Archivio Ždanov

Posts written by Alaricus Rex

view post Posted: 14/6/2013, 12:58 La concezione del mondo marxista - Articoli dei membri della Scuola quadri
Innanzi tutto, congratulazioni, compagno. Quanto hai scritto rende ampiamente superflue mie ulteriori osservazioni sul tuo precedente articolo; la lettura dell’opera di Emilio Sereni ha evidentemente lasciato un segno profondo.
Detto questo, vorrei fare le seguenti osservazioni:

1) Nel primo capitolo, alle prove filologiche da te addotte, per confutare ulteriormente la tesi di Colletti (compiutamente elaborata nella voce Marxismo dell’Enciclopedia del Novecento, da lui scritta nel 1979), si può aggiungere il nesso tra il rovesciamento della dialettica hegeliana – il passaggio della dialettica, cioè, dall’idealismo al materialismo –, sostenuto da Marx, e la caduta del sistema, affermata da Engels.
Se la dialettica viene fatta poggiare su di una base materialistica, e noi siamo quindi obbligati, data la priorità della materia sulla coscienza, a tener primariamente conto della materia stessa e ad adattare la teoria in modo corrispondente, senza aggiunte artificiali, ogni sistema viene automaticamente a cadere, rappresentando esso appunto una sovrapposizione idealistica alla realtà materiale. Testimonia a favore del fatto che Engels la pensasse esattamente in questo modo il suo apprezzamento dell’articolo di G.V. Plekhanov Per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel, in cui, dopo aver citato le parole di Marx a proposito del metodo dialettico di Hegel (dal Poscritto alla seconda edizione del Capitale), si afferma (p. 15):

Grazie a Marx, la filosofia materialistica si innalza fino ad una armonica e logica concezione del mondo, che forma un tutto unico. Sappiamo già che i materialisti del secolo scorso erano restati degli idealisti assai ingenui nel campo della storia. Marx ha cacciato l’idealismo da quest’ultimo rifugio. Come Hegel, ha considerato tutti i fenomeni del processo del loro nascere e del loro tramontare; come Hegel, non si è affatto accontentato di una sterile spiegazione metafisica dei fenomeni storici; come Hegel, infine, si è sforzato di ricondurre ad una fonte comune unica tutti i fattori che operano nella vita sociale e che agiscono gli uni sugli altri. Egli non ha rinvenuto questa fonte nello Spirito assoluto, ma nell’evoluzione economica alla quale, come abbiamo visto, Hegel aveva dovuto far ricorso quando l’idealismo si era rivelato un’arma inutile e vana, perfino nelle sue mani abili e forti. Tuttavia ciò che in Hegel restava un’intuizione fortuita più o meno geniale, è divenuta in Marx rigorosa induzione scientifica.

Nella nota introduttiva (in G.V. Plekhanov, Opere filosofiche scelte, vol. I, Edizioni Progress, 1974) al testo plekhanoviano, si citano i commenti positivi di Engels, che ne condivideva in toto il contenuto (compreso l’uso del termine “materialismo dialettico”, per la gioia di Morganti). Da ultimo, non si può dire che Engels disconoscesse il carattere idealistico assunto dalla dialettica in Hegel, data la sua enfasi sulla divisione tra materialismo e idealismo nel Ludwig Feuerbach; in quest’ultima opera, tra l’altro, si trova un passo capace di fugare ogni ulteriore dubbio (p. 30):

Non ci si accontentò di mettere Hegel semplicemente in disparte; al contrario ci si ricollegò a quel suo lato rivoluzionario che abbiamo indicato sopra, al metodo dialettico. Ma nella forma che Hegel gli aveva dato, questo metodo era inservibile. Per Hegel la dialettica è l’autoevoluzione del concetto. Il concetto assoluto non esiste soltanto, – non si sa dove, – sin dall’eternità, esso è anche la vera e propria anima vivente di tutto il mondo esistente. Esso si sviluppa su se stesso attraverso tutti i gradi preliminari che vengono trattati nel modo più ampio nella Logica e che sono tutti racchiusi in lui; infine, esso si «estrinseca» trasformandosi in natura, dove, senza aver coscienza di se stesso, travestito da necessità naturale, compie una nuova evoluzione e giunge infine nuovamente ad aver coscienza di se stesso nell’uomo; questa coscienza di se stesso si elabora ora ancora una volta nella storia partendo dallo stato rudimentale, sino a che infine il concetto assoluto rientra di nuovo completamente in se stesso nella filosofia hegeliana. Per Hegel dunque la evoluzione dialettica che si manifesta nella natura e nella storia, cioè il nesso causale del progresso dall’inferiore al superiore che si realizza attraverso tutti i movimenti tortuosi e momentanei regressi, è soltanto il riflesso del movimento del concetto in se stesso, movimento che si compie dall’eternità, non si sa dove, ma ad ogni modo indipendentemente da ogni cervello umano pensante. Era questa inversione ideologica che si doveva eliminare. Noi concepimmo di nuovo i concetti del nostro cervello in modo materialistico, come riflessi delle cose reali, invece di concepire le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto. [...] Ma in questo modo la dialettica del concetto stesso non era più altro che il riflesso cosciente del movimento dialettico del mondo reale, e così la dialettica hegeliana veniva raddrizzata, o, per dirla più esattamente, mentre prima si reggeva sulla testa, veniva rimessa a reggersi sui piedi.

2) Nel terzo capitolo ipotizzi che Hegel abbia sviluppato prima il sistema e poi la dialettica. Volgendo però lo sguardo alla cronistoria della filosofia hegeliana, si nota che la Fenomenologia dello Spirito (1807), in cui si faceva già ampio uso della dialettica (si pensi, per esempio, alla celeberrima dialettica servo-signore), era concepita come una introduzione al sistema, il quale apparve cronologicamente più tardi, particolarmente nell’Enciclopedia (1817).

3) Ancora nel terzo capitolo, è presente un piccolo errore filologico: la prima edizione della Dialettica della natura di Engels si ebbe nel 1925; quella del 1927 era già una seconda (cfr. l’Avvertenza di L.L. Radice a F. Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, 1971, p. 27).

4) Una notazione sulla convergenza di vedute tra Marx ed Engels sul materialismo dialettico, per smentire definitivamente le ipotesi dei revisionisti a riguardo. Diego Fusaro, allievo di Preve, sostiene: “Strettamente connessa a questa deriva ideologica è la nascita, già sul finire dell’Ottocento, del «materialismo dialettico», una visione generale e onnicomprensiva del mondo (e, per ciò stesso, esulante dall’originario progetto marxiano)” (D. Fusario, Bentornato Marx!, Bompiani, 2009, p. 311). Ne risulterebbe che l’applicazione della dialettica ai fenomeni naturali sarebbe un’indebita aggiunta di Engels, un “tradimento” nei confronti del pensiero di Marx, che la limitava allo studio della società e della sua storia.
Tuttavia, da dove proviene la lunga spiegazione del Capitolo XII della Prima Sezione dell’Anti-Dühring (il cui manoscritto, è bene ricordarlo, fu letto da Marx, il quale ne scrisse anche personalmente un capitolo) sull’applicazione della legge della conversione della quantità in qualità e viceversa alla chimica? Da una notazione di Marx (Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 347), in cui si fa apertamente riferimento all’applicazione di questa legge alla teoria molecolare; di quell’affermazione di Marx, la spiegazione di Engels costituisce soltanto un’illustrazione particolareggiata, comprensibile ai “non addetti ai lavori”. In una lettera a Engels del 22 giugno 1867, Marx fa riferimento a quella sua notazione e sostiene che la legge hegeliana è “ugualmente confermata nella storia e nella scienza naturale” (citato in F. Engels, Dialettica della natura, ediz. citata, Prefazione di Lucio Lombardo Radice, p. 15). Quest’ultima affermazione costituisce un eccellente epitaffio per l’ipotesi di Preve-Fusaro. Senza contare i manoscritti di matematica di Marx e le numerose lettere sulle questioni di scienza naturale, copiosamente citate nella Prefazione di L.L. Radice al testo engelsiano.

5) Nel quarto capitolo, a conferma degli efficaci argomenti da te addotti contro Morganti, si può aggiungere la spiegazione fornita da Stalin per la denominazione della filosofia marxista come “materialismo dialettico”: “Si chiama materialismo dialettico, perché il suo modo di considerare i fenomeni della natura, il suo metodo per investigare e per conoscere i fenomeni della natura, è dialettico, mentre la sua interpretazione, la sua concezione di questi fenomeni, la sua teoria, è materialistica” (Stalin, Del materialismo dialettico e del materialismo storico). Dunque, non si tratta, come crede (o vorrebbe far credere al lettore) Morganti, della materia stessa, a cui viene tautologicamente attribuita la dialetticità, ma del riflesso della materia nel pensiero umano, del modo e del metodo per concepirla, della teoria. Ora, dato che il riflesso della materia nel pensiero dell’uomo può anche essere errato o non interpretato correttamente, in modo idealistico o metafisico, la specificazione del carattere dialettico della teoria è assolutamente necessaria, onde evitare equivoci e indeterminatezza.

Concludo consigliando ancora ai compagni di leggere approfonditamente il tuo scritto, la cui parte dedicata alla scienza risulterà particolarmente utile, almeno fino a quando l’opera di Sereni non sarà digitalizzata.

Edited by Andrej Zdanov - 14/6/2013, 15:38
view post Posted: 13/6/2013, 00:41 Internazionalismo, bandiera dei comunisti - Scritti di altri autori
Dalla «Pravda», 20 aprile 1976:


Internazionalismo, bandiera dei comunisti


I.


[…]

II.


Nel Rapporto del Comitato Centrale al XXV Congresso del PCUS è stato rilevato con particolare forza che ai nostri giorni l’internazionalismo proletario, che è uno dei principi fondamentali del marxismo-leninismo, ha assunto un’importanza particolare, ha ottenuto un vasto appoggio da parte dei partiti fratelli di varie regioni del mondo.
Dall’epoca della sua nascita, nella metà del secolo scorso, l’internazionalismo proletario si è costantemente sviluppato, arricchito. Il suo influsso sullo sviluppo è andato crescendo.
Nel 1847, quando la grande parola d’ordine «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» fu proclamata per la prima volta nel Manifesto del Partito comunista di K. Marx e F. Engels, essa esprimeva sia la comunanza oggettiva degli interessi della classe operaia di tutti i paesi nella lotta contro la borghesia che la decisa volontà dell’avanguardia rivoluzionaria di allora di lottare per un’unione efficace degli operai di diversa nazionalità in questa lotta.
Più tardi, nel corso della seconda metà del secolo, in una serie di paesi sorsero partiti rivoluzionari della classe operaia che si posero sotto la bandiera del comunismo scientifico. Da allora fino ai nostri giorni l’internazionalismo proletario rappresenta la base incrollabile dei rapporti fra i partiti marxisti-leninisti.
Nel 1917 sull’arena della storia mondiale comparve il primo stato socialista, l’Unione Sovietica, che permeò tutta la sua politica internazionale di spirito internazionalista, la costruì sui principi dell’internazionalismo. Il legame reciproco e l’appoggio reciproco fra classe operaia che aveva vinto, socialismo e lavoratori di tutti gli altri paesi divennero da allora una specie di asse dell’internazionalismo proletario, una parte importante della sua sostanza.
La nascita del sistema socialista mondiale portò ad un ulteriore arricchimento del contenuto dell’internazionalismo proletario con la comparsa di nuove forme e principi che riflettono i rapporti fra gli stati della classe operaia vincitrice, fra i loro popoli. Queste norme e principi hanno avuto nei documenti delle conferenze internazionali del 1957 e del 1960 il nome di internazionalismo socialista. M. Thorez al plenum del CC del PCF nel dicembre del 1960, parlando del significato dell’unità degli stati socialisti, sottolineò: «La stretta osservanza dei principi dell’internazionalismo socialista è una legge incontestabile per essi».
Il periodo postbellico è stato caratterizzato anche da un altro importante avvenimento storico, il crollo del sistema coloniale. Stabilendo i loro contatti con gli stati nati sulle rovine degli imperi coloniali i partiti comunisti del mondo anche in questo caso si sono basati sui principi dell’internazionalismo proletario. A loro volta le forze rivoluzionarie dei giovani stati liberatisi si armano dei principi della solidarietà internazionalista.
Questo processo continuo di arricchimento del contenuto dell’internazionalismo proletario, dell’ampliamento della sfera di attività della politica internazionalista ha trovato il suo riflesso in quella parola d’ordine che fu avanzata alla Conferenza internazionale dei comunisti nel 1969: «Popoli dei paesi socialisti, proletari, tutte le forze democratiche nei paesi del capitale, popoli liberatisi e oppressi, unitevi nella lotta comune contro l’imperialismo, per la pace, l’indipendenza nazionale, il progresso sociale, la democrazia e il socialismo!».
L’efficacia di questa parola d’ordine è stata interamente confermata al XXV Congresso del PCUS, dove erano presenti più di cento — il numero più alto negli ultimi anni — delegazioni di partiti comunisti e partiti e organizzazioni democratico-rivoluzionarie. La presenza stessa di queste delegazioni, i loro interventi alla tribuna del Congresso, le idee da loro avanzate, tutto ciò testimonia dell’ulteriore ampliamento e rafforzamento dei legami fecondi dell’internazionalismo che legano indissolubilmente il nostro partito con tutti i reparti del fronte mondiale di lotta per la pace e la libertà dei popoli, per il progresso sociale e il socialismo.

III.


La crescita ulteriore dell’importanza e della funzione dello internazionalismo proletario è condizionata ai nostri giorni da una serie di circostanze. Nei loro interventi al XXV Congresso del PCUS i rappresentanti dei partiti fratelli hanno messo in evidenza a questo riguardo prima di tutto i seguenti momenti principali.
L’influenza, le possibilità del socialismo mondiale, del movimento comunista e operaio, delle forze del movimento di liberazione nazionale sono così notevoli che lo sfruttamento di queste possibilità, di questa potenza negli interessi della pace e del progresso sociale è un sacro dovere di ogni vero rivoluzionario, un suo stretto dovere internazionale di fronte agli uomini che lavorano. E lo sfruttamento di queste possibilità presuppone prima di tutto l’unione internazionale di tutte le forze rivoluzionarie.
Negli ultimi anni è cresciuto e si è rafforzato il movimento comunista. Negli ultimi cinque anni il numero dei comunisti nel mondo non socialista è aumentato di quasi un milione di persone. Si sono notevolmente rafforzate le posizioni di tali partiti fratelli, come il partito italiano (1.700.000 iscritti), indiano (600 mila), francese (500 mila), giapponese (400 mila). Si sviluppano con successo i partiti fratelli nella RFT, Danimarca, Svizzera, Lussemburgo, Sri Lanka, Perù, Equador e in molti altri paesi. Come ha detto nel rapporto al XXV Congresso del PCUS il compagno L. I. Brežnev, il nostro paese, il nostro popolo danno un’alta valutazione dei successi dei fratelli di classe negli altri paesi, delle conquiste dei comunisti di tutto il mondo.
La crescita delle possibilità del movimento comunista porta al fatto che l’ulteriore unione internazionale dei comunisti del mondo si presenta oggi come un compito particolarmente attuale. «Il nostro partito, — ha dichiarato il compagno Kadar, — è convinto che nell’epoca moderna cresce l’importanza dell’internazionalismo proletario».
Inoltre i rappresentanti di molti partiti fratelli hanno rilevato l’importanza di una giusta combinazione fra internazionale e nazionale, generale e particolare nella lotta rivoluzionaria. Di ciò hanno parlato il segretario generale del Partito comunista degli USA G. Hall, il presidente del Partito comunista dell’India compagno A. Dange, il segretario generale del CC del Partito comunista argentino compagno Arnedo Alvarez ed altri. Ha avuto un appoggio completo la tesi avanzata nel Rapporto del CC del PCUS al Congresso, secondo cui la profonda comprensione delle leggi generali di sviluppo della rivoluzione e dell’edificazione del socialismo e del comunismo, il basarsi su di esse insieme all’approccio creativo e tenendo conto delle condizioni concrete in ogni paese sono stati e rimangono un tratto inalienabile dei marxisti-leninisti.
Poi. Nelle condizioni attuali si manifesta in maniera sempre più chiara la crescente integrazione dell’attività delle forze reazionarie imperialistiche sia in campo economico, che politico e sociale. Ciò si fa sentire prima di tutto nella crescita delle compagnie multinazionali, nella tendenza che si manifesta sempre più chiaramente al coordinamento dell’attività dei monopoli e degli istituti politici che salvaguardano i loro interessi su scala mondiale. Una funzione importante viene svolta in questo senso dai blocchi militari imperialistici e prima di tutto dalla Nato. «Questi sforzi coordinati del nemico, — ha detto il primo segretario del partito greco compagno Florakis, — possono e debbono essere respinti dai partiti comunisti e operai».
E infine, intervenendo al Congresso, i rappresentanti di una serie di partiti fratelli hanno rivolto l’attenzione sul fatto che i nemici della pace e del progresso sociale, a cominciare dalla reazione imperialista per finire con i maoisti, nella loro attività antipopolare puntano sempre più sul tentativo di dividere le file dei comunisti, di minare la compattezza del movimento operaio e antimperialista. «Essi, — ha rilevato il segretario generale del CC del Partito comunista della Colombia compagno Vieira, — cercano di mettere dei cunei nel movimento operaio e rivoluzionario internazionale, puntando nel far ciò sul nazionalismo, ricorrono ad ogni genere di calunnie antisovietiche e provocazioni. È una questione d’onore e un dovere di principio quello di intervenire nell’incessante lotta ideologica e politica contro tutte le forme di antisovietismo e in maniera particolare contro la sua variante più rozza, l’assurdo antisovietismo sistematico».
La maggior parte degli ospiti stranieri del Congresso è stata concorde nel sostenere che oggi la lotta contro l’anticomunismo e l’antisovietismo è uno dei criteri principali dell’internazionalismo proletario, una delle premesse decisive del successo nella lotta rivoluzionaria, di liberazione.

IV.


La linea del movimento comunista, la linea dei marxisti-leninisti consiste nella lotta per l’ulteriore rafforzamento dello internazionalismo proletario, per l’aumento dell’efficacia della politica internazionalista. Invece la linea dei nemici del comunismo è una linea rivolta a minare l’internazionalismo proletario, a indebolire la sua efficacia.
I politici e gli ideologi borghesi avanzano diverse considerazioni dirette a calunniare l’internazionalismo, i suoi principi, a minare la forza della solidarietà internazionalista.
Così, ad esempio, viene avanzata la tesi, secondo cui l’internazionalismo è un’arma d’ingerenza di alcuni partiti negli affari degli altri e persino quasi una copertura per l’egemonia dei grossi partiti nei riguardi di partiti meno numerosi. Tuttavia la realtà confuta in modo convincente simili affermazioni. L’internazionalismo proletario unisce organicamente la solidarietà e l’aiuto reciproco dei partiti fratelli con la loro indipendenza, sovranità, uguaglianza, non ingerenza negli affari interni sia delle nazioni che dei partiti comunisti. Il riconoscimento unilaterale solo dell’indipendenza, della sovranità, dell’uguaglianza e della non ingerenza senza la solidarietà e l’appoggio reciproco porterebbe praticamente alla distruzione dell’internazionalismo proletario e con ciò porterebbe a minare le possibilità e le forze di ogni singolo partito fratello. È del tutto chiaro che proprio l’aiuto reciproco e la solidarietà aiutano a difendere l’indipendenza di ogni partito, a rafforzare le sue posizioni nella lotta contro l’imperialismo.
Attacchi contro l’internazionalismo vengono intrapresi tuttavia anche all’interno dello stesso movimento operaio, rivoluzionario. Alcuni affermano, ad esempio, che l’internazionalismo sarebbe superato e che non ci possono essere principi generali internazionali di politica proletaria, comunista. Affermazioni di questo genere contrastano interamente con il vero stato delle cose. «… Rinunciare all’internazionalismo proletario, — ha rilevato al XXV Congresso il compagno L. I. Brežnev, — significherebbe privare i partiti e in generale il movimento operaio di un’arma potente e collaudata».
Un elemento importante dell’internazionalismo sia nella teoria che nella prassi è indubbiamente l’atteggiamento dei reparti nazionali del movimento rivoluzionario verso l’esperienza accumulata da altri reparti di questo movimento.
Talvolta si sente dire che l’esperienza dei paesi socialisti, in particolare dell’Unione Sovietica, non sarebbe adatta da essere utilizzata dagli altri partiti. Che si può dire a questo proposito?
Non c’è dubbio che, e i marxisti-leninisti si sono sempre basati su questo, è impensabile e deve essere esclusa la ripetizione meccanica e il copiare l’esperienza di un partito da parte degli altri partiti. Le condizioni esistenti persino in due paesi confinanti non possono mai essere identiche. Il passato storico del popolo, le sue tradizioni, le particolarità della sua cultura, ecc., di tutto ciò si deve tener conto nell’effettuare la trasformazione rivoluzionaria della società. E nessun partito, che sia veramente marxista-leninista, si permette di imporre la sua esperienza agli altri popoli. Il nostro partito ha ripetutamente dichiarato che ciò è estraneo alla sua politica.
D’altra parte l’esperienza accumulata dal movimento rivoluzionario mondiale, l’esperienza di qualsiasi partito è un aiuto inestimabile per i rivoluzionari di tutti i paesi. Non copiandola, ma studiandola attentamente, traendo lezioni da essa, qualsiasi partito facilita con ciò la via della lotta rivoluzionaria e le ricerche della giusta soluzione dei problemi che gli si pongono. Ed è indubbio che nonostante tutte le differenze della situazione lo studio, la conoscenza dell’esperienza dei paesi, dove è già stata costruita e si sviluppa con successo la società socialista, sono utili anche a quei partiti che lottano per la trasformazione socialista della società nei loro paesi.
I rappresentanti dei partiti fratelli al XXV Congresso del PCUS hanno parlato della grande importanza per loro della esperienza del PCUS. Il nostro partito ha sempre considerato e considera questo atteggiamento verso la sua esperienza come una manifestazione di un approccio internazionalistico, fraterno. Nello stesso tempo, come il PCUS ha ripetutamente dichiarato tale atteggiamento degli amici stimola i comunisti sovietici a considerare le loro azioni con ancora maggiore responsabilità. Come membro della grande famiglia di comunisti del mondo il PCUS ha agito, agisce e agirà sempre in maniera tale da corrispondere con onore all’attenzione e alla fiducia dei comunisti di tutti i paesi.
Il XXV Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica si è svolto sotto la bandiera dell’internazionalismo, sotto la bandiera del rafforzamento delle sue posizioni nel mondo di oggi. Dopo il nostro congresso si sono svolti i congressi del Partito comunista tedesco, del Partito comunista bulgaro, del Partito comunista cecoslovacco, del Partito comunista belga. C’è stato un Plenum del CC della SED dedicato al XXV Congresso del PCUS. Una serie di altri partiti fratelli ha effettuato delle riunioni dei propri organi dirigenti. E tutte queste assemblee dei comunisti, come anche il Congresso del PCUS, hanno confermato interamente la tendenza all’ulteriore rafforzamento dell’internazionalismo proletario, la sua crescente forza ideale e politica.
Nell’internazionalismo c’è garanzia di nuove vittorie della grande causa per la quale conducono la lotta i comunisti del mondo.

Edited by Andrej Zdanov - 19/7/2014, 21:52
view post Posted: 9/6/2013, 12:55 Le vie al socialismo - Scritti di altri autori
Da AA.VV., La via europea al socialismo, Newton Compton Editori, 1976, pp. 218-224:

XIII. PARTITO COMUNISTA UNGHERESE (P.O.S.U.)

FERENC VARNAY
Le vie al socialismo


«Ogni paese arriva al socialismo, questo è ineluttabile, ma non tutti vi arrivano nello stesso identico modo; ognuno conferisce una linea propria alle varie forme di democrazia o di dittatura del proletariato o ai vari ritmi di formazione del socialismo, portata avanti in diversi settori della vita sociale. Nulla potrebbe essere più misero teoricamente e ridicolo praticamente che se qualcuno volesse tratteggiare il futuro solo con un grigio uniforme, “in nome del materialismo storico”».
Lenin scrisse queste righe alle soglie della grande rivoluzione d’ottobre. E quanto più numerosi sono i paesi in cui la rivoluzione socialista è all’ordine del giorno, quanto più numerosi sono i popoli che cominciano a valutare in che modo e per quali vie — e con il minor sacrificio possibile — si possa giungere ad una società in cui non vi sia sfruttamento, tanto più queste parole, rivolte al futuro, risultano motivate.


Forme sempre più varie

In realtà, accanto alla forma sovietica della trasformazione in senso socialista della società, ottenuta nel corso di una grande guerra civile, nella situazione internazionale formatasi dopo la seconda guerra mondiale, molti paesi dell’Europa orientale, tra cui anche il nostro, in considerazione del loro passato storico, delle loro condizioni socio-economiche e delle tradizioni nazionali, crearono una forma democratico-popolare di socialismo, in condizioni relativamente pacifiche. In questo ambito si costituirono delle forme particolari di gestione economica e dell’apparato statale nella Repubblica federale socialista jugoslava, fondata sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione. Nella elaborazione di una nuova società, la Repubblica popolare cinese, vincitrice nella guerra borghese, ha fornito un esempio molto particolare (almeno finché ha seguito i principi del marxismo-leninismo), e ancora di più il Vietnam, che ha proseguito per decenni la sua lotta di indipendenza nazionale, o la Repubblica popolare democratica di Corea, che ha lottato per l’unificazione del paese. A Cuba si ebbe la prima rivoluzione socialista del continente americano, sul terreno della vittoria della guerra popolare antimperialista condotta contro la dittatura estremista reazionaria.
Le linee diverse della transizione al socialismo e dell’edificazione della società socialista esistono nonostante che la rivoluzione socialista abbia vinto per lo più in paesi il cui sviluppo economico-sociale era ad un livello relativamente arretrato, nel momento del passaggio dal capitalismo al socialismo. Non occorre aver troppa fantasia per poter «predire» che in futuro le vie al socialismo saranno sempre più diverse. Le trasformazioni finora realizzate si arricchiranno maggiormente se la rivoluzione socialista verrà all’ordine del giorno in paesi dall’industria moderna e dall’agricoltura sviluppata, o se questa strada verrà intrapresa da qualche popolo recente dell’Asia, dell’Africa o dell’America Latina. Ed è anche molto probabile che, in seguito alle modificazioni dei rapporti di forza internazionali, nemmeno in futuro ci sarà bisogno di una guerra civile ovunque per ottenere la vittoria.
Stabilire la via concreta, l’ora (cioè se la situazione sia matura per la rivoluzione), i mezzi della lotta, è ovunque compito, naturalmente, del partito comunista e delle forze rivoluzionarie di un dato paese. Ma oltre alla diversità delle vie che portano ad una società senza sfruttamento, è importante anche che queste vie portino veramente al socialismo. Cioè non si possono modificare i principi generali, le leggi dello sviluppo socialista. L’essenza della transizione storica dal capitalismo al socialismo, con mezzi pacifici o con la lotta armata, è in ogni caso una qualche forma di dittatura del proletariato, cioè la direzione statale dell’edificazione socialista realizzata dalla classe operaia. Indispensabili sono il consolidamento e lo sviluppo del ruolo di guida dei partiti comunisti, il coordinamento dei compiti nazionali e internazionalisti degli stati socialisti, di pari diritti, indipendenti e sovrani.


L’essenza rivoluzionaria

I comunisti si distinguono sostanzialmente dai riformisti opportunisti per il fatto che sono sostenitori della trasformazione rivoluzionaria della società. I marxisti-leninisti interpretano quest’ultima come la radicale trasformazione dei rapporti privati dei mezzi di produzione, la sostituzione con la proprietà comune della proprietà privata dei mezzi di produzione fondamentali, e la radicale trasformazione del potere politico e dell’apparato dello Stato. Hanno invece sempre considerato come diverse le trasformazioni rivoluzionarie e la violenza armata, la sanguinosa guerra civile.
Già nell’aprile 1917, cioè appena cinque mesi prima dell’insurrezione armata, Lenin riteneva necessario lo sviluppo pacifico della rivoluzione russa. Dopo la vittoria della rivoluzione d’ottobre, nella primavera del 1918, elaborò un progetto di edificazione pacifica del socialismo. In nessun caso dipese dal partito bolscevico l’organizzazione della controrivoluzione, della guerra civile e dell’intervento da parte della borghesia russa e internazionale, né costrinse le masse di operai e contadini sovietici a prendere le armi per promuovere e difendere la rivoluzione. Nel 1918 Lenin disse:
«La storia non ci ha dato quelle condizioni di pace che ci eravamo augurati teoricamente per un certo tempo, che sarebbero auspicabili per noi e renderebbero possibile superare rapidamente questo stadio di transizione». «Il nostro processo di transizione è stato reso più complicato da quelle particolarità della Russia che non esistono ormai più nella maggior parte dei paesi civili. Di conseguenza, non è solo possibile, ma inevitabile, che in Europa questi periodi di transizione siano diversi».
E per chiarire meglio il suo pensiero, aggiunse:
«La cosa è più chiara del sole: un paese arretrato può cominciare più facilmente, perché il suo antagonista è in decomposizione, la borghesia è disorganizzata; ma affinché il processo possa continuare, c’è centomila volte più bisogno di precauzioni, avvedutezza e costanza. In Europa occidentale sarà diverso; sarà infinitamente più difficile cominciare, ma incomparabilmente più facile andare avanti».
Il passaggio alla nuova società, l’edificazione del socialismo, fu molto difficile per la classe operaia sovietica, per il PCUS, anche perché erano i primi. Il PCUS, armato della teoria marxista-leninista, conosceva la direzione generale della via da percorrere, ma non conosceva e non poteva conoscere quei problemi che emergono nei diversi periodi di questo processo. E ancor meno esistono soluzioni già pronte.
Secondo la suggestiva espressione di Lenin, la borghesia, quando andò al potere, trovò «veicoli collaudati, strade preventivamente costruite, meccanismi verificati in precedenza», mentre il proletariato, una volta conquistato il potere, non aveva a disposizione «né veicoli, né vie, nulla che fosse già stato precedentemente sperimentato».
Quei popoli, invece, che si sono avviati alla rivoluzione socialista nella seconda metà degli anni ’40, per la maggior parte non si sono trovati di fronte all’intervento aperto dell’imperialismo internazionale. Per questo hanno varcato il Rubicone, iniziando l’edificazione della nuova società, con molto minor sacrificio.
Tutti questi cambiamenti però non sono avvenuti perché le classi sfruttatrici, in questi paesi, avessero spontaneamente rinunciato al potere e all’opposizione, ma perché, nella vittoria sul fascismo, il potere socialista ha svolto un ruolo fondamentale, in conseguenza del rafforzamento dell’Unione Sovietica, che ha contribuito a modificare sostanzialmente i rapporti di forza internazionali.


Modi pacifici o violenti

Dunque, un grado più o meno intenso della violenza della lotta non è mai dipeso, né alla fine del secondo decennio del secolo, né alla fine degli anni ’40, né dopo, dal proletariato, e questo sarà vero anche in futuro. In qualunque luogo, la classe operaia ha interesse ad ottenere il potere e a costruire la nuova società con il minor sacrificio possibile. Se è stata costretta ad usare la violenza, non è mai dipeso dalla sua volontà, ma dalla misura della resistenza opposta dalle classi dominanti. Per questo la classe operaia e il partito comunista di un dato paese, valutando le possibilità concrete di attuazione della rivoluzione socialista, devono considerare coscienziosamente non solo le forze proprie e dei propri alleati, il potere e il peso della borghesia nazionale e la misura prevedibile della sua opposizione, ma anche le possibilità di aiuto offerte alla borghesia dall’imperialismo internazionale. Sta solo in loro la possibilità di decidere se si possa attuare pacificamente una trasformazione rivoluzionaria della società, o se sia necessario percorrere la via del rovesciamento violento della dittatura borghese.
Come hanno indicato le conferenze dei partiti comunisti e operai del 1957 e del 1960:
«Nelle condizioni attuali, la classe operaia di molti paesi capitalisti, sotto la guida della sua avanguardia e sulla base del fronte operaio, del fronte popolare e di altre forme possibili dell’accordo e della collaborazione politica tra i diversi partiti, ha la possibilità di unificare la maggioranza del popolo, per ottenere il potere statale, senza guerra civile, e di mettere nelle mani del popolo il passaggio dei mezzi fondamentali di produzione».
«Nel caso in cui le classi sfruttatrici facciano ricordo alla violenza contro il popolo, bisogna considerare anche l’altra possibilità, quella di una transizione non pacifica al socialismo. Il leninismo ci insegna, e ce lo dimostra anche l’esperienza della storia, che le classi dominanti non cedono spontaneamente il potere. In simili circostanze, la forma della lotta di classe e il grado di violenza, non dipendono tanto dal proletariato, quanto dal grado di violenza con cui gli ambienti reazionari si oppongono alla volontà della stragrande maggioranza del popolo».
Affinché sia possibile percorrere la via relativamente pacifica della rivoluzione, c’è bisogno della presenza simultanea di tre fattori. In primo luogo, occorre che il partito comunista di un determinato paese sia in grado di raccogliere attorno alla classe operaia rivoluzionaria tutti i lavoratori del paese, i contadini, gli intellettuali, i piccolo-borghesi, tutte le classi e gli strati sociali lavoratori, perché solo con la loro alleanza è possibile infliggere una sconfitta alle forze reazionarie antipopolari. In secondo luogo, deve respingere e isolare i gruppi opportunisti che non vogliono rompere con le classi sfruttatrici e con la loro politica di compromessi priva di principi. Infine, i rapporti di forza internazionali devono essere tali che la borghesia di un determinato paese non possa correre in aiuto dell’imperialismo internazionale, e che l’imperialismo internazionale non possa, se non a rischio di sconfitte ancora più gravi, esportare la controrivoluzione. Le prime due condizioni dipendono molto dalla classe operaia e dal partito comunista, mentre l’ultima consiste soprattutto nelle forze internazionali del socialismo e del progresso.


Possibilità, non certezza

Se ancora non possiamo dire che sia definitivamente scomparsa la possibilità di esportare la controrivoluzione, tuttavia la capacità economica e difensiva dei paesi della comunità socialista ha decisamente ristretto i limiti di questo pericolo.
L’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti che intervengono al suo fianco, esercitano sempre più pressioni sui paesi capitalisti sviluppati, affinché accettino e garantiscano i principi della coesistenza pacifica. Questo trova espressione nell’accordo concluso dall’Unione Sovietica con tutti i paesi capitalisti, e nell’atto finale di Helsinki adottato dai governi del continente europeo.
Tutto questo produce possibilità più favorevoli, condizioni internazionali migliori per le classi operaie dei paesi capitalisti, affinché possano percorrere una via pacifica di transizione al socialismo.
Ma questa è solo una maggiore possibilità, non un’incrollabile certezza. In molti paesi il capitalismo ha ancora un forte apparato militare e poliziesco, un potere economico vigoroso, e mantiene un significativo influsso ideologico tra gli strati lavoratori. E la borghesia è disposta anche a mettere in vendita l’indipendenza del proprio paese se vede in pericolo il suo dominio di classe. Siamo stati testimoni, nel caso del Cile e del Portogallo, della coalizione internazionale della borghesia controrivoluzionaria. Non ci possiamo dimenticare neppure delle minacciose dichiarazioni ripetute dai dirigenti americani, secondo le quali ostacoleranno in tutti i modi la possibilità che i comunisti giungano al potere in un paese appartenente alla NATO. La classe operaia e i partiti comunisti devono perciò prepararsi e preparare le masse lavoratrici ad entrambe le possibilità di lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società.
Al XXV Congresso del PCUS, Leonid Brežnev vi ha fatto le seguenti dichiarazioni:
«La tragedia del Cile non invalida le conclusioni dei comunisti sulla possibilità di vie diverse per la rivoluzione, inclusa anche la rivoluzione pacifica, se esistono le condizioni necessarie. Questa tragedia ci ha certamente ricordato che la rivoluzione deve sapersi difendere. Ci insegna ad essere vigili nei confronti del fascismo odierno e dei tentativi della reazione internazionale. Ci invita a rafforzare la solidarietà internazionale con chiunque intraprenda la via della libertà e del progresso».

Edited by Andrej Zdanov - 30/12/2015, 17:00
view post Posted: 10/5/2013, 19:05 Il fronte polacco - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 25-29:


Il fronte polacco


Durante la campagna contro i polacchi, il compagno Stalin è membro del Consiglio Militare Rivoluzionario del fronte sud-ovest. La disfatta delle armate polacche, la liberazione di Kiev e dell’Ucraina della riva destra del Dnieper, la profonda avanzata in Galizia, l’organizzazione della famosa incursione della prima Armata di cavalleria, – tutto questo è, in misura considerevole, il risultato della sua direzione abile ed esperta.
Lo sfacelo di tutto il fronte polacco in Ucraina e la distruzione quasi completa della III Armata polacca sotto Kiev, gli attacchi fulminei su Berdicev e Gitomir, l’avanzata della I Armata di cavalleria in direzione di Rovno, crearono una situazione che permise anche al nostro fronte occidentale di passare all’offensiva generale. Le successive operazioni del fronte sud-ovest portano le truppe rosse sino alle porte di Leopoli, e soltanto lo scacco delle nostre truppe presso Varsavia impedisce l’attacco su Leopoli, nel momento in cui l’armata di cavalleria, che si trovava a soli 10 chilometri di distanza, stava preparandolo.
Ma questo periodo è così ricco di avvenimenti che per illustrarlo occorrerebbe una documentazione così larga e un’analisi così scrupolosa che questo compito sorpassa il limite che si è posto il nostro articolo.
Questa breve descrizione dell’attività militare del compagno Stalin è lontana dal dare la caratteristica anche solo delle principali sue qualità di capo militare e di rivoluzionario proletario.
Quel che più salta agli occhi è la capacità del compagno Stalin di afferrare rapidamente la situazione concreta e di agire in conseguenza. Nemico acerrimo della negligenza, dell’indisciplina, Stalin, quando gli interessi della rivoluzione lo esigevano, non esitò mai a prendere su di sé la responsabilità di misure estreme e di cambiamenti radicali; se la situazione rivoluzionaria lo richiedeva, egli era pronto a infrangere tutti i regolamenti, tutte le gerarchie.
Il compagno Stalin fu sempre partigiano della disciplina militare e della centralizzazione più stretta, ma a condizione di un’attenta e ferma direzione da parte dei supremi organi militari. Nel rapporto sopra citato al Consiglio della difesa del 31 gennaio 1919, il compagno Stalin scrive, insieme con Dzerzinsky:
“Un’armata non può agire come un’unità a sé stante, completamente autonoma; nelle sue azioni essa dipende interamente dalle armate vicine e soprattutto dalle direttive del Consiglio militare rivoluzionario della Repubblica: l’armata più combattiva può essere sbaragliata, pur rimanendo uguali le altre condizioni, se le direttive date dal centro sono sbagliate e se è priva di un contatto effettivo con le armate contigue. E’ necessario stabilire sui fronti, soprattutto sul fronte orientale, un regime di severa centralizzazione delle operazioni delle diverse armate, per realizzare una direttiva strategica determinata, elaborata seriamente. L’arbitrio o la leggerezza nel fissare le direttive senza un serio esame di tutti i dati, e il rapido cambiamento di direttive che ne consegue, nonché l’incertezza delle direttive stesse, – come il Consiglio militare rivoluzionario della Repubblica lascia che avvenga, – escludono ogni possibilità di una direzione delle armate, portano a uno spreco di forze e di tempo, disorganizzano il fronte”.
Il compagno Stalin ha sempre insistito sulla necessità della responsabilità personale per ogni incarico ricevuto ed ha sempre avuto una vera insofferenza fisica per lo “scaricabarile” tra i vari organismi competenti.
Stalin dedicava una enorme attenzione all’organizzazione del vettovagliamento delle truppe. Egli sapeva e comprendeva che cosa significano per il combattente un buon vitto e dei vestiti caldi. E a Tsaritsyn, a Perm e sul fronte meridionale non si arrestò di fronte a nessun ostacolo pur di rifornire le truppe e renderle così più forti e più resistenti. Nel compagno Stalin riscontriamo i tratti più tipici dell’organizzatore del fronte di classe proletario. Consacrava un’attenzione speciale alla composizione di classe dell’esercito, perché nelle sue file non ci fossero effettivamente che operai e contadini, “elementi che non sfruttano il lavoro altrui”. Egli attribuiva un’enorme importanza allo sviluppo del lavoro politico nell’esercito e fu più volte l’iniziatore della mobilitazione dei comunisti, ritenendo necessario che una forte percentuale di essi fosse mandata al fronte come semplici soldati. Il compagno Stalin era molto esigente nella scelta dei commissari militari. Egli criticò aspramente l’Ufficio panrusso dei commissari militari per aver inviato dei “ragazzi”. Egli diceva:
“I Commissari militari devono essere l’anima del lavoro militare, devono saper trascinare al loro seguito gli specialisti”. (Telegramma da Tsaritsyn, 1918).
Il compagno Stalin attribuiva un’enorme importanza all’ambiente politico delle retrovie dell’esercito. Nel suo rapporto sulla III Armata egli scrive:
“Punto debole della nostra armata è la mancanza di solidità delle retrovie, mancanza di solidità che va spiegata principalmente colla negligenza nel lavoro di partito, coll’incapacità dei Soviet di realizzare le direttive del centro e colla situazione eccezionale, d’isolamento quasi completo, delle commissioni straordinarie locali”.
Il compagno Stalin era particolarmente severo nella scelta delle persone. Senza riguardo per il posto che occupavano, e senza veramente “guardar nessuno in faccia”, destituiva nel modo più brusco gli specialisti, i commissari, i funzionari di partito e dello Stato incapaci. Ma nello stesso tempo sosteneva e difendeva sempre, come nessun altro, coloro i quali, secondo la sua opinione, giustificavano la fiducia che la rivoluzione aveva riposto in loro. Così il compagno Stalin agiva verso i comandanti rossi sicuri, di cui conosceva i meriti. Quando uno dei veri eroi proletari della guerra civile, il compagno Porkhomenko, che fu più tardi comandante della XIV divisione di cavalleria e cadde nella lotta contro le bande di Mahkno, fu, al principio del 1920, condannato per un malinteso alla pena capitale, il compagno Stalin, saputa la cosa, richiese immediatamente e categoricamente la sua liberazione. Si potrebbe citare una grande quantità di fatti simili a questo. Il compagno Stalin sapeva apprezzare profondamente, meglio di chiunque altro, i militanti che avevano dedicato la loro vita alla rivoluzione proletaria, e questo lo sapevano i comandanti, come lo sapevano tutti coloro che ebbero occasione di lottare sotto la sua direzione, per la nostra causa.
Tale fu il compagno Stalin nella guerra civile. E tale egli rimane negli anni che seguirono, anni di lotta per il socialismo.
La guerra civile richiese dal compagno Stalin una enorme tensione di forze, di energia, di volontà e di intelligenza. Egli vi si dedicò intieramente e senza restrizioni. Ma nello stesso tempo ne trasse una grandissima esperienza per il lavoro che egli doveva svolgere in seguito.
Durante la guerra civile, nelle condizioni più diverse e più complicate, il compagno Stalin, grazie alle sue grandi qualità di stratega rivoluzionario, determinò sempre esattamente la direzione fondamentale dell’attacco principale, e, applicando magistralmente i metodi tattici appropriati alla situazione, riuscì a raggiungere i risultati voluti. Questa qualità di stratega e di tattico proletario gli è rimasta anche dopo la guerra civile. Questa sua qualità è nota a tutto il Partito. Meglio di chiunque altro ne potrebbero dir qualche cosa i Trotskji e consorti, che hanno imparato a loro spese che cosa costa il tentativo di sostituire la loro ideologia piccolo-borghese alla grande dottrina di Marx e di Lenin. Lo sanno anche gli opportunisti di destra che, or non molto, sono stati pienamente disfatti.
Anche nella situazione di pace, il compagno Stalin, insieme col C. C. leninista, conduce senza posa, e con non minor successo che nella guerra civile, una lotta implacabile contro tutti i nemici, consci ed inconsci, del partito e dell’edificazione del socialismo nel nostro paese.
Benché il compagno Stalin da molto tempo non appartenga più formalmente all’esercito, pure non ha mai cessato di interessarsi profondamente dei problemi della difesa dello Stato proletario. E anche ora, come negli anni passati, egli conosce l’Armata Rossa della quale è l’amico più vicino e più caro.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 23:29
view post Posted: 10/5/2013, 19:00 Il fronte Wrangel - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, p. 24:


Il fronte Wrangel


Dopo la disfatta di Denikin, l’autorità del compagno Stalin come organizzatore e capo militare di prim’ordine diviene incontestabile. Quando nel gennaio 1920, in seguito ai gravi errori commessi dal comando del fronte, la nostra offensiva si arresta davanti a Rostov, quando di nuovo pesa su di noi la minaccia che le guardie bianche, che hanno ripreso forza, possano annientare i frutti delle nostre vittorie, il Comitato Centrale invia a Stalin il telegramma seguente:
“Data la necessità di stabilire sul fronte del Caucaso una effettiva unità di comando, di sostenere l’autorità del comandante del fronte e dei comandanti di armata, di utilizzare in larga misura le forze e i mezzi locali, l’Ufficio Politico del C. C. ritiene assolutamente necessario che voi entriate immediatamente a far parte del Consiglio Militare Rivoluzionario del fronte del Caucaso… Comunicateci la data della vostra partenza per Rostov”.
Il compagno Stalin acconsente, pur ritenendo che per lo stato della sua salute non lo si dovrebbe far partire. Inoltre teme che questi continui mutamenti non saranno ben compresi dalle organizzazioni di partito locali, che tenderanno ad “accusarmi di passare con leggerezza da un settore del comando a un altro, dato che non vengono informate delle decisioni del C. C.” (telegramma del compagno Stalin del 7 febbraio 1920). Il C. C. dà ragione al compagno Stalin e Lenin il 10 febbraio gli telegrafa: “Non perdo la speranza che… tutto s’accomodi senza il vostro trasferimento”.
Quando Wrangel, approfittando della campagna delle truppe bianche polacche, fece una sortita dalla Crimea creando un nuovo, grave pericolo per il Bacino del Donetz liberato e per tutto il Mezzogiorno, il Comitato Centrale prende la seguente decisione (3 agosto 1920):
“In considerazione dei successi riportati da Wrangel e della situazione allarmante nel Kuban, è necessario riconoscere che il fronte di Wrangel ha un’importanza enorme, e lo si deve considerare come un fronte indipendente dagli altri. Il compagno Stalin è incaricato di formare un Consiglio Rivoluzionario, di concentrare tutta la sua attività sul fronte di Wrangel; Jegorov o Frunze, previo accordo del comandante in capo con Stalin, saranno incaricati del comando del fronte”.
Lo stesso giorno Lenin scrive a Stalin:
“L’Ufficio Politico ha testé proceduto alla delimitazione dei diversi fronti, affinché voi vi occupiate esclusivamente dl Wrangel…”.
Il compagno Stalin organizza il nuovo fronte e solo la malattia lo strappa a questo lavoro.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 22:41
view post Posted: 10/5/2013, 18:57 La I armata di cavalleria - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 22-23:


La I armata di cavalleria


E’ bene soffermarsi ancora su un momento storico tra i più importanti del fronte meridionale e legato al nome del compagno Stalin. Voglio parlare della formazione dell’Armata di cavalleria. Fu il primo esempio di un raggruppamento di divisioni di cavalleria in una formazione così notevole, in una armata. Stalin aveva osservato la potenza delle masse di cavalleria nella guerra civile. Egli comprese concretamente la loro enorme importanza per annientare il nemico. Ma il passato non offriva alcuna esperienza in un campo così nuovo come quello dell’azione di armate di cavalleria. I trattati di tattica non ne parlavano e perciò questa misura suscitò o perplessità o resistenza diretta. Ma Stalin non indietreggiò per questo: una volta convinto dell’utilità e della giustezza dei suoi piani, sempre procedeva, nonostante ogni difficoltà, alla loro realizzazione. L’11 novembre il Consiglio Militare Rivoluzionario riceveva dal fronte meridionale il seguente rapporto:
“Al Consiglio Militare Rivoluzionario della Repubblica.
“Il Consiglio Militare Rivoluzionario del fronte meridionale, nella sua seduta dell’11 novembre, tenendo conto delle condizioni della situazione attuale, ha deciso di formare un’armata di cavalleria composta del I e II corpo di cavalleria e di una brigata di linea (si aggiungerà in seguito ancora una seconda brigata).
“Composizione del Consiglio Militare Rivoluzionario dell’armata di cavalleria: comp. Budionny, comandante dell’armata; membri i comp. Voroscilov e Stciadenko.
Allegato: Decisione del Consiglio Militare Rivoluzionario del fronte meridionale dell’11 ottobre 1919, n. 505-a.
“Vi preghiamo di ratificare la decisione indicata”.
L’armata di cavalleria fu creata, malgrado e persino contro la volontà del centro. L’iniziativa della sua creazione appartiene al compagno Stalin, il quale vedeva con chiarezza tutta la necessità di una simile formazione. Le conseguenze storiche di questa decisione sono ben note a tutti.
Un’altra particolarità caratteristica del compagno Stalin si rivelò nel modo più netto sul fronte meridionale: quella consistente nell’azione a mezzo di gruppi d’assalto, dopo aver fissato le direzioni principali ove concentrare le migliori unità e battere il nemico. Sotto questo rapporto, così come nella scelta della direzione, egli dimostrò una grande capacità.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 22:29
view post Posted: 10/5/2013, 18:55 Il fronte meridionale - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 19-21:


Il fronte meridionale


L’autunno del 1919 è vivo nella memoria di tutti. Si avvicinava il momento decisivo, culminante di tutta la guerra civile. Le orde delle guardie bianche di Denikin, rifornite dagli “Alleati”, sostenute dai loro stati maggiori, avanzavano su Orel. Tutto l’immenso fronte del sud rinculava lentamente. All’interno la situazione non era meno grave. Le difficoltà degli approvvigionamenti erano estremamente aggravate. L’industria si arrestava per insufficienza di combustibile. All’interno del paese, persino a Mosca, gli elementi controrivoluzionari si agitavano. Tula era in pericolo e la minaccia pendeva su Mosca.
Bisognava salvare la situazione. E il C. C. invia sul fronte meridionale il compagno Stalin in qualità di membro del Consiglio Militare Rivoluzionario. Non occorre più nascondere, ora, che prima della sua nomina il compagno Stalin aveva posto al C. C. tre condizioni principali: 1) Trotskji non doveva immischiarsi negli affari del fronte meridionale e non doveva varcare la linea che lo delimitava; 2) doveva essere immediatamente richiamata dal fronte meridionale tutta una serie di collaboratori che il compagno Stalin riteneva inetti a ristabilire l’ordine tra le truppe; 3) dovevano essere immediatamente trasferiti sul fronte meridionale dei nuovi militanti, scelti dal compagno Stalin e capaci di adempiere questo compito. Queste condizioni furono tutte accettate.
Ma per dirigere quell’immensa macchina (dal Volga alla frontiera polacco-ucraina) chiamata fronte meridionale, che comprendeva parecchie centinaia di migliaia di uomini, occorreva avere un piano di operazioni preciso, era necessario venisse chiaramente fissato l’obbiettivo del fronte. Si sarebbe così potuto porre questo obbiettivo alle truppe e, raggruppando e concentrando le forze migliori nelle direzioni più importanti, colpire il nemico.
Il compagno Stalin trova al fronte una situazione molto incerta e grave. Nella direzione principale Kursk-Orel-Tula riceviamo durissimi colpi; l’ala orientale, impotente, segna il passo. Per quanto riguarda il piano di operazioni, gli viene proposto il vecchio piano (di settembre) che consisteva nel portare il colpo principale all’ala sinistra da Tsaritsyn a Novorossisk, attraverso le steppe del Don.
“Il piano fondamentale dell’offensiva del fronte meridionale rimane immutato: il colpo principale, cioè, deve essere dato dal gruppo speciale di Sciorin, al quale incombe il compito di sterminare il nemico sul Don e nel Kuban” (dalle direttive del Comando supremo, settembre 1919).
Dopo essersi reso conto della situazione, il compagno Stalin si decide immediatamente. Respinge categoricamente il vecchio piano, avanza nuove proposte e le sottopone a Lenin nella lettera seguente, la quale parla da sé. Essa è così interessante, mette così brillantemente in rilievo il talento strategico del compagno Stalin, è così caratteristica per il modo deciso di impostare le questioni, che crediamo utile riprodurla per intero:
“Circa due mesi fa il Comando supremo non si opponeva, in principio, a che l’attacco principale fosse sferrato da occidente verso oriente attraverso il bacino del Don. Se egli tuttavia non sferrò questo attacco fu perché si basava sulla «eredità» ricevuta in conseguenza della ritirata delle truppe del sud in estate, cioè sulla dislocazione alla quale spontaneamente sono pervenute le truppe del fronte sud-est, perché una modificazione di essa avrebbe portato una grave perdita di tempo a vantaggio di Denikin… Ma ora la situazione e, di conseguenza, la disposizione delle forze, sono sostanzialmente cambiate: la VIII Armata (armata principale sull’ex fronte meridionale) si è spostata nell’ambito del fronte meridionale e si trova direttamente di fronte al bacino del Donetz; anche il corpo di cavalleria di Budionny (altra forza principale) si è spostato nell’ambito del fronte meridionale; una nuova forza si è aggiunta, – la divisione lettone, – che fra un mese, dopo essersi rinnovata, rappresenterà di nuovo una forza della quale Denikin dovrà tener conto… Che cosa obbliga dunque il comandante supremo (il quartiere generale) a difendere il vecchio piano? Evidentemente la sola testardaggine o, se volete, lo spirito di fazione più ottuso e più pericoloso per la repubblica, alimentato al Comando supremo dal fanfarone «stratega» che vi è addetto… Qualche giorno fa il Comando supremo dette a Sciorin l’ordine di attaccare in direzione di Novorossisk attraverso le steppe del Don, seguendo una linea lungo la quale può darsi sia comodo ai nostri aviatori di volare, ma dove la nostra fanteria e artiglieria non potranno assolutamente avanzare. E’ inutile dire che questa stravagante spedizione (che ci si propone) attraverso un paese che ci è ostile, assolutamente sprovvisto di strade, fa pesare su di noi la minaccia di una disfatta. Non è difficile comprendere che questa marcia attraverso le «stanitse» cosacche, come l’esperienza recente ha dimostrato, può soltanto avere come risultato una più stretta unione dei cosacchi intorno a Denikin contro di noi per la difesa delle loro «stanitse», può soltanto fare di Denikin il salvatore del Don, può soltanto, cioè, rafforzare Denikin. Appunto per questo è necessario immediatamente, senza perder tempo, cambiare il vecchio piano già distrutto dalla pratica, sostituendolo col piano di un attacco principale su Rostov attraverso Kharkov e il bacino del Donetz. In primo luogo, avremo qui un ambiente che non ci è ostile, ma che, al contrario, simpatizza con noi, il che faciliterà la nostra avanzata; in secondo luogo, conquistiamo l’importantissima rete ferroviaria (del Donetz) e l’arteria principale che alimenta l’esercito di Denikin, la linea Voronez-Rostov… In terzo luogo, questa avanzata taglia l’esercito di Denikin in due parti, di cui una, quella costituita dall’armata dei «volontari», la lasciamo in pasto a Makhno, mentre sull’armata cosacca facciamo pesare la minaccia di una sorpresa alle spalle. In quarto luogo, avremo la possibilità di gettar la discordia fra i cosacchi e Denikin, che, nel caso di una nostra avanzata vittoriosa, cercherà di spostare verso ovest le unità cosacche, al che la maggioranza dei cosacchi non acconsentirà… In quinto luogo, noi otteniamo del carbone, mentre Denikin ne rimarrà privo. Questo piano deve essere accettato senza perdere tempo… Ricapitolando: il vecchio piano, già distrutto dalla vita stessa, non deve in nessun caso essere galvanizzato; sarebbe pericoloso per la repubblica e, senza dubbio, migliorerebbe la situazione di Denikin. Bisogna sostituirlo con un altro piano. Le circostanze e le condizioni non sono semplicemente mature, ma ci dettano imperiosamente questo cambiamento… Altrimenti, il mio lavoro sul fronte meridionale non ha ragione di essere, diventa criminale, inutile, il che mi dà il diritto o, meglio, mi obbliga ad andarmene in qualsiasi altro posto, anche al diavolo, pur di non rimanere sul fronte sud. Vostro Stalin”.
Ogni commento a questo documento è superfluo. Quel che più salta agli occhi è il metro col quale Stalin misura la linea più breve delle operazioni. Nella guerra civile la semplice aritmetica è talvolta insufficiente e spesso sbagliata. La via da Tsaritsyn a Novorossisk può risultare molto più lunga per il fatto che passa per regioni le cui popolazioni ci sono ostili, per la loro natura di classe. E, al contrario, il cammino da Tula a Novorossisk può dimostrarsi molto più corto per il fatto che passa per Kharkov, città operaia, per il bacino del Donetz, centro di minatori. In questa valutazione della direzione da prendere si manifestano le principali qualità del compagno Stalin come rivoluzionario proletario, come vero stratega della guerra civile.
Il piano di Stalin fu approvato dal Comitato Centrale. Lenin stesso, di sua mano, scrisse allo stato maggiore dell’esercito l’ordine di cambiare direttive che avevano perduto ogni valore. Il colpo principale sul fronte meridionale fu portato nella direzione Kharkov-Bacino del Donetz-Rostov. Il risultato è noto: fu una svolta nello sviluppo della guerra civile. Le orde di Denikin furono gettate nel Mar Nero. L’Ucraina e il Caucaso settentrionale furono liberati dalle guardie bianche. Il merito immenso di tutto questo spetta al compagno Stalin.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 21:58
view post Posted: 10/5/2013, 18:52 Pietrogrado - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 17-18:


Pietrogrado


Nella primavera del 1919, l’armata delle guardie bianche del generale Judenic, per adempiere l’incarico ricevuto da Kolciak di “impadronirsi di Pietrogrado” e attrarre su di sé le truppe rivoluzionarie del fronte orientale coll’aiuto delle truppe bianche estoni e finlandesi e della flotta inglese, passava repentinamente all’offensiva minacciando seriamente Pietrogrado. La situazione era resa ancora più grave per il fatto che in Pietrogrado stessa erano stati scoperti dei complotti controrivoluzionari, a capo dei quali si trovavano degli specialisti militari addetti allo stato maggiore del fronte occidentale, alla VII Armata e alla base navale di Kronstadt. Parallelamente all’avanzata di Judenic su Pietrogrado, Bulak-Balakhovic aveva riportato una serie di successi in direzione di Pskov. Sul fronte incominciarono i tradimenti. Alcuni dei nostri reggimenti passarono al nemico; tutta la guarnigione dei forti della “Montagna rossa” e del “Cavallo grigio” prese apertamente posizione contro il potere sovietico. Lo smarrimento si impadroniva di tutta la VII Armata; il fronte vacillava; il nemico si avvicinava a Pietrogrado. Bisognava al più presto salvare la situazione.
Il Comitato Centrale ancora una volta sceglie il compagno Stalin. In tre settimane Stalin riesce a operare la svolta. Ben presto vien posta fine all’apatia e alla confusione che regnavano nelle unità; gli stati maggiori si mettono al lavoro; si procede a mobilitazioni successive degli operai e dei comunisti di Pietrogrado; si annientano implacabilmente i nemici e i traditori. Il compagno Stalin si interessa del lavoro operativo del comando militare. Ecco che cosa telegrafa a Lenin:
“Dopo la «Montagna Rossa» è stato liquidato il «Cavallo grigio»; i cannoni che vi si trovavano sono completamente in ordine; si procede rapidamente… (illeggibile)… di tutte le fortezze e di tutti i forti. Gli specialisti della flotta assicurano che la presa della «Montagna rossa» dalla parte del mare capovolge tutti i principi della scienza navale. Non mi resta che piangere sulla cosiddetta scienza. La rapida occupazione della «Montagna» si spiega col fatto che io e i civili in generale siamo intervenuti nel modo più brutale nelle operazioni, giungendo sino ad annullare gli ordini per le operazioni di terra e di mare e ad imporre i nostri propri ordini. Mi sento in dovere di dichiarare che anche in avvenire agirò in questo modo, nonostante tutta la venerazione che nutro per la scienza. Stalin”.
Dopo sei giorni il compagno Stalin riferisce a Lenin:
“Nelle nostre unità è cominciata una svolta. Da una settimana non abbiamo più avuto un solo caso di passaggio individuale e collettivo al nemico. I casi di passaggio dal campo nemico al nostro si fanno più frequenti. In una settimana sono venuti a noi 400 uomini, in maggior parte armati. Ieri, di giorno, è incominciata la nostra offensiva. Malgrado che i rinforzi promessi non siano ancora giunti, non si poteva rimanere oltre sulla linea a cui ci eravamo fermati, perché troppo vicina a Pietrogrado. Per ora l’offensiva si sviluppa con successo; i bianchi fuggono; oggi abbiamo occupato la linea Kernovo-Voronino-Slepino-Kaskovo. Abbiamo fatto dei prigionieri, preso due o più cannoni, delle armi automatiche, delle munizioni. Non si segnalano navi nemiche; a quanto pare, esse temono la «Montagna rossa», che ora è interamente in nostro potere. Mandate d’urgenza a mia disposizione due milioni di cartucce per la VI divisione…”.
Questi due telegrammi danno un’idea completa dell’immenso lavoro creativo svolto dal compagno Stalin per liquidare la situazione disperata che si era creata attorno a Pietrogrado rossa.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 21:01
view post Posted: 10/5/2013, 18:49 Perm - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 13-16:


Perm


Alla fine del 1918 si era creata una situazione catastrofica sul fronte orientale e particolarmente nel settore della III Armata, che era stata costretta ad evacuare Perm. Stretta dal nemico in un semicerchio, questa armata alla fine di novembre era completamente demoralizzata. Dopo sei mesi di combattimenti continui, privi di riserve sicure, con retrovie infide, l’approvvigionamento disorganizzato (la 29° divisione si batté per cinque giorni di seguito, senza avere, letteralmente, un pezzo di pane), a 35 gradi sotto zero, in un paese completamente sprovvisto di strade, su un fronte immenso (più di 400 chilometri) e con uno stato maggiore debole, la III Armata non era in grado di resistere alla pressione delle soverchianti forze del nemico.
Per completare questo quadro desolante, si deve aggiungere che gli ex-ufficiali facenti parte del comando tradivano in massa; che, causa la cattiva selezione dal punto di vista di classe delle truppe, interi reggimenti si arrendevano al nemico; e che v’era un comando inetto. In questa situazione la III Armata si era completamente disfatta e si ritirava in disordine, rinculando in 20 giorni di 300 chilometri e perdendo, nello stesso periodo di tempo, 18 mila combattenti, decine di cannoni, centinaia di mitragliatrici, ecc.. Il nemico cominciò ad avanzare rapidamente minacciando seriamente Viatka e tutto il fronte orientale.
Questi avvenimenti posero davanti al C. C. il problema della necessità di venire in chiaro sulle ragioni della catastrofe e di ristabilire senza indugio l’ordine nelle unità della III Armata. Chi mandare per adempiere questo difficilissimo incarico? E Lenin telegrafa al presidente del Consiglio Militare rivoluzionario della Repubblica:
“Da Perm riceviamo dalle organizzazioni di partito una serie di informazioni sulla situazione catastrofica dell’armata e sull’ubriachezza che vi regna. Ho pensato di mandare Stalin: temo che Smilga sia debole verso… il quale, a quanto si dice, beve e non è in grado di ristabilire l’ordine”.
Il C. C. prende la decisione seguente:
“Nominare una commissione d’inchiesta di partito composta dei membri del C. C. Dzerzinsky e Stalin, per procedere a un’indagine approfondita sulle cause della resa di Perm e delle ultime sconfitte sul fronte degli Urali, come pure per spiegare tutte le circostanze che hanno accompagnato gli avvenimenti suddetti. Il C. C. incarica la commissione di prendere tutte le misure necessarie per il rapido ristabilimento del lavoro sia di partito che dei Soviet in tutto il territorio della III e della II Armata”. (Telegramma di Sverdlov. N°00079).
Questa decisione pare limiti le funzioni dei compagni Stalin e Dzerzinsky a “un’inchiesta sulle cause della resa di Perm e delle ultime sconfitte sul fronte degli Urali”. Ma il compagno Stalin porta il centro di gravità del suo lavoro di “inchiesta di partito” sulle misure pratiche da prendere per raddrizzare la situazione, rinforzare il fronte, ecc.. Già nel primo telegramma a Lenin del 5 gennaio 1919, sui risultati del lavoro della commissione, Stalin non fa parola delle “cause della catastrofe” e pone, invece, il problema di ciò che occorre fare per salvare l’Armata. Ecco il telegramma:
“Al compagno Lenin, presidente del Consiglio della difesa.
“Abbiamo incominciato l’inchiesta. Vi terremo al corrente del suo andamento. Per ora riteniamo necessario segnalarvi un bisogno urgente, non dilazionabile, della III Armata. Si tratta di questo: della III Armata (più di 30 mila uomini) rimangono appena circa 11 mila soldati stanchi, estenuati, che male sono in grado di resistere alla pressione del nemico. Le unità mandate dal comando superiore non sono sicure, in parte ci sono persino ostili e necessitano di un’accurata selezione. Per salvare i resti della III Armata e allontanare il pericolo di una rapida avanzata del nemico sino a Viatka (secondo tutti i dati avuti dai comandanti del fronte della III Armata, questo pericolo è reale), occorre «assolutamente» mandare «d’urgenza» dalla Russia, a disposizione del comandante dell’armata, almeno 3 reggimenti «completamente» sicuri. Preghiamo insistentemente di far pressione in questo senso sui rispettivi organismi militari. Ripetiamo: se non si prende questa misura, Viatka è minacciata di subire la sorte di Perm; è l’opinione generale dei compagni che partecipano al lavoro, opinione alla quale, basandoci sui dati che possediamo, noi ci associamo. Stalin, Dzerzinsky. Viatka, 5 gennaio 1919”.
E solo il 13 gennaio 1919 il compagno Stalin invia, insieme col compagno Dzerzinsky, il suo breve rapporto preliminare sulle “cause della catastrofe”, le quali si riducono principalmente ai punti seguenti: stanchezza ed esaurimento dell’armata al momento dell’offensiva nemica; mancanza da parte nostra, in quel momento, di riserve; distacco dello stato maggiore dall’armata; disordine nel comando d’armata; metodo inammissibile e criminale, da parte del Consiglio Militare Rivoluzionario della Repubblica, di dirigere il fronte, paralizzandolo con direttive contraddittorie e che gli toglievano ogni possibilità di dare rapidamente aiuto alla III Armata; poca sicurezza, dovuta ai vecchi metodi di formazione delle unità, dei rinforzi mandati dalle retrovie; debolezza estrema delle retrovie, risultato della completa impotenza e incapacità delle organizzazioni sovietiche e di partito.
Intanto il compagno Stalin indica ed applica, con la rapidità e la fermezza che gli sono proprie, tutta una serie di misure pratiche per elevare la combattività della III Armata.
“Fino al 15 gennaio – leggiamo in un suo rapporto al Consiglio della difesa – sono stati mandati al fronte 1200 soldati sicuri tra fanteria e cavalleria; il giorno dopo uno squadrone di cavalleria. Il 20 è stato mandato il 62° reggimento della III brigata (scrupolosamente filtrato prima della partenza). Queste unità hanno dato la possibilità di contenere l’offensiva del nemico, hanno radicalmente trasformato il morale della III Annata, hanno incominciato l’offensiva su Perm, che prosegue con successo. Nelle retrovie dell’armata si procede a una severa epurazione degli organismi di partito e sovietici. A Viatka e nei capoluoghi di circondario sono stati organizzati dei comitati rivoluzionari. Tutta l’attività dell’amministrazione sovietica e delle organizzazioni di partito sta riorganizzandosi su nuove basi. Il controllo militare è stato epurato e riorganizzato. Epurata e arricchita di nuovi quadri comunisti la Cekà provinciale. Incominciamo a scongestionare il nodo ferroviario di Viatka…”, ecc..
In seguito a tutte queste misure, non solo si riuscì a fermare l’avanzata del nemico, ma nel gennaio 1919 il fronte orientale passava all’offensiva e alla nostra ala destra veniva occupata Uralsk.
Ecco in qual modo il compagno Stalin comprese e portò a termine il suo compito di “fare un’inchiesta sulle cause della catastrofe”. Egli fece l’indagine, mise in chiaro queste cause e, sul posto, con tutte le sue forze, le eliminò e operò la svolta necessaria.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 15:49
view post Posted: 10/5/2013, 18:46 Tsaritsyn - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 6-12:


Tsaritsyn


Il compagno Stalin iniziò la sua attività militare sui fronti di Tsaritsyn (poi Stalingrado n.d.r.), e in modo abbastanza fortuito. Al principio di giugno del 1918 il compagno Stalin, con un distaccamento di soldati rossi e due autoblindate, è inviato a Tsaritsyn per organizzare tutti gli approvvigionamenti della Russia meridionale. A Tsaritsyn trova non soltanto un caos incredibile nelle organizzazioni sovietiche, sindacali e di partito, ma una confusione ancora peggiore, e una situazione inestricabile negli organi del comando militare. Il compagno si urta ad ogni passo in ostacoli di carattere generale, che gli impediscono di adempiere il suo compito immediato. Questi ostacoli erano dovuti soprattutto al rapido sviluppo della controrivoluzione cosacca che, in quel momento, era fortemente appoggiata dai tedeschi che avevano occupato l’Ucraina. Le bande controrivoluzionarie cosacche occupano in poco tempo tutta una serie di località vicine a Tsaritsyn e in questo modo non soltanto distruggono ogni possibilità di incetta sistematica del grano per le popolazioni affamate di Mosca e di Leningrado, ma creano una situazione estremamente pericolosa per la stessa Tsaritsyn.
Né in quel momento la situazione è migliore altrove. A Mosca scoppia la rivolta dei socialisti-rivoluzionari di sinistra, all’est Muraviev tradisce; negli Urali si sviluppa e si rafforza la controrivoluzione cecoslovacca; alla frontiera meridionale, gli inglesi marciano su Bakù. Si è circondati da un cerchio di fuoco. La rivoluzione attraversa le più terribili prove. Pei fili del telegrafo si succedono, uno dietro l’altro, i telegrammi di Lenin al compagno Stalin e di Stalin a Lenin. Lenin, preavvertito dei pericoli, incoraggia, esige misure decisive. La situazione di Tsaritsyn acquista una importanza enorme. Se il Don insorge e se perdiamo Tsaritsyn corriamo il rischio di perdere tutto il Caucaso del Nord, ricco produttore di grano. E questo il compagno Stalin lo comprende perfettamente. Rivoluzionario esperto, egli giunge presto alla convinzione che il suo lavoro darà un risultato a una sola condizione, – che egli riesca ad esercitare una influenza sul comando militare la cui funzione, nelle condizioni del momento, diventa decisiva.
“La linea al sud di Tsaritsyn non è ancora ristabilita”, scrive egli a Lenin in una nota del 7 luglio, seguita da un poscritto caratteristico: “Mi affretto verso il fronte, scrivo soltanto di ciò che riguarda il lavoro”.
“Scaccio e rimprovero chi di dovere. Spero che la linea sarà presto ristabilita. Potete esser certo che non risparmieremo nessuno, né noi stessi né gli altri e il grano lo daremo ad ogni costo. Se i nostri “specialisti” militari (ciabattini!) non dormissero e non fossero dei fannulloni, la linea del fronte non sarebbe stata spezzata; e se la linea sarà ristabilita lo sarà non grazie ai militari, ma loro malgrado”.
E poi, rispondendo alla preoccupazione di Lenin circa la possibilità di un’azione dei socialisti rivoluzionari di “sinistra” a Tsaritsyn, scrive in termini brevi, ma fermi e chiari:
“Quanto agli isterici, state sicuro che non ci tremerà la mano; coi nemici agiremo da nemici”.
Esaminando sempre più attentamente l’apparato militare, il compagno Stalin si convince della completa impotenza di esso e del fatto che in parte manca persino la volontà di organizzare la resistenza alla controrivoluzione che diventa arrogante.
E già l’11 luglio 1918 il compagno Stalin telegrafa a Lenin:
“Le cose si complicano per il fatto che lo stato maggiore del Caucaso settentrionale si dimostra assolutamente incapace di adeguarsi alle condizioni della lotta contro la controrivoluzione. Il grave è che non soltanto i nostri “specialisti” sono psicologicamente inadatti a una lotta decisiva contro la controrivoluzione, ma che essi nella loro qualità di ufficiali “di stato maggiore”, capaci solo di “abbozzare dei tracciati” e di fare dei piani di rimaneggiamento delle formazioni, guardano con assoluta indifferenza alle azioni operative… e, in generale, si considerano come degli estranei, degli ospiti. I commissari militari non sono riusciti a colmare questa lacuna…”.
Il compagno Stalin non si limita a dare questa caratteristica implacabile; nella stessa nota egli trae la conclusione pratica per la sua attività:
“Non mi sento in diritto di rimanere indifferente davanti a questo stato di cose, quando il fronte di Kalinin (che allora dirigeva le operazioni nel Caucaso settentrionale, V.) è tagliato fuori dai punti di vettovagliamento e il Nord lo è dalle regioni cerealicole. Metterò fine, sul posto, a queste ed a molte altre insufficienze. Prendo una serie di misure e ne prenderò delle altre sino alla destituzione dei funzionari e comandanti che compromettono la nostra causa, e ciò malgrado le difficoltà di forma, che all’occorrenza saprò spezzare. Naturalmente prendo su di me tutta la responsabilità di fronte a tutti gli organi superiori”.
La situazione diventava sempre più tesa. Il compagno Stalin spiega un’energia colossale e, in breve, da commissario straordinario per l’approvvigionamento diventa, di fatto, il dirigente di tutte le forze rosse del fronte di Tsaritsyn. Questa situazione riceve una sanzione ufficiale a Mosca e al compagno Stalin sono affidati i compiti di:
“Ristabilire l’ordine, riunire i reparti in unità regolari, costituire un vero comando, cacciare tutti quelli che rifiutano di obbedire” (dal telegramma del Consiglio Militare Rivoluzionario della Repubblica che porta la menzione: “Il presente telegramma è spedito in accordo con Lenin”).
In quel momento si trovavano sotto a Tsaritsyn i resti delle armate rivoluzionarie dell’Ucraina, ritiratesi attraverso le steppe del Don sotto la pressione delle truppe tedesche.
Sotto la direzione del compagno Stalin si crea un Consiglio Militare Rivoluzionario che procede all’organizzazione di un esercito regolare. L’ardente natura del compagno Stalin, la sua energia e volontà ottennero ciò che il giorno prima pareva ancora impossibile. In un periodo di tempo brevissimo si creano divisioni, brigate e reggimenti. Lo stato maggiore, gli organi del vettovagliamento e tutte le retrovie sono ripulite radicalmente degli elementi controrivoluzionari e ostili. L’apparato sovietico e di partito si migliora e si mostra più energico. Attorno al compagno Stalin si raccoglie un gruppo di vecchi bolscevichi e di operai rivoluzionari e invece di uno stato maggiore impotente sorge nel sud, alle porte del Don controrivoluzionario, una rossa fortezza bolscevica.
In quel periodo Tsaritsyn rigurgitava di controrivoluzionari di tutte le risme, dai socialisti rivoluzionari di destra e dai terroristi sino ai monarchici incarogniti. Tutti questi signori, sino all’arrivo del compagno Stalin e a quello dei reparti rivoluzionari dell’Ucraina, si sentivano quasi completamente liberi e vivevano aspettando giorni migliori. Per assicurare la riorganizzazione delle forze rosse al fronte, bisognava spazzare le retrovie con mano ferrea, implacabile. Il Consiglio Militare Rivoluzionario, diretto dal compagno Stalin, crea una Cekà speciale, a cui affida il compito di epurare Tsaritsyn dalla controrivoluzione.
La testimonianza del nemico è talvolta preziosa e interessante. Ecco come, nella rivista delle guardie bianche “Donskaja Voinà” (“L’onda del Don”) del 3 febbraio 1919, il colonnello Nossovic (ex-capo della direzione delle operazioni dell’armata), che ci aveva tradito ed era passato al servizio di Krassnov, descrive questo periodo e la parte avuta in esso dal compagno Stalin:
“Il compito principale affidato a Stalin era l’approvvigionamento delle province settentrionali e, per adempiere questo incarico, egli era stato investito di poteri illimitati…
“La linea Griazi-Tsaritsyn era stata definitivamente tagliata. Al nord era rimasta una sola possibilità di ricevere munizioni e di mantenere i collegamenti: il Volga. Nel sud, dopo l’occupazione di Tighoretski da parte dei volontari, la situazione era pure diventata molto precaria. E per Stalin, il quale attingeva le sue risorse esclusivamente dalla provincia di Stavropol, questa situazione significava quasi la fine della sua missione nel sud. Ma, evidentemente, rinunciare a portare a buon termine un compito affidatogli non era nelle abitudini di un uomo come Stalin. Si deve rendergli la giustizia di riconoscere che la sua energia può destare l’invidia di qualsiasi vecchio amministratore e che molti potrebbero imparare da lui la capacità di applicarsi al lavoro e alle circostanze.
“A poco a poco, nella misura in cui il suo lavoro diminuiva, o, più giustamente, mano a mano che il suo compito diretto si restringeva, Stalin incominciò a penetrare in tutti i rami dell’amministrazione della città e soprattutto a occuparsi del grave problema della difesa di Tsaritsyn e, in particolare, di tutto il cosiddetto fronte rivoluzionario del Caucaso”.
E più avanti, passando a dare una caratteristica della situazione di Tsaritsyn, Nossovic scrive:
“Da quel momento a Tsaritsyn, in generale, l’atmosfera si fece irrespirabile. La Cekà di Tsaritsyn lavorava in pieno. Non passava giorno senza che si scoprissero dei complotti nei luoghi che parevano più sicuri e segreti. Tutte le prigioni della città rigurgitavano…
“La lotta al fronte aveva raggiunto il più alto grado di tensione…
“Dal 20 luglio Stalin si trovò ad essere il principale propulsore e dirigente. Una semplice conversazione per filo diretto col centro sulle insufficienze e gli inconvenienti della organizzazione della direzione della regione bastò perché Mosca, per filo diretto, emanasse l’ordine col quale Stalin veniva messo a capo di tutta l’amministrazione militare e civile…”.
Ma Nossovic stesso più avanti riconosce quanto era fondata questa repressione. Ecco quanto scrive circa le organizzazioni controrivoluzionarie di Tsaritsyn:
“In quel momento anche l’organizzazione controrivoluzionaria, che aveva come programma l’Assemblea Costituente, si era considerevolmente rafforzata e, ricevuto denaro da Mosca, si preparava a entrare in azione per aiutare i cosacchi del Don nella loro lotta per liberare Tsaritsyn.
“Disgraziatamente, l’ingegnere Alekseiev, capo di questa organizzazione, e i suoi due figli, venuti da Mosca, erano poco al corrente della situazione reale e, causa una errata impostazione del piano, che prevedeva di far partecipare all’azione il battaglione serbo, già al servizio dei bolscevichi presso la Cekà, l’organizzazione fu scoperta…
“La risoluzione di Stalin fu breve: «Fucilare». L’ingegnere Alekseiev, i suoi due figli e con essi un numero considerevole di ufficiali, parte dei quali appartenevano all’organizzazione e parte erano soltanto sospetti di farne parte, furono presi dalla Cekà e, senza alcun giudizio, immediatamente fucilati”.
Passando in seguito alla ripulitura delle retrovie (lo stato maggiore del Caucaso settentrionale e i suoi servizi) dalle guardie bianche, Nossovic scrive:
“Caratteristica di questa ripulitura fu l’atteggiamento di Stalin verso i telegrammi dal centro che gli davano delle direttive. Quando Trotskij, preoccupato perché si sconvolgeva la direzione delle regioni militari, messa in piedi da lui con tanta fatica, inviò un telegramma circa la necessità di lasciare immutati lo stato maggiore e il commissariato e di dar loro la possibilità di lavorare, Stalin scrisse sul telegramma una nota categorica e molto significativa:
«Non prendere in considerazione».
“E infatti, il telegramma non fu preso in considerazione e tutta la direzione dell’artiglieria e parte dello stato maggiore continuarono a vivere su una chiatta a Tsaritsyn”.
La fisionomia di Tsaritsyn divenne in breve tempo irriconoscibile. La città, nella quale ancor poco tempo prima suonava la musica nei giardini, dove la borghesia profuga gironzolava apertamente, con ufficiali bianchi in folla per le vie, si trasformò in un campo militare rosso, dove vige per tutti l’ordine più severo e una disciplina militare. Questo rafforzamento delle retrovie ha immediatamente una ripercussione favorevole sullo stato d’animo dei nostri reggimenti che si battono al fronte. Il corpo dei comandanti e dei commissari politici e tutta la massa dei soldati rossi incominciano a rendersi conto che una solida mano rivoluzionaria li dirige, una mano che conduce la lotta per gli interessi degli operai e dei contadini, che colpisce implacabilmente tutti coloro che si frappongono sul cammino di questa lotta.
Il compagno Stalin non si limita a dirigere dal suo ufficio. Ristabilita la disciplina indispensabile, ricostituita l’organizzazione rivoluzionaria, egli parte per il fronte, che in quel momento aveva un’estensione di circa 600 chilometri. E bisognava essere Stalin e possedere la sua enorme capacità organizzativa per comprendere così bene i problemi specificatamente militari nelle condizioni estremamente difficili del momento, pur non avendo alcuna preparazione militare (il compagno Stalin non aveva mai prestato servizio militare!).
Ricordo, come fosse ora, il principio dell’agosto 1918. Le unità cosacche di Krassnov muovono all’attacco di Tsaritsyn, tentando, con attacco concentrico, di gettare nel Volga i reggimenti rossi. Per molti giorni le truppe rosse, alla testa delle quali si trovava una divisione comunista composta esclusivamente di operai del Bacino del Don, respingono con un vigore eccezionale l’attacco delle unità cosacche magnificamente organizzate. Furono giorni di estrema tensione. Bisognava vedere il compagno Stalin in quei momenti. Come sempre calmo, immerso nei suoi pensieri egli non dormiva, letteralmente, per giornate intere, dividendo la sua attività eccezionale tra le posizioni avanzate e lo stato maggiore dell’armata. La situazione al fronte era diventata quasi catastrofica. Le unità di Krassnov, sotto il comando di Fitskhalaurov, Mamontov e altri, con una manovra ben studiata respingevano le nostre truppe, che erano estenuate e avevano subito perdite enormi. Il fronte del nemico, fatto a ferro di cavallo, con le estremità poggianti sul Volga, si restringeva sempre più. Ogni possibilità di ritirata ci era chiusa. Ma Stalin non se ne preoccupava. Egli era penetrato da una sola convinzione, da un’unica idea: – Vincere, battere il nemico a qualunque costo. – E questa volontà incrollabile di Stalin si comunicava a tutti i suoi collaboratori più vicini e, malgrado la situazione quasi disperata, nessuno dubitava della vittoria.
E vincemmo. Il nemico, disfatto, fu rigettato lontano, verso il Don.

Edited by Andrej Zdanov - 10/5/2013, 23:02
view post Posted: 10/5/2013, 16:28 Stalin e l’Esercito rosso - Stalin e l’Esercito rosso
Da K. Voroscilov, Stalin e l’Esercito rosso, La Russia sovietica di oggi, n. 5, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, p. 5:


STALIN E L’ESERCITO ROSSO


Questo articolo è stato scritto nel 1929 dal compagno Voroshilov, in occasione del cinquantesimo compleanno del compagno Stalin.

Il periodo pacifico, costruttivo della nostra storia è pieno di avvenimenti della più grande importanza. Questi ultimi anni, effettivamente, valgono per noi quanto secoli. Sono avvenuti attorno a noi cambiamenti grandiosi; le nostre prospettive si sono modificate; le nostre prospettive e le scale dei valori universalmente ammessi si sono capovolte. A tutti questi avvenimenti è indissolubilmente legata la ricca e multiforme attività rivoluzionaria del compagno Stalin. Durante gli ultimi 5-6 anni il compagno Stalin è stato al centro della lotta che si è vivacemente combattuta. Solo tenendo conto di queste circostanze si può spiegare che l’importanza del compagno Stalin, quale uno fra i più eminenti organizzatori della vittoria della guerra civile, sia stata, in questo campo, in una certa misura ignorata e non sia stata ancora valutata nel modo dovuto.
Oggi, nel cinquantesimo compleanno del nostro amico, voglio, almeno in parte, colmare questa lacuna.
Non ho affatto la pretesa, beninteso, di dare in un articolo di giornale un quadro completo dell’attività militare del compagno Stalin. Voglio soltanto tentare di rinfrescare nella memoria dei compagni alcuni fatti di un passato non lontano, pubblicare alcuni documenti poco noti per mettere in rilievo, sulla base della semplice testimonianza dei fatti, la parte veramente eccezionale avuta dal compagno Stalin nei momenti più difficili della guerra civile.
Nel periodo 1918-1920, il compagno Stalin fu, forse, l’unico uomo che il Comitato Centrale gettò da un fronte di lotta all’altro, nei posti dove più grande era il pericolo, più grande la minaccia per la rivoluzione. Dove la situazione era relativamente calma e favorevole, dove ottenevamo dei successi, ivi Stalin non lo si vedeva. Ma dove, per tutta una serie di ragioni, le armate rosse ripiegavano, dove le forze controrivoluzionarie, sviluppando i loro successi, minacciavano l’esistenza stessa del potere sovietico, dove il turbamento e il panico potevano ad ogni momento trasformarsi in disperazione, in catastrofe, ivi appariva il compagno Stalin. Egli non dormiva per notti intere, organizzava, prendeva la direzione nelle sue mani di ferro, spezzava tutti gli ostacoli, procedeva implacabile e operava la svolta, risanava l’ambiente. Il compagno Stalin stesso scrisse a questo proposito, in una delle sue lettere al Comitato Centrale, nel 1919: “Mi si trasforma in specialista per la pulizia delle stalle del commissariato della guerra”.

Edited by Andrej Zdanov - 11/5/2013, 23:32
view post Posted: 5/5/2013, 13:23 Risoluzione dell’Ufficio di informazione - Scritti di altri autori
Innanzi tutto, ti ringrazio per questo tuo contributo.
Veniamo ora al dunque:

I.
La Risoluzione è il documento prodotto al termine di una Conferenza, nella quale furono discussi i problemi nei rapporti tra URSS e Jugoslavia; essa riflette solamente ed enuncia in maniera concisa le conclusioni del dibattito, non si tratta di un’analisi. Per cui non devono stupire la carenza di fonti e la sommarietà dei giudizi ivi espressi.
Vediamo dunque di citare alcune fonti. L’URSS si basa essenzialmente sulle informazioni fornite dai propri specialisti civili e militari e dai propri diplomatici. Essi erano presenti non solo in Jugoslavia, ma in tutti i paesi di nuova democrazia. Nella lettera del CC del P.C.(b) dell’URSS al CC del PCJ del 4 maggio 1948 è infatti scritto: «Il governo sovietico ha molti esperti civili in tutti i paesi di democrazia popolare, ma non riceve da loro alcuna lamentela e non vi sono divergenze con i governi di quei paesi. Perché queste controversie e conflitti sono sorti solo in Jugoslavia? Non è perché forse il governo jugoslavo ha creato una particolare atmosfera di inimicizia interna agli ufficiali sovietici in Jugoslavia, tra cui lo stesso compagno Yudin?». Anche il Kominform, avendo la propria sede centrale a Belgrado, aveva un considerevole numero di funzionari e rappresentanti in Jugoslavia, parimenti a conoscenza dei fatti.
La diffamazione degli specialisti militari sovietici avveniva perlopiù in occasioni non ufficiali, ma qualche dirigenti si lasciò scappare qualche parola di troppo anche in contesti formali. Per esempio – come riporta la suddetta lettera – «…la dichiarazione antisovietica del compagno Djilas fatta ad una sessione del CC del PCJ, nella quale diceva che gli ufficiali sovietici, dal punto di vista della morale erano inferiori agli ufficiali dell’esercito britannico. Questa asserzione di Djilas venne fatta in relazione al fatto che alcuni ufficiali dell’armata sovietica in Jugoslavia indulsero ad atti di natura immorale. Definimmo antisovietica questa asserzione di Djilas in quanto riferendosi al contegno degli ufficiali sovietici, questo misero marxista, il compagno Djilas, non si ricordò delle principali differenze tra l’armata dei Soviet socialisti che liberò i popoli d’Europa e l’esercito borghese britannico, la cui funzione è di opprimere e non di liberare i popoli del mondo».
Stalin protestò contro questa dichiarazione, inviando il seguente telegramma a Tito (ancora citato nella medesima lettera): «Comprendo la difficoltà della vostra situazione dopo la liberazione di Belgrado. Comunque dovete sapere che il governo sovietico, nonostante colossali sacrifici e perdite, fa tutto quanto è in suo potere per aiutarvi. Sono stupito del fatto che alcuni incidenti e reati commessi da singoli ufficiali e soldati dell’Armata Rossa in Jugoslavia vengano generalizzati ed estesi all’intera Armata Rossa. Non dovreste offendere cosi un esercito che vi aiuta a liberarvi dai tedeschi e che versa il suo sangue in battaglia contro l’invasore tedesco. Non è difficile comprendere che in ogni famiglia vi sono pecore nere, ma sarebbe strano condannare un’intera famiglia per una singola pecora nera».
La faccenda ebbe termine quando, giunto in URSS al seguito della delegazione jugoslava, Djilas si scusò personalmente con Stalin. Ma questo fu solo il caso più appariscente e più sbadatamente esplicito e, purtroppo, non fu l’ultimo.
Anche le critiche in stile trotzkista avvenivano prevalentemente per via informale. Tuttavia, anche in questo caso, esistono dichiarazioni ufficiali. Tito, nel suo discorso del maggio 1945 a Lubiana, affermò che «… [noi, il popolo jugoslavo] non vogliamo venir usati come un pegno in un mercanteggiamento internazionale, non vogliamo venir coinvolti in nessuna politica di sfere di interesse». Questa dichiarazione rimanda alle trattative in corso sulla questione di Trieste. Dichiarando di non voler essere una mera pedina in mano delle «superpotenze», Tito critica implicitamente anche l’URSS, che, a quanto pare, utilizzava i paesi di nuova democrazia come merce di scambio nelle trattative con gli USA; si tratta di un’anticipazione delle critiche di Hoxha all’URSS. Perciò Sadchikov, ambasciatore sovietico a Belgrado, si vide costretto a protestare contro quest’asserzione di Tito.
Citerò ancora un esempio. Nella lettera del CC del PCJ al CC del P.C.(b) dell’URSS del 17 maggio 1948, Tito e Kardelij scrivono: «…in questa questione ci sentiamo talmente in svantaggio che per noi è impossibile acconsentire che questa questione venga ora decisa dal Kominform». Ne consegue che, secondo i dirigenti jugoslavi, il Kominform era un organismo in cui l’URSS aveva la preminenza sugli altri paesi, uno strumento dell’egemonia sovietica e un mezzo impiegato dall’URSS per imporre la propria volontà agli altri paesi. E un paese socialista che commette simili atti imperialistici non è in condizioni normali, ma degenerato, deviato dai princìpi.
Accuse di carattere apertamente trotzkista non solo all’URSS, ma al socialismo in generale, furono poi espresse da Djilas negli ultimi mesi del 1953, sulle pagine della rivista Borba. Solo a quel punto Tito attuò misure repressive contro Djilas e i suoi seguaci, quando anche il sistema politico jugoslavo fu da costoro preso di mira; prima, durante il contrasto con l’URSS, si servì di Djilas in funzione antisovietica, essendo il gruppo facente capo a costui il principale responsabile delle calunnie trotzkiste contro l’URSS.
Quanto all’apparente contraddizione tra i punti 2 e 6 della Risoluzione, occorre rilevare che essi si riferiscono a periodi diversi e provengono da fonti diverse. La critica dell’atteggiamento antisovietico, espressa nel punto 2, si riferisce soprattutto ai mesi precedenti, ed era stata già stata esplicitata nelle lettere del CC del P.C.(b) dell’URSS al CC del PCJ. La constatazione delle dichiarazioni di fedeltà all’URSS dei dirigenti jugoslavi, contenuta nel punto 6, si riferisce invece al periodo successivo all’inizio dello scambio epistolare tra i CC dei due partiti, quando i dirigenti jugoslavi, dopo aver negato l’esistenza dello stato di cose denunciato dagli specialisti militari sovietici, per dimostrare che i sovietici avevano torto, si sperticarono in elogi formali dell’URSS; si trattava, appunto, di parole formalmente favorevoli all’URSS, ma in realtà mirate a portarsi in vantaggio nella polemica epistolare con il CC del P.C.(b) dell’URSS. Le critiche contenute nel punto 6, come già spiegato su FB, provengono dalle osservazioni di Zdanov alla II Conferenza del Kominform, che emise poi la Risoluzione.

II.
Credo che vi sia un grande fraintendimento sul terzo punto della Risoluzione.
In primo luogo, la prima frase non è un’accusa indeterminata, ma è riferita a quanto viene detto subito dopo, e cioè: «Essi negano il fatto dell’accrescimento degli elementi capitalistici nel loro paese e l’accentuazione della lotta di classe nelle campagne jugoslave che ne deriva». Proprio a questo si riferisce il paragone con Bukharin, il quale sosteneva che, di pari passo con i progressi nell’edificazione socialista, l’intensità della lotta di classe diminuisce.
In secondo luogo, in questo punto della Risoluzione non si critica affatto la prevalenza della proprietà privata nelle campagne, che rappresenta una condizione oggettiva, non superabile volontaristicamente (e questo la Risoluzione, nel suo punto 6, non manca di sottolinearlo). Si critica piuttosto la sottovalutazione di tale fenomeno e delle sue conseguenze da parte dei dirigenti jugoslavi, abbondantemente concretizzatasi prima degli anni Sessanta.
L’affermazione sui contadini, citata nella Risoluzione, proviene dal discorso di Tito a Zagabria nel 1947. Non si trattava di una frase retorica, ma di un’affermazione di principio. Perciò, alcune previdenti redazioni giornalistiche censurarono quella frase. Tuttavia, non vi furono un’autocritica e una rettifica pubblica; così, quella tesi divenne la base per una pericolosa deviazione, incarnata in modo particolare dal gruppo di Djilas. Si trattava di una deviazione particolarmente grave perché non solo il ruolo guida della classe operaia viene di fatto negato, ma non si fa alcuna distinzione di classe in seno agli stessi contadini; in tal modo, si è legittimati a non lottare contro i kulaki (che sono specificamente contadini ricchi, da non confondere con i latifondisti, come tu sembri fare nel quinto punto della tua critica) e, anzi, a favorirli addirittura.
E’ indubbiamente positivo che nel libro di Kardelij tale posizione erronea sia stata corretta, ma si tratta di un’opera del 1977. Presupporre che le sue tesi fossero ritenute valide anche nel 1948, senza verificarlo su documenti dell’epoca, è quantomeno arbitrario.

III.
Anche sul quarto punto della Risoluzione, noto un evidente fraintendimento da parte tua. La Risoluzione non critica la presenza di elementi borghesi nel Fronte Popolare, quanto il fatto che esso fosse posto in primo piano rispetto al partito.
Il 27 settembre 1947, al II Congresso del Fronte Popolare, Tito ha apertamente affermato quanto segue: «Il PCJ ha forse un programma che sia diverso da quello del Fronte Popolare? No, il PCJ non ha un altro programma. Il programma del Fronte Popolare è anche il suo». Si tratta proprio della tesi criticata dalla Risoluzione del Kominform.
A quanto pare, Kardelij in seguito corresse questa posizione erronea, il che è senz’altro positivo.

IV.
Hebrang fu posto agli arresti domiciliari nell’aprile 1948, per i suoi contatti con l’ambasciata sovietica. Già questo dovrebbe suscitare una legittima condanna da parte di ogni comunista. Come può un paese socialista sanzionare un proprio dirigente per simili ragioni, per aver contatti con l’ambasciata di un paese fratello? E tutto ciò è accaduto quando la discussione epistolare tra i CC del due partiti era solo agli inizi e non era ancora degenerata.
Hebrang fu poi arrestato il 7 maggio 1948, con l’accusa, tra l’altro, di essere filosovietico e cominformista. Dopo il processo, fu incarcerato e, secondo la versione ufficiale, si suicidò in carcere l’11 giugno 1949.
Con lui era stato incarcerato anche Giuiovic, che fu liberato solo nel 1952, quando cedette e si unì a Tito.
Detto questo, credo che le tue osservazioni pecchino di oggettivismo. Il marxismo-leninismo insegna che un fenomeno non può essere correttamente giudicato in sé, astrattamente, senza una contestualizzazione. Abbracciando il metodo astratto e metafisico di interpretazione della storia, potremmo tranquillamente giungere alla conclusione che noi comunisti non possiamo lamentarci delle repressioni della borghesia contro di noi, perché anche noi ci comportiamo in modo simile con la borghesia, una volta al potere. E’ chiaro che un simile modo di vedere ha ben poco in comune col marxismo, il quale ci insegna a tener sempre conto di chi reprime, di chi viene represso e, soprattutto, per l’interesse di quale classe si reprime.
Hebrang, Giuiovic e gli altri comunisti internazionalisti vittime della repressione di Tito e Rankovic agivano nell’interesse dell’unità del fronte unico socialista e del ristabilimento di buoni rapporti tra URSS e Jugoslavia. Kostov, Rajk, Brankov, Slansky, Gomulka e altri, al contrario, agivano in direzione della rottura della solidarietà internazionale tra i paesi di nuova democrazia e l’URSS, dell’isolamento nazionalistico dei propri paesi e dell’instaurazione di metodi autoritari e verticistici nella direzione dei propri partiti.
Alcuni, colla scusa delle «particolarità nazionali», giunsero addirittura a negare apertamente il valore delle leggi generali dell’edificazione del socialismo. Per esempio, così si espresse Wladislaw Gomulka il 30 novembre 1946, parlando all’Assemblea degli attivisti di
Varsavia del Partito Operaio Polacco e del Partito Socialista Polacco: «Il Partito operaio polacco ha basato la sua concezione di una via polacca verso il socialismo che non comporta la necessità di violente scosse rivoluzionarie nell’evoluzione della Polonia ed elimina il bisogno di una dittatura del proletariato, come forma del potere nel momento più difficile di transizione Sulla base di elementi reali, abbiamo avvertito la possibilità di una evoluzione verso il socialismo attraverso un sistema popolare democratico, nel quale il potere viene esercitato dal blocco dei partiti democratici».
A questo punto è bene osservare come anche Dimitrov, Rakosi e Gottwald si fossero espressi in modo abbastanza simile, pur non giungendo mai a questi livelli. Ma, a differenza di Gomulka (che corresse comunque i propri errori in seguito, con gran ritardo), questi dirigenti entro il 1948 avevano corretto i propri errori ed imprecisioni e, in ogni caso, non giunsero mai ad avanzare un programma nazionalista e non cercarono di imporsi sul partito con metodi verticistici, come i condannati. Per questa ragione, essi rimasero dirigenti dei propri partiti e dei propri paesi, assolvendo con onore i compiti della prima fase dell’edificazione del socialismo.
Infine, affermare il carattere di farsa dei processi, adducendo come argomento la rapida riabilitazione dei condannati, non è un metodo sicuro per l’indagine storica. Sarebbe meglio consultare direttamente i documenti dei processi, disponibili anche in italiano, e poi valutare i fatti. Io, personalmente, non ho ancora studiato tali documenti; perciò non voglio ancora esprimermi in merito.

V e VI.
Nell’attività del Kominform si discuteva continuamente della politica interna dei singoli partiti e ogni partito talvolta esprimeva critiche nei confronti degli altri partiti. Per esempio, gli albanesi criticarono i sovietici per non averli presi in considerazione alla I Conferenza; tutti i partiti al potere criticarono quelli non al potere per il loro parlamentarismo. Quest’ultima critica, svoltasi alla I Conferenza del Kominform, vide particolarmente attivi proprio gli jugoslavi.
Kadrelij disse [testo tratto da G. Procacci (a cura di), The COMINFORM. Minutes of three conference 1947/1948/1949, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli“, XXX (1994), Feltrinelli, Milano, 1994, pp. 293-305]:
«Si può dire che dopo la guerra, i comunisti di ogni paese capirono il loro ruolo?
(…)
No, crediamo di no.
Di più, non è eccessivo affermare che nel movimento comunista internazionale, durante e dopo la guerra, c’era una tendenza che portava ad una certa deviazione dalla teoria rivoluzionaria del marxismo-leninismo e rappresentava, in un certo senso, una tendenza alla revisione del leninismo.
Noi tutti conosciamo il fenomeno del browderismo nel Partito Comunista degli USA.
Ma il browderismo non è un fenomeno eccezionale o casuale nel movimento operaio, cioè nel movimento comunista internazionale.
Il sistema imperialistico, che si era indebolito in conseguenza della guerra antifascista, ha ripreso la sua maschera democratica e con questa maschera e con frasi socialdemocratiche ha evocato ogni sorta di illusione circa le future forme di sviluppo dell’imperialismo e causato l’emergere di varie tendenze opportunistiche all’interno del movimento comunista internazionale, insieme a tutta una serie di errori e di deviazioni.
(…)
Togliatti ha detto nell’Assemblea Costituente il 27 Luglio 1946:
“I partiti sono la democrazia che si organizza.
Questi grandi partiti sono la democrazia che si afferma, che conquista posizioni decisive, le quali non saranno perdute mai più.
(…)
Questi grandi partiti non sono soltanto una necessità della vita nazionale e della democrazia, la loro esistenza è una fortuna per il nostro paese.
Queste grandi trasformazioni unitarie (…) sono una garanzia per l’unità del nostro paese”.
Queste posizioni finiscono col creare illusioni (…) tra le masse».
«Secondo la nostra visione i leader di alcuni Partiti Comunisti commisero degli errori lungo il loro percorso che li hanno portati a scivolare verso le posizioni della socialdemocrazia e del nazionalismo borghese o della idolatria della solidità e della forza dell’imperialismo.
Non c’è dubbio che questi errori erano contenuti in modo più evidente nella politica dei Partiti Comunisti Francese e Italiano, ma anche di altri partiti.
(…)
Fra i comunisti italiani apparvero, per esempio, delle tendenze che concepivano la debolezza dell’imperialismo come il risultato della guerra e non come un segnale per i Partiti Comunisti per seguire un percorso chiaro finalizzato alla sua distruzione, alla presa del potere da parte delle forze democratiche popolari dirette dal Partito Comunista, ma come una tappa del percorso che avrebbe portato i comunisti al potere per vie legali cioè tramite la transizione pacifica dal capitalismo al socialismo.
Togliatti il 1° Luglio di quest’anno disse:
“Noi abbiamo previsto fondamentalmente la possibilità di una trasformazione democratica del nostro paese fondamentalmente in modo legale”.
Naturalmente sono lontano dal negare la possibilità, in alcune condizioni, di uno sviluppo pacifico verso il socialismo.
(…)
I leader di alcuni paesi di nuova democrazia vedono lo sviluppo dei loro paesi come un cammino di sviluppo pacifico verso il socialismo.
Ma una cosa è quando a parlare di sviluppo pacifico verso il socialismo sono i leader di alcuni partiti dell’Est Europa, per esempio Polonia, Bulgaria, ecc. in cui il ruolo guida della classe lavoratrice e dei Partiti Comunisti è già assicurato da solide posizioni di comando conquistate durante la guerra in condizioni a noi ben note e che in ogni caso non hanno niente a che vedere con manovre parlamentari.
Quando parla di via polacca al socialismo, il compagno Gomulka sottolinea in particolare questo.
Un’altra cosa è quando ne parlano i comunisti di paesi dove la borghesia conserva posizioni chiave di potere e dove parlare di via pacifica può solo creare e rafforzare ogni sorta di illusione parlamentare”
(…)
E’ chiaro per noi che ogni coalizione di partito è un’arma a doppio taglio, una battaglia degli uni contro gli altri.
Se i comunisti non riescono a creare, accanto alla coalizione (…) altri mezzi di lotta per il potere, nel momento decisivo essi si trovano sostanzialmente isolati.
Quando, dopo la guerra, la borghesia era debole, essa entrò nella coalizione, un fronte popolare o qualcosa di simile con i comunisti.
Così in quel periodo un blocco con i comunisti su base parlamentare rappresentò per essa una via d’uscita da una situazione difficile.
Per quanto, in alcuni paesi, i comunisti non fossero in grado o non sapessero come trarre profitto da questa situazione di difficoltà in cui si trovava la borghesia per conquistare alcune posizioni decisive di commando, una coalizione come quella con i comunisti era vantaggiosa non per i comunisti ma per la borghesia, anche se i comunisti avevano posti nel governo (…)».
«I dirigenti comunisti italiani molto spesso ripetono di non volere che quello che essi chiamano “ la situazione greca” sia creata nel loro paese.
Dicono: gli americani e la reazione interna vogliono farci ripercorrere la situazione greca, vogliono trascinarci in un’avventura, farci prendere le armi, ci vogliono far scivolare verso una “situazione greca”.
Ma, dicono questi compagni, essi sbagliano, perché noi non vogliamo una “situazione greca”.
In questo, in realtà sta l’essenza dei loro errori.
Essi non capiscono la “situazione greca” perché nel loro paese, essi stanno lottando principalmente sulla base del parlamentarismo, mentre in Grecia il PC sta lottando, armi in pugno, alla testa delle masse.
In realtà, gli americani e i reazionari greci non vogliono la “situazione greca”, essa li ha già enormemente danneggiati e ha minacciato il loro potere e tutte le posizioni tenute dall’imperialismo in Grecia.
Conseguentemente la “situazione greca” è al momento incomparabilmente migliore di quella italiana o francese.
Mentre le forze democratiche greche stanno resistendo all’espansione degli imperialisti americani e stanno portando avanti persino un’offensiva contro gli attacchi della reazione, in Francia e in Italia queste forze battono in ritirata e non solo si stanno facendo buttare fuori (“senza tante cerimonie”come dice la borghesia) dal governo ma stanno lasciando trasformare i loro paesi, senza una vera resistenza da parte loro, in vassalli e basi da guerra contro il socialismo e la democrazia.
Questo è il motivo per cui non siamo d’accordo affatto con i compagni italiani sul fatto che gli americani e i reazionari in Francia vogliono che sia creata nei loro paesi una “situazione greca”.
Al contrario siamo sicuri non solo essi non la vogliono ma che una “situazione greca” in Italia e in Francia, accanto a quella già in atto in Grecia, significherebbe un colpo molto forte all’imperialismo, la sconfitta dell’attuale offensiva imperialista contro le forze progressiste.
(…)
Ma non è solo la questione del giudizio che [i Partiti Comunisti Italiano e Francese] danno alle vicende greche.
Il fatto è che da ciò ne consegue che i partiti che vedono la “situazione greca” in questo modo stanno dando un sostegno insufficiente alla lotta per la libertà in Grecia.
Il fatto che alcuni Partiti Comunisti sottovalutano la lotta intrapresa dall’esercito democratico greco, considerano questa lotta come un “errore”, come una lotta che sarà rapidamente sconfitta, mentre, dall’altro lato, sopravalutano l’importanza delle manovre parlamentari nel loro paese, ha come risultato che questi Partiti Comunisti danno un sostegno assai modesto alla causa del popolo greco.
Yugoslavia, Bulgaria, Albania e anche l’Unione Sovietica in tutto questo periodo sono stati fatti oggetto di violenti attacchi da parte degli interventisti imperialisti e delle forze reazionarie greche.
Certamente questi paesi hanno piena consapevolezza del loro dovere internazionalista verso il popolo greco.
Ma possiamo affermare che (…) i Partiti Comunisti di tutti i paesi hanno mobilitato vaste masse per difendere la democrazia in Grecia e l’indipendenza del popolo greco?
Abbiamo creato un ostacolo morale-politico sufficientemente solido di fronte all’intervento americano?
No, non l’abbiamo fatto, perché, secondo noi, non tutti i Partiti Comunisti hanno compreso quanto è enormemente importante la lotta del popolo greco, perché questi partiti reputano che la vittoria per il popolo greco non sia possibile, perché sopravvalutano la forza del nemico.
Il massimo sostegno politico alla Grecia e lo sviluppo delle più vaste azioni di massa in tutto il mondo, contro l’intervento americano e britannico sono fondamentali per gli interessi del movimento comunista e democratico internazionale e per gli interessi di tutte quelle entità nazionali che hanno subito l’aggressione imperialistica degli americani.
Questo è il motivo per cui riteniamo che uno dei risultati più importanti di questo incontro debba essere la completa intensificazione dell’aiuto internazionalista alla Grecia allo scopo di prevenire un aperto intervento militare USA in Grecia.
Impedire l’intervento americano significa assicurare la vittoria della lotta per la libertà del popolo greco e infliggere un duro colpo all’offensiva reazionaria degli imperialisti americani.
La lotta del popolo greco ha già dimostrato che è possibile resistere con successo all’offensiva reazionaria degli imperialisti, che la battaglia può essere vinta.
Dalle relazioni dei delegati del PCF e del PCI, e anche da altre informazioni da noi possedute, risulta chiaro che questi partiti hanno avuto finora l’atteggiamento di partiti di governo, come dicono i compagni francesi, o di “opposizione costruttiva”, come dicono i compagni italiani.
Questa presunta opposizione nei fatti aiuta le forze governative.
Consideriamo, ad esempio, la partecipazione del Partito Comunista Italiano all’incremento della produzione, nelle industrie e nelle campagne, al superamento delle difficoltà economiche.
Con questi presupposti è davvero difficile capire come un Partito Comunista posso condurre l’opposizione ad un governo reazionario e capitalista, un governo che, anche con l’aiuto dell’imperialismo americano sta asservendo il popolo francese e quello italiano e sta trasformando questi paesi in vassalli per gli Stati Uniti.
Una tale posizione non può essere definita se non come mancanza di una chiara linea politica nel partito, una mancanza di prospettiva.
L’intera politica di questi due partiti è stata ridotta a puro parlamentarismo.
Ci sembra, se siamo tutti d’accordo con l’analisi della situazione internazionale fatta dal compagno Zdanov, che il PCF e il PCI necessitano di cambiare l’essenza della loro linea politica e non solo di correggere alcuni errori».
Analogamente si espressero gli esponenti degli altri partiti comunisti al potere. Il PCI e il PCF riconobbero i propri errori e fecero autocritica. Non si trattava di una «operazione pilotata da Mosca», considerando che Zdanov pronunciò il proprio rapporto il 25 settembre 1947, non all’inizio della I Conferenza.
La critica del CC del P.C.(b) non ha infatti una voce in capitolo superiore a quella del Kominform, e la Risoluzione è ben lontana dall’affermare ciò. Semplicemente, i partiti comunisti e operai membri del Kominform valutarono come corrette le critiche del P.C.(b), anche se non tutte. E non furono solamente i sovietici a criticare gli jugoslavi prima della II Conferenza del Kominform, bensì anche gli ungheresi e i cecoslovacchi, come Tito e Kardelij scrivono nella loro lettera del 17 maggio 1948 al CC del P.C.(b) dell’URSS.
Il P.C.(b) era ovviamente il più autorevole e prestigioso tra i partiti membri del Kominform, grazie alla sua lunga esperienza e ai suoi meriti di fronte al proletariato di tutti i paesi. Tuttavia, negli statuti del Kominform esso non aveva alcuna posizione di privilegio nei confronti degli altri partiti ed era tenuto a seguire le medesime regole degli altri partiti.
Il tuo riferimento a Breznev mi sembra essere il modo migliore di gettarsi la zappa sui piedi, perché, come dimostrato dei verbali degli incontri dei rappresentanti dei cinque partiti comunisti (Mosca, 18-26 agosto 1968), si avevano animate discussioni tra i vari partiti, analogamente a quanto accadeva ai tempi del Kominform, che lasciano assai poco spazio all’idea di una «egemonia di Mosca». Inoltre, se si legge il documento della Pravda sulla crisi cecoslovacca del 1968, si vede chiaramente come anche in quel caso le ragioni della critica degli altri paesi socialisti e del loro intervento fossero prevalentemente interne.
Le questioni interne dei vari partiti vanno discusse anche a livello internazionale, come il movimento comunista ha sempre, non solo a causa dell’esistenza delle leggi generali dell’edificazione del socialismo, che esulano dalle particolarità nazionali, ma anche perché è nell’interesse di ogni partito comunista che il socialismo si sviluppi correttamente in ogni paese, non solo nel suo. «L’autonomia di ogni partito è la condizione perché esso riesca ad esprimere nel modo migliore gli interessi della classe operaia, gli interessi nazionali del suo paese, ma compagni, colui che si fermasse qui non avrebbe espresso l’intera sostanza dei rapporti reciproci tra i partiti comunisti, non avrebbe afferrato la cosa essenziale di questi rapporti. I partiti comunisti sono di tipo particolare. La loro ideologia, la loro causa sono internazionali» (Dal rapporto di Suslov alla conferenza dei partiti comunisti, 15 novembre 1957).
Quanto alla riconciliazione con Tito, essa consistette soltanto nel ristabilimento della collaborazione economica e culturale e dei contatti tra i paesi; le accuse di revisionismo e le aspre critiche contro la Jugoslavia rimasero, come dimostrano i documenti delle due Conferenze di Mosca (1957 e 1960) e il rapporto di Suslov su Il XXII Congresso del PCUS e i compiti delle cattedre di scienze sociali (30 gennaio 1962). Inoltre, occorre considerare come Tito si fosse autocriticato e si fosse finalmente deciso ad epurare il gruppo di Djilas, e come i paesi socialisti avessero relazioni economiche anche con i paesi capitalistici.
Per quanto concerne la politica agraria, il motivo per cui non è possibile liquidare i contadini ricchi (e non i latifondisti, che sono una classe diversa e non hanno attinenza con questo problema) prima di aver sviluppato in una certa misura la collettivizzazione è il fatto che i contadini ricchi producono generalmente una buona parte del grano mercantile e la loro liquidazione in quanto classe provoca una momentanea caduta della loro produzione e tutto ciò che ne consegue (difficoltà nel rifornimento delle città, ecc.); perciò, per questioni di sicurezza, è meglio aver sviluppato una produzione agricola socialista sufficiente a poter sostituire quella dei contadini ricchi, prima di liquidarli. Questo problema fu accuratamente spiegato da Stalin nelle sue Questioni di politica agraria nell’U.R.S.S.
Ora, non so quale fosse la situazione agricola in Corea e come il problema del rifornimento alimentare della popolazione fosse stato risolto. Tuttavia, in Jugoslavia non ci si poteva assolutamente permettere di rischiare, liquidando subito i contadini ricchi, data la scarsa produzione agricola del paese. Tale problema assumeva anche carattere internazionale, perché una crisi alimentare in Jugoslavia avrebbe imposto all’URSS e agli altri paesi socialisti di inviare grandi quantità di rifornimenti. Come la situazione agricola della Jugoslavia fosse cattiva è dimostrato dal fatto che problemi nell’approvigionamento alimentare delle città persistettero per tutti gli anni Cinquanta, senza che i contadini ricchi fossero stati liquidati.

VII.
L’accusa di nazionalismo verte non tanto sui rapporti interni al paese, bensì sulla politica internazionale. Essa non ha carattere etnico, ma geopolitico.
L’affermazione del secondo paragrafo della Risoluzione si riferisce evidentemente al fatto che la Jugoslavia si comportava verso i paesi socialisti come un paese socialista dovrebbe comportarsi verso i paesi borghesi.
Sui rapporti tra la Jugoslavia e questi ultimi, andrebbero citati anche gli accordi militari, la politica estera unita nell’opporsi al campo socialista, ecc., oltre alle sole relazione economiche. Proprio da questi trae origine quella che tu consideri come una «deduzione».
Quali sono stati, secondo te, compagno, i veri motivi del conflitto? Personalmente ritengo una semplificazione il fatto di ricondurre tutto ad una lite condominiale tra Stalin e Tito; credo che le ragioni dell’unità del campo socialista avessero una netta preminenza sugli alterchi personali tra i dirigenti.

Edited by Andrej Zdanov - 5/5/2013, 14:52
view post Posted: 1/5/2013, 17:44 Come Lenin studiava Marx - Scritti di altri autori
Da Guida allo studio del marxismo, Supplemento al n. 3 di Rinascita, Marzo 1947:


Come Lenin studiava Marx

Nadezda Krupskaia


Lenin conosceva a fondo gli scritti di Marx e di Engels. Nel 1893, quando venne a Pietroburgo, ci sorprese tutti per l’estensione delle sue conoscenze in merito.
I primi circoli marxisti, che si formavano allora, attendevano principalmente allo studio del primo volume del Capitale che era possibile procurarsi sia pure con molte difficoltà. Ma per le altre opere di Marx le cose andavano male. La maggioranza degli affiliati ai circoli non avevano letto nemmeno il Manifesto. Io, ad esempio, lo lessi solo nel 1898, e in tedesco, quando ero già deportata.
Marx ed Engels erano proibiti nel modo più rigoroso. Basti ricordare che Lenin, nel suo scritto Per la definizione del romanticismo economico, scritto nel 1897 per la rivista Novoie Slovo, non poté far uso delle parole «Marx» e «marxismo». Per evitare noie alla rivista doveva farsi capire tra le righe.
Lenin conosceva il tedesco e il francese e faceva il possibile per procurarsi gli scritti di Marx e di Engels in queste lingue. Sua sorella Anna racconta come egli leggeva, assieme all’altra sorella Olga, la Miseria della Filosofia in francese. Traduceva in russo, per conto suo, i passi che lo interessavano di più.
Il saggio di Lenin Che cosa sono gli amici del popolo, pubblicato nel 1894, contiene accenni al Manifesto dei comunisti, alla Miseria della Filosofia, alla Ideologia tedesca, alla lettera di Marx a Ruge del 1843, all’Anti-Dühring di Engels e all’Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato.
Nel successivo lavoro di Lenin, Il contenuto economico del populismo e la sua critica nel libro di Pietro Struve, troviamo già accenni al 18 Brumaio, alla Guerra civile in Francia, alla Critica del programma di Gotha, come pure al 2° e al 3° volume del Capitale.
La vita nell’emigrazione offrì poi a Lenin la possibilità di conoscere tutte le opere di Marx e di Engels, di studiarle a fondo.
La biografia di Marx, scritta da Lenin nel 1914 per la Enciclopedia Granat, è la dimostrazione migliore di una profonda conoscenza delle opere di Marx.
Altre prove sono gli innumerevoli estratti che Lenin faceva leggendo Marx. L’Istituto Lenin è in possesso di molti quaderni di Lenin con estratti di Marx.
Nel suo lavoro, Lenin utilizzava questi estratti, li rileggeva di continuo, li commentava con note in margine. E Lenin non conosceva soltanto Marx, ma ne aveva profondamente meditato l’insegnamento. Nel 1920, al III Congresso della Gioventù comunista Sovietica, egli esortava i giovani a rivedere dal punto di vista comunista le loro conoscenze in tutti i campi dell’umano sapere, in modo che il comunismo non sia per noi una cosa da imparare a memoria, ma sia profondamente meditato da noi stessi, una conclusione inevitabile dal punto di vista della cultura moderna.
«Un comunista – scrive Lenin – che pensasse di impadronirsi del comunismo basandosi su conclusioni bell’e pronte ottenute senza svolgere un grande, serio e difficile lavoro preparatorio, senza analizzare i fatti che è necessario considerare criticamente, sarebbe un ben povero comunista» (1).
Lenin non studiava soltanto gli scritti di Marx, ma anche ciò che di Marx e della sua dottrina scrivevano gli avversari borghesi e piccoli borghesi e polemizzava con essi.
«Dall’urto delle opinioni sgorga la verità», ripeteva volentieri. Nelle questioni fondamentali del movimento operaio egli si atteneva sempre alla esposizione e alla contrapposizione dei diversi punti di vista di classe.
Un esempio di questo modo di procedere ci è offerto dal XIX dei suoi quaderni di appunti che contiene estratti, riassunti, ecc. concernenti la questione agraria prima del 1917.
Il quaderno contiene, in estratti accurati, le espressioni più caratteristiche e rilevanti delle opinioni dei «critici», e, contrapposte ad esse, le formulazioni di Marx. Attraverso un’analisi accurata delle opinioni dei «critici» Lenin ne mette a nudo il contenuto di classe, e formula i problemi maggiori e fondamentali in modo plastico.
Nella prefazione alla traduzione russa del carteggio con Sorge, Lenin scriveva a proposito di alcuni consigli di Marx al movimento operaio anglo-americano:
«Credere che questi consigli di Marx ed Engels al movimento operaio anglo-americano possano senz’altro essere applicati alla situazione russa significa servirsi del marxismo non per spiegarne il metodo, non per studiare le particolarità concrete storiche del movimento operaio nei singoli paesi, ma per una meschina lite intellettualistica di frazione» (2).
Ecco dunque come Lenin lavorava e pensava che si debba lavorare su Marx: bisogna comprendere qual’è il metodo di Marx, imparare da lui a indagare quali sono le condizioni del movimento operaio nei singoli paesi. Lenin faceva questo. L’insegnamento di Marx era per lui una guida nell’azione. Diceva: «Chi vuole prendere consiglio da Marx…». Sempre, egli «prendeva consiglio da Marx». Nei momenti più difficili, nei momenti di svolta della rivoluzione ricorreva sempre nuovamente a Marx. Spesso, mentre tutto era in grande fermento, lo si trovava nella sua camera di lavoro, chino su Marx. Solo a fatica se ne staccava. Ricorreva a Marx non per calmare i nervi, non per attingervi nuova fede nelle forze, nella vittoria della classe operaia – non era certo questa fede che gli mancava –, ma per «prendere consiglio» da Marx, per trovare in Marx una risposta alle questioni attuali del movimento operaio.
Nel suo scritto Franz Mehring e la seconda Duma, Lenin scrive:
«L’argomentazione di questa gente si fonda su una cattiva scelta di citazioni: essi prendono delle tesi generali circa l’appoggio da darsi alla grande borghesia contro la piccola borghesia reazionaria e le applicano senza critica ai cadetti russi, alla rivoluzione russa. Mehring impartisce a questa gente una buona lezione. Chi vuol consultarsi con Marx sui compiti del proletariato nella rivoluzione borghese, deve prendere in considerazione precisamente le parole di Marx che si riferiscono al periodo della rivoluzione borghese tedesca» (3).
L’analisi accurata degli scritti di Marx in cui si studiano situazioni analoghe a quella in cui si opera, l’esame delle somiglianze e delle diversità: questo era il metodo di Lenin. L’applicazione di questo metodo alle rivoluzioni del 1905 e del 1917 mostra nel modo migliore come Lenin se ne servisse.
La lotta rivoluzionaria del 1905 diede nuova importanza alla funzione internazionale del proletariato russo. L’abbattimento della monarchia zarista nel 1917 avrebbe poi fatto del proletariato russo l’avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale.
Nel 1905, dopo il sanguinoso massacro del 9 gennaio davanti al Palazzo d’inverno, l’ondata rivoluzionaria comincia a salire e il partito si trova bruscamente davanti al problema dell’obbiettivo verso il quale condurre le masse, della tattica da seguire. Lenin si rivolge allora per consiglio a Marx. Egli studia con particolare attenzione gli scritti di Marx sulle rivoluzioni democratiche-borghesi francese e tedesca del 1848: Le lotte di classe in Francia e il 3° volume delle Opere di Marx e di Engels (pubblicate da Mehring) sulla rivoluzione tedesca.
Nel giugno-luglio del 1905 Lenin scrive l’opuscolo Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, dove contrappone alla tattica dei menscevichi, che si orientano verso il compromesso con la borghesia liberale, la tattica dei bolscevichi, che chiamano la classe operaia alla lotta decisa, intransigente contro l’assolutismo fino alla rivolta armata. Nell’opuscolo Due tattiche Lenin scrive:
«La conferenza [dei neo-iskristi menscevichi] ha egualmente dimenticato che da una «decisione» di rappresentanti, chiunque essi siano, all’applicazione di questa decisione il cammino è lungo. La conferenza ha egualmente dimenticato che fino a quando il potere rimane nelle mani dello zar tutte le decisioni di rappresentanti, chiunque essi siano, resteranno chiacchiere misere e vuote, quali furono le «decisioni» del Parlamento di Francoforte, ben noto nella storia della rivoluzione tedesca del 1848… Marx nella sua Nuova Gazzetta Renana sferzava con acerbi sarcasmi… i liberali di Francoforte, appunto perché pronunciavano delle belle parole, adottavano ogni sorta di «risoluzioni» democratiche, «istituivano» ogni sorta di libertà, ma di fatto lasciavano il potere nelle mani del re, non organizzavano la lotta armata contro le forze militari di cui quest’ultimo disponeva. E mentre gli osvobodients (4) di Francoforte chiacchieravano, il re attendeva il momento propizio, consolidava le sue forze militari; e la controrivoluzione, appoggiata su una forza reale, sconfisse definitivamente i democratici con tutte le loro belle «decisioni» (5).
I menscevichi dicevano che la loro tattica consisteva nel «rimanere il partito dell’estrema opposizione rivoluzionaria», il che non escludeva parziali ed episodiche prese di potere né la formazione di comuni rivoluzionarie in questa o quella città. Lenin si chiede che cosa significano le parole «comuni rivoluzionarie» e risponde:
«La loro concezione rivoluzionaria confusa li porta, come spesso accade, alla fraseologia rivoluzionaria. Sì, l’uso del termine «comune rivoluzionaria» in una risoluzione di rappresentanti della socialdemocrazia è una frase rivoluzionaria e nulla più. Marx ha più di una volta criticato frasi di tal genere, in cui i termini «seducenti» appartenenti ad un passato che non si ripeterà mascherano i compiti dell’avvenire. Il fascino di un termine che ha avuto la sua funzione storica diventa, in simili casi, un orpello vuoto e nocivo, un gingillo. Dobbiamo far comprendere, in modo chiaro e non ambiguo, agli operai e a tutto il popolo perché vogliamo instaurare un governo rivoluzionario provvisorio, quali sono precisamente le trasformazioni che realizzeremo sin dal domani se l’insurrezione popolare già iniziata sarà vittoriosa, se eserciteremo sul potere un’influenza decisiva. Ecco le questioni che si pongono ai dirigenti politici» (6).
«Questi volgarizzatori del marxismo non hanno mai meditato sulle parole di Marx circa la necessità di sostituire all’arma della critica la critica delle armi. Invocando invano il nome di Marx, in realtà essi redigono delle risoluzioni tattiche assolutamente nello spirito dei chiacchieroni borghesi di Francoforte, i quali criticavano liberamente l’assolutismo, approfondivano la coscienza democratica, senza capire che il tempo della rivoluzione è quello dell’azione, dell’azione che si svolge e dall’alto e dal basso» (7).
Analizzando le espressioni di Marx nella Nuova Gazzetta Renana Lenin pone in chiaro quale è la natura della dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Mentre studia l’analogia egli pone però anche il problema delle differenze che corrono tra la nostra rivoluzione democratica borghese e la rivoluzione democratica borghese tedesca del 1848. E scrive:
«Così, soltanto nell’aprile 1849, quasi un anno dopo l’inizio della pubblicazione del giornale rivoluzionario (la Nuova Gazzetta Renana cominciò le sue pubblicazioni il 10 giugno 1848) Marx ed Engels si pronunziarono per una organizzazione operaia distinta. Sino a quel momento si erano limitati a dirigere un «organo della democrazia», che non aveva nessun legame organizzativo con il partito operaio indipendente. Questo fatto, mostruoso e inconcepibile secondo il nostro attuale modo di vedere, ci dimostra all’evidenza la grandissima differenza esistente tra il partito tedesco di quell’epoca e il Partito operaio socialdemocratico di Russia dei nostri giorni. Questo fatto ci dimostra come i tratti proletari del movimento, la corrente proletaria, si fecero sentire molto più debolmente nella rivoluzione democratica tedesca causa l’arretratezza della Germania nel 1848 tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico (lo spezzettamento dello Stato)» (8).
Sono da ricordare alcuni scritti di Lenin, pubblicati nel 1907, sul carteggio e sulla attività di Carlo Marx: la Prefazione alla traduzione russa delle lettere di Carlo Marx a L. Kugelmann, l’articolo Franz Mehring e la seconda Duma e la Prefazione al carteggio con A. Sorge. Particolarmente interessante è l’ultimo scritto, che risale a un periodo di tempo in cui Lenin, impegnato in una polemica con Bodganov, riprendeva in esame le questioni della filosofia e della dialettica marxista.
Lenin imparò da Marx come il metodo del materialismo dialettico dev’essere applicato allo studio della evoluzione storica.
Nella Prefazione al carteggio con A. Sorge, egli scrive:
«Il confronto tra ciò che Marx ed Engels dicevano sui problemi del movimento operaio anglo-americano e su quelli del movimento operaio tedesco è straordinariamente istruttivo. Se si tiene presente che la Germania da una parte, l’Inghilterra e l’America dall’altra rappresentano fasi diverse dello sviluppo capitalistico, forme diverse del dominio della borghesia come classe in tutta la vita politica di questi paesi, il confronto sopra indicato assume una importanza particolarmente grande. Dal punto di vista scientifico abbiamo qui un modello di dialettica materialistica, della capacità di mettere in primo piano e di dare rilievo ai vari punti, ai diversi aspetti di una questione riferita alle particolarità concrete dell’una o dell’altra situazione, politica ed economica. Dal punto di vista della politica pratica e della tattica del partito operaio abbiamo qui un esempio del modo come i creatori del Manifesto comunista determinavano i compiti del proletariato in lotta a seconda delle diverse tappe del movimento operaio nazionale dei diversi paesi» (9).
La rivoluzione del 1905 mise all’ordine del giorno tutta una serie di nuove questioni, per risolvere le quali Lenin meditò ancora più, profondamente le opere di Marx. In questo modo venne creato nel fuoco della rivoluzione il metodo leninista di studio delle opere di Marx, metodo che è profondamente marxista.
Questo metodo fornì a Lenin molte armi per lottare contro le falsificazioni del marxismo, contro i tentativi di svuotarlo del suo contenuto rivoluzionario. Sappiamo quale parte eminente ebbe nell’organizzazione della rivoluzione di Ottobre e del potere dei Soviet il libro di Lenin Stato e Rivoluzione, frutto di uno studio profondo della dottrina marxista dello Stato. Eccone la prima pagina:
«Capita oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso capitato nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi del movimento di liberazione delle classi oppresse. Le classi dominanti hanno sempre perseguitato, in vita i grandi rivoluzionari, la loro dottrina è sempre stata oggetto dell’odio più selvaggio e delle più furibonde campagne di menzogne e di diffamazione. Ma, dopo morti si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per cosi dire, di cingere di un’aureola di gloria il loro nome, a consolazione, mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota la sostanza del loro insegnamento rivoluzionario, se ne smussa la punta rivoluzionaria, lo si avvilisce. A questo «trattamento» del marxismo collaborano ora la borghesia e gli opportunisti del movimento operaio. Si dimentica, si attenua, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo spiano e si esalta ciò che è, o sembra, accettabile per la borghesia. Tutti i socialsciovinisti (non ridete!) sono oggi marxisti. E gli eruditi borghesi di Germania, specializzati, sino a ieri, nella confutazione del marxismo, parlano sempre più di un Marx «nazionaltedesco» che avrebbe, a sentirli, educato i sindacati operai così magnificamente organizzati in previsione di una guerra di brigantaggio» (10).
Nei Principi del leninismo, il compagno Stalin scrive:
«Soltanto nel periodo successivo, periodo di azioni aperte del proletariato, periodo della rivoluzione proletaria, quando il problema del rovesciamento della borghesia diventò un problema pratico immediato, quando la questione delle riserve del proletariato (strategia) diventò una delle questioni più palpitanti, quando tutte le forme di lotta e d’organizzazione – parlamentari ed extraparlamentari (tattica) – si manifestarono nel modo più netto, soltanto in questo periodo poterono essere elaborate una strategia completa e una tattica approfondita della lotta del proletariato. Le idee geniali di Marx e di Engels sulla tattica e sulla strategia, che gli opportunisti della II Internazionale avevano sotterrato, furono riportate alla luce del sole da Lenin proprio in questo periodo. Ma Lenin non si limitò a restaurare le singole tesi tattiche di Marx e di Engels. Egli le sviluppò e le completò con idee e tesi nuove raccogliendo il tutto in un sistema di regole e di principi direttivi atti a guidare la lotta di classe del proletariato. Degli scritti di Lenin come Che fare?, Due tattiche, L’Imperialismo, Stato e Rivoluzione, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautski, La malattia infantile, costituiscono incontestabilmente un apporto preziosissimo al tesoro del marxismo, al suo arsenale rivoluzionario» (11).
Marx ed Engels dicevano che la loro dottrina non è un dogma, ma una guida per l’azione. Lenin non si stancava di ripetere queste parole e il suo metodo col quale studiava Marx ed Engels, unito alla pratica rivoluzionaria nel periodo delle rivoluzioni proletarie, lo aiutò a fare della dottrina rivoluzionaria di Marx una vera guida per l’azione.
Vorrei accennare ancora a una questione, la cui importanza è decisiva.
La rivoluzione d’Ottobre, l’instaurazione della dittatura del proletariato, modificarono profondamente tutte le condizioni di lotta, ma Lenin, che non era legato alla lettera degli scritti di Marx e di Engels, e ne aveva invece fatto suo il contenuto rivoluzionario, poté applicare il marxismo alla costruzione socialista nel periodo della dittatura proletaria.
E’ necessario fare, in questo campo del metodo di studio, un grande lavoro. Occorre ricercare tutto ciò che Lenin ha preso da Marx, stabilire in che modo se ne è impossessato, in quali periodi e in relazione a quali compiti del movimento rivoluzionario. Più di una volta ho fatto questa ricerca per problemi importanti come la questione nazionale, l’imperialismo, ecc. L’edizione delle opere complete di Lenin e dei suoi quaderni di studio facilitano questo lavoro. La via che Lenin ha seguito nello studio di Marx in tutte le tappe della lotta rivoluzionaria, dal principio alla fine, ci porterà a una migliore, a una più profonda comprensione non solo della dottrina di Marx, ma della dottrina stessa di Lenin, del suo metodo di servirsi della dottrina di Marx come guida per l’azione.
Si aggiunga che Lenin non studiava soltanto gli scritti di Marx e di Engels e dei loro «critici» ma anche la via seguita da Marx nell’elaborazione del suo pensiero, le opere, gli scritti che avevano stimolato Marx e lo avevano spinto in una certa direzione. Egli studiava, se cosi si può dire, le fonti della concezione marxista, tentava di stabilire che cosa Marx ed Engels avevano preso da altri scrittori, e quando. Soprattutto egli si sforzava di penetrare a fondo il metodo della dialettica marxista.
In un articolo sulla Importanza del materialismo militante, Lenin scriveva nel 1922 che i collaboratori della rivista Sotto la bandiera del marxismo avrebbero dovuto organizzare uno studio sistematico della dialettica di Hegel dal punto di vista materialistico. Egli pensava che senza un serio fondamento filosofico non si può respingere l’attacco delle ideologie borghesi, né lottare vittoriosamente contro la restaurazione della concezione borghese del mondo. Forte della propria esperienza, Lenin indicava come dev’essere organizzato lo studio della dialettica di Hegel da un punto di vista materialistico:
«Dobbiamo capire che senza un solido fondamento filosofico, nessuna scienza naturale, nessun materialismo può sostenere la lotta contro la pressione delle idee borghesi e la restaurazione della filosofia borghese. Per sostenere questa lotta e condurla fino in fondo con pieno successo, lo studioso di scienze naturali deve essere un materialista moderno, un consapevole seguace del materialismo dialettico… A tal fine i collaboratori della rivista Sotto la bandiera del marxismo devono organizzare uno stadio sistematico della dialettica di Hegel da un punto di vista materialistico, cioè lo studio di quella dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale, nei suoi lavori politici e storici.
«Se teniamo presente come Marx applicava la concezione materialistica della dialettica di Hegel, possiamo e dobbiamo rielaborare questa dialettica in tutti i suoi aspetti, pubblicare nella rivista passi delle principali opere di Hegel, interpretarli materialisticamente, commentarli con esempi di applicazione della dialettica in Marx, e con gli esempi di dialettica nel campo economico e politico forniti in grande copia dalla storia più recente, e in particolare dalla guerra imperialistica e dalla rivoluzione. Il gruppo dei redattori e collaboratori della rivista Sotto la bandiera del marxismo dovrebbe essere, secondo me, una specie di «società degli amici materialisti della dialettica hegeliana». I moderni studiosi di scienze naturali (se sapranno cercare e se noi impareremo ad aiutarli) troveranno nell’interpretazione materialistica della dialettica di Hegel una serie di risposte alle questioni filosofiche che portano la rivoluzione nelle scienze e a causa delle quali gli intellettuali che seguono la moda borghese incappano nella reazione» (12).
Per concludere, alcune parole sul lavoro svolto da Lenin per popolarizzare la dottrina di Marx.
Un esempio caratteristico di popolarizzazione leninista è il seguente brano di un suo intervento nella discussione sui sindacati svoltasi nel 1921.
«Per conoscere veramente un oggetto, bisogna studiare e comprendere tutti i suoi aspetti, in tutti i nessi e le «mediazioni». Non raggiungeremo mai completamente questo risultato, ma l’esigenza di una ricerca che abbracci tutti gli aspetti ci aiuterà a evitare errori e schematismi. Questo in primo luogo. In secondo luogo la logica dialettica esige che si consideri l’oggetto nel suo svolgimento, nel «movimento di sé stesso» (come diceva Hegel). In terzo luogo tutta la prassi umana deve entrare nella «determinazione» dell’oggetto, sia come criterio di verità, sia come momento pratico che determina il rapporto dell’oggetto con ciò di cui l’uomo ha bisogno. In quarto luogo la logica dialettica insegna che «non c’è verità astratta, che la verità è sempre concreta», come soleva dire, con Hegel, il defunto Plekhanov» (13).
Il modo come Lenin ha studiato Marx ci insegna come noi stessi dobbiamo studiare l’opera di Lenin. La sua dottrina è unita in modo indissolubile alla dottrina di Marx, essa è marxismo in azione, è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria.

Note
1. LENIN, Opere Complete, 3ª ediz. Russa, vol. XXV, p. 388.
2. Ibid., vol. XI, pp. 174-175.
3. Ibid., vol. XI, p. 76.
4. Simili cioè ai liberali russi il cui organo di stampa era l’Osvobosdeme (La liberazione).
5. LENIN, Opere scelte in due volumi (in italiano), Edizioni in lingue estere, Mosca 1946, pp. 346-347.
6. Ibid., p. 382.
7. Ibid., p. 393.
8. Ibid., pp. 421-422.
9. LENIN, Opere Complete, 3ª ediz. Russa, vol. XI, p. 166.
10. Ibid., vol. XXI, p. 371.
11. STALIN, Questioni del Leninismo, traduzione di P. Togliatti, Casa Editrice «L’Unità», Roma 1945, p. 70.
12. LENIN, Opere Complete, 3ª ediz. Russa, vol. XXVII, pp. 187-188.
13. Ibid., vol. XXVI, pp. 134-135.

Edited by Andrej Zdanov - 7/6/2013, 22:22
view post Posted: 24/4/2013, 23:10 Verbale della discussione del 24 aprile 1950 - Cinque conversazioni con economisti sovietici

Verbale della discussione del 24 aprile 1950
ore 23.30


Vorrei fare alcune osservazioni sul nuovo progetto di manuale di economia politica.
Ho letto un centinaio di pagine relative alle formazioni precapitalistiche e al capitalismo. Ho dato anche un’occhiata alla sezione sul socialismo. Del socialismo parleremo un’altra volta. Oggi voglio parlare dei difetti contenuti nella sezione sul capitalismo e sulle formazioni precapitalistiche. Il lavoro della Commissione ha seguito una strada sbagliata. Avevo detto che la prima variante del progetto di manuale avrebbe dovuto essere accettata come base. E ciò, evidentemente, è stato inteso nel senso che il manuale non aveva bisogno di particolari correzioni. Questo è sbagliato. Sono necessarie delle correzioni sostanziali.
Il primo e principale difetto del manuale, che rivela una completa ignoranza del marxismo, riguarda i periodi della manifattura e della produzione a macchina nel capitalismo. La sezione sul periodo del capitalismo manifatturiero è gonfiata; le sono state dedicate 10 pagine, e ha più importanza del periodo della produzione a macchina. Anzi, il periodo della produzione a macchina capitalistica non c’è; è semplicemente scomparso. Al periodo della produzione a macchina non è stato concesso un capitolo separato, gli sono state dedicate poche pagine nel capitolo su «Capitale e plusvalore». Prendete il Capitale di Marx. Nel Capitale il periodo manifatturiero del capitalismo occupa 28 pagine, e il periodo della produzione a macchina 110 pagine. Anche in altri capitoli Marx parla moltissimo del periodo della produzione a macchina. Un marxista come Lenin, nella sua opera Lo sviluppo del capitalismo in Russia, dedicò una particolare attenzione al periodo delle macchine. Senza macchine non c’è capitalismo. Le macchine sono la principale forza rivoluzionaria che ha trasformato la società. Nel manuale non è stato dimostrato che cosa implica realmente un sistema di macchine. Sul sistema di macchine non è stata detta, letteralmente, una sola parola. Perciò l’intero quadro dello sviluppo capitalistico è stato distorto.
La manifattura si basa sul lavoro manuale degli artigiani. La macchina spazza via il lavoro manuale. La produzione a macchina è produzione su larga scala e si basa sul sistema di macchine.
Dobbiamo tener conto che i nostri quadri, i nostri giovani, il nostro popolo, hanno ricevuto un’istruzione di 7-10 anni. Si interessano di tutto. Sanno prendere in considerazione il Capitale di Marx e le opere di Lenin. Possono chiedere: perché l’esposizione della questione non è stata fatta al modo di Marx e di Lenin? E’ questo il difetto principale. Dobbiamo presentare la storia del capitalismo secondo Marx e Lenin. Nel manuale è necessario un capitolo particolare sul periodo della produzione a macchina, e quello sulla manifattura dev’essere abbreviato.
Il secondo serio difetto del manuale è che manca un’analisi dei salari. Il problema principale non è stato chiarito. I salari sono presi in considerazione nella sezione sul capitalismo premonopolistico, come ha fatto Marx. Non c’è nulla sui salari nelle condizioni del capitalismo monopolistico. Una quantità di tempo è passata dopo Marx.
Che cosa sono i salari? I salari sono costituiti da un minimo vitale, più qualche risparmio. E’ necessario mostrare che cos’è il minimo vitale, che cosa sono i salari nominali e reali, e dimostrarlo in modo vivace e convincente. In Francia, dove il valore della moneta è in diminuzione, si ricevono milioni, ma non si può comprare qualsiasi cosa. In Inghilterra gridano di avere il più alto livello salariale e merci a buon mercato. E nascondono continuamente il fatto che, anche se i salari nominali possono essere alti, essi non sono sufficienti a garantire il minimo vitale, per non parlare dei risparmi. In Inghilterra i prezzi di certi prodotti, come il pane e la carne, sono bassi, ma i lavoratori li ricevono razionati, in piccole quantità. Altri prodotti sono comprati sul mercato a prezzi inflazionati. Hanno una molteplicità di prezzi. Gli americani si vantano molto dei loro elevati livelli di vita, ma, secondo i loro stessi dati, due terzi dei loro operai non godono del minimo vitale. Tutti questi trucchi dei capitalisti debbono essere denunciati. Dobbiamo mostrare, sulla base dei fatti concreti, a questi lavoratori inglesi, i quali hanno goduto a lungo dei sovraprofitti coloniali, che la caduta dei salari reali sotto il capitalismo è inevitabile.
Dobbiamo dir loro che da noi, durante la guerra civile, tutti erano milionari. Durante la guerra civile i prezzi erano scesi al livello più basso, il pane era venduto a un rublo al chilo, ma i prodotti erano razionati.
Da noi il calcolo dei salari è fatto in modo diverso. E’ necessario mostrare, in base ai fatti concreti, la situazione dei salari reali nel paese. Ciò ha una grande importanza per la propaganda rivoluzionaria.
Sarebbe giusto occuparsi della questione dei salari nella sezione sul capitalismo monopolistico e trattarla in termini contemporanei.
Nel progetto di manuale un grosso capitolo è dedicato all’accumulazione originaria. Potere parlarne con poche parole in un paio di pagine. Qui si fa menzione di come una certa duchessa cacciava i contadini dalle loro terre. Chi credete di impressionare oggi con questi discorsi? E le cose più importanti sono state tralasciate. L’epoca dell’imperialismo fornisce esempi molto più vivi.
Per quanto riguarda il piano strutturale del manuale, la sezione sul capitalismo dev’essere divisa in due parti: A, il capitalismo premonopolistico; B, il capitalismo monopolistico.
E adesso sull’oggetto dell’economia politica. Quel che si trova nel manuale non è una definizione dell’oggetto dell’economa politica, ma piuttosto un’introduzione ad essa. Una definizione dell’oggetto dell’economia politica e un’introduzione ad essa sono cose diverse. In questo contesto la seconda variante è più vicina all’argomento, benché, anche qui, voi finiate col fornire un’introduzione.
Qui vengono spiegati alcuni termini economici usati da Marx. Ciò aiuta il lettore ad avvicinarsi a una comprensione delle opere economiche di Marx e di Lenin.
Qui è scritto che l’economia politica analizza i rapporti di produzione; ma ciò non è comprensibile a tutti. Dite che l’economia politica esamina i rapporti di produzione e di scambio. Questo è sbagliato. Prendete lo scambio. Non c’era scambio nella società primitiva. Esso non era sviluppato neppure nella società schiavistica. Anche il termine «circolazione» non va. Tutto questo non è molto utile neppure per quanto riguarda il socialismo. Si dovrebbe dire: l’economia politica studia la produzione e la distribuzione dei beni materiali. Questa definizione è applicabile a tutti i periodi. La produzione consiste nel rapporto dell’uomo con la natura, e la distribuzione mostra nelle mani di chi vanno i beni prodotti. Questo è il lato puramente economico.
Nel manuale non c’è passaggio dall’oggetto dell’economia politica alla società primitiva. Marx comincia il Capitale con la merce, e perché allora voi cominciate con la società primitiva? Ciò ha bisogno di essere spiegato.
Vi sono due metodi di esposizione: uno è il metodo analitico e astratto. Questo metodo comincia con l’esporre i concetti generali ed astratti, insieme all’uso di materiali storici. Questo metodo di esposizione (che è quello usato da Marx nel Capitale) è destinato alle persone più preparate. L’altro metodo è quello storico. Esso fornisce un’esposizione dello sviluppo storico dei vari sistemi economici ed enuclea i concetti generali sulla base del materiale storico. Se volete che la gente capisca la teoria del plusvalore, esponete il problema partendo dal momento nel quale nasce il plusvalore. Il metodo storico è destinato alle persone meno preparate. E’ più accessibile, perché conduce abilmente il lettore a comprendere le leggi dello sviluppo economico. (Legge la definizione del metodo analitico e del metodo storico).
Nel manuale si parla di stato selvaggio e di barbarie al modo di Engels. Ciò non porta da nessuna parte. É cosa senza valore. Engels, nella sua opera, non voleva avere divergenze con Morgan, che a quell’epoca si stava avvicinando al materialismo. Ma questo era affare di Engels. Come può riguardarci? La gente potrebbe dire che siamo dei cattivi marxisti perché non aderiamo all’esposizione di Engels. Niente affatto. Qui abbiamo un salto enorme: età della pietra, età del bronzo, sistema parentale, matriarcato, patriarcato, e soprattutto stato selvaggio e barbarie. Tutto questo confonde le idee al lettore. Stato selvaggio e barbarie sono espressioni sprezzanti coniate dai popoli «civili».
Nel manuale c”è una quantità di discorsi incomprensibili, di parole non necessarie, e una quantità di excursus storici. Ho letto un centinaio di pagine e ne ho cancellate dieci, e avrei potuto cancellarne molte di più. In un manuale non dovrebbe esservi neppure una parola superflua, l’esposizione dovrebbe essere scolpita con grande esattezza. E qui, e alla fine della sezione, vi sono ridicolaggini come questa: voi imperialisti siete dei farabutti, avete la schiavitù, il lavoro coatto, ecc. Sono tutte ridicolaggini da Komsomol e da manifesti di propaganda. Ciò serve a perdere tempo e a creare confusione. Abbiamo bisogno di influire sulla mente delle persone..
Di Tommaso Moro e Campanella dite che erano isolati e non avevano rapporti con le masse. Ciò desta soltanto il riso. E’ veramente importante? E allora? Anche se fossero stati vicini alle masse, che cosa ci avrebbe dato quella loro vicinanza? Quel livello di sviluppo delle forze produttive comportava l’ineguaglianza, che derivava dai rapporti di proprietà. Era assolutamente impossibile superare quell’ineguaglianza. Gli utopisti non conoscevano le leggi dello sviluppo sociale. Qui abbiamo un’interpretazione idealistica.
E’ necessario che i nostri quadri abbiano una conoscenza completa della teoria economica marxista.
La prima, vecchia generazione dei bolscevichi era molto solida teoricamente. Imparavamo il Capitale a memoria, facevamo dei sommari, tenevamo delle discussioni e verificavamo reciprocamente le nostre conoscenze. Questa fu la nostra forza, e ci aiutò molto.
La seconda generazione era meno preparata. Si occupavano di problemi pratici e di costruzione. Studiavano il marxismo sugli opuscoletti.
La terza generazione è stata tirata su con la satira e con gli articoli di giornale. Non hanno una conoscenza profonda. Hanno bisogno che gli sia fornito un cibo facilmente digeribile. La maggioranza è stata tirata su non con lo studio di Marx e di Lenin, ma con le citazioni.
Se le cose continueranno così, la gente finirà ben presto col degenerare. In America dicono: A noi servono i dollari, che bisogno abbiamo di teoria? che bisogno abbiamo di scienza? Da noi la gente potrebbe pensare allo stesso modo: «Se stiamo costruendo il socialismo, che bisogno abbiamo del Capitale?» Questa per noi è una minaccia: è il degrado, è la morte. Per non trovarci in una simile situazione, neanche in parte, dobbiamo migliorare il livello delle conoscenze economiche.
Non è necessario l’attuale numero di pagine: è stato gonfiato fino a 766 pagine. Sono sufficienti non più di 500 pagine: metà di esse debbono essere dedicate al sistemi presocialisti, e metà al socialismo.
Gli autori della prima variante non si sono preoccupati di spiegare la terminologia usata da Marx nel Capitale. I termini più frequentemente usati da Marx e da Lenin debbono essere presentati fin dall’inizio, per consentire al lettore di comprendere il Capitale e le altre opere di Marx e di Lenin.
E’ male che non vi siano discussioni e lotte in seno alla Commissione sulle questioni teoriche. Tenete presente che il vostro lavoro ha un’importanza storica. Il manuale sarà letto da tutti. Sono ormai 33 anni che esiste il potere sovietico, eppure non abbiamo un testo di economia politica. Tutti lo stanno aspettando.
Dal punto di vista letterario il manuale non è redatto bene. C’è una quantità di discorsi incomprensibili, e un gran numero di digressioni di storia civile e culturale. Questo non è un manuale di storia della cultura. Non c’è bisogno di tanti excursus storici: essi ci debbono essere solo quando sono necessari per illustrare le proposizioni teoriche.
Attenetevi al Capitale e allo Sviluppo del capitalismo di Lenin, e usateli come guida del vostro lavoro.
Quando il manuale sarà pronto, lo sottoporremo al giudizio dell’opinione pubblica.
Un’ultima osservazione. Nel manuale il capitalismo è esaminato solo nel settore industriale. E’ necessario prendere in considerazione l’intera economia. Nel Capitale anche Marx si occupa prevalentemente dell’industria. Ma il suo obbiettivo era diverso. Egli doveva denunciare il capitalismo e i suoi mali. Marx capiva bene l’importanza dell’economia come un tutto. Ciò risulta evidente dall’importanza che egli attribuisce al Tableau économique di Quesnay. Non dobbiamo limitarci a illustrare i problemi dell’agricoltura solo nel capitolo dedicato alla rendita fondiaria.
Noi non abbiamo soltanto denunciato il capitalismo; l’abbiamo rovesciato, e ora siamo al potere. Sappiamo qual è il ruolo e l’importanza dell’agricoltura nell’economia nazionale.
Come Marx, anche il nostro progetto dedica un’insufficiente attenzione all’agricoltura. Ciò dev’essere corretto.
Dobbiamo studiare le leggi economiche nel loro complesso. Non dobbiamo trascurare i rapporti agricoli nel capitalismo e nel socialismo.

Testo redatto in base tigli appunti di [L.A.] Leontiev, [K. V.] Ostroviyianov, [D.T.] Scepilov, [P.F.] Yudin.
181 replies since 24/6/2011