi applicano un oscillante corso «libero». E, in una serie di casi, i differenti corsi si applicano a una determinata quota dell’introito valutario dovuto all’export, a seguito di che si hanno dei corsi medi aggiuntivi («misti»).
Negli ultimi anni ha avuto una certa diffusione anche una particolare forma di pluralità dei corsi venutasi a creare in rapporto col sistema della trattenuta, da parte degli esportatori, di una parte degli introiti in valuta che si decide di non consegnare agli organi governativi. Questa valuta, poi, – quasi sempre illegalmente – viene da essi venduta sul libero mercato in base al corso più elevato, a seguito di che l’introito in valuta locale per unità di merce venduta si accresce in modo conforme. Un tal genere di sistema di accelerazione dell’export, in particolare nella zona del dollaro, ha avuto un suo sviluppo in Olanda, Germania Occidentale, Francia, Danimarca, Giappone e in alcuni altri paesi.
Il diffondersi di simili misure, che secondo un giudizio della rivista inglese «Economist» rappresentano «uno strumento di svalutazione concorrenziale e discriminatorio del peggior tipo», concorre all’acuirsi delle contraddizioni tra paesi capitalistici. E contro di esse sono intervenuti, in particolare, il Belgio e l’Inghilterra, i cui interessi si sono rivelati danneggiati.
Unitamente a un parziale indebolimento dei metodi politico-valutari di accelerazione dell’export sulla base di forme particolari di pluralità dei corsi, negli ultimi anni si è avuto un costante sviluppo di altri metodi, e principalmente mediante un ampliamento delle facilitazioni fiscali sull’export e vari privilegi nel settore creditizio e delle garanzie statali sui crediti.
Nel periodo del dopoguerra la riduzione dei corsi delle valute capitalistiche ha avuto di solito il carattere di svalutazioni a sbalzi, oltre che una larga diffusione hanno avuto le svalutazioni sulla base della pluralità dei corsi.
Le svalutazioni effettuate prima della prima guerra mondiale erano di solito un atto di fissazione ufficiale di un nuovo contenuto aureo dell’unità monetaria che più o meno corrispondesse al grado di svalutazione della valuta a seguito dell’inflazione monetario-cartacea. La svalutazione era il compito del processo dell’inflazione e, di solito, apriva un periodo di valuta relativamente stabile con un cambio delle banconote in oro. Una tale caratteristica è stata applicata, con certe restrizioni, anche alle svalutazioni che hanno concluso il periodo di forte svalutazione seguito alla prima guerra mondiale. Nel periodo della crisi degli anni 1929-1933, invece, – e altresì dopo la seconda guerra mondiale, – le svalutazioni già avevano cessato di essere uno strumento di stabilizzazione della valuta. Il loro fine principale, oggi, è il rafforzamento delle posizioni dei capitalisti di un dato paese nella loro lotta per i mercati di smercio. La cosciente creazione di un divario tra svalutazione esterna e interna del denaro, per cui il corso di una valuta cade con maggior forza del suo potere d’acquisto all’interno del paese, prepara le condizioni per un eventuale dumping valutario, e queste svalutazioni hanno un carattere concorrenziale chiaramente espresso. Di regola esse accrescono la generale instabilità delle valute dei paesi capitalistici e concorrono a un ulteriore inasprimento della crisi valutaria.
Un posto particolare nella lunga catena delle svalutazioni seguite alla seconda guerra mondiale lo occupa la svalutazione di massa delle valute capitalistiche del 1949, che costituisce un fatto senza precedenti in tutta la storia dei rapporti valutari. Per le sue proporzioni (ampiezza, grado di riduzione dei corsi e concentrazione nel tempo) essa supera perfino la svalutazione di massa delle valute capitalistiche avutasi con la soppressione dello standard aureo in Inghilterra nel settembre del 1931. Dopo la riduzione del corso della lira sterlina al 30,5% (da 4,03 a 2,80 dollari) attuata il 18 settembre 1949, nel corso di una settimana sono stati ridotti i corsi di altre 26 valute (senza contare quelle delle colonie), e in tutto, prima della fine del 1949, vennero svalutate 35 valute di paesi capitalistici a cui spettava il 65-70% del commercio estero dell’intero mondo capitalistico.
Un importante ruolo nell’attuazione della svalutazione l’ha svolto una malcelata pressione sugli altri paesi da parte degli imperialisti americani, i quali facevano conto che la svalutazione portasse alla creazione di un sistema valutario basato, ancor più di prima, sulla dipendenza delle restanti valute dal dollaro e che avrebbe consentito una più larga espansione dei monopoli americani, innanzitutto mediante l’esportazione di capitali privati.
La crisi valutaria rappresenta la conseguenza e la manifestazione, nella sfera dei rapporti valutari internazionali, dell’approfondirsi della crisi generale del capitalismo e dell’inasprirsi di tutte le contraddizioni capitalistiche.
Espressioni di questa crisi valutaria quali il lungo e periodico processo di deprezzamento delle valute, il carattere caotico della caduta dei corsi valutari, la crescita delle restrizioni valutarie, lo sviluppo della pluralità dei corsi ad essa legato e l’artificioso aumento della parità aurea del dollaro, – tutto questo viola il normale sviluppo dei rapporti economici internazionali e rafforza le contraddizioni dell’intero sistema economico capitalistico.

Edited by Andrej Zdanov - 25/8/2014, 23:13
view post Posted: 18/3/2013, 23:39 Su Breznev (raccolta) - Articoli dei membri della Scuola quadri
CITAZIONE
fu un errore anche la guerra all'Afghanistan .

La guerra influì di certo negativamente sull'economia sovietica. Ma agire altrimenti avrebbe significato tradire l'internazionalismo leninista, negare l'aiuto richiesto dai compagni afghani. Lenin ha insegnato che «l'interesse della rivoluzione operaia internazionale sta al di sopra dell'integrità territoriale, della sicurezza, della tranquillità di questo o quello, e più esattamente del proprio Stato nazionale».

CITAZIONE
Il Conducator voleva emanciparsi dall'URSS brezneviana , che imponeva a essa di diventare un granaio

Domani vi trascrivo un brano di Suslov a riguardo.

CITAZIONE
Comunque,da un punto di vista economico*,è tua opinione che l'URSS dell'era brezneviana stesse effettivamente avanzando verso il comunismo?E' una domanda molto generica e so che richiede un attento studio di parecchie fonti e testimonianze,però mi piacerebbe conoscere il tuo giudizio personale.

Ritengo di sì. Le opere di Suslov testimoniano come in quegli anni stesse proseguendo l'avvicinamento delle due forme della proprietà socialista e il superamento delle differenze tra città e campagna, come anche l'educazione comunista delle grandi masse del popolo e la progressiva diminuzione del peso relativo dell'economia sussidiaria personale. In quell'epoca si raggiunse il socialismo sviluppato, il quale «è il grado, lo stadio di maturità della nuova società, quando si compie la ristrutturazione di tutto l’insieme dei rapporti sociali sulla base dei principi collettivistici intimamente presenti nel socialismo» (L.I. Brežnev, La via leninista, vol. VI, Mosca, 1981, p. 627).

CITAZIONE
assumendo che il partito mantenga come bussola i principi del marxismo-leninismo e continui l'opera di educazione ideologica della società.

un alto livello ideologico, un profondo senso civile ed un elevato livello di maestria artistica costituiscono le esigenze principali del partito e del popolo nei confronti degli esponenti dell’arte (…)
non esistono problemi che riguardino la creazione artistica che si trovino al di fuori della politica (…)
oggigiorno allo sviluppo morale e ideologico delle nuove generazioni, alla loro educazione culturale occorre dedicare non meno attenzione che all’insegnamento delle scienze (…)
Tuttavia la libertà artistica non è un privilegio di pochi eletti. Il partito tiene in grande considerazione il talento e lo ritiene un patrimonio sociale inestimabile. Ma niente e nessuno può esentare l’uomo dalle esigenze e dalle leggi sociali che sono obbligatorie per tutti. È ingenuo pensare che si possano diffamare i principi politico-morali del nostro ordinamento e nello stesso tempo ci si possa aspettare da esso beni e riconoscimenti. E, naturalmente, il popolo non perdonerebbe a nessuno il passaggio dalla parte dei nostri nemici ideologici, in un momento in cui è in corso una durissima lotta a livello mondiale.
(K.U. Černenko, 25 settembre 1984)

Edited by Andrej Zdanov - 19/3/2013, 19:45
view post Posted: 17/3/2013, 14:20 Su Breznev (raccolta) - Articoli dei membri della Scuola quadri
CITAZIONE
Quindi ne potremmo concludere che i maoisti hanno contribuito a diffondere il mito della stagnazione economica,perchè in quel passo di Leninismo o socialimperialismo? da te citato non hanno neanche presentato un minimo di dati.

Esattamente. I maoisti si sono poi spinti molto oltre rispetto ai borghesi, i quali generalmente ammettono che gli anni dell'ottavo piano quinquennale siano stati il miglior periodo per l'URSS, sotto il profilo economico. Gli occidentali se ne resero conto anche perché l'URSS raddoppiò le esportazioni di grano in questo periodo.

CITAZIONE
Comunque volevo chiederti se si conosce qualche cosa sul commercio estero e sui rapporti finanziari con altri paesi,perchè in Titanic europa V.Giacchè parla di prestiti concessi dagli USA anche all'URSS, non dà una precisa collocazione temporale,ma dal contesto si capisce che si tratti degli anni '70-'80.Ora,l'era Breznev termina nel 1982,mentre la crisi dei paesi socialisti si manifesta ampiamente nella seconda metà di quel decennio,e dato che l'autore parla di un insieme di fattori,ovvero il ribassamento dei prezzi delle forniture energetiche,l'aumento dei tassi d'interesse sui debiti,più la corsa al riarmo che avrebbero giocato un ruolo importante nella fine dei paesi socialisti,mi piacerebbe sapere come andarono realmente le cose,perchè sui motivi del crollo dell'URSS se ne sono dette un sacco e mentre la borghesia parla di stagnazione economica,burocrazia,voglia di libertà dei cittadini ecc.,tra i compagni si parla semplicisticamente di deviazione verso il capitalismo da parte del rinnegato Kruschev,senza fare distinzione con il periodo brezneviano nel quale secondo essi sarebbe continuato lo smantellamento dei rapporti di produzione socialisti.

L'URSS ha sempre commerciato con l'Occidente e in particolare con gli USA. Durante il primo piano quinquennale, per esempio, vi furono massicce importazioni di macchinari moderni per l'industrializzazione. Durante gli anni Quaranta si contrassero anche dei debiti con le banche americane (in precedenza, per bloccare l'industrializzazione, l'Occidente non concesse prestiti all'URSS).
Per quanto riguarda gli anni di Breznev (Settanta), il commercio con l'Occidente era così articolato:
a) esportazioni di materie prime, in particolare petrolio, sull'onda della crisi petrolifera dei primi anni Settanta;
b) importazioni di grano;
c) importazioni di macchine tecnologicamente avanzate.
Negli anni Settanta, il clima di distensione internazionale permise un aumento delle importazioni e delle esportazioni verso l'Occidente. Benché l'aumento delle importazioni fosse superiore a quello delle esportazioni, la bilancia commerciale sovietica rimase sempre in positivo, anche nella prima metà degli anni Ottanta. Quanto alle importazioni di grano, occorre rilevare come l'URSS producesse da sola tutto il grano di cui aveva bisogno (basti pensare che il raccolto minimo, durante il decimo piano quinquennale, fu di 179 milioni di tonnellate di grano); ma una parte di esso veniva esportato (come accadeva anche nella seconda metà degli anni Quaranta) negli altri paesi socialisti e progressisti; il che, unito alle condizioni meteorologiche particolarmente avverse di alcuni anni (1972 e 1975, per esempio) e al rapido aumento della popolazione, creava la necessità di importare grano dall'Occidente.
Ulteriori fattori penalizzanti furono le spese militari per la guerra in Afghanistan e il commercio svantaggioso con paesi come Cuba, la quale costava 90 milioni di dollari al giorno sul bilancio dell'URSS, quello strano impero in cui la ricchezza andava dal centro alla periferia.
L'anno peggiore fu il 1981, quando a questi fattori si sommò la contrazione di un debito più grande del solito. La difficoltà fu superata con l'ottimo raccolto dei due anni successivi (superiore a 200 milioni di tonnellate di grano) e il generale miglioramento dell'economia garantito da Andropov, protetto di Suslov negli anni precedenti.
Gorbaciov portò però l'economia al disastro totale, contraendo debiti in misura massiccia con l'Occidente ed ostinandosi ad esportare materie prime, quando la crisi petrolifera era ormai passata e i prezzi erano diminuiti.
Si fecero invece strangolare dal debito in maniera palese la Polonia e la Romania, per questo biasimate dall'URSS. La seconda fu spinta ad avvicinarsi dall'Occidente da alcune azioni sconsiderate di Krusciov, stigmatizzate da Breznev e Suslov nel 1964.
view post Posted: 17/3/2013, 00:03 Belinskij - Precursori
In rete circolano citazioni singole, per esempio:

Il cosmopolita è un fenomeno strano, incomprensibile, ipocrita e senza senso, una manifestazione in cui c’è qualcosa di insipido e di vago. È una creatura corrotta, insensibile, totalmente indegna di essere chiamata con il nome sacro di uomo.

Alcune di esse, analizzate e commentate, si trovano negli Scritti di estetica del grande G.V. Plekhanov.
view post Posted: 16/3/2013, 23:58 Classici del marxismo-leninismo - Scritti di altri autori
L'impostazione del blog non è super partes, in relazione al contrasto tra Breznev, Mao e Hoxha; ciò potrebbe essere espressione di due fenomeni: a) metafisica, in quanto si crede di poter stare al di sopra degli aspetti di una contraddizione in cui noi stessi ci troviamo oppure b) insipienza, mancanza di conoscenza sul contrasto stesso e quindi impossibilità di pronunciarvisi.
La linea del blog, invece, prende apertamente posizione a favore del primo dei tre contendenti, Breznev, i cui scritti non sono ancora presenti in rete, se non nella forma di singole citazioni, ma che viene rappresentato dal manuale di Economia Politica e da quello di A. Sceptulin, risalenti alla sua epoca, oltre che dagli scritti di Mikhail Suslov.
Ciò non implica affatto il rifiuto totale dell'apporto teorico e pratico di Mao e di Hoxha; da loro si prendono gli elementi positivi e si scartano quelli negativi. In questo elenco sono stati inseriti gli scritti di Mao che hanno una valenza universale, considerata valida dal movimento comunista nel suo complesso (anche se certi hoxhaisti criticarono anche le tesi ivi esposte); Mao era infatti considerato un eminente teorico marxista già prima della morte di Stalin, come si nota leggendo il Piccolo dizionario filosofico, a cura di Judin e Rosenthal, pubblicato nel 1955.
Non esistono invece scritti di Hoxha dall'importanza universale o comunque parogonabili alle opere filosofiche di Mao.
view post Posted: 16/3/2013, 21:05 Il socialismo è l’unica alternativa - Scritti di altri autori

Dalle riflessioni di Erich Honecker sulle ragioni e l’esperienza della DDR

Il socialismo è l’unica alternativa


Erich Honecker


Ritengo sia mio preciso dovere spiegare il mio punto di vista sugli avvenimenti drammatici che si sono susseguiti dopo il novembre 1989. Perché, in definitiva, non ci sono solo coloro che si sono affrettati a tradire i loro vecchi ideali e i loro vecchi amici, ma anche le moltissime persone oneste che hanno partecipato a questa lotta, gente intelligente e razionale di tutto il mondo che, nonostante le valutazioni critiche sul passato, non ha abbandonato la speranza di una società nuova, libera dallo sfruttamento capitalista, moderna e socialista. E’ a costoro che mi rivolgo innanzitutto.

Sono ben deciso, finché ne avrò la forza, a non lasciarmi ridurre al silenzio dai vincitori di oggi, come ieri dalla Gestapo. E’ quello che ho fatto in tutta la mia vita di comunista. Vorrei dire, per cominciare, che gli avvenimenti prodottisi nella RDT dopo il mio ritiro dalla presidenza del Consiglio di Stato e da segretario generale del partito mi hanno profondamente scosso. E tuttavia non posso dire che «tutto il mio mondo mi sia crollato addosso». La sconfitta della RDT non ha soppresso la convinzione mia e di altri compagni che il socialismo è l’unica alternativa per una società umana.


La nostra esperienza non sarà stata vana


La «transizione» dal socialismo al capitalismo non riguarda la mia persona, ma tutti coloro che hanno attivamente collaborato alla creazione e alla costruzione della società socialista. Comprendo assai bene quelli che dicono: «non è possibile che abbiamo lavorato invano per quarant’anni!» Hanno ragione! Quello che noi abbiamo fatto in quarant’anni al servizio di un socialismo tedesco continuerà a vivere nei movimenti di lotta del futuro. Penso innanzitutto alla sicurezza sociale per tutti, resa possibile dai rapporti socialisti di produzione. Penso ai veri diritti dell’uomo, come il diritto al lavoro, all’istruzione, l’eguaglianza delle donne. Penso a tutte queste conquiste che parevano scontate ma oggi vengono minate in profondità. Operai, contadini, scienziati, insegnanti, uomini e donne e i nostri giovani che oggi conoscono in tanti la disoccupazione e non hanno prospettive per il futuro, solo con la lotta potranno riconquistare i diritti che avevano prima nella società socialista. Nonostante il crollo incredibilmente rapido della società socialista, nonostante tutti i tradimenti e le miserie che dobbiamo subire, rimane il fatto che non si potrà impedire il passaggio a una società nuova, a un mondo nuovo. Ne devono essere coscienti quelli che hanno non solo letto, ma compreso Marx, Engels e Lenin. Le leggi di sviluppo della società umana sono oggettive. La contraddizione principale del mondo del capitale esiste e continua a esistere, anche se il capitalismo è capace di trasformarsi e adattarsi. Solo quando la contraddizione tra lavoro sociale e proprietà privata della produzione sarà risolta gli individui potranno godere di una vita degna. I limiti con cui la società capitalista si dovrà scontrare apriranno la via al socialismo.


Una gigantesca campagna di calunnie


II 20 agosto 1990, rivolgendosi a Heinz Junge (segretario generale dell’associazione di solidarietà dei deportati di Sachsenhausen nella RFT) e a Werner Cieslak (del partito comunista tedesco della Ruhr-Westfalen) che insieme ad altri comunisti e indipendenti hanno costituito un comitato di solidarietà con Honecker, Rolf Vellay diceva: «Come i nazisti, che dopo il 30 gennaio 1933 per nascondere i loro stessi crimini lanciarono una furiosa campagna di calunnie contro i comunisti, così oggi, dopo le gigantesche opere di manipolazione messe in atto e il rovesciamento controrivoluzionario della RDT, vengono mosse accuse assurde contro i difensori coerenti del socialismo come il compagno Erich Honecker e si perseguitano le loro persone». Parole che descrivono esattamente la situazione attuale in Germania.

Tipico, al riguardo, l’arresto senza processo dei comunisti all’indomani del «cambiamento» e gli arresti succesivi di Willi Stoph, ex primo ministro della RDT, del ministro della difesa Heinz Kessler, del ministro per la sicurezza Erich Mielke, del capo di stato maggiore dell’esercito nazionale popolare, generale Fritz Strelitz e di Heinz Albrecht, membro del Consiglio di Difesa della RDT. All’epoca dell’offensiva alleata contro la Germania hitleriana, Kessler era passato dalla parte dell’Armata Rossa ed era responsabile militare del «Comitato Nazionale Germania Libera». Oggi i media tedeschi lo «accusano» di aver sparato sui soldati tedeschi nella seconda guerra mondiale ….

Assai significativamente, questi arresti arbitrari hanno avuto luogo su richiesta politica della Commissione giuridica del Parlamento della RFT. A questo proposito ho avuto modo di dichiarare il 21 maggio 1991 a Mosca che la Commissione giuridica del Parlamento federale pretendeva, in barba al diritto e alla legalità, di processare Honecker, Stoph, Mielke, Kessler e altri membri del Comitato centrale della SED, del consiglio dei ministri e del Consiglio di Difesa nazionale e ho protestato contro l’arresto dei mie compagni. Non si può assistere in silenzio a questo scempio. Bisogna che tutti i veri comunisti e i democratici tedeschi si chiedano, prima che sia troppo tardi, dove sta andando la Germania riunificata. Possibile che si debba ripetere la storia vergognosa iniziata nel 1933?

Il processo per l’incendio del Reichstag rappresentò per i nazisti il segnale dell’offensiva contro tutti i comunisti e i socialdemocratici e in seguito contro tutti gli antifascisti. La denigrazione della SED e della Stasi, l’epiteto di «assassini» affibbiato alle direzioni del partito e dello stato in riferimento a un «ordine di sparare», devono servire adesso allo stesso scopo? La caccia alle streghe diretta contro gli ex membri della SED a tutti i livelli della società, il tentativo di far passare la SED per un’organizzazione criminale, il divieto di impiego per insegnanti, scienziati, giudici e pubblici ministeri, lo scaricare tutti i costi della riunificazione sulle spalle di operai, contadini, pensionati, donne e giovani, tutto questo sta assumendo proporzioni tali che il mondo intero se ne dovrebbe allarmare. Dove porterà tutto ciò? La domanda si pone sempre più pressante.


La lezione del passato e i segni del presente


Per tutta la vita ho combattuto il fascismo e la guerra. Oggi voglio mettere seriamente in guardia sul fatto che gli anatemi e la criminalizzazione contro le forze di sinistra e insieme gli spazi concessi alla luce del sole ai partiti e ai gruppi neofascisti non sono un affare puramente tedesco. Le più varie forze neofasciste beneficiano di protezioni politiche mentre i comunisti con linguaggio degno di Göbbels vengono chiamati «plebaglia» da eliminare. La campagna governativa ufficiale contro gli stranieri ha assunto dimensioni inquietanti.

E mentre si spargono così semi avvelenati, mentre i pogrom, le uccisioni e gli incendi volontari delle bande fasciste sono all’ordine del giorno, ecco che i loro padri spirituali accusano la SED di esserne responsabile. E’ una campagna rivoltante. Perquisizioni nelle sedi dei partiti di opposizione; attentati dinamitardi durante la campagna elettorale: è forse questa la tanto sbandierata democrazia? E’ questo l’ideale riproposto sempre in tutte le salse dello stato di diritto? O non è piuttosto lo stato che va sempre più a destra? I nazisti sono già presenti nelle assemblee elettive di città come Brema e nella Renania del Nord – Vestfalia. Dappertutto si sente risuonare l’appello tristemente noto al «risveglio» della Germania. L’antisemitismo assume le forme più ripugnanti. I revanscisti mettono apertamente in discussione persino in parlamento la frontiera dell’Oder-Neisse, la frontiera cioè dove è dislocata attualmente la Bundeswehr che, per decisione della maggioranza, potrà essere impiegata d’ora in avanti in qualsiasi regione del mondo. Non ce n’è abbastanza per seminare qualche dubbio, ad est come ad ovest, sul corso sedicente pacifico della «Grande Germania» che si prospetta per il futuro? I più anziani tra noi ricordano bene come queste cose abbiano prodotto all’inizio degli anni trenta avvenimenti terribili, prima nei paesi vicini e poi nel mondo intero. E quando si fa riferimento con così poche sfumature alla volontà della maggioranza ci si può giustamente domandare: non fu forse in un clima di euforia sciovinista che milioni di tedeschi, al grido entusiasta di «Heil», si lanciarono nella guerra dietro le seducenti camice brune? Quando le voci ragionevoli e previdenti che pure si sentono qua e là vengono soffocate, la manipolazione totale dell’opinione pubblica resa possibile dalla potenza dei media moderni può comportare catastrofi altrettanto globali. Questa esperienza i popoli e gli uomini politici della nostra generazione l’hanno fatta. Willy Brandt o François Mitterand lo sanno bene, come me. E lo sanno i popoli dell’Unione Sovietica e della Polonia, come quelli dell’Inghilterra e della Francia. Quando si parla della politica del più potente stato capitalista europeo non si deve perdere di vista il fatto che la lotta per la ripartizione delle sfere di influenza tra le grandi potenze è in piena effervescenza. La lotta si svolge soprattutto con mezzi economici perché i mezzi militari nell’era nucleare non sono adatti. Ma i mezzi militari sono tenuti di riserva, come si vede dallo sviluppo illimitato della qualità degli armamenti e dall’inflazione dei bilanci militari.


Per 40 anni la RDT ha mantenuto la pace in Europa


Alla luce di questi fatti la funzione svolta dalla RDT antifascista per il mantenimento della pace in Europa negli ultimi quarant’anni appare in piena luce. La giustizia tedesca, che non ha mai condannato un solo giudice nazista dei tribunali del regime ma che pretende di essere politicamente indipendente, si appresta a commettere gravi ingiustizie se non le sarà sbarrato il cammino. Gli arresti, le inchieste e i procedimenti giudiziari significano, che lo si ammetta o no, processi politici e terrore politico. Con che diritto la giustizia tedesca giudica la storia? Su che base si arroga il diritto di giudicare quarant’anni di storia tedesca e internazionale? Le regole giuridiche della RDT, che sono state in vigore, in base alle norme del diritto internazionale, finché la RDT è esistita, non possono essere abrogate a posteriori dalla giustizia tedesca, che non ha nessun diritto di giudicare l’ex capo di stato della RDT, l’ex primo ministro, la direzione collettiva del partito e dello stato, e non può condannare gli ufficiali e i soldati della polizia di frontiera e tutti coloro che hanno applicato le leggi del parlamento della RDT eletto dal popolo. Le decisioni di quel parlamento erano in sintonia con le decisioni del Patto di Varsavia. Le accuse di «aver lavorato per la Stasi» o di «aver dato l’ordine di sparare» sono pretesti per perseguire tutti coloro che hanno servito fedelmente la RDT. La criminalizzazione della politica, la caccia alle streghe contro tutti costoro, deve servire a spostare l’attenzione dal fatto che i veri costi della riunificazione – cioè della ricostituzione del potere del capitale nella Germania orientale – colpiscono già pesantemente il popolo dell’ex RDT.

Il già citato compagno Vellay ha scritto che Erich Honecker aveva tempestivamente ammonito che il socialismo e il capitalismo sono come l’acqua e il fuoco, non si possono conciliare. Il crollo economico e le conseguenze sociali catastrofiche dell’introduzione dell’economia capitalista di mercato sono la prova tangibile che questa affermazione era esatta. Il 15 agosto 1990 la Frankfurter Allgemeine Zeitung riportava le seguenti parole di Oscar Lafontaine: «Quando è caduto il muro, la RDT era un paese industriale avanzato. Ora essa ha perduto gli sbocchi per i suoi prodotti. Ecco la conseguenza di una politica finanziaria sbagliata». Non posso che essere d’accordo. Oggi la RDT è un paese in cui più di 40.000 funzionari occidentali superpagati, magistrati, militari e ufficiali di polizia organizzano il caos, governano e prendono tutte le decisioni. Un milione e settecentomila impiegati dei servizi pubblici della RDT, che disponevano di tutte le competenze necessarie, sono stati buttati per la strada. Le «rivelazioni sensazionali» propinate tutti i giorni con storie come quella dell’«ordine del giorno dell’ufficio politico» o della «valigia rossa» servono a sviare l’attenzione dalle vere cause che hanno precipitato la popolazione nell’inquietudine attuale e a far scomparire le conquiste positive ancora esistenti della RDT…

Che arroganza, che cinismo quando il signor Gysi liquida come «feudalesimo» e «stalinismo» quello di cui la gente oggi è stata così crudelmente privata e definisce la SED «partito reazionario». Eppure lui e tutti quelli che parlano come lui hanno sfruttato a piene mani tutte le possibilità che lo stato operaio e contadino poteva offrire alla sua generazione, compresa la sua formazione. Sfortunatamente per la borghesia e i suoi rappresentanti politici, io appartengo al numero di coloro che non abbandonano le armi dopo la sconfitta. Non l’ho fatto, con centinaia di migliaia d’altri, nemmeno nel 1933. Perché ho la ferma convinzione che il socialismo sia la sola alternativa al capitalismo, quali che siano le forme concrete che potrà assumere in avvenire….

La sola esistenza della RDT, un «fenomeno» accettato con tanta fatica dalla reazione, ha influenzato la situazione mondiale assai più di quanto molti non vogliano oggi ammettere. Nel marzo 1991 un vecchio compagno lo diceva in modo assai convincente: «In primo luogo il modello non capitalista della RDT ha esercitato un’influenza notevole sulle contraddizioni socio-economiche della Germania occidentale. L’esistenza della RDT ha spinto i padroni tedesco occidentali a concludere compromessi accettabili, aumentando così l’insieme delle conquiste sociali e anche la stabilità del mercato interno che ha funzionato da sostegno a quello esterno. In secondo luogo la RDT ha sopportato molti sacrifici, che hanno pesato sul suo sviluppo economico – e questo è sempre passato sotto silenzio – per pagare fino all’ultimo centesimo le riparazioni di guerra all’URSS per conto della Germania intera. La RFT avrebbe dovuto versare in conto riparazioni alla RDT 700 milioni di marchi. In terzo luogo, e questa è la cosa più importante, la RDT ha reso possibile la pace tra le superpotenze sulla frontiera essenziale tra la NATO e il Patto di Varsavia, assicurando 40 anni di pace all’Europa e impedendo una terza guerra mondiale!» Sono giudizi assai pertinenti.


Pur con tutti i nostri limiti si poteva vivere meglio di oggi


Nonostante la struttura unificata dello stato, questa è una nazione divisa, ma nessuno può contestare che la politica della RDT non fosse orientata a soddisfare le esigenze popolari. Da noi nessuno viveva sulle spalle del popolo. Tutto quello che veniva prodotto veniva diviso.

Come potevamo garantire, per esempio, il posto in un asilo a tutti i bambini, per di più a titolo praticamente gratuito? Oppure il doposcuola per tutti i bambini dei primi quattro anni? Lo stato e le imprese assicuravano vacanze, sport, cultura, strutture sociali. I fondi delle imprese provvedevano alla formazione politecnica e professionale e pensavano alla specializzazione degli operai, dei dirigenti e degli ingegneri. Per tutti c’era il sistema di istruzione di dieci anni e le numerose scuole professionali e superiori; la società assicurava anche il necessario insegnamento prescolare, i pasti scolastici, le strutture per le persone anziane, la solidarietà popolare, un servizio sanitario molto sviluppato con i policlinici, le numerose attività ricreative organizzate dal sindacato. I giovani avevano una prospettiva; i bambini erano ben curati dalle famiglie e dalla società. Le risorse per le strutture sociali provenivano dalla proprietà sociale, non potevano essere accaparrate da qualcuno. Questa è una caratteristica fondamentale del vero socialismo.

Ma, che lo volessimo o no, il metro di paragone per giudicare la RDT era sempre la RFT. Era una competizione sleale. Già alla fine degli anni ’70 avevo segnalato che il nostro ritardo era quantificabile in un 30%. Non siamo riusciti a colmarlo perché ci sono mancate risorse scientifiche e tecniche decisive. Il fine della nostra politica economica è sempre stato l’elevamento, passo dopo passo, del livello materiale e socio-culturale del popolo… Nonostante la grande quantità di beni di consumo disponibili dopo il 1971, dopo l’8° congresso del partito, non siamo riusciti a progredire senza problemi su quel terreno. Le aspettative della gente, tra cui molti se la passavano piuttosto bene, crescevano più in fretta delle possibilità materiali. Non abbiamo prestato in tempo utile 1′attenzione dovuta alle concezioni consumistiche che crescevano in funzione della pubblicità e di vari altri metodi. Il malcontento comprensibile per la difficoltà a reperire certi articoli rendeva più difficile la vita quotidiana. Eppure, se anche non potevamo sempre importare banane a sufficienza, si poteva vivere bene e a me sembra meglio e con molta più sicurezza che non oggi con l’economia di «libero mercato». La disoccupazione nella Germania orientale è attualmente più elevata di quanto fosse nel 1932 nella repubblica di Weimar.

Il socialismo reale ha impaurito il capitalismo più di qualsiasi critica


La critica del capitalismo, per radicale che possa essere, non è ancora il socialismo. La critica il capitalismo la può sopportare, ma il socialismo, comunque lo si voglia oggi definire, significa la soppressione dei rapporti di produzione capitalisti.

Il passaggio dal capitalismo al socialismo si può realizzare in modo pacifico o non pacifico. Questa tesi, espressa dai partiti comunisti e operai nella loro ultima conferenza nel 1968, non è ancora stata confutata. Ma che i partiti comunisti e operai, dopo il trionfo della rivoluzione, dovessero ritirarsi pacificamente nessuno l’aveva mai affermato. In effetti la pratica dimostra che questa «ritirata» non è affatto pacifica. Lo dimostra la inaudita crescita della reazione nella Germania orientale e negli altri paesi dell’Europa dell’est. Gli avvenimenti che hanno portato alle cosiddette «rivoluzioni pacifiche» fanno parte di quelle colpe di cui Lenin diceva che non si possono ammettere. Di certe filosofie, «elaborate» da alcuni, bisogna dunque che riusciamo a liberarci. Nella fase attuale sembra che il capitalismo sia in piena salute e che il socialismo sia sconfitto. E i rivoluzionari di tutti i paesi si chiedono con angoscia se quello che abbiamo fatto in 75 anni è stato vano o sbagliato. Ma si possono distruggere i partiti comunisti, non la classe operaia. E la classe operaia avrà bisogno del suo partito comunista per spezzare la barriera contro cui inevitabilmente andrà a infrangersi il capitalismo. E voglio aggiungere un particolare che non si deve dimenticare: l’Unione Sovietica oggi è profondamente scossa e sconvolta, ma i comunisti sovietici sapranno affrontare ancora una volta la situazione da rivoluzionari.


Berlino, 1992
view post Posted: 16/3/2013, 16:36 Deposizioni al Processo di Norimberga - Scritti di altri autori
Da Arkadij Poltorak, Storia della seconda guerra mondiale, Rizzoli, 1967, vol. III, pp. 496-497:


Deposizioni al Processo di Norimberga


Durante un periodo compreso fra il 1940 e il 1941 i prigionieri di guerra polacchi nella zona di Smolensk erano adibiti ai lavori di costruzione e riparazione delle strade. Quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica, non fu possibile evacuare i campi in cui erano internati. Nel luglio del 1941 alcune zone della oblast (provincia) di Smolensk vennero occupate dalle armate di Hitler e i prigionieri polacchi caddero nelle mani dei nazisti. Nell’autunno del 1941 tutti quelli che si trovavano nella zona di Katyn, compresa nella oblast di Smolensk, furono trucidati barbaramente dai nazisti e seppelliti in fosse comuni.
Nel 1943 il governo hitleriano, ricorrendo a uno dei suoi abituali, mostruosi atti provocatori, ascrisse I’eccidio di Katyn alle autorità sovietiche.
La Wehrmacht aveva subìto sconfitte disastrose in tutti i settori del fronte tedesco-sovietico. La catastrofe di Stalingrado era già avvenuta. Era ormai chiaro che la Germania di Hitler si stava avviando verso il crollo. Fu in tale situazione che la cricca nazista ricorse alla provocazione di Katyn, asserendo che nella primavera del 1940 le autorità sovietiche avevano trucidato i prigionieri polacchi. L’obiettivo cui miravano con la loro accusa era di seminare il malanimo fra il popolo sovietico e il popolo polacco e di gettare il seme della discordia in campo alleato. Fu così che ebbe inizio “l’operazione Katyn”.
Le autorità naziste raccolsero “esperti sanitari” da tutti i paesi occupati d’Europa e misero insieme una cosiddetta commissione “internazionale”.
Uno dei suoi membri, il professore bulgaro Marko Markov, depose come testimone al processo di Norimberga e in quell’occasione rivelò in quali condizioni aveva svolto il suo lavoro. Basti dire che nel posto della scoperta, dove la commissione avrebbe dovuto espletare le sue indagini su migliaia di cadaveri, i periti si fermarono solo due giorni, il 29 e il 30 aprile 1943. Riportiamo qui un estratto del fuoco di fila di domande cui venne sottoposto il professor Markov.
PUBBLICO MINISTERO: Quante volte i membri della commissione si recarono effettivamente alle fosse di Katyn?
MARKOV: Ci recammo nella foresta di Katyn due volte, precisamente i giorni 29 e 30 aprile, in mattinata.
PUBBLICO MINISTERO: Quante ore dedicaste effettivamente ciascuna delle due volte all’esame delle fosse comuni?
MARKOV: Secondo i miei calcoli, non più di due, tre ore per volta.
PUBBLICO MINISTERO: I membri della commissione presenziarono almeno una volta all’apertura delle fosse comuni?
MARKOV: Nessuna nuova fossa venne aperta in nostra presenza. Si limitarono semplicemente a farci vedere quelle che erano già state scoperte prima del nostro arrivo.
Successivamente Markov riferì in quali condizioni era stato condotto il cosiddetto esame medico-legale. Il referto conclusivo aveva parlato di più di 10.000 salme. Ma su quanti la commissione aveva eseguito veramente l’autopsia? Dalla testimonianza resa da Markov a Norimberga risulta che i cadaveri sezionati furono otto in tutto. “Ciascuno di noi ne sezionò uno… Tutto il resto della nostra attività, durante quei due giorni, ebbe il carattere di una rapida ispezione sotto la guida dei tedeschi, che mi faceva pensare a una gita turistica, durante la quale ci mostrarono le fosse comuni e una casa di campagna … dove in alcune bacheche erano esposti alcuni documenti e altri oggetti personali. Ci dissero che tutto, documenti e oggetti, erano stati rinvenuti indosso ai cadaveri che avevamo sezionato”.
PUBBLICO MINISTERO: Eravate presenti quando i documenti furono rinvenuti sui cadaveri, oppure ve li fecero vedere quando erano stati già raccolti nelle bacheche?
MARKOV: I documenti che vedemmo nelle bacheche vi erano stati collocati prima del nostro arrivo.
Dopo che l’Armata rossa ebbe liberato la oblast di Smolensk, fu istituita una commissione speciale incaricata di stabilire, mediante un’indagine, in quali circostanze si era svolto l’eccidio nella foresta di Katyn. La componevano eminenti personalità del mondo scientifico e culturale: gli accademici N. I. Burdenko, A. N. Tolstoj e V. P. Potemkin, il metropolita Nikolaj e il capo del servizio sanitario dell’Armata rossa, E. I. Smirnov. Contemporaneamente venne nominata una seconda commissione composta dal capo della sezione medicina legale presso il commissariato del popolo per la sanità, V. I. Prozorovskij, dal professore di medicina legale dottor V. M. Smoljaninov, dal professore di anatomia patologica D. N. Vyropaev e da altri esperti.
Dall’inchiesta risultò che le autorità di occupazione tedesche avevano predisposto l’azione provocatoria impiegando circa 500 prigionieri sovietici nei lavori di scavo delle fosse e distruggendo poi i documenti e le altre prove materiali che sarebbero risultati incriminanti per loro e che a lavoro finito, i prigionieri sovietici erano stati fucilati.
È superfluo dire che i falsificatori nazisti avevano presentato alla cosiddetta commissione internazionale documenti che non erano affatto quelli rinvenuti sulle salme. A questo proposito riportiamo un altro passo della deposizione al processo di Norimberga:
PUBBLICO MINISTERO: Vi diedero la possibilità di condurre una ricerca scientifica su questi documenti, ad esempio di analizzare le macchie che gli acidi organici vi avevano lasciato, o di svolgere comunque un’indagine legale o criminologica?
MARKOV: Non ci fu possibile eseguire un esame scientifico dei documenti… non li toccammo neppure.
Al processo di Norimberga l’esperto di medicina legale V. I. Prozorovskij affermò che la maggior parte delle salme dei prigionieri polacchi non era stata affatto esaminata dalla commissione tedesca. In ogni caso, dalla deposizione di Prozorovskij risultò che “soltanto tre delle 25 salme da noi esaminate erano state sottoposte all’autopsia, e anche questa parziale, limitata al cranio”.
Sempre dalla stessa testimonianza risultò che il metodo con cui i prigionieri polacchi erano stati uccisi – con una pallottola alla testa, nella zona dell’osso occipitale – era lo stesso di quello solitamente usato dai nazisti nei territori dell’URSS temporaneamente occupati tra cui le città di Smolensk, Orel, Charkov, Krasnodar e Voronez, per uccidere i prigionieri civili e i prigionieri di guerra sovietici.
Prozorovskij, che aveva preso parte alle indagini condotte nelle varie regioni del territorio sovietico occupato sui luoghi in cui le vittime del terrore nazista erano state seppellite in fosse comuni, dimostrò a Norimberga che perfino il metodo impiegato per mascherare le fosse di Katyn era identico a quello usato nelle altre località: tutte le fosse erano state coperte con un ultimo strato di zolle erbose e su certune erano stati piantati alberi.
Durante la deposizione fatta a Norimberga il professor Markov riferì inoltre che dopo aver eseguito l’autopsia di una sola delle salme non fu in grado di affermare se questa fosse rimasta sotto terra tre anni, come avrebbero voluto indurlo a dichiarare i nazisti. Perciò, nel redigere il referto, si limitò alla parte descrittiva della sezione cadaverica, senza trarne conclusioni.
PUBBLICO MINISTERO: Perché?
MARKOV: Perché dai documenti che ci avevano consegnato compresi che ci volevano suggerire anticipatamente la risposta che i corpi erano rimasti sepolti tre anni… E siccome i dati che avevo potuto ricavare dall’autopsia contraddicevano chiaramente questa tesi, mi astenni dal trarre conclusioni.
Markov descrisse inoltre alla corte, con abbondanza di particolari, quali pressioni psicologiche fossero state esercitate sui membri della commissione per costringerli a firmare una dichiarazione comune dalla quale risultasse che i prigionieri polacchi erano stati trucidati nel 1940. Il documento tedesco asseriva che la dichiarazione era stata compilata e firmata a Smolensk dai membri della commissione. Markov rivelò al tribunale che a Smolensk essi non avevano neppure visto il documento in questione, bensì erano stati condotti per la firma all’isolato campo di aviazione di “Bela”, dove i tedeschi, come ulteriore prova definitiva, esibirono agli esperti il tronco di un alberello tolto – dicevano – da una delle fosse comuni e un “esperto forestale” tedesco asserì che era possibile stabilirne la data del trapianto dal numero degli strati circolari concentrici.
Il pubblico ministero chiese a Markov se era in grado di affermare con sicurezza che l’alberello fosse stato sradicato da una delle fosse comuni o non semplicemente da una radura della foresta. Markov rispose di non poter fare una dichiarazione del genere, dicendo: “Ignoravo se nel posto di provenienza dell’albero vi fossero fosse comuni, perché nessuna, come ho già detto, venne scavata in nostra presenza”.
Fu escusso come testimone anche il vicesindaco di Smolensk all’epoca dell’occupazione tedesca, Boris Bazilevskij, professore di astronomia. Nella sua deposizione confutò le asserzioni dei nazisti che la foresta di Katyn fosse stata nel periodo prebellico una sorta di bandita posta sotto il controllo di pattuglie armate, asserzioni da loro avanzate per corroborare la storia che le autorità sovietiche avevano adibito il posto alle esecuzioni capitali. Bazilevskij, nativo di Smolensk, disse: “Durante i lunghi anni in cui vissi a Smolensk, la località non era proibita, nel senso che chiunque voleva, vi si poteva recare liberamente. Io stesso andai più volte nella foresta, le ultime due nel 1940 e nella primavera del 1941. Fra l’altro li vi era anche il campo dell’organizzazione giovanile dei pionieri”.
Il testimone oculare Bazilevskij riferì al tribunale internazionale che “fino alla primavera e agli inizi dell’estate del 1941 essi [i prigionieri di guerra polacchi] lavoravano al riassetto delle strade Mosca-Minsk e Smolensk-Vitebsk”.
Una deposizione analoga fu fatta dalla testimone M. I. Sasneva davanti alla commissione speciale istituita per indagare la questione delle fosse comuni di Katyn. La donna disse di aver ospitato in casa propria, nel villaggio di Zenkovo, nell’agosto 1941, un ufficiale polacco, Joseph Leon, che era fuggito dal campo di prigionia. Altri testimoni affermarono di aver visto nel settembre 1941 prigionieri polacchi che lavoravano alla riparazione della strada. Il teste I. M. Kartoskin affermò di aver visto con i propri occhi i tedeschi che compivano retate nell’autunno del 1941, rastrellando metro per metro i villaggi, alla ricerca dei prigionieri polacchi fuggiti.
Quindi i testimoni avevano visto i prigionieri polacchi dopo la primavera del 1940, vale a dire dopo l’epoca nella quale, secondo la versione nazista, sarebbero stati trucidati.
Al processo di Norimberga il testimone Bazilevskij riferì un colloquio che egli aveva avuto con il sindaco, Mensatin, un collaborazionista che godeva la massima fiducia delle autorità di occupazione tedesche.
BAZILEVSKIJ: Alla fine di settembre [del 1941] non riuscii più a trattenermi e gli chiesi quale sorte avevano subito i prigionieri di guerra. Mensatin sulle prime si mostrò titubante, poi disse, in tono piuttosto incerto: “Sono già stati liquidati …”.
Mensatin soggiunse di averlo sentito dire da Schwetz, il comandante tedesco di Smolensk, il quale aveva ricevuto l’ordine da Berlino di eliminare tutti i prigionieri di guerra polacchi.
PUBBLICO MINISTERO: Non le disse niente circa il posto in cui erano stati uccisi?
BAZILEVSKIJ: Sì, mi disse che Schwetz gli aveva confidato che la località si trovava nei pressi di Smolensk.
Allo scopo di avvalorare l’accusa calunniosa le autorità naziste inclusero nel loro “documento” le testimonianze di alcuni cittadini di Smolensk, attribuendo particolare importanza alla deposizione di uno di loro, un certo Kiselev. Ma Kiselev (il quale era nato nel 1870) descrisse più tardi in quali condizioni era stato costretto a testimoniare: “Siccome non potevo resistere alle percosse e alle torture, acconsentii a confermare pubblicamente la storia architettata dai tedeschi secondo la quale i prigionieri polacchi erano stati uccisi dai bolscevichi”. I nazisti fecero ricorso agli stessi metodi per estorcere false deposizioni da altri testimoni.
La commissione speciale che condusse un’inchiesta sulle atrocità naziste a Katyn, esaminò le salme di 925 prigionieri di guerra polacchi.
Da un’indagine obiettiva risultò che la stoffa delle uniformi era ancora in buone condizioni. Anche il professor Markov confermò questo particolare al processo di Norimberga (“Ebbi l’impressione che gli indumenti, debitamente ripuliti, avrebbero ancora potuto essere usati”). Le salme esaminate non erano in stato di decomposizione bensì in stato di ritenzione, cioè nella prima fase di perdita degli acidi organici. La commissione di esperti di medicina legale concluse, sulla base di questo e di altri elementi obiettivi: “I corpi dei prigionieri di guerra polacchi sono stati seppelliti circa due anni or sono, fra il settembre e il dicembre 1941″, vale a dire durante il periodo in cui Smolensk era occupata dai nazisti.
Tale conclusione venne confermata da quanto alcuni membri della commissione di esperti poterono rilevare, durante l’esame delle salme, dai documenti personali degli uccisi, che risalivano non soltanto alla seconda metà del 1940, ma anche alla primavera e all’estate del 1941, cioè al periodo in cui i prigionieri polacchi, secondo le asserzioni dei capi nazisti, avevano cessato di vivere da un pezzo.
Infine una prova definitiva, presentata al tribunale militare internazionale, rivelò la provocazione di Katyn.
Il pubblico ministero sovietico L. N. Smirnov sottopose alla corte un incartamento, contrassegnato con la sigla PS-402, “gentilmente trasmessoci dai nostri colleghi americani”. Si trattava di una raccolta di comunicazioni tedesche relative a Katyn. Tra queste vi era un telegramma firmato da un funzionario del governatorato generale di Polonia, certo Heinrich, indirizzato al governatorato stesso. Il telegramma, riservatissimo, diceva che i membri della delegazione della Croce Rossa polacca erano ritornati da Katyn portando con sé bossoli provenienti da cartucce usate sul posto per l’eccidio”. È risultato che si tratta di munizioni di fabbricazione tedesca. Calibro 7,65 mm, ditta “Geko”. Segue lettera.
Dopo che il documento fu reso di pubblica ragione a Norimberga, il pubblico ministero chiese all’esperto sovietico V. Prozorovskij: “Le cartucce rinvenute nelle fosse comuni erano prodotte dalla stessa fabbrica tedesca, e dello stesso calibro, o no?”.
Prozorovskij rispose: “Le pallottole rinvenute nelle ferite provocate da arma da fuoco erano di calibro 7,65 e i bossoli, scoperti durante gli scavi, portavano il marchio della ditta ‘Geko’”.
Fu la prova che smascherò l’atto provocatorio dei nazisti e che stabili con assoluta certezza come si fosse svolto il mostruoso eccidio dei prigionieri di guerra polacchi, ordinato in realtà dalle autorità naziste nella foresta di Katyn.
view post Posted: 15/3/2013, 18:17 Su Breznev (raccolta) - Articoli dei membri della Scuola quadri

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Dati economici dell’URSS brezneviana

Nota pubblicata su Facebook in data 9 dicembre 2012


Tra il 1965 e il 1975, le famiglie in possesso di apparecchi televisivi passarono da 32 a 86 su 100 nelle città e da 15 a 67 su 100 nelle campagne e quelle in possesso di frigorifero rispettivamente da 17 a 87 e da 3 a 45 su 100 […]. Il miglioramento fu comunque generale e particolarmente visibile nelle repubbliche asiatiche, anche grazie ai profitti realizzati mediante i canali dell’“economia sommersa”.

(G. Procacci, Storia del XX secolo, Mondadori, Milano, 2000, p. 414)

3. Le tappe vittoriose dei piani quinquennali

I RISULTATI FONDAMENTALI RAGGIUNTI DALL’OTTAVO PIANO QUINQUENNALE


Durante il XXIV Congresso del PCUS, giunti al momento di fare il punto sui risultati conseguiti dall’economia socialista nell’ottavo piano quinquennale (1966 – 1970), è stato evidenziato che gli obbiettivi di base, sia economici che sociali, sono stati raggiunti. Ancora una volta questi traguardi sono lì a testimoniare in modo incontrovertibile gli enormi vantaggi di cui il sistema economico socialista dispone. In cinque anni la produzione industriale è cresciuta di una volta e mezzo, la quantità media annua di produzione agricola del 21%, il reddito nazionale del 41%, il che ha consentito di elevare di 1/3 il livello dei redditi reali dei lavoratori. Oltre a ciò occorre ricordare che ogni percentuale di crescita registrata nel periodo attuale esprime valori in senso assoluto di molte volte maggiori rispetto ai valori di crescita del quinquennio precedente.

All’epoca Vladimir Majakovskij, riferendosi al primo piano quinquennale, scrisse: “Amo i nostri piani grandiosi, che procedono con passi da gigante.”

I grandiosi obbiettivi del primo piano quinquennale e i risultati da esso conseguiti appaiono oggi di modesta portata di fronte alle conquiste raggiunte oggi dal nostro Paese. Bastino questi dati per giudicare: nel 1970, ultimo anno dell’ottavo piano quinquennale, all’industria sovietica occorreva una settimana soltanto per produrre tanta energia elettrica quanto quella dell’intero 1932, ultimo anno del primo piano quinquennale, 18 giorni per l’acciaio, tre settimane per il petrolio, un mese per il carbone e 9 giorni per gli autoveicoli. Nel solo 1970 la produzione industriale sovietica è stata ben due volte maggiore di tutti i piani quinquennali prebellici messi insieme. Se la nostra economia nel primo piano camminava, oggi galoppa con passi da gigante.

Il significato dell’ottavo piano non sta solo nell’avanzamento della produzione socialista verso nuove e di gran lunga più alte mete, ma anche nei sostanziali mutamenti sociali che sono occorsi in tutto il Paese. Durante l’ultimo quinquennio è stato introdotto il salario garantito per i colcosiani e il suo livello è aumentato del 42%. E’ stato inoltre migliorato il trattamento pensionistico così come la qualità dei servizi alla persona. Ciò ha permesso di avvicinare notevolmente il tenore di vita dei contadini a quello dei cittadini.

Nel Paese si sta realizzando inoltre un notevole innalzamento del grado di scolarizzazione, che oggi sta raggiungendo per tutti il livello medio superiore. Durante l’ottavo piano il popolo ha visto crescere il numero dei laureati di 2,6 milioni e dei diplomati di 4,4 milioni. A titolo informativo ricordiamo che durante il primo piano i laureati furono 170 mila e i diplomati 291 mila.

Nel solo 1970 corsi di istruzione a vario livello hanno raggiunto 79 milioni di persone, praticamente un cittadino su tre dell’Unione Sovietica è studente. In conclusione, il nostro Paese nello scorso piano ha consolidato ulteriormente le basi per l’edificazione del comunismo, processo che continuerà a ritmo ancora maggiore negli anni a venire.

(Economia Politica, Cap. X, p. 223)

Nel Capitolo VIII, a pag. 166, dello stesso manuale di Economia Politica (Terza edizione. Mosca, Politizdat, 1971), è detto inoltre: “Mentre nel periodo dal 1918 al 1968 la crescita industriale sovietica è stata del 9,9% annuo, quella statunitense è si è fermata mediamente ogni anno al 3,7% soltanto.”
Scrive poi, in nota, il traduttore Paolo Selmi: “Anche se nel 1976 era lievemente calata (8,5%) e ciò continua nei dieci anni successivi, fino a giungere nel 1985 al 3,1%, non bisogna dimenticare che nello stesso periodo gli Stati Uniti erano al 1,6% di crescita (fonte Ol’shtynskij, L. I. “Omyshlenie istorii).”

Nell'articolo Leninismo o socialimperialismo? si afferma: “Le azioni perverse della cricca dei rinnegati revisionisti sovietici hanno arrecato enormi danni alle forze produttive della società e hanno causato gravi conseguenze: declino dell’industria, deterioramento dell’agricoltura, riduzione del bestiame, inflazione, insufficienza dei rifornimenti, insolita scarsezza di articoli sui mercati statali e crescente impoverimento del popolo lavoratore. [...] Oggi l’economia dell’Unione Sovietica è in preda a una crisi insanabile.” (Opere di Mao Tse-tung, vol. 24, p. 142)
Tutte le affermazioni, qui, sono campate in aria. Ho già citato dati sullo sviluppo industriale e agricolo, sulla crescita dei redditi reali dei lavoratori. Vediamo ora come andavano le cose nell'allevamento: “Nei kolchoz e nei sovchoz aumentò notevolmente il numero dei capi di bestiame, dai 70,8 milioni di capi del gennaio del 1959 ai 99,2 milioni di capi del gennaio 1971.
Gli obiettivi dell’ottavo piano quinquennale in tutti i principali settori dell’allevamento furono raggiunti: 105,4 per cento nella produzione della carne, 103,2 per cento nella produzione del latte, 105,3 per cento nella produzione delle uova e il 101,5 per cento nella produzione della lana.” (Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale, vol. XIII, p. 40)
Riguardo allo sviluppo dei consumi, per il IX piano quinquennale, come riportato da Suslov nel suo articolo sul Ruolo guida della classe operaia nell’edificazione del comunismo (Il marxismo-leninismo, p. 299), era previsto un aumento della produzione per l'industria pesante del 41-45% e del 44-48% per quella leggera. E si potrebbero citare molti altri dati.
I maoisti proclamano: «Indifferenti alla sorte del popolo, Breznev e soci hanno estorto tasse e imposte esorbitanti, hanno applicato la politica hitleriana dei “cannoni al posto del burro” e hanno accelerato la militarizzazione dell’economia nazionale, per rispondere ai bisogni dell’espansione degli armamenti e dei preparativi di guerra del socialimperialismo» (Ivi).
Ancora asserzioni indimostrate e infondate. Dalla Storia universale dell'Accademia delle Scienze dell'URSS risulta: «Il 1° aprile 1965 il Cc del Pcus e il Consiglio dei ministri dell’URSS approvavano i decreti “Investimenti di capitali nell’agricoltura nel periodo 1966-1970” e “Sostegni economici ai kolchoz”.
[...] Per garantire la redditività ditutti i settori della produzione dei kolchoz e dei sovchoz furono fissati prezzi di acquisto dei prodotti, economicamente giustificati. Tenendo conto delle caratteristiche locali i prezzi di acquisto del frumento e della segale furono aumentati del 12-62 per cento, quelli del bestiame bovino del 20-25 per cento, quelli della carne suina del 30-70 per cento, quelli degli ovini del 10-70 per cento e il prezzo del latte del 10-40 per cento. I prezzi al dettaglio del pane, del grano mondato e della carne restarono però immutati.
[...] Furono annullati debiti dei kolchoz per più di 2 miliardi di rubli. Fu variato anche il metodo di imposizione fiscale sui redditi degli agricoltori che furono da questo momento calcolati non al lordo ma al netto. Di conseguenza gli introiti fiscali derivanti dall’imposta sul reddito pagata dai kolchoz, nel loro complesso, diminuirono della metà» (Ibidem, p. 32).
«Anche se l’elemento fondamentale che determinò l’incremento dei redditi reali fu la ristrutturazione del salario, un ruolo importante in questo fenomeno di crescita fu assolto in questo periodo anche dalla riduzione del prelevamento fiscale.
Nel 1960-1961 fu abolita la contribuzione fiscale sui salari inferiori ai 60 rubli al mese. Contemporaneamente furono ridotte del 40 per cento le tasse sui salari fino a 70 rubli e, agli inizi del 1968, la riduzione dell’imposta fu estesa ai salari fino a 80 rubli. Nel complesso i redditi reali pro capite crebbero nel 1970 del 33 per cento rispetto al 1965, del 55.2 per cento rispetto al 1960 e di quasi quattro volte rispetto al 1940.
I redditi reali dei colcosiani nel corso degli anni 60 aumentarono di circa sei volte» (Ibidem, p. 40).
Alla faccia della pesante tassazione! Se a ciò si aggiunge il fatto che le spese militari dell'anno 1982, nel pieno della guerra in Afghanistan, erano di solamente 17,05 miliardi di rubli (5,3% del bilancio statale), mentre gli investimenti nell'agricoltura per il XI piano quinquennale (1981-85) erano di ben 170 miliardi di rubli*, ogni dubbio sulla veridicità delle affermazioni dei maoisti dovrebbe scemare.

* Dati provenienti dall’Archivio Storico de l’Unità.

Edited by Andrej Zdanov - 16/3/2013, 22:20
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