Archivio Ždanov

Posts written by Alaricus Rex

view post Posted: 13/1/2013, 19:48 Su una critica “hoxhaista” dello “zdanovismo” - Articoli dei membri della Scuola quadri
Visto che il forum su cui il mio avversario (Hoxhaista Ortodosso) aveva pubblicato il suo articolo è stato chiuso, riproduco direttamente qui il bersaglio della mia controcritica:


Per una critica dello Zdanovismo


Premessa e introduzione


Il fenomeno dello Zdanovismo, sebbene non sia particolarmente dibattuto nell’ambito della dialettica teorica del movimento comunista internazionale, costituisce una questione di cruciale importanza per la formazione e l’educazione delle forze rivoluzionarie, sovente sottoposta a mistificazioni errate, sia da parte degli ammiratori di Zdanov che dei suoi detrattori. Innanzitutto, occorre precisare che il presente articolo, lungi dall’essere una condanna perentoria e definitiva dello Zdanovismo, intende rivelarsi un utile contributo all’approfondimento di questo fenomeno, approfondimento incentrato sulle sue caratteristiche negative, sui danni che questo fenomeno può apportare nella prassi e nella teoria del movimento comunista internazionale, danni che si estendono dall’ambito prettamente artistico e culturale, sino alla politica estera. Il presente articolo, conseguentemente, intende costituire una fonte alternativa di spunti e riflessioni inerenti il fenomeno dello Zdanovismo, che differisca dall’impostazione critica nei confronti della politica zdanoviana di carattere trotskista ed eurocomunista, in quanto il presente articolo è volto altresì a rigettare tale impostazione critica, basata su presupposti totalmente differenti da quelli marxisti-leninisti. Infatti, esso non costituisce un altro degli innumerevoli irritanti echi “anti-totalitari”, esso non critica la politica zdanoviana come “oppressiva”, esso non difende le presunte vittime di un’altrettanta presunta “espressione culturale della dittatura stalinista”. No, il presente articolo non critica l’operato del compagno Stalin, non è una febbrile lagna sinistroide, bensì un tentativo di confutare e debellare un fenomeno che, a nostro dire, costituisce l’altra faccia della medaglia dell’anticomunismo, una faccia della medaglia sulla quale sono raffigurate le meschine aspirazioni nazionalistiche grandi-russe e l’individualismo anti-proletario ultra-intellettualistico che Zdanov e gli zdanoviani, per il momento, sono riusciti abilmente a celare esaltando un Realismo “Socialista” che potrebbe essere definito la “quinta colonna culturale” dell’arte e la filosofia mecenatistiche dei più riprovevoli ambienti monarchici dell’Europa del XVIII-XIX Secolo.
Pertanto, questo articolo suddivide la critica dello Zdanovismo in base ai vari ambiti lambiti da quest’ultimo. Cominciando da quello principale, inerente la politica artistico-culturale zdanoviana, sino alle considerazioni inerenti la teoria della lotta di classe nella società socialista e la politica estera.


La politica artistico-culturale


Nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, sino agli Anni Trenta, l’arte e la cultura sovietica conobbero un successo e una diffusione inimmaginabile, varcarono i confini dello stato sovietico costituendo l’espressione universale della cultura dei proletari e dei contadini, oltre ad essere elogiate in patria, accettate dalle autorità sovietiche sia durante il governo di Lenin che quello di Stalin, e ancora oggi riscuotono ammirazione e compiacimento quando vengono rimembrate e menzionate dai progressisti di tutto il mondo, al punto che taluni quartieri operai sovietici formarono persino gruppi “comunisti-futuristi”. Durante questo periodo, l’età dell’oro della cultura, dell’arte e della poesia sovietiche, si affermò il nuovo stile rivoluzionario, la forma innovativa dal contenuto genuinamente proletario: il Futurismo Sovietico, del quale Vladimir Majakovskij fu l’esponente maggiormente illustre, corrente artistica la quale, in concomitanza con il proletariato russo, sembrò scalzare definitivamente gli elementi reazionari, aristocratici e borghesi, della cultura e dell’arte, mettendo in atto pertanto la rivoluzione anche nell’ambito sovrastrutturale. Ciononostante, inaspettatamente, il 14 Aprile 1930 a Mosca, Majakovskij si suicidò, oppure, con molta probabilità, fu vittima di un omicidio, presentato all’opinione pubblica come un suicidio. Le cause di questo incomprensibile gesto non sono mai state sufficientemente definite, tuttavia, supponendo come veritiera l’ipotesi della costrizione esterna, chi mai avrebbe potuto nutrire interesse nell’eliminazione fisica del cantore ufficiale della Rivoluzione e del Proletariato? Il fatto maggiormente sconcertante è che a pochi anni di distanza della morte di Majakovskij, nel 1934, Andrej Zdanov e Maksim Gorkij teorizzarono il Realismo Socialista come corrente artistica e letteraria ufficiale dello stato sovietico. Ma quali sono le condizioni connotative nelle quali il Realismo Socialista è stato impostato e, soprattutto, quali sono i suoi presupposti strutturali? Per quanto concerne i presupposti prettamente culturali, Zdanov e gli zdanoviani esaltano la classicità del Realismo Socialista, presentando quest’ultimo come rivisitazione delle forme stilistiche classiche propugnate da artisti e letterati russi del XIX Secolo, fra cui Plekhanov (celebre rinnegato). Tuttavia, oltre alla palese influenza sciovinistica e nazionalista grande-russa manifestatasi in tale impostazione, un rilevante tentativo mistificatorio si profila nel delineamento di questi presupposti: l’asserzione secondo cui nel realismo, o perlomeno nell’arte socialista nel suo complesso, sia implicito il classicismo, che il classicismo sia un elemento costante e inamovibile di questa loro concezione dell’arte cui appioppano spudoratamente l’impropria definizione di “socialista”. Zdanov in questo modo sostiene la sovrapposizione di tendenze stilistiche appartenenti a sovrastrutture differenti dei rapporti sociali. Tuttavia il concetto di sovrapposizione è antidialettico, non si addice ad una politica culturale marxista-leninista, che invece si dovrebbe differenziare radicalmente dalle scelte stilistiche antecedenti, così come il socialismo ed il comunismo si differenziano, per loro natura, dai rapporti di produzione capitalistici. A tal proposito, sarebbe utile rammentare Engels, il quale, sebbene trattasse un argomento differente dall’arte, scrisse:

“Se ancora dieci anni fa la grande legge fondamentale del movimento appena scoperta era concepita come una semplice legge della conservazione dell'energia, come una semplice espressione dell'indistruttibilità e increabilità del movimento, e quindi semplicemente nel suo aspetto quantitativo, questa ristretta espressione negativa viene sostituita sempre più dall'espressione positiva della trasformazione dell'energia, in cui per la prima volta il contenuto qualitativo del processo prende il suo giusto posto e viene cancellato l'ultimo ricordo di un creatore fuori del mondo.”. (1)

Di conseguenza, alla luce dell’asserzione di Engels in merito all’energia, i processi di interazione dialettica della materia, e pertanto della struttura, non sono contrassegnati, o per meglio dire egemonizzati dalla semplice conservazione quantitativa in virtù della quale un determinato stato della materia presenta i caratteri degli stati precedenti essendo inapplicato il principio di distruzione e sostituzione, bensì sono permeati nella trasformazione qualitativa, ovvero quella trasformazione in virtù della quale l’accumulazione quantitativa non prevede la conservazione della quantità, ma la sua distruzione al momento del conseguimento della qualità! Zdanov sottolinea la presunta insuperabile grandezza del Realismo Socialista adducendo la motivazione della coesione fra le forme stilistiche maggiormente “illustri” (classificazione inesistente nella tradizione dialettica marxista) susseguitisi nella storia e conservate nella natura della nuova arte da lui teorizzata, ma questo è esattamente l’opposto del principio enunciato da Engels in merito al rapporto quantità-qualità. Immaginate uno Stato Socialista che sia contemporaneamente Repubblica borghese, monarchia costituzionale ottocentesca di carattere imperiale, monarchia assoluta medievale e aggregazione tribalistica. Avete presente l’assurdità di un tal genere di organizzazione statale dal punto di vista del Materialismo Storico? Ecco, la medesima assurdità di denota nell’elaborazione del Realismo Socialista, inteso da Zdanov come arte “proletaria”, ma al contempo come apogeo dei “migliori elementi” dell’aristocrazia e della borghesia ottocentesca russa (!).

Dunque, una concezione dell’arte che non tiene particolarmente conto della provenienza sociale dei suoi esponenti, nonché de loro passato professionale. Infatti, Zdanov, durante un incontro con i compositori risalente al gennaio 1948, disse: “Il partito ha pienamente riconosciuto tutta la sua importanza all’eredità classica di Repin, di Brjullov, di Verescagin, di Vasnetsov, di Surikov.”. (2). Quali sono le conseguenze di questo riconoscimento dell’eredità classica dei suddetti artisti? Le conseguenze consistono nell’agevolazione della realizzazione di opere la natura dei cui soggetti risulta contraddittoria persino con le intenzioni apparentemente intransigenti di Zdanov in merito al carattere di classe dell’arte. A tal proposito, il Manifesto d’Ottobre di Repin, che si suppone intenda rappresentare l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, può essere considerato tutto fuorchè un’esaltazione del carattere proletario della Rivoluzione che il Realismo zdanoviano si proporrebbe di promuovere. Infatti, in primo piano si notano persone i cui abiti e atteggiamenti sono inequivocabilmente riconducibili a quelli dell’alta borghesia, mentre le masse popolari sono rappresentate in modo incerto e disordinato, come un’unica entità priva di tratti identificabili, sullo sfondo. Ulteriormente peggiore si rivela l’opera intitolata Gli ultimi giorni di Pompei di Brujllov, dalla quale traspare la medesima decadenza tanto criticata da Zdanov nel Rapporto sulle riviste Zviezdà e Leningrad. Le uniche opere che si avvicinano, seppur minimamente, anche solo al realismo ottocentesco, sono quelle di Verescagin, Vasnetsov e Surikov, le cui opere tuttavia sono completamente avulse dalla rappresentazione della quotidianità del lavoro e della vita delle masse popolari proletarie e contadine, mentre sono incentrate prevalentemente sulla rappresentazione di paesaggi e di eventi storici risalenti al periodo zarista (Il mattino dell’esecuzione degli Strel’cy di Surikov). Questi sono i presunti “benefici” apportati dall’”eredità culturale” “riconosciuta” (per meglio dire, imposta), da uno Zdanov che si erge spudoratamente a Partito.

Il caratteristico conciliazionismo unitario inter-sovrastrutturale simil-nazionalistico zdanoviano rievoca alla mente la concezione trotskista dell’arte, espressa nelle seguenti frasi di Trotsky: “Non è vero che l’arte rivoluzionaria può essere creata esclusivamente dai proletari.” (3) e “Il partito valuta i gruppi letterari non dal punto di vista dalla classe di appartenenza dei singoli gentiluomini letterati, ma dal punto di vista della posizione che questi gruppi occupano e possono occupare nel preparare una cultura socialista.”. (4). Ulteriore testimonianza del ruolo di “quinta colonna culturale” rivestito dallo Zdanovismo.


La concezione zdanoviana della lotta di classe


Durante una riunione di filosofi sovietici tenutasi il 24 giugno 1947, Zdanov asserisce:
“Nella nostra società sovietica, in cui sono state liquidate le classi antagonistiche, la lotta fra il vecchio ed il nuovo, e, di conseguenza, lo sviluppo dall'inferiore al superiore, non avviene nella forma di una lotta di classi antagoniste, di cataclismi, come succede nel capitalismo, ma bensì nella forma della critica ed autocritica, che sono l'autentica forza motrice del nostro sviluppo, un potente strumento nelle mani del partito.”. (5)

In seguito ad un’attenta analisi, non sarebbe errato ritenere che tale affermazione celi un tranello, in quanto Zdanov, pur ammettendo apparentemente la necessità dell’autocritica per il consolidamento del Partito nel solco dell’efficienza, limita tale necessità soltanto al singolo contesto temporale del dopoguerra sovietico, alle immediate vicissitudini di carattere pratico del dopoguerra sovietico, senza prospettare un ulteriore aspetto dell’autocritica che invece è tralasciato, ovvero quello attinente alla sua connotazione prevalentemente preventiva, sebbene Stalin affermasse che “La parola d'ordine dell’autocritica non deve essere considerata qualcosa di transitorio e fugace.”. (6) Questa connotazione di carattere preventivo dell’autocritica, in virtù della quale quest’ultima si rivela uno strumento non soltanto finalizzato alla risoluzione delle contraddizioni fra classi non antagonistiche, bensì specialmente alla liquidazione dei germi primordiali dell’apparato burocratico sovietico dai quali sarebbe scaturita successivamente la degenerazione kruscioviana e social-imperialista (i legami fra zdanovismo e social-imperialismo saranno trattati in seguito nel presente articolo), è sottolineata da Stalin nel discorso Sull’autocritica, pubblicato nell’XI Volume delle Opere Complete:

“Che cosa ci aspettiamo soprattutto dalla parola d'ordine dell'autocritica, quali risultati può avere se viene fatta in modo giusto e corretto? In primo luogo deve elevare la vigilanza della classe operaia, acuire la sua attenzione per quanto riguarda nostri difetti, facilitare l’eliminazione di questi difetti e rendere impossibili le «sorprese» d’ogni genere nel nostro lavoro di edificazione. Avete notato chi non solo l'affare Schachty, ma anche la crisi dei rifornimenti nel 1928 fu una «sorpresa» per molti di noi? L'affare Schachty è particolarmente significativo a questo riguardo. Per la durata di cinque anni un gruppo controrivoluzionario di specialisti borghesi, che ricevevano le direttivela organizzazioni antisovietiche del capitale internazionale, poté compiere le sue malefatte.[...] Per la durata di cinque anni questo gruppo controrivoluzionario dì specialisti compì un'opera di sabotaggio della nostra industria, faceva saltare caldaie, distruggeva turbine, ecc. Ma noi, stavamo li, come se tutto andasse per il meglio. E «all’improvviso» come un fulmine a ciel sereno l’affare Schachty.”. (7)

La (volontaria?) sottovalutazione, da parte di Zdanov, del pericolo costituito dal carattere neo-borghese della burocrazia del Partito, entità sociale che Stalin stesso reputava antagonistica, congiunta all’astuta distorsione pressoché impercettibile del concetto di autocritica, sono le espressioni di una linea generale della burocrazia carrierista del dopoguerra sovietico che le consentirono di ingannare il popolo sovietico propagandando ai quattro venti l’inesistenza di alcuna minaccia, essendo stata liquidata “la lotta fra il vecchio e il nuovo”, ed ottenendo in tal modo la possibilità di avviare il processo golpista finalizzato al putsch culminato con la suddivisione dei poteri, alla morte di Stalin, fra Krusciov; Bulganin; Beria; Malenkov e Mikoyan. Zdanov si rese “portavoce occulto” di queste tendenze permissive e sbrigative in relazione alla teoria leninista del consolidamento continuo ed ininterrotto della Rivoluzione, si rese “la pecora nera tinta di bianco”.


Lo scioglimento del Comintern e la questione del social-imperialismo


Nel Rapporto alla I Conferenza dell’Ufficio d’Informazione dei Partiti Comunisti, pronunciato nel settembre 1947, Zdanov, in merito allo scioglimento del Comintern, affermò:

“Lo scioglimento del Comintern, rispondente alle esigenze dello sviluppo del movimento operaio e alle condizioni della nuova situazione storica, ha esercitato una funzione positiva. Lo scioglimento del Comintern ha messo fine per sempre alla calunnia, propalata dagli avversari del comunismo e del movimento operaio, che Mosca si ingerisse nella vita interna degli altri Stati e che i partiti comunisti dei diversi paesi non agissero nell’interesse del loro popolo, ma secondo ordini dall'esterno.”. (8)

Egli sostiene la necessità dello scioglimento dell’Internazionale Comunista basandosi fondamentalmente su due presupposti principali, ovvero il timore delle calunnie imperialiste e un mutamento delle condizioni storiche. Effettivamente, questi due elementi, le calunnie e le condizioni storiche mutate, si sono verificate. Tuttavia, il fatto di reputarle una motivazione valida allo scioglimento del Comintern costituisce l’esempio del più meschino condizionamento e di soggezione alla borghesia imperialista, atteggiamento deleterio in quanto forma primordiale dell’accondiscendenza revisionista nei confronti dell’imperialismo e dei suoi ricatti, atteggiamento il quale, qualora fosse stato intrapreso dalla dirigenza staliniana durante la lotta contro le azioni destabilizzanti dell’organizzazione trotskista-buchariniana, avrebbe agevolato i nemici della Rivoluzione esclusivamente a causa di uno spregiudicato timore delle reazioni della borghesia che, pur essendosi verificate nel solco nell’unanime condanna ipocritamente umanitaria della repressione dei “dissidenti” in Urss, certamente non intimorirono Stalin e non lo indussero a desistere dalla difesa dello Stato Sovietico dai sabotaggi e dalle azioni terroristiche e destabilizzanti. Pertanto, il tranello celato da Zdanov in questa sua prima motivazione dello scioglimento del Comintern consiste proprio nel seguente atteggiamento: l’accondiscendenza nei confronti della borghesia imperialista, l’attribuzione di una maggiore rilevanza alla forma, anziché al contenuto, nell’ambito del contesto dell’antagonismo fra lo Stato Sovietico e i paesi imperialisti occidentali.

Per quanto concerne la motivazione inerente il mutamento delle condizioni storiche, nel medesimo Rapporto Zdanov sottolinea l’avvenuto consolidamento dei partiti comunisti del blocco socialista e la conseguente presunta inutilità dell’esistenza dell’Internazionale Comunista. In questo modo egli mistifica e stravolge completamente la funzione fondamentale del Comintern, che non si riduce soltanto alla mera prospettiva di un consolidamento dei partiti comunisti, la quale costituisce invece uno dei molteplici obiettivi di carattere tattico e non strategico come intende presentarlo Zdanov, ma consiste specialmente e principalmente nel fatto di costituire un valido supporto politico alla diffusione del comunismo in funzione ausiliaria alle lotte di liberazione nazionale dei popoli oppressi dei paesi coloniali. Zdanov , invece, riduce la sua funzione al consolidamento dei partiti comunisti dell’Europa Orientale (in pratica quelli delle cosiddette democrazie popolari) e, in tal modo, esclude conseguentemente, seppur in maniera implicita, l’eventualità di una futura degenerazione revisionista dei suddetti partiti, che effettivamente avvenne e, per quanto concerne l’appoggio ai movimenti anticoloniali di liberazione nazionale, rende tale appoggio completamente scevro del necessario aspetto politico per il quale era stato preposta l’Internazionale Comunista. A tal proposito Stalin, nella discussione del 5 luglio 1928 in merito ai compiti dell’Internazionale Comunista, osserva:

“Soprattutto compagni, bisogna esaminare la questione dell'ampiezza del progetto del programma dell'Internazionale Comunista.
Si dice che il progetto di programma sia troppo grande, troppo ampio. Si chiede che il programma contenga alcune formule generali, che ci si limiti a questo e che tali formule vengano chiamate programma. Penso che queste richieste siano prive di fondamento. Chi chiede la riduzione del programma alla metà o addirittura a un terzo, non capisce i compiti dinanzi a cui si sono trovali gli autori del progetto di programma.
Si tratta del fatto che il programma dell’ I.C. non può essere il programma del Partito di un qualsiasi paese, oppure, diciamo, un programma per sole nazioni «civilizzate». Il programma deve abbracciare tutti i partiti comunisti del mondo, tutte le nazioni, tutti i paioli. sia bianchi che di colore. Questo é il tratto principale e più caratteristico del progetto di programma.
. (9)

Infine, nel Rapporto del 1947 Zdanov sostiene altresì la necessità di sostituire l’Internazionale Comunista con una nuova forma di organizzazione internazionale, che attenga specialmente alle nuove esigenze del blocco socialista in riferimento all’opposizione militare contro l’Imperialismo. Qual’è l’ennesimo tranello celato in questa asserzione? L’ennesimo tranello consiste nel fatto di trascurare appositamente la differenziazione connotativa ed ontologica fra l’Internazionale Comunista, organizzazione di carattere prettamente politico, e l’organizzazione militare desiderata da Zdanov, il cui desiderio si suppone sia stato realizzato da Krusciov tramite l’elaborazione e la ratificazione del Trattato di Varsavia, nel 1955. In questo modo, la cooperazione politica ed ideologica dei partiti comunisti, a livello internazionale, viene compromessa e cade nelle redini del burocratismo sovietico, l’autodeterminazione dei popoli violata, e l’unica forma di organizzazione strutturalmente definita rimane quella militare del Patto di Varsavia, nella quale tuttavia il social-imperialismo sovietico detiene il primato dell’influenza ed un’egemonia decisionale alla quale il Compagno Enver Hoxha si oppose eroicamente durante il discorso alla Conferenza degli 81 Partiti Comunisti e Operai pronunciato a Mosca nel novembre 1961.
Queste sono le espressioni pratiche della concezione zdanoviana dei rapporti fra i partiti e gli stati socialisti, nonché della trascuranza della fondamentale differenziazione del ruolo internazionale di organizzazione politica e organizzazione militare.


Bibliografia:


1 – F. Engels, Prefazione alla seconda edizione dell’Antiduhring, Londra, 23 settembre 1885.
2 – A. Zdanov, Saggi di letteratura, filosofia e musica.
3 –L. Trotsky, La politica comunista sull’arte, 1923.
4 – Ibidem.
5 – A. Zdanov, Discorso ai filosofi sovietici, 24 giugno 1947.
6 – Stalin, Contro la volgarizzazione della parola d’ordine dell’autocritica, XI volume, Opere Complete, 1928-1929, Edizioni Nuova Unità.
7 – Stalin, Sull’autocritica, XI volume, Opere Complete, 1928-1929, Edizioni Nuova Unità.
8 – A. Zdanov, Rapporto alla I Conferenza dell’Ufficio d’Informazione dei Partiti Comunisti, settembre 1947.
9 – Stalin, Sessione Plenaria del PCUS(b), 4-12 luglio 1928, Sul programma dell’Internazionale Comunista, Discorso del 5 luglio 1928, XI volume, Opere Complete, Edizioni Nuova Unità.


NOTA A MARGINE DELL’AUTORE: La diffusione, tramite qualsiasi mezzo, del presente articolo, da parte dei lettori, è assolutamente libera ed incoraggiata su manifesto desiderio dell’Autore stesso.
view post Posted: 5/1/2013, 17:41 Il canto delle foreste - Musica e cinema
Versione integrale, senza interruzioni, eseguita da un complesso russo (sovietico): http://classic-online.ru/ru/listen/4583.

Versione in tre parti, eseguita da russi e giapponesi:





view post Posted: 30/12/2012, 12:09 V.I. Lenin - Letteratura e poesia
CITAZIONE (Fiero Maoista @ 18/11/2012, 12:58) 
Io non ho ancora capito se Gorkij era un bolscevico onesto oppure no, ho letto anche sue frasi dove parlava bene di Mussolini e male di Stalin. Saranno autentiche oppure no?

Gorkij ebbe molti disguidi con Lenin nel periodo della rivoluzione d'Ottobre, poiché riteneva che in un paese contadino come la Russia essa non avrebbe potuto trionfare. Ma poi si ricredette e si riconciliò con Lenin, divenendo un grande sostenitore dell'URSS e qualificandosi come il padre della letteratura sovietica; insieme a Zdanov, Gorkij fu anche il principale teorico del realismo socialista.
Non mi risulta che abbia mai parlato positivamente di Mussolini; anzi, nella lettera inviata a Stalin da Sorrento il 12 novembre 1931, Gorkij riferì di come il Duce fosse malvisto dalla popolazione napoletana e di come la crisi interna al paese si acuisse. Tra l'altro, ecco un passo della stessa lettera, rivolto a Stalin:

Stia bene e abbia cura di sé. La scorsa estate a Mosca, le ho esternato i miei sentimenti di simpatia e stima amichevole e profonda. Mi sia consentito ripeterlo. Non si tratta di complimenti, ma del naturale bisogno di dire a un compagno: io ho di te una stima sincera, tu sei un'ottima persona, un autentico bolscevico. Il bisogno di dire queste parole solo di rado può essere soddisfatto, lei lo sa benissimo. E io so quanti momenti difficili le riserva la vita.

Esiste poi una frase in cui si critica Stalin, riportata nel libro di uno storico anticomunista, il quale asserisce che essa sarebbe una citazione tratta dal diario di Gorkij e riferita da un anonimo ufficiale del'NKVD; essa è presente in italiano solo su Wikiquote. Da questa sommaria descrizione, puoi facilmente capire quanto sia attendibile.
view post Posted: 29/12/2012, 19:02 Rapporto Suslov - Scritti di altri autori
Il «Rapporto Suslov» fu pronunciato al Plenum del CC del PCUS del 14 ottobre 1964. Testo tratto da Alberto Cavallari, La Russia contro Kruscev, Vallecchi, 1964, pp. 170-176:


Rapporto Suslov


Il Comitato Centrale del partito ha più d’una volta riaffermato il principio della direzione collegiale in conformità con la linea marxista-leninista sancita dal XX, dal XXI e dal XXII congresso del PCUS. Il marxismo non ha mai negato l’importanza dei capi nella direzione del movimento della classe lavoratrice e nell’organizzazione delle masse. Esso tuttavia ha sempre condannato come pericolosa involuzione il prevalere della volontà di un solo dirigente sulle decisioni collegialmente deliberate dagli organi del partito. Lenin in particolare, come già fu ricordato al XX congresso, condannò inesorabilmente ogni manifestazione del culto dell’individuo, insegnando che la forza del partito dipende dalla sua unità con le masse. «Vincerà e terrà il potere», diceva Lenin, «solo colui che crede nel popolo e che s’immerge nella fonte della creatività vivente del popolo».
Seguendo queste direttive e questi principi il nostro partito ha portato avanti il processo di distruzione del culto della personalità ed ha riaffermato l’importanza del metodo della direzione collegiale. Ad esso s’è mantenuto fedele in tutto questo periodo.
Il Comitato Centrale del partito ha tuttavia rilevato già da qualche tempo nella condotta del compagno Nikita Kruščëv ripetute trasgressioni e violazioni del principio della direzione collegiale, insieme col riaffiorare di manifestazioni e atteggiamenti tipici del culto della personalità, incompatibili con le direttive emanate dai congressi del partito. Questi rilievi erano stati avanzati dallo stesso compagno Kruščëv già nel corso di precedenti riunioni del Comitato Centrale; in quelle occasioni in particolare era stato fatto osservare al compagno Kruščëv il danno di consentire che i giornali usassero nei suoi confronti espressioni eccessivamente laudatorie e riferissero come sue decisioni personali deliberazioni che provenivano invece dagli organi dirigenti del partito e soprattutto dal Comitato Centrale, che è l’unico interprete della politica del partito tra un congresso e l’altro. Fu anche fatto osservare al compagno Kruščëv come alcune sue decisioni ed iniziative fossero state effettivamente prese al di fuori e talvolta anche contro il parere degli organi di direzione collegiale, ponendo il Praesidium del Comitato Centrale e il Comitato Centrale stesso dinnanzi a fatti compiuti che sarebbe stato difficile e dannoso annullare, anche se era evidente al Comitato Centrale trattarsi di decisioni non sempre conformi alle direttive generali del partito. Fu ricordato allora al compagno Kruščëv che Lenin non impose mai le sue vedute ai suoi collaboratori, ma tentò sempre di convincerli spiegando le ragioni che lo spingevano a sostenere una determinata posizione. Il compagno Kruščëv fu d’accordo nell’accettare questi principi e nel dichiararli come la base della politica del partito; tuttavia, col passare del tempo ne trascurò l’applicazione con colpevole negligenza.
Ciò apparve soprattutto evidente nei rapporti con gli altri Paesi del campo socialista e più in generale nei rapporti tra l’Unione sovietica e i Paesi esteri. Molti dei viaggi compiuti dal compagno Kruščëv dal 1962 in poi furono infatti decisi senza alcuna preventiva consultazione con gli altri membri del Praesidium del Comitato Centrale né del Praesidium del Soviet Supremo. Lo stesso accadde per molte missioni all’estero affidate a titolo personale ad amici o parenti del compagno Kruščëv, i quali non avevano nessun titolo e nessuna preparazione per portare a termine i delicati compiti che venivano loro affidati. Fu anche che, a parte l’iniziativa dei predetti viaggi e contatti con l’estero, spesso la sostanza stessa dei colloqui e delle intese che nel corso di quei viaggi venivano raggiunte non corrispondeva agli interessi del popolo sovietico né alla politica del partito.
Da questo punto di vista va rilevato l’ultimo esempio in ordine di tempo di queste iniziative personali del compagno Kruščëv, decise al di là delle direttive degli organi dirigenti del partito e dello Stato sovietico: esso si ebbe nel corso del viaggio in Egitto, dove il compagno Kruščëv si recò su invito del presidente Nasser, nel maggio scorso, per l’inaugurazione della diga di Assuan. In quella circostanza il presidente Nasser e il vice presidente Amer furono insigniti personalmente dal compagno Kruščëv della più alta decorazione sovietica, quella di «Eroe dell’Unione Sovietica», la cui concessione può essere deliberata soltanto attraverso un atto del Praesidium del Soviet Supremo. Il Praesidium del Soviet Supremo fu informato della concessione di questa onorificenza al presidente Nasser e al vice presidente Amer, soltanto da un telegramma inviato dal compagno Kruščëv dal Cairo.
In varie altre occasioni il compagno Kruščëv, spesso senza informare i membri del Praesidium del Comitato Centrale, affidò delicate mansioni all’estero a Aleksej Adzubej, l’ultima delle quali in ordine di tempo è stata una missione a Bonn per prendere contatto con i dirigenti tedeschi che avevano espresso il desiderio di invitare in quel Paese il presidente del Praesidium dell’Unione Sovietica e il compagno Kruščëv. Nessun dettagliato resoconto sul contenuto delle conversazioni che in tale occasione ebbero luogo a Bonn fu mai portato a conoscenza del Praesidium del Comitato Centrale, mentre si apprese invece da informazioni di giornali di paesi capitalistici che Aleksej Adzubej aveva formulato previsioni completamente irreali e giudizi inammissibili sull’evolversi della politica dell’Unione Sovietica nei confronti della Repubblica Democratica tedesca, come pure nei confronti del governo di Bonn e di eventuali trattative concernenti la sistemazione della questione di Berlino.
Nel campo delle iniziative personali prese dal compagno Kruščëv al di fuori delle direttive degli organi dirigenti del partito e del governo sovietico va anche denunciata l’ostentata prosecuzione di aiuti tecnici e militari al governo indiano durante il periodo, particolarmente delicato per la causa della pace, della controversia di frontiera tra la Repubblica indiana e la Repubblica popolare cinese. Tali aiuti, in sé conformi alla politica di buona amicizia tra il popolo sovietico e il popolo indiano non hanno però contribuito in quella particolare circostanza a facilitare la sistemazione della controversia in atto tra la Repubblica Indiana e la Repubblica Popolare Cinese, e ad allontanare i pericoli di conflitto in quella parte del mondo. Essi hanno invece contribuito ad inasprire in modo non necessario le questioni che in quello stesso periodo di tempo erano venute in discussione tra il partito comunista dell’URSS e il partito comunista cinese. Più recentemente, nel mese di settembre di quest’anno il compagno Kruščëv fece alcune dichiarazioni ad una delegazione di parlamentari giapponesi circa l’esistenza nell’Unione Sovietica di un’arma di distruzione totale. Queste dichiarazioni, per il modo in cui furono fatte, per le ripercussioni che suscitarono in tutto il mondo e per le successive rettifiche che egli fece, anch’esse all’insaputa degli organi dirigenti del partito, devono essere severamente censurate e rappresentano un significativo esempio dell’intempestività di alcuni interventi del compagno Kruščëv, della sua mancanza di misura e della sua trascuratezza nel tener conto delle opinioni altrui.
Ma i danni maggiori provocati dalle iniziative personali del compagno Kruščëv in questi anni e soprattutto a partire dal 1962, si sono manifestati nel campo dell’organizzazione del partito e in quello della produzione agricola ed industriale. Nell’autunno del 1962, su proposta di Kruščëv, il Comitato Centrale adottò una serie di riforme che modificavano profondamente la struttura interna del partito. Va detto a questo punto che da molto tempo il Plenum del Comitato Centrale veniva convocato in sedute allargate alle quali intervenivano in numero crescente e su inviti direttamente effettuati dal primo segretario del partito, persone che non avevano la qualifica di eletti del Comitato Centrale e che intervenivano alle riunioni in qualità di esperti sulle questioni in discussione.
Queste riunioni finivano per conseguenza per trasformarsi in manifestazioni allargate, privando l’organismo superiore del partito di ogni concreta possibilità di discussione e di critica, di analisi e di approfondimento dei problemi politici del partito e del Paese. Il numero di questi «estranei» era quasi sempre superiore a quello dei membri effettivi del Comitato Centrale. Davanti ad assemblee di questo genere, la possibilità di discutere i problemi politici risultava grandemente diminuita e le proposte ed i piani, anche di carattere tecnico ed economico, presentati dal primo segretario del partito finivano per essere approvati, dopo una discussione generica, per acclamazione.
La riforma nell’organizzazione del partito adottata nella riunione del Comitato Centrale dell’autunno 1962, modificò la struttura interna del partito. La sua organizzazione verticale venne divisa in due su basi produttive: un’organizzazione di partito per l’industria e un’organizzazione di partito per l’agricoltura. Il compagno Kruščëv motivò questa decisione col fatto che il partito, nella sua attività di promotore principale dello sforzo produttivo del Paese, dovendosi contemporaneamente occupare di problemi connessi alla produzione industriale ed agricola, finiva per interessarsene in periodi distinti, concentrando di volta in volta i suoi sforzi sull’uno o sull’altro settore, dando così luogo a pericolose discontinuità. Allorché per esempio, disse il compagno Kruščëv, era in corso la battaglia per il raccolto del grano, tutto il partito s’immobilizzava su quell’obiettivo, trascurando la produzione industriale, e viceversa. Con la nuova riforma, che fu applicata dagli organi di base del partito fino agli obkom (comitati regionali del partito), si pensò d’avere a disposizione due organizzazioni distinte che permanentemente si sarebbero occupate dei problemi specifici della produzione industriale e di quella agricola.
Tuttavia non tardarono a manifestarsi, col passar del tempo, i gravi difetti derivanti dalla nuova organizzazione. Ogni regione, infatti, dopo la riforma, ebbe non uno ma due segretari di partito, uno per l’industria e uno per l’agricoltura, mentre in passato i poteri d’iniziativa e di coordinamento erano concentrati nelle mani di un solo segretario di obkom. Questa situazione in pratica s’è risolta in un vero caos organizzativo e nel moltiplicarsi di profondi contrasti di direzione tra i comitati di partito applicati all’industria e i comitati di partito applicati all’agricoltura. Il ruolo dirigente del partito, quale suprema istanza politica, ne è uscito sminuito ed indebolito, mentre d’altra parte i dirigenti tecnici delle aziende industriali e i dirigenti dei sovkhoz e delle cooperative contadine hanno visto limitata la loro autonomia e i loro poteri d’iniziativa nei campi di loro specifica competenza, con danni non indifferenti nell’organizzazione produttiva e nell’attuazione delle norme del piano.
Di fronte a questi gravi difetti organizzativi, che furono più volte segnalati sia dai singoli dirigenti locali del partito che dai membri del Comitato Centrale, il compagno Kruščëv reagì manifestando un comportamento ingiustificatamente sprezzante e adottando in seguito, di sua propria iniziativa e senza averlo fatto precedere da approfondite consultazioni con i responsabili dei singoli settori, altri cambiamenti organizzativi. In queste ultime settimane egli propose addirittura di creare una nuova organizzazione politica per lo sviluppo della produzione agricola e propose come dirigente responsabile di tale organizzazione Aleksej Adzubej. Ciò avrebbe avuto il risultato di aggravare enormemente i difetti già notati nell’attuale sistema e di creare artificialmente una contrapposizione di interessi tra gli operai dell’industria ed i contadini, che avrebbe profondamente danneggiato gli sforzi collettivi per una maggiore produzione e per la realizzazione degli obiettivi e delle norme del piano.
D’altra parte non si limitano a questo i gravi errori nei quali è incorso il compagno Kruscev nella direzione dell’agricoltura, nella quale si trova il massimo esempio della scarsa ponderazione con la quale egli ha agito e della precipitazione delle iniziative intraprese. Una di queste consistette nella vasta campagna lanciata dal compagno Kruščëv nel 1962 per la liquidazione della rotazione delle colture e del maggese e per una coltivazione estensiva del granoturco come foraggio. Se la misura appariva valida per certe regioni, applicata su scala generale essa portò a seri danni in altre regioni, ad un impoverimento dei terreni meno fertili e ad una deplorevole confusione negli indirizzi della produzione agricola. D’altra parte, dopo aver combattuto il principio dell’agricoltura intensiva con la messa in valore delle terre vergini, Kruščëv mutò orientamento a partire dal 1962, puntando sull’agricoltura intensiva e sullo sviluppo di una forte industria dei fertilizzanti come condizione principale per ottenere i risultati desiderati.
Questa politica, sia nell’una che nell’altra fase, fu attuata senza gli approfondimenti necessari e senza la necessaria preparazione per realizzare gli obiettivi fissati nel piano settennale. Il Comitato Centrale ha rilevato a più riprese i danni derivati dagli improvvisi mutamenti d’indirizzo e dalle improvvisate iniziative che furono prese in questo settore. Il Comitato Centrale ha ricordato per esempio che durante il periodo di messa in valore delle terre vergini, le macchine agricole impiegate nell’impresa furono soggette a un gravissimo logorio tecnico per mancanza di adeguati mezzi di protezione e di ricovero che non erano stati tempestivamente predisposti.
Non minori deficienze sono state riscontrate nel settore della produzione industriale. Le maggiori di esse derivano da alcune capricciose decisioni del compagno Kruščëv nell’orientamento dei nuovi piani economici. Furono immotivatamente stornati investimenti già decisi da un settore all’altro della produzione industriale, con conseguenti ritardi nel coerente sviluppo dei piani. Nonostante dichiarazioni più volte ripetute, sia in discorsi pubblici che nelle riunioni degli organi dirigenti del partito, i settori che più ebbero a soffrire da queste deficienze furono proprio quelli dell’industria leggera, produttrice di beni di largo consumo, e in particolare dell’industria chimica. Il tasso d’aumento dell’industria produttrice dei beni di consumo, per effetto di questi errori di direzione economica, si è ridotto nel 1963 al tre per cento, che risulta molto inferiore agli obiettivi fissati dal piano.
Il Comitato Centrale del partito ha ritenuto che questi errori, come pure le iniziative eccessivamente personali del compagno Kruscev e la mancata osservanza del principio della direzione collegiale, abbiano reso necessario un mutamento di direzione e una più completa attuazione dei principi che hanno ispirato il XX, il XXI ed il XXII congresso del PCUS. La collegialità di direzione nasce dalla natura stessa del nostro partito.
«Tutti gli affari del partito», diceva Lenin, «sono portati a compimento da tutti i membri del partito, direttamente o attraverso rappresentanti, che senza alcuna eccezione sono soggetti agli stessi regolamenti. Inoltre tutti i membri amministrativi, tutti i collegi direttivi, tutti coloro che detengono posizioni nel partito, sono elettivi, devono rendere conto delle loro attività e possono essere dimessi».

Edited by Andrej Zdanov - 17/11/2015, 21:40
view post Posted: 8/12/2012, 20:54 L’etica dell’illuminismo - Scritti di altri autori
Da Karl Kautsky, Etica e concezione materialistica della storia, Milano, Feltrinelli, 1958:


L’etica dell’illuminismo


Dal Rinascimento in poi, lo studio della natura ebbe nuovi stimoli e con esso la filosofia, che, da allora sino alla maggior parte del XVIII secolo, fu prevalentemente filosofia della natura e come tale elevò la nostra conoscenza molto al di sopra del livello raggiunto nel mondo antico, partendo dai progressi che gli arabi avevano fatto nel Medio evo nel campo delle scienze naturali, superando la scienza greca. Il culmine di quest’epoca della filosofia è rappresentato dalla dottrina di Spinoza (1632-1677).
Nei pensatori di ques’epoca, l’etica stava in seconda linea, essa era subordinata alla conoscenza della natura, di cui formava una parte. Ma essa tornò in primo piano quando la rapida ascesa del capitalismo nel XVIII secolo creò, per l’Europa occidentale, una situazione analoga a quella che era stata in Grecia dall’ascesa economica dopo le guerre persiane: un rapido capovolgimento dei vecchi ordinamenti economici e, con ciò, una dissoluzione delle organizzazioni sociali e delle concezioni morali tradizionali. Ebbe inizio, per parlare in termini moderni, un sovvertimento di tutti i valori e con ciò stesso un alacre pensare ed indagare sull’essenza e la base della moralità. Oltre a ciò, però, si ebbe un’indagine altrettanto alacre sulla essenza del nuovo modo di produzione. Assieme al rilievo acquistato dall’etica una nuova scienza ebbe inizio, una scienza che l’antichità non aveva conosciuto e che è la figlia particolare della produzione mercantile capitalistica, alla cui spiegazione essa serve: l’economia politica.
Nell’etica, noi troviamo nuovamente tre correnti, l’una accanto all’altra, che offrono parecchi paralleli con le tre correnti dell’antichità, la platonica, l’epicurea e la stoica: una antimaterialista – la cristiana tradizionale – una materialistica e infine una che assume, tra queste due, una posizione intermedia. L’amore per la vita e per i piaceri proprii della borghesia in ascesa o perlomeno dei suoi elementi più progrediti e cioè dei suoi intelettuali, si sentiva adesso abbastanza forte per presentarsi apertamente e gettar via qualsiasi velo ipocrita, cui fino a quel momento l’aveva costretto il cristianesimo dominante. E per quanto il presente potesse essere, da molti punti di vista, miserevole, la borghesia avanzante sentiva tuttavia che la parte migliore della realtà, il futuro, le apparteneva e sentiva in se stessa la capacità di trasformare questa valle di lacrime in un paradiso, dove agli uomini fosse lecito di seguire liberamente i propri impulsi. I suoi pensatori videro nella realtà e negli impulsi naturali degli uomini i germi d’ogni bene, non di ogni male. Questa nuova corrente di pensiero, però, trovò da principio un pubblico favorevole non soltanto nelle parti più avanzate della borghesia ma anche presso la nobiltà cortigiana, che allora aveva conquistato un tale potere assoluto nello Stato da credersi di potersi sottrarre ad ogni ipocrisia cristiana nella sua vita di piaceri, tanto più che adesso un abisso la separava dalla massa del popolo. Questa nobiltà considerava borghesi e contadini come esseri di tipo inferiore, cui la sua filosofia era assolutamente inaccessibile e inintelligibile, sicché essa poteva svilupparla francamente e liberamente senza dover temere di indebolire così anche la forza del suo mezzo di dominio, la religione e l’etica cristiana.
Queste condizioni per una nuova concezione della vita e dell’etica s’erano sviluppate più vigorosamente che altrove in Francia. Qui essa ebbe anche la sua espressione più ardita e più acuta. Come nell’antico epicureismo anche nella nuova filosofia illuministica di Lamettrie (1709-1751), D’Holbach (1723-1789) e Helvétius (1715-1771) l’etica dell’egoismo, dell’utile o del piacere era in stretto legame logico con una filosofia materialistica. Il mondo quale ce lo mosta l’esperienza appariva ad essa come l’unico che potesse essere preso in considerazione.
Le cause di questo nuovo epicureismo avevano molto analogie con quelle dell’antico, e così anche i risultati cui ambedue pervenivano. Ciò nonostante ambedue avevano, in un punto essenziale, un carattere fondamentalmente diverso. L’antico epicureismo non si presentava come un capovolgimento delle concezioni religiose tradizionali, cui esso seppe invece adattarsi; non era, appunto, la dottrina di una classe rivoluzionaria, ma una dottrina che predicava il piacere contemplativo, non la lotta. L’idealismo e il teismo platonico furono piuttosto la dottrina del rovesciamento delle concezioni religiose tradizionali, la dottrina delle classi insoddisfatte.
Altrimenti stavano le cose con la filosofia illuministica. Essa pure aveva radici conservatrici, vedeva la felicità nel piacere contemplativo in quanto serviva ai bisogni della nobiltà cortigiana che, dal potere esistente dello Stato assoluto, traeva i suoi mezzi di sussistenza. Ma principalmente essa era la filosofia degli elementi più intelligenti, più evoluti ed anche più audaci della borghesia avanzante. Ciò dava ad essa un carattere rivoluzionario. Essendo sin dagli inizi in contrasto con la religione e l’etica tradizionali, essa diventò, nella misura in cui aumentava la forza e l’autocoscienza della borghesia, sempre più una concezione di lotta, una concezione che era molto lontana dall’antico epicureismo; una concezione di lotta contro preti e tiranni, per dei nuovi ideali.
Il tipo e la maniera delle concezioni morali e l’altezza delle passioni morali sono determinati, secondo i materialisti francesi, dai rapporti di vita degli uomini, in particolare dalla costituzione dello Stato e dall’educazione. E’ sempre l’interesse particolare che determina l’uomo; esso può però diventare un interesse sociale se la società è organizzata in modo che l’interesse particolare si fonda con l’interesse per la comunità e le passioni dell’uomo servano al benessere comune. La vera virtù consiste tuttavia nella sollecitudine per il bene comune e può fiorire soltanto là dove l’uomo promuove, assieme al bene comune, anche il proprio, là dove egli non può danneggiare il bene comune senza danneggiare se stesso.
E’ l’ignoranza sugli interessi particolari, duraturi e superiori degli uomini, l’ignoranza sulla migliore forma dello Stato, della società, dell’educazione, che rende possibili situazioni le quali necessariamente portano in conflitto reciproco il bene comune e l’interesse particolare. Bisogna por fine a questa ignoranza, trovare la forma di Stato, società ed educazione corrispondente alla ragione, per dare per sempre una base duratura alla felicità e alla virtù.
Qui vediamo il nucleo rivoluzionario del materialismo francese, che accusa lo Stato esistente come il promotore dei vizi, vale a dire del contrasto tra interesse comune e interesse particolare. Perciò esso si eleva al di sopra dell’antico epicureismo e perciò anche esso aumenta la debolezza insita nella sua etica.
Infatti, non basta trovare la forma migliore di Stato e di società. Bisogna anche combattere per essa, opporsi ai despoti dominanti ed abbatterli per fondare il regno della virtù. Ma per questo occorrono grandi passioni morali e da dove debbono venire esse se la società esistente è così cattiva che non fa sbocciare nessuna virtù, nessuna moralità? Non sarà necessario che, prima che possa nascere la società superiore, ci sia la moralità superiore? Non sarà necessario che l’ideale morale viva in noi, prima che l’ordinamento morale diventi un fatto? Ma da dove prendere questo ideale morale in un mondo vizioso?
A queste domande non riceviamo nessuna risposta soddisfacente.
In maniera un po’ diversa dai francesi, gli inglesi cercarono, nel XVIII secolo, di spiegare la legge morale. In generale essi si dimostrarono meno arditi e più inclini al compromesso: cosa che corrisponde alla storia dell’Inghilterra dall’epoca della Riforma. Da quell’epoca la situazione insulare aveva favorito in maniera eccezionale lo sviluppo economico dell’Inghilterra; l’aveva anche spinta alla navigazione, che, nel XVII e XVIII secolo, era la più rapida via di arrichimento a causa del sistema coloniale; e aveva anche liberato l’Inghilterra da tutti i pesi e le devastazioni delle guerre terrestri, che esaurivano le potenze del continente. Così, nel XVII e XVIII secolo, l’Inghilterra si arricchisce più rapidamente di tutte le altre nazioni europee e sta economicamente alla loro testa. Ma, se in un paese sorgono nuove classi, nuovi antagonismi di classe e con ciò nuovi problemi sociali, prima che altrove, le nuove classi, per lo più, sono giunte ad un grado non elevato di autocoscienza e sono ancora prigioniere del vecchio modo di pensare, sicché anche gli antagonismi di classe vi si mostarno ancora in una forma non sviluppata.
Così in un primo momento, in un paese del genere non si arriva ad un radicale superamento delle vecchie classi, che continuano a dominare ancora illimitatamente e, in tutti i paesi circostanti, sono ancora in pieno vigore. Le nuove classi vi sono ancora incapaci a dominare da sole poiché non si trovano a loro agio nella società, hanno paura della novità delle proprie aspirazioni e ancora, persino, cercano appoggi e punti di riferimento nei rapporti superati.
Sembra perciò essere una legge universale dello sviluppo sociale che paesi, i quali precedono gli altri nello sviluppo economico, siano inclini a compromessi piuttosto che a soluzioni radicali.
Così la Francia nel Medio Evo, era, accanto all’Italia, alla testa dello sviluppo economico dell’Europa. Essa perciò fu anche la prima ad entrare in contrasto col papato romano e il suo potere statale fu il primo a ribellarsi. Ma, proprio perché era alla testa delle altre nazioni, non riuscì a fondare una propria chiesa statale e fu capace soltanto di costringere il papato ad un compromesso che, con poche interruzioni, è durato sino ad oggi. Invece, più tardi, divennero i più radicali campioni nella lotta contro il potere papale due Stati che economicamente erano rimasti i più arretrati, la Scozia e la Svezia.
Dall’epoca della Riforma l’Inghilterra, e con essa la Scozia, al posto della Francia e dell’Italia, si pose alla testa dello sviluppo economico e perciò il compromesso divenne per questi paesi la forma per concludere le loro lotte di classe in quel tempo. Proprio perché in Inghilterra il capitale si rafforzò più rapidamente che altrove, perché esso vi arrivò, prima che in altri paesi europei, alla lotta contro l’aristocrazia feudale, questa lotta terminò con un compromesso, la cui conseguenza fu che la proprietà fondiaria feudale in Inghilterra è oggi ancora più forte che in qualsiasi altro paese dell’Europa, esclusa forse l’Austria-Ungheria. Per la stessa ragione di uno sviluppo economico così rapido, in Inghilterra la lotta di classe tra proletariato e borghesia scoppiò prima che nel resto del mondo. Essa vi ebbe inizio in un’epoca in cui proletari e capitalisti industriali non avevano, tutti e due, superato ancora il modo di pensare della piccola borghesia, in cui molti osservatori, anche acuti, confondevano le due classi in quella unica degli “industriali”, in cui il tipo del proletariato autocosciente, che edifica per il futuro della sua classe, come quello del magnate capitalista dell’industria, che ha un potere illimitato nello Stato, non erano ancora sviluppati. Così la lotta delle due classi, dopo una breve e tempestosa effervescenza, si arenò in un compromesso che per decenni rese il dominio della borghesia sul proletariato in Inghilterra più illimitato che in qualsiasi altro paese con una produzione moderna.
Naturalmente gli effetti di questa legge, come quelli di qualsiasi altra, possono essere sia ostacolati da tendenze secondarie disturbatrici, sia rafforzati da tendenze secondarie che li favoriscono. In ogni caso, però, bisogna guardarsi dalla concezione volgare del materialismo storico, per la quale quel paese che ha la direzione nello sviluppo economico dovrebbe sempre portare le forme della lotta di classe, ad esso corrispondenti, all’espressione più acuta e più decisa.
Anche il materialismo e l’ateismo, come l’etica, cedettero, in Inghilterra, allo spirito del compromesso che la dominava dal XVII secolo. La lotta delle classi democratiche avanzanti contro il potere statale monarchico indipendente, che era nelle mani della nobiltà feudale, contro la sua nobiltà di corte e la sua chiesa di Stato cominciò in Inghilterra più di un secolo prima che in Francia, in un’epoca in cui il pensiero cristiano era stato superato soltanto da poche menti. Se in Francia la lotta contro la chiesa di Stato diventò una lotta tra cristianesimo e materialismo ateo, in Inghilterra essa fu soltanto una lotta di sette democratiche cristiane contro la setta organizzata come chiesa di Stato. E se in Francia, nell’epoca dell’Illuminismo, la maggioranza degli intellettuali e delle classi che erano sotto la loro influenza pensava in maniera materialistica e ateistica, in Inghilterra gli intellettuali cercarono un compromesso fra materialismo e cristianesimo. E’ vero che il materialismo moderno trovò la sua prima aperta espressione in Inghilterra, nella dottrina di Thomas Hobbes (1588-1679); è vero che in Inghilterra si ebbero dei pensatori, sulle questioni della morale, la cui arditezza superò anche quella dei più arditi pensatori francesi, come Mandeville (1670-1733) il quale definì la morale un mezzo di dominio, una invenzione per soggiogare le classi lavoratrici e vide nel vizio la radice di ogni bene sociale. Tali idee, tuttavia, avevano poca influenza sul pensiero della nazione stessa. I sentimenti cristiani rimasero il contrassegno della gente per bene e il compito di ogni uomo dotto, che non volesse entrare in conflitto con la società, fu, se non di provarli, almeno di fingerli.
Così gli inglesi rimasero in una posizione assai critica verso l’etica materialistica, che voleva fondare la legge morale sull’egoismo, ovvero sul piacere, ovvero sull’utile dell’individuo. E’ vero che i rappresentanti intellettuali della borghesia avanzante, anche in Inghilterra, cercarono di spiegare la legge morale come un fenomeno naturale; ma essi compresero che il suo potere costrittivo non poteva essere spiegato con semplici considerazioni di utilità e che quelle costrizioni, divenute necessarie anche soltanto per conciliare i comandamenti della moralità con i moventi dell’utilità o del piacere, erano troppo artificiose, senza parlare poi del tentativo di farne una valida forza motrice. Essi distinsero perciò esattamente accanto agli impulsi egoistici dell’uomo quelli della simpatia, riconobbero un senso morale, che induce l’uomo ad essere attivo per la felicità del suo prossimo. Dopo lo scozzese Hutcheson (1694-1747), propugnò questa dottrina particolarmente il grande economista Adam Smith (1723-1790). Nelle sue due grandi opere principali egli indagò sugli effetti dei due moventi dell’azione umana. Nella Teoria dei sentimenti morali (1759) egli partiva dalla simpatia come dal vincolo più importante della società umana; la sua Ricerca sull’essenza e la natura della ricchezza delle nazioni presuppone l’egoismo, l’interesse materiale dell’individuo come il movente delle azioni umane. Il libro fu pubblicato nel 1786 ma i principi in esso contenuti erano stati esposti a voce da Smith già sin dal 1752-53, a Glasgow. La sua teoria dell’egoismo e la sua teoria della compassione quindi non si escludevano, bensì si completavano a vicenda. Il fatto che questi inglesi contrapponessero l’egoismo e il senso morale fu, rispetto ai materialisti, un avvicinamento al platonismo e al cristianesimo. Tuttavia le loro concezioni rimasero nettamente distinte da queste dottrine. Infatti, se, secondo la dottrina cristiana, l’uomo è per natura cattivo, e se, secondo la dottrina platonica, i nostri impulsi naturali sono ciò che è immorale dentro di noi, per cui la moralità rappresenta qualche cosa di extranaturale e di soprannaturale, per la scuola inglese del XVIII secolo il senso morale stava sì in opposizione all’egoismo, ma era, come questo, soltanto un impulso naturale. L’egoismo, inoltre, appariva loro non come un impulso cattivo bensì come un impulso perfettamente giustificato, altrettanto necessario per la prosperità della società umana che la compassione per il prossimo. Il senso morale era un senso come qualsiasi altro senso dell’uomo, in un certo modo il suo sesto senso.
Certamente, con questa ipotesi, la difficoltà era, come nei materialisti francesi, piuttosto spostata che risolta. Per la domanda donde viene nell’uomo questo particolare senso morale, gli inglesi non avevano una risposta. Esso era dato all’uomo appunto per natura. Ciò poteva bastare loro, poiché essi dovevano fare i conti con l’idea di un creatore del mondo, ma non rendeva superflua l’ipotesi di quest’ultimo.
In questa situazione apparve chiaro quale fosse il compito per sviluppare scientificamente l’etica. La scuola francese, come quella inglese, aveva dato molto per la spiegazione psicologica e storica di singoli sentimenti e intuizioni morali. Ma a nessuna delle due era riuscito di far comprendere la moralità come un prodotto, senza residui, di cause esistenti nell’ambito della nostra esperienza. Bisognava andare oltre la scuola inglese per ricercare le cause del senso morale; bisognava andare oltre la scuola francese e mostrare le cause dell’ideale morale.
Ma lo sviluppo non è rettilineo, bensì dialettico. Esso si muove entro contrasti. Il passo immediatamente seguente della filosofia, riguardo all’etica, non si mosse in questa direzione ma in quella opposta. Invece di inserire la natura etica dell’uomo ancor più che in passato nel quadro della necessità naturale universale, essa la portò di nuovo completamente al di fuori.
La filosofia tedesca compì questo passo con Kant (1724-1804). Oggi è di moda dire: torniamo a Kant! ma chi nel dire ciò avesse in mente l’etica kantiana potrebbe altrettanto giustamente proclamare: torniamo a Platone!
view post Posted: 8/12/2012, 20:48 Il marxismo e la linguistica - Scritti di altri autori
Da Stalin, Il marxismo e la linguistica, traduzione di Palmiro Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1952:


Il marxismo e la linguistica



A proposito del marxismo nella linguistica


Si è rivolto a me un gruppo di giovani compagni, chiedendomi di esprimere sulla stampa la mia opinione a proposito delle questioni relative alla scienza del linguaggio, particolarmente in riferimento al marxismo nella linguistica. Non sono un glottologo, e non posso, naturalmente, soddisfare completamente questi compagni. Ma, per quanto riguarda il marxismo nella linguistica, come nelle altre scienze sociali, questo è un tema con il quale ho un legame diretto. Ho quindi acconsentito a rispondere a una serie di domande rivoltemi da questi compagni.

Domanda: E’ vero che il linguaggio è una sovrastruttura in rapporto alla base?
Risposta: No, non è vero.
La base è la struttura economica della società in un determinato stadio del suo sviluppo. La sovrastruttura consiste nelle opinioni politiche, giuridiche, religiose, artistiche e filosofiche della società, nonché nelle corrispondenti istituzioni politiche, giuridiche e d’altro genere.
Ogni base ha una propria sovrastruttura, ad essa corrispondente. La base del sistema feudale ha la propria sovrastruttura, le proprie opinioni politiche, giuridiche, ecc. e le relative istituzioni; ha la propria sovrastruttura la base capitalistica, così come la base socialista. Se la base cambia e viene liquidata, allora, dopo di essa cambia e viene liquidata anche la sua sovrastruttura; se una nuova base sorge, allora, dopo di essa sorge una sovrastruttura ad essa corrispondente.
Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura. Prendiamo, come esempio, la società russa e la lingua russa. Nel corso degli ultimi trent’anni è stata liquidata in Russia la vecchia base capitalistica e una base nuova, socialista, è stata costruita. Parallelamente, è stata liquidata la sovrastruttura della base capitalistica e creata una nuova struttura corrispondente alla base socialista. Le vecchie istituzioni politiche, giuridiche, ecc., sono quindi state soppiantate da istituzioni nuove, socialiste. Ma ciò nonostante, la lingua russa è rimasta fondamentalmente quella che era prima della Rivoluzione di Ottobre.
Che cosa è mutato nella lingua russa in questo periodo? In una certa misura, è mutato il lessico della lingua russa, nel senso che è stato arricchito da un cospicuo numero di nuove parole ed espressioni, scaturite in relazione con il sorgere della nuova produzione socialista, con l’apparire del nuovo Stato, della nuova cultura socialista, di un nuovo costume, di una nuova morale e, infine, in relazione con lo sviluppo della tecnica e della scienza; è mutato il significato di molte parole ed espressioni, che hanno preso un nuovo significato; è scomparso dal vocabolario un certo numero di parole antiquate. Ma per quanto riguarda il patrimonio lessicale fondamentale e la struttura grammaticale della lingua russa, che costituiscono il fondamento del linguaggio, essi, dopo la liquidazione della base capitalistica, lungi dall’essere stati liquidati e soppiantati da un nuovo patrimonio lessicale fondamentale e da una nuova struttura grammaticale del linguaggio, sono stati conservati nella loro integrità e non hanno subìto alcun serio mutamento: sono stati conservati precisamente come fondamento della moderna lingua russa.
Inoltre, la sovrastruttura è un prodotto della base; ma ciò non significa che essa rifletta semplicemente la base, che essa sia passiva, neutrale, indifferente alla sorte della sua base, alla sorte delle classi, al carattere del sistema. Al contrario non appena sorge, essa diviene una forza eccezionalmente attiva, che aiuta energicamente la sua base ad assumere una forma e a consolidarsi facendo quanto è in suo potere per aiutare il nuovo sistema a distruggere e liquidare la vecchia base e le vecchie classi.
Né potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura viene dalla base creata precisamente perché possa servirla, perché possa attivamente aiutarla ad assumere una forma e a consolidarsi, perché possa attivamente contribuire alla liquidazione della base antica, decrepita, assieme alla sua vecchia sovrastruttura. Basta che la sovrastruttura rinunci alla sua funzione ausiliaria, basta che la sovrastruttura passi da una posizione di attiva difesa della sua base a un atteggiamento di indifferenza verso di essa, a un atteggiamento eguale verso tutte le classi, perché essa perda il suo valore e cessi di essere una sovrastruttura.
Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura. La lingua non è il prodotto di questa o quella base, di una base vecchia o nuova, entro una determinata società, ma dell’intiero corso della storia della società e della storia delle basi per secoli e secoli. Essa è stata creata non da una classe, ma da tutta la società, da tutte le classi della società, dagli sforzi di centinaia di generazioni. Essa è stata creata per soddisfare le necessità non di una sola classe, ma di tutta la società, di tutte le classi della società. Precisamente per questo è stata creata come un unico linguaggio per la società, comune a tutti i membri di essa, come linguaggio comune di tutto il popolo. Di conseguenza, la funzione ausiliare del linguaggio, come mezzo di comunicazione tra gli uomini, consiste non nel servire una classe a danno di altre classi, ma nel servire egualmente tutta la società, tutte le classi della società. Ciò difatti spiega il motivo per cui la lingua può egualmente servire sia l’antico, decrepito sistema, sia il sistema nuovo, nascente, l’antica base come la nuova, gli sfruttatori come gli sfruttati.
Non è un segreto per nessuno che la lingua russa serviva il capitalismo e la cultura borghese russa prima della Rivoluzione d’Ottobre, altrettanto bene quanto essa serve ora il sistema e la cultura socialista della società russa.
Lo stesso va detto per l’ucraino, il bielorusso, l’uzbeko, il kazako, il georgiano, l’armeno, l’estone, il lettone, il lituano, il moldavo, il tartaro, l’azerbaigiano, il basckiro, il turkmeno e le altre lingue delle nazioni sovietiche, le quali servivano l’antico sistema borghese di queste nazioni altrettanto bene quanto servono il sistema nuovo, socialista.
Né potrebbe essere altrimenti. La lingua esiste, la lingua è stata creata precisamente allo scopo di servire la società nel suo complesso, come mezzo di comunicazione tra gli uomini, allo scopo di essere comune ai membri della società e di essere l’unico linguaggio della società, servendo egualmente ai membri della società, indipendentemente dalla loro posizione di classe. Basta che una lingua si allontani da questa posizione di essere comune a tutto il popolo, basta che una lingua si ponga nella posizione di preferire e appoggiare un qualsiasi gruppo sociale a danno di altri gruppi sociali della società, perché essa perda la sua qualità, cessi di essere un mezzo di comunicazione tra gli uomini in società e si trasformi nel gergo di un gruppo sociale, degeneri e sia condannata a scomparire.
Per questo aspetto la lingua, mentre differisce in linea di principio dalla sovrastruttura, non differisce dagli strumenti di produzione, dalle macchine, diciamo, che possono egualmente servire il sistema capitalista e quello socialista.
Inoltre la sovrastruttura è il prodotto di un’epoca, durante la quale esiste e opera una determinata base economica. La sovrastruttura pertanto non vive a lungo; essa viene liquidata e scompare con la liquidazione e la scomparsa di quella determinata base.
La lingua, al contrario, è il prodotto di una serie di epoche, nel corso delle quali essa prende forma, si arricchisce, si sviluppa, si perfeziona. La lingua, pertanto, dura incommensurabilmente più a lungo di qualsiasi base o di qualsiasi sovrastruttura. In questo modo si spiega il motivo per cui la creazione e la liquidazione non soltanto di una base e della sua sovrastruttura, ma di varie basi e delle loro corrispondenti sovrastrutture, non portano, nella storia, alla liquidazione di una determinata lingua, alla liquidazione della sua struttura e al sorgere di una nuova lingua, con un nuovo patrimonio lessicale e un nuovo sistema grammaticale.
Sono passati più di cento anni dalla morte di Pusckin. In questo periodo sono stati liquidati in Russia il sistema feudale e il sistema capitalistico e un terzo sistema, quello socialista, è sorto. Pertanto, sono state liquidate due basi con le loro sovrastrutture e una base nuova socialista è sorta, con la sua nuova sovrastruttura. Eppure, se prendiamo come esempio la lingua russa, essa non ha, in questo lungo periodo di tempo, subìto alcuna rottura, e la lingua russa moderna differisce assai poco nella sua struttura dalla lingua di Pusckin.
Cos’è cambiato nella lingua russa in questo periodo? In questo periodo il lessico russo si è considerevolmente arricchito; moltissime parole antiquate sono state eliminate dal patrimonio lessicale; il significato di molte parole è mutato; la struttura grammaticale è migliorata. Ma per quanto riguarda la struttura della lingua di Pusckin, con il suo sistema grammaticale e con il suo patrimonio lessicale fondamentale, essa è stata conservata in tutta la sua essenza come base del russo moderno.
E ciò è del tutto comprensibile. Difatti, è veramente necessario che dopo ogni rivoluzione, la struttura esistente della lingua, il suo sistema grammaticale, il suo patrimonio lessicale fondamentale siano distrutti e sostituiti da altri, come si verifica di consueto per la sovrastruttura? Che bisogno vi è che «acqua», «terra», «montagna», «foresta», «pesce», «uomo», «camminare», «fare», «produrre», «commerciare», ecc. non vengano più chiamati acqua, terra, montagna, ecc. ma in altro modo? Che bisogno vi è che il mutamento delle parole nella lingua e il loro collocamento nelle proposizioni non avvengano più secondo la grammatica esistente, ma secondo una grammatica completamente diversa? Di quale utilità sarebbe per la rivoluzione un simile rivolgimento nella lingua? La storia generalmente non compie nulla di sostanziale senza che vi sia una particolare necessità. Quale può essere, ci si chiede, la necessità di un simile rivolgimento linguistico, quando è dimostrato che la lingua esistente e la sua struttura sono fondamentalmente del tutto adeguate alla necessità del nuovo sistema? L’antica sovrastruttura può e deve essere distrutta e sostituita da una nuova nel corso di alcuni anni, allo scopo di dare libero campo allo sviluppo delle forze produttive della società; ma come si può distruggere una lingua esistente e costruire invece di essa una lingua nuova nel corso di alcuni anni, senza provocare l’anarchia nella vita sociale e senza creare una minaccia di collasso della società? Chi se non un Don Chisciotte potrebbe porsi un simile compito?
Infine, esiste un’altra differenza radicale tra la sovrastruttura e la lingua. La sovrastruttura non è direttamente connessa con la produzione, con l’attività produttiva dell’uomo. Essa è connessa con la produzione solo indirettamente, attraverso l’economia, attraverso la base. La sovrastruttura, pertanto, non riflette i mutamenti nello sviluppo delle forze produttive né immediatamente né direttamente, ma soltanto dopo i mutamenti della base, attraverso la rifrazione dei mutamenti della produzione nei mutamenti della base. Ciò significa che la sfera d’azione della sovrastruttura è limitata e ristretta.
La lingua, al contrario, è connessa con l’attività produttiva dell’uomo direttamente e non soltanto con l’attività produttiva, ma con tutte le altre attività dell’uomo, in tutte le sfere del suo lavoro, dalla produzione alla base, dalla base alla sovrastruttura. Per questo la lingua riflette i mutamenti della produzione immediatamente e direttamente, senza aspettare i cambiamenti della base. E’ per questo motivo che la sfera d’azione della lingua, che abbraccia tutte le sfere di attività dell’uomo, è assai più vasta e multiforme della sfera d’azione della sovrastruttura. Anzi, essa è praticamente illimitata.
Ciò spiega innanzitutto il motivo per cui la lingua, o meglio il suo patrimonio lessicale, è in uno stato quasi continuo di mutamento. Il costante sviluppo dell’industria e dell’agricoltura, del commercio e dei trasporti, della tecnica e della scienza, esige che la lingua arricchisca il suo lessico di nuove parole ed espressioni, che sono necessarie per il loro lavoro. E la lingua, riflettendo direttamente queste necessità, arricchisce il suo lessico di nuove parole e perfeziona la sua struttura grammaticale.
Pertanto:
a) un marxista non può considerare la lingua come una sovrastruttura della base;
b) confondere il linguaggio con la sovrastruttura è un grave errore.

Domanda: E’ vero che la lingua ha sempre avuto e ha un carattere di classe, che non esiste una lingua comune e unica per tutta la società, non di classe, uguale per tutto il popolo?
Risposta: No, non è vero.
Non è difficile comprendere che in una società dove non vi siano classi, non si può nemmeno parlare di una lingua di classe. La comunità primitiva del clan non conosceva le classi, e di conseguenza non poteva esservi in essa una lingua di classe; la lingua era allora comune, unica per l’intiera collettività. L’obiezione che per classe si deve intendere qualsiasi collettività umana, compresa la comunità primitiva, non è una obiezione, ma un giuoco di parole che non vale la pena di confutare.
Per quanto riguarda lo sviluppo successivo, dalle lingue del clan alle lingue della tribù, dalle lingue della tribù alle lingue di una nazionalità – e dalle lingue di una nazionalità alle lingue nazionali, – dappertutto e in tutti gli stadi di sviluppo la lingua, come mezzo di comunicazione tra gli uomini nella società, è stata sempre comune e unica per la società, servendo in modo eguale i membri della società indipendentemente dalla loro posizione sociale.
Non mi riferisco qui agli imperi del periodo schiavistico e del periodo medioevale, agli imperi di Ciro e di Alessandro il Grande, diciamo, o agli imperi di Cesare e di Carlo Magno, che non avevano una base economica propria ed erano transitorie e instabili associazioni militari e amministrative. Questi imperi non soltanto non avevano ma non potevano avere una lingua unica per l’impero, compresa da tutti i membri dell’impero. Essi erano conglomerati di tribù e di nazionalità, ciascuna delle quali viveva una propria vita e aveva una propria lingua. Di conseguenza, non è di questi imperi e di altri analoghi che intendo parlare, ma delle tribù e delle nazionalità facenti parte di un impero che avesse una propria base economica e una lingua propria, formatasi da tempo. La storia ci dice che le lingue di queste tribù e di queste nazionalità non erano lingue di classe ma lingue comuni a tutto il popolo, comuni alle tribù e alle nazionalità e comprese da esse.
Naturalmente accanto ad esse vi erano i dialetti e i vernacoli, ma essi erano dominati dall’unica e comune lingua della tribù o della nazionalità e ad essa subordinati.
Più tardi, con il sorgere del capitalismo, con la liquidazione dello sminuzzamento feudale e con la formazione del mercato nazionale, le nazionalità si svilupparono in nazioni e le lingue delle nazionalità in lingue nazionali. La storia ci dice che le lingue nazionali non sono lingue di classe ma lingue di tutto il popolo, comuni ai membri della nazione e uniche per la nazione.
Si è detto sopra che la lingua, come mezzo di comunicazione tra gli uomini nella società, serve egualmente tutte le classi della società e per questo mostra una specie di indifferenza rispetto alle classi. Ma gli uomini, i singoli gruppi sociali, le classi sono lungi dall’essere indifferenti alla lingua. Essi si sforzano di utilizzare la lingua nei propri interessi, di imporle il proprio lessico particolare, i propri termini, le proprie espressioni particolari. Si distinguono in questo specialmente gli strati superiori delle classi abbienti, che sono separati dal popolo e lo detestano: l’aristocrazia nobiliare e l’alta borghesia. Si formano così i dialetti «di classe», i gerghi, le «lingue» da salotto. Nella letteratura non di rado questi dialetti e gerghi vengono non giustamente qualificati come lingue: «lingua nobiliare», «lingua borghese», contrapponendoli alla «lingua proletaria», alla «lingua contadina». Per questo motivo, per quanto possa sembrare strano, taluni dei nostri compagni sono giunti alla conclusione che la lingua nazionale sia una finzione e che in realtà esistano solo lingue di classe.
Credo non vi sia nulla di più errato di questa conclusione. Possono questi dialetti e gerghi essere considerati lingue? Certamente no. Non lo possono, innanzi tutto, perché questi dialetti e gerghi non hanno una loro struttura grammaticale e un patrimonio lessicale fondamentale: essi li prendono dalla lingua nazionale. Non lo possono, in secondo luogo, perché questi dialetti e gerghi hanno una sfera di applicazione ristretta ai membri dello strato più elevato di una determinata classe e sono del tutto inadatti come mezzo di comunicazione per gli uomini, per la società nel suo complesso. Che cosa vi è allora in essi? Vi è una raccolta di parole specifiche, che riflettono i gusti particolari dell’aristocrazia o dell’alta borghesia; vi è un certo numero di espressioni e di frasi che si distinguono per la ricercatezza e la preziosità, e sono privi delle espressioni e costruzioni «grossolane» della lingua nazionale; vi è, infine, un certo numero di parole straniere. Ma tutto l’essenziale, cioè la grandissima maggioranza delle parole e del sistema grammaticale, è preso dalla lingua comune, nazionale. I dialetti e i gerghi sono pertanto ramificazioni della comune lingua nazionale, non possiedono una indipendenza linguistica di qualsiasi genere e sono destinati alla stagnazione. Chiunque creda che i dialetti e i gerghi possano svilupparsi come lingua indipendente, che essi siano capaci di eliminare e soppiantare la lingua nazionale, ha perso ogni senso della prospettiva storica e abbandonato la posizione marxista.
Si fa riferimento a Marx e si cita un brano del suo articolo Sankt Max in cui si dice che i borghesi hanno «una loro lingua», che questa lingua «è il prodotto della borghesia», che essa è permeata di uno spirito di mercantilismo, di compra e vendita. Taluni compagni citano questo passo per provare che Marx credesse nel «carattere di classe» della lingua e negasse l’esistenza di una unica lingua nazionale. Se questi compagni avessero considerato la cosa obiettivamente, avrebbero dovuto citare anche un altro passo dello stesso articolo Sankt Max, in cui Marx, accennando alla questione del modo di formazione di una sola lingua nazionale, parla del «concentramento dei dialetti in una unica lingua nazionale, quale risultato del concentramento economico e politico».
Marx, di conseguenza, riconosceva la necessità di una unica lingua nazionale, come forma superiore a cui i dialetti, quale forma inferiore, sono subordinati.
Che cosa può essere allora la lingua borghese che, secondo le parole di Marx, è un «prodotto della borghesia»? Marx la considerava forse una lingua alla stessa stregua di una lingua nazionale, con la propria specifica struttura linguistica? Poteva egli considerarla in tal modo? Naturalmente no! Marx intendeva soltanto dire che i borghesi avevano inquinato la comune lingua nazionale con il loro lessico da mercanti, che i borghesi in altre parole hanno il loro gergo da mercanti.
E’ pertanto evidente che questi compagni hanno travisato Marx. E lo hanno travisato perché hanno citato Marx non da marxisti ma da dogmatici, senza approfondire l’essenza della questione.
Si fa riferimento a Engels e si citano da Le condizioni della classe operaia in Inghilterra, le parole di Engels in cui egli dice che «… la classe operaia inglese con il passare del tempo è diventata un popolo completamente diverso dalla borghesia inglese», che «gli operai parlano un altro dialetto, hanno altre idee e concezioni, altri costumi e princìpi morali, un’altra religione e un’altra politica che la borghesia». Taluni compagni traggono da questo passo la conclusione che Engels negasse la necessità di una lingua comune, nazionale, che egli credesse, di conseguenza, nel «carattere di classe» della lingua. In realtà, Engels parla qui di un dialetto, non di una lingua, comprendendo perfettamente che, essendo un derivato della lingua nazionale, il dialetto non può sostituirsi ad essa. Ma questi compagni, evidentemente, non considerano con simpatia l’esistenza di una differenza tra lingua e dialetto.
E’ ovvio che la citazione è inappropriata, perché Engels parla qui non di «lingue di classe», ma soprattutto di idee, concezioni, costumi, princìpi morali, sentimenti religiosi e opinioni politiche di classe. E’ verissimo che le idee, le concezioni, i costumi, i princìpi morali, la religione e le opinioni politiche dei borghesi e dei proletari sono direttamente antitetici. Ma che c’entra qui la lingua nazionale o il «carattere di classe» della lingua? Forse che l’esistenza delle contraddizioni di classe nella società può servire come argomento a favore del «carattere di classe» della lingua o contro la necessità di una unica lingua nazionale? Il marxismo dice che la lingua comune è uno dei segni distintivi più importanti di una nazione, pur sapendo benissimo che in seno alla nazione vi sono contraddizioni di classe. Riconoscono i compagni di cui si è parlato questa tesi marxista?
Si fa riferimento a Lafargue e si dice che nel suo opuscolo La lingua e la rivoluzione egli riconosca il «carattere di classe» della lingua e neghi la necessità di una lingua comune nazionale. Ciò non è vero. Lafargue effettivamente parla di «lingua della nobiltà» o «lingua della aristocrazia» e di «gerghi» dei vari strati della società. Ma questi compagni dimenticano che Lafargue, non interessandosi della questione della differenza tra lingua e gergo e chiamando i dialetti ora «parlata artificiale», ora «gergo», dice in definitiva nel suo opuscolo che «la parlata artificiale dell’aristocrazia deriva dalla lingua comune a tutto il popolo, in cui parlavano il borghese e l’artigiano, la città e la campagna».
Di conseguenza, Lafargue riconosce l’esistenza e la necessità della comune lingua nazionale e comprende pienamente che la «lingua aristocratica» e gli altri dialetti e gerghi sono subordinati e dipendono dalla comune lingua nazionale.
Ne deriva che il riferimento a Lafargue non coglie nel segno.
Si fa riferimento al fatto che una volta in Inghilterra i lord feudali parlarono «per secoli» in francese mentre il popolo inglese parlava l’inglese, ciò che costituirebbe un argomento a favore del «carattere di classe» della lingua e contro la necessità di una comune lingua nazionale. Ma questo non è un argomento, è piuttosto una arguzia. Innanzi tutto non tutti i lord feudali parlavano allora francese, ma soltanto un piccolo strato più elevato di baroni feudali inglesi, alla corte e nelle contee. In secondo luogo, essi non parlavano una «lingua di classe», ma la comune normale lingua nazionale francese. In terzo luogo, sappiamo che questo trastullarsi con la lingua francese è scomparso in seguito senza lasciare tracce, cedendo il passo alla comune lingua nazionale inglese. Questi compagni pensano forse che i feudali inglesi abbiano «per secoli» comunicato con il popolo inglese per tramite di interpreti, che non usassero la lingua inglese, che non vi fosse allora una comune lingua nazionale inglese e che la lingua francese in Inghilterra fosse allora una cosa più seria di una lingua da salotto usata solo dall’alta aristocrazia? Come si può negare l’esistenza e la necessità di una comune lingua nazionale sulla base di «argomenti» allegri come questi?
Anche gli aristocratici russi un tempo si trastullavano con la lingua francese alla corte dello zar e nei salotti. Essi si inorgoglivano del fatto che, parlando russo, inciampavano nel francese, che sapevano parlare russo solo con accento francese. Significa ciò che non vi fosse allora in Russia una comune lingua nazionale russa, che la comune lingua nazionale fosse una finzione e la «lingua di classe» una realtà?
I nostri compagni commettono qui almeno due errori.
Il primo errore sta nel fatto che essi confondono la lingua con la sovrastruttura. Essi pensano che, avendo la sovrastruttura un carattere di classe, anche la lingua deve essere una lingua di classe e non una comune lingua nazionale. Ma ho già detto che la lingua e la sovrastruttura sono due nozioni differenti e che un marxista non può confonderle.
Il secondo errore sta nel fatto che essi considerano la contrapposizione di interessi della borghesia e del proletariato, la loro aspra lotta di classe, come una scissione della società, una rottura di qualsiasi legame tra le classi ostili. Essi credono che, essendosi scissa la società e non esistendo più una società unica ma solo delle classi, per questo non sia nemmeno necessaria una lingua unica della società, non sia necessaria una lingua nazionale. Se la società si è scissa, e non esiste più una lingua nazionale, cosa rimane? Rimangono le classi e le «lingue di classe». Naturalmente, ogni «lingua di classe» avrà la sua grammatica «di classe», una grammatica «proletaria», una grammatica «borghese». E’ vero che queste grammatiche di fatto non esistono, ma ciò non turba questi compagni: essi credono che simili grammatiche finiranno per apparire.
Vi furono un tempo dei «marxisti», nel nostro Paese, i quali asserivano che le ferrovie rimasteci dopo la Rivoluzione d’Ottobre erano ferrovie borghesi, che sarebbe stato sconveniente per noi marxisti utilizzarle, che avrebbero dovuto essere divelte e che occorreva costruire delle ferrovie nuove, «proletarie». Per questo essi furono soprannominati «trogloditi»…
E’ evidente che una tale visione primitiva e anarchica della società, delle classi, della lingua, non ha nulla in comune con il marxismo. Ma essa indubbiamente esiste e continua a prevalere nelle menti di taluni nostri compagni confusionari.
Naturalmente non è vero che, essendoci una aspra lotta di classe, la società si sia scissa in classi, le quali non siano più economicamente legate l’una all’altra nella società. Al contrario. Fino a che esisterà il capitalismo, i borghesi e i proletari saranno legati assieme da tutti i fili dell’economia, come parti di una unica società capitalistica. Il borghese non può vivere e arricchirsi se non ha a sua disposizione gli operai salariati; i proletari non possono continuare la loro esistenza, se non si assoggettano al salario dei capitalisti. La fine di qualsiasi legame economico tra di loro significherebbe la fine di qualsiasi produzione, e la fine di qualsiasi produzione porterebbe alla rovina della società, alla rovina delle classi stesse. Naturalmente nessuna classe vuole distruggere se stessa. Per questo, per quanto aspra possa essere la lotta di classe, essa non può portare alla scissione della società. Solo la ignoranza del marxismo e una totale incomprensione della natura della lingua possono aver suggerito ad alcuni nostri compagni la favola della scissione della società, delle lingue «di classe» e delle grammatiche «di classe».
Si fa pure riferimento a Lenin e si ricorda che egli aveva riconosciuto l’esistenza di due culture sotto il capitalismo, l’una borghese e l’altra proletaria, e che la parola d’ordine della cultura nazionale sotto il capitalismo è una parola d’ordine nazionalista. Tutto questo è vero e Lenin ha assolutamente ragione. Ma che c’entra il «carattere di classe» della lingua? Quando questi compagni si riferiscono a ciò che Lenin disse sulle due culture sotto il capitalismo, è evidente che vogliono suggerire al lettore che l’esistenza di due culture, borghese e proletaria, in una società, significhi che vi debbano essere anche due lingue, in quanto la lingua sarebbe legata alla cultura; che Lenin neghi quindi l’esistenza di una comune lingua nazionale; che Lenin sia per la lingua «di classe». L’errore di questi compagni sta nel fatto che essi identificano e confondono la lingua con la cultura. Ma la cultura e la lingua sono due cose diverse. La cultura può essere borghese o socialista, mentre la lingua, come mezzo di comunicazione, è sempre una comune lingua nazionale e può servire sia la cultura borghese che quella socialista. Non è un fatto che le lingue russa, ucraina, uzbeka, oggi servono la cultura socialista di queste nazioni, proprio come servivano le loro culture borghesi prima della Rivoluzione d’Ottobre? Questo vuol dire che si sbagliano profondamente questi compagni, affermando che l’esistenza di due differenti culture porti alla formazione di due lingue diverse e alla negazione della necessità di una lingua unica.
Quando parlava di due culture, Lenin partiva precisamente dal principio che l’esistenza di due culture non può portare alla negazione di una lingua comune e alla formazione di due lingue, che la lingua deve essere una sola. Quando gli esponenti del Bund accusarono Lenin di negare la necessità di una lingua nazionale e di considerare la cultura come «non nazionale», Lenin, come è noto, protestò risolutamente e dichiarò che egli combatteva contro la cultura borghese e non contro la lingua nazionale, la cui necessità egli considerava indiscutibile. E’ strano che alcuni dei nostri compagni abbiano seguito le orme degli esponenti del Bund.
Per quanto riguarda il linguaggio unico, la cui necessità Lenin negherebbe, basta rivolgere l’attenzione alle seguenti parole di Lenin:
«La lingua è il mezzo più importante di comunicazione umana; l’unità della lingua e il suo sviluppo senza ostacoli è una delle condizioni più importanti per un commercio realmente libero e vasto, adeguato al capitalismo moderno, per un libero e vasto raggruppamento della popolazione in classi».
Ne deriva che i nostri egregi compagni hanno travisato le opinioni di Lenin.
Si fa infine riferimento a Stalin. Si cita il passo di Stalin, in cui si dice che «la borghesia e i suoi partiti nazionalisti erano e rimangono in tale periodo la principale forza dirigente di queste nazioni». Ciò è verissimo. La borghesia e il suo partito nazionalista realmente dirigono la cultura borghese, così come il proletariato e il suo partito internazionalista dirigono la cultura proletaria. Ma che c’entra qui il «carattere di classe» della lingua? Non sanno forse questi compagni che la lingua nazionale è una forma della cultura nazionale, che la lingua nazionale può servire sia la cultura borghese che quella socialista? Non conoscono dunque i nostri compagni la nota formula dei marxisti che le attuali culture russa, ucraina, bielorussa, ecc. sono socialiste nel contenuto e nazionali nella forma, ossia nella lingua? Sono essi d’accordo con questa formula marxista?
Qui l’errore dei nostri compagni sta nel fatto che essi non vedono la differenza tra cultura e lingua, non comprendono che la cultura muta di contenuto ad ogni nuovo periodo di sviluppo della società, mentre la lingua rimane fondamentalmente la stessa lingua per la durata di alcuni periodi, servendo la nuova come la vecchia cultura.
Pertanto:
a) la lingua come mezzo di comunicazione è sempre stata e rimane unica per una società e comune a tutti i suoi membri;
b) l’esistenza di dialetti e di gerghi non nega ma conferma l’esistenza di una lingua comune a tutto il popolo, della quale essi sono le ramificazioni e alla quale sono subordinati;
c) la formula del «carattere di classe» della lingua è una formula errata e non marxista.

Domanda: Quali sono i tratti caratteristici della lingua?
Risposta: La lingua è uno di quei fenomeni sociali che operano per tutta la durata di una società. Essa nasce e si sviluppa con il nascere e lo svilupparsi della società. Essa muore col morire della società. Senza società non c’è lingua. Perciò la lingua e le sue leggi di sviluppo possono essere comprese solo se vengono studiate in inscindibile connessione con la storia della società, con la storia del popolo a cui appartiene la lingua studiata e che è creatore e depositario di questa lingua.
La lingua è un mezzo, uno strumento con l’aiuto del quale gli uomini comunicano gli uni con gli altri, scambiano i pensieri e giungono a comprendersi reciprocamente. Essendo direttamente connessa con il pensiero, la lingua registra e cristallizza in parole, e in parole coordinate in proposizioni, i risultati del pensiero e i successi del lavoro di ricerca dell’uomo, rendendo così possibile lo scambio delle idee nella società umana.
Lo scambio delle idee è una necessità costante e vitale, perché senza di esso è impossibile coordinare le azioni degli uomini nella lotta contro le forze della natura, nella lotta per la produzione dei beni materiali indispensabili; è impossibile ottenere successi nell’attività produttiva della società e, pertanto, è impossibile l’esistenza stessa della produzione sociale. Di conseguenza, senza una lingua compresa dalla società e comune a tutti i suoi membri, la società cessa la produzione e cessa di esistere come società. In questo senso la lingua, strumento di comunicazione, è in pari tempo strumento di lotta e di sviluppo della società.
Come è noto, tutte le parole di una lingua messe assieme ne formano il cosiddetto patrimonio lessicale. La cosa principale nel patrimonio lessicale di una lingua è la sua parte fondamentale, che comprende anche, come suo nocciolo, tutti i vocaboli radicali. Esso è molto meno esteso del patrimonio lessicale della lingua, ma vive molto a lungo nel corso del secoli, e dà alla lingua una base per la formazione di nuove parole. Il patrimonio lessicale riflette lo stato della lingua: quanto più ricco e vario è il patrimonio lessicale tanto più ricca e sviluppata è la lingua.
Tuttavia, di per se stesso, il patrimonio lessicale non costituisce ancora la lingua: esso è piuttosto il materiale di costruzione della lingua. Così come nel lavoro edile i materiali di costruzione non costituiscono l’edificio, sebbene quest’ultimo non possa essere costruito senza di essi, così pure il patrimonio lessicale non costituisce la lingua stessa, sebbene nessuna lingua sia concepibile senza di esso. Ma il patrimonio lessicale di una lingua assume un’estrema importanza quando è messo a disposizione della grammatica, che fissa le regole della modificazione delle parole e l’ordinamento delle parole nelle proposizioni, dando così alla lingua un carattere ordinato e significativo. La grammatica (morfologia, sintassi) è la raccolta delle regole che governano la modificazione dei vocaboli e il loro coordinamento nelle proposizioni. E’ pertanto grazie alla grammatica che la lingua acquista la possibilità di rivestire i pensieri dell’uomo di un tegumento linguistico materiale.
Il tratto caratteristico della grammatica sta nel fatto che essa dà le regole della modificazione delle parole, non riferendosi a parole concrete, ma a parole in generale, senza alcuna concretezza; essa dà pure le regole per la formazione delle proposizioni, non riferendosi ad alcuna proposizione concreta, per esempio a un soggetto concreto, a un predicato concreto, ecc., ma, in generale, a tutte le proposizioni, indipendentemente dalla forma concreta dell’una o dell’altra. Pertanto, facendo astrazione dal particolare e dal concreto, così nelle parole, come nelle proposizioni, la grammatica prende ciò che è generale, ciò che sta alla base della modificazione delle parole e del loro coordinamento in proposizioni, traendone regole e leggi grammaticali. La grammatica è il risultato di un lungo lavoro di astrazione del pensiero umano, è un indice degli immani progressi del pensiero.
Sotto questo aspetto, la grammatica ricorda la geometria, la quale fissa le proprie leggi facendo astrazione dagli oggetti concreti, considerando gli oggetti come corpi privi di ogni concretezza e definendo le relazioni tra di essi non come relazioni concrete tra oggetti concreti, ma come relazioni di corpi in generale, privi di ogni concretezza.
A differenza della sovrastruttura, che è connessa alla produzione non direttamente ma pel tramite dell’economia, la lingua è direttamente connessa all’attività produttiva dell’uomo, come pure a ogni altra attività in tutte le sfere del suo lavoro, senza eccezione. Perciò il patrimonio lessicale della lingua, essendo il più sensibile ai mutamenti, si trova in condizioni di mutamento quasi ininterrotto e, diversamente dalla sovrastruttura, la lingua non deve aspettare che la base sia liquidata: essa apporta cambiamenti al suo patrimonio lessicale prima che la base sia liquidata e prescindendo dalla consistenza della base.
Tuttavia il patrimonio lessicale di una lingua non cambia come la sovrastruttura, abolendo il vecchio e costruendo qualcosa di nuovo, ma arricchendo il vocabolario esistente con nuove parole, sorte in relazione con i cambiamenti del sistema sociale, con lo sviluppo della produzione, con lo sviluppo dell’agricoltura, della scienza, ecc. E sebbene un certo numero di parole antiquate scompaiano abitualmente dal patrimonio lessicale della lingua, un numero molto più grande di nuove parole vengono ad aggiungersi ad esso. Quanto alla parte fondamentale di questo patrimonio, essa essenzialmente si conserva e viene utilizzata come base per il patrimonio lessicale della lingua.
E la cosa è comprensibile. Non v’è necessità di distruggere la parte fondamentale del patrimonio lessicale, se essa può venire efficacemente usata per la durata di vari periodi storici; senza dire che, essendo impossibile creare un nuovo patrimonio lessicale fondamentale entro un breve periodo di tempo, la distruzione del patrimonio lessicale fondamentale accumulato nel corso dei secoli provocherebbe la paralisi della lingua, la completa interruzione delle comunicazioni tra gli uomini.
La struttura grammaticale di una lingua cambia ancora più lentamente del suo patrimonio lessicale fondamentale. Elaborata nel corso delle epoche e divenuta carne e sangue della lingua, la struttura grammaticale muta ancor più lentamente del patrimonio lessicale fondamentale. Essa naturalmente subisce dei cambiamenti con l’andar del tempo, si perfeziona, migliora, precisa le sue regole e si arricchisce di regole nuove; ma le fondamenta della struttura grammaticale durano per lunghissimo tempo poiché, come insegna la storia, possono utilmente servire alla società per la durata delle varie epoche.
Così la struttura grammaticale della lingua e il suo patrimonio lessicale fondamentale ne costituiscono il fondamento e l’essenza specifica.
La storia registra la grande stabilità delle lingue e la loro enorme capacità di resistenza alla assimilazione forzata. Alcuni storici, invece di spiegare questo fenomeno, si limitano a meravigliarsene. Ma non c’è qui nessuna ragione di meraviglia. La stabilità di una lingua si spiega con la stabilità della sua struttura grammaticale e del suo patrimonio lessicale fondamentale. Per centinaia di anni gli assimilatori turchi si sforzarono di mutilare, frantumare e distruggere le lingue dei popoli balcanici. Durante questo periodo il vocabolario delle lingue balcaniche subì notevoli mutamenti; molte parole ed espressioni turche furono assorbite; vi furono «convergenze» e «divergenze», ma le lingue balcaniche si mantennero salde e sopravvissero. Perché? Perché la struttura grammaticale e il patrimonio lessicale fondamentale di queste lingue si erano in complesso conservati.
Da tutto ciò deriva che non si può considerare una lingua, e la sua struttura, come prodotto di una sola epoca. La struttura della lingua, la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale sono il prodotto di parecchie epoche.
E’ presumibile che i rudimenti della lingua moderna si siano formati in una remota antichità, prima dell’era della schiavitù. Era quella una lingua non complessa, con un patrimonio lessicale molto esiguo, ma con una sua struttura grammaticale, sia pure primitiva.
Il successivo sviluppo della produzione, l’apparire delle classi, l’apparire della scrittura, il nascere dello Stato, che aveva bisogno di una più o meno regolare corrispondenza, l’invenzione della stampa, lo sviluppo della letteratura, tutto ciò portò grandi cambiamenti nello sviluppo della lingua. Frattanto le tribù e le nazionalità si frazionarono e si sparpagliarono, si mescolarono e si incrociarono; e successivamente apparvero le lingue e gli Stati nazionali, avvennero rivolgimenti rivoluzionari e i vecchi regimi sociali furono soppiantati dai nuovi. Tutto ciò portò cambiamenti ancora maggiori nella lingua e nel suo sviluppo.
Sarebbe tuttavia un profondo errore pensare che lo sviluppo della lingua sia avvenuto nello stesso modo che lo sviluppo della sovrastruttura: distruggendo ciò che esisteva e costruendo qualcosa di nuovo. In realtà lo sviluppo della lingua non è avvenuto per mezzo della distruzione della lingua esistente e la creazione di una lingua nuova, ma per mezzo dell’espansione e del perfezionamento degli elementi fondamentali della lingua esistente. Cosicché il passaggio di una lingua da una qualità ad un’altra non è avvenuto per mezzo di un’esplosione, per mezzo della distruzione in un sol colpo dell’antico e della creazione del nuovo, ma per mezzo di un graduale e prolungato accumularsi degli elementi della nuova qualità, della nuova struttura della lingua e attraverso la graduale scomparsa degli elementi della vecchia qualità.
Si dice che la teoria dello sviluppo per stadi delle lingue è una teoria marxista, poiché essa riconosce la necessità delle improvvise esplosioni come condizioni per il passaggio di una lingua da una vecchia a una nuova qualità. Ciò è naturalmente falso, perché è difficile trovare qualcosa di marxista in questa teoria. Se la teoria degli stadi ammette realmente le esplosioni improvvise nella storia dello sviluppo delle lingue, tanto peggio per essa. Il marxismo non ammette le esplosioni improvvise nello sviluppo delle lingue, la morte improvvisa di una lingua esistente e l’improvvisa comparsa di una lingua nuova. Lafargue sbagliava quando parlava di una «improvvisa rivoluzione linguistica avvenuta tra il 1789 e il 1794» in Francia (vedi l’opuscolo di Lafargue La lingua e la rivoluzione). Nessuna rivoluzione linguistica, e tanto meno improvvisa, avvenne allora in Francia. Certo in quel periodo il patrimonio lessicale della lingua francese venne arricchito di parole ed espressioni nuove, un certo numero di parole antiquate scomparvero e il significato di certe parole mutò, e questo fu tutto. Ma i cambiamenti di questo genere non decidono affatto del destino di una lingua. La cosa principale di una lingua è la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale. Ma la struttura grammaticale e il patrimonio lessicale fondamentale della lingua francese non solo non scomparvero nel periodo della Rivoluzione francese, ma si conservarono senza cambiamenti sostanziali e non solo si conservarono, ma continuano a vivere anche oggi nella moderna lingua francese. E non parlo neppure del fatto che per la liquidazione di una lingua esistente e per la formazione di una nuova lingua nazionale («una improvvisa rivoluzione linguistica»!) un periodo di cinque o sei anni è breve fino al ridicolo. Occorrono secoli, per questo.
Il marxismo ritiene che il passaggio di una lingua da una vecchia a una nuova qualità non avviene per mezzo di un’esplosione, per mezzo della distruzione della lingua esistente e della creazione di una nuova lingua, ma per mezzo della graduale accumulazione degli elementi della nuova qualità, e conseguentemente, per mezzo della graduale scomparsa degli elementi della vecchia qualità.
Bisogna dire, in generale, per questi compagni che hanno una infatuazione per le esplosioni, che la legge di transizione da una vecchia a una nuova qualità per mezzo di un’esplosione non soltanto è inapplicabile alla storia dello sviluppo della lingua, ma non è sempre applicabile neppure agli altri fenomeni sociali, siano essi di ordine strutturale o sovrastrutturale. Essa è obbligatoria per una società divisa in classi ostili; ma non è affatto obbligatoria per una società dove non esistono classi ostili. In un periodo di otto-dieci anni noi abbiamo effettuato, nell’agricoltura del nostro Paese, un passaggio dall’ordinamento borghese contadino individuale all’ordinamento socialista, colcosiano. E’ stata una rivoluzione che ha eliminato il vecchio ordinamento economico borghese nelle campagne e ha creato il nuovo ordinamento socialista. Tuttavia questo rivolgimento non è avvenuto per mezzo di una esplosione, vale a dire per mezzo del rovesciamento del potere esistente e della creazione di un nuovo potere, ma per mezzo di un passaggio graduale dal vecchio ordinamento agricolo borghese a un nuovo ordinamento. E si è riusciti a far questo perché questa è stata una rivoluzione dall’alto, perché il rivolgimento è stato compiuto per iniziativa del potere esistente, con l’appoggio delle masse fondamentali dei contadini.
Si dice che numerosi esempi d’incrocio delle lingue avvenuti nella storia danno motivo di supporre che, quando avviene l’incrocio, si forma una nuova lingua, per mezzo di un’esplosione, per mezzo di un subitaneo passaggio da una vecchia a una nuova qualità. Ciò è assolutamente falso.
L’incrocio delle lingue non può essere considerato come un unico atto, un colpo decisivo, che dà i suoi risultati in pochi anni. L’incrocio delle lingue è un lungo processo, che continua per centinaia di anni. Non si può quindi parlare in tali casi di nessuna esplosione.
Ancora. Sarebbe assolutamente sbagliato pensare che come risultato dell’incrocio, diciamo, di due lingue, si ottenga una nuova, terza lingua, che non assomigli a nessuna delle due lingue incrociatesi e differisca qualitativamente da ciascuna delle due. Difatti, una delle lingue esce solitamente vittoriosa dall’incrocio, conserva la sua struttura grammaticale, conserva il suo patrimonio lessicale fondamentale e continua a svilupparsi secondo le leggi interne del suo sviluppo, mentre l’altra lingua perde gradatamente la sua qualità e gradatamente si estingue.
Di conseguenza, l’incrocio non produce una nuova terza lingua; ma conserva una delle lingue, conserva la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale e le dà la possibilità di svilupparsi secondo le leggi interne del suo sviluppo.
E’ vero, con ciò si produce un certo arricchimento del patrimonio lessicale della lingua vincitrice a spese della lingua vinta, ma ciò non l’indebolisce, anzi, al contrario, la rafforza.
Così è avvenuto, ad esempio, per la lingua russa, con la quale, nel corso dello sviluppo storico, si incrociarono le lingue di molti altri popoli, e che è sempre uscita vittoriosa.
Naturalmente, il patrimonio lessicale della lingua russa è stato arricchito, nel corso di tale processo, dal patrimonio lessicale delle altre lingue, però ciò non solo non ha indebolito, anzi, al contrario, ha arricchito e rafforzato la lingua russa.
Per quanto riguarda l’originalità nazionale della lingua russa, essa non ne ha avuto il benché minimo danno, poiché la lingua russa, conservando la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale, ha continuato a progredire e a perfezionarsi secondo le leggi interne del suo sviluppo.
E’ fuori dubbio che la teoria dell’incrocio non può dare nulla di serio alla linguistica. Se è vero che il principale compito della linguistica è lo studio delle leggi interne dello sviluppo della lingua, bisogna riconoscere che la teoria dell’incrocio, non solo non assolve questo compito, ma non se lo pone neppure: essa semplicemente non lo avverte o non lo comprende.

Domanda: Ha fatto bene la Pravda ad aprire una libera discussione sui problemi della linguistica?
Risposta: Sì, ha fatto bene.
In questo senso verranno risolti problemi della linguistica, sarà chiaro alla fine della discussione. Ma si può dire fin d’ora che la discussione è stata molto proficua.
La discussione ha rivelato, in primo luogo, che negli organismi linguistici, sia al centro che nelle repubbliche, dominava un regime non adatto alla scienza e agli uomini di scienza. La minima critica alla situazione esistente nella linguistica sovietica, finanche i più timidi tentativi di criticare la cosiddetta «nuova dottrina» della lingua erano perseguitati e stroncati dai circoli linguistici dirigenti. Per aver avuto un atteggiamento critico verso l’eredità di N. Ia. Marr o per la più piccola disapprovazione della dottrina di N. Ia. Marr, valenti studiosi e ricercatori nel campo della linguistica sono stati allontanati dal loro posto o retrocessi. Gli studiosi di linguistica sono stati chiamati a posti di responsabilità non per riconoscimento del loro lavoro, ma per la incondizionata accettazione della dottrina di N. Ia. Marr.
Si riconosce generalmente che nessuna scienza può svilupparsi e fiorire senza lotta delle opinioni, senza libertà di critica. Ma questa norma riconosciuta da tutti è stata ignorata e calpestata nel modo più sfacciato. Si è costituito un ristretto gruppo di dirigenti infallibili, che, essendosi assicurato contro ogni possibile critica, si è messo ad agire arbitrariamente e scandalosamente.
Un esempio: il cosiddetto Corso di Bakù (lezioni tenute da N. Ia. Marr a Bakù), che l’autore stesso aveva ripudiato vietandone la ristampa, è stato tuttavia ripubblicato per ordine di questa casta dirigente (il compagno Mestcianinov li chiama discepoli di N. Ia. Marr) e incluso senza riserve nella lista dei manuali raccomandati agli studenti. Ciò significa che si sono ingannati gli studenti ripresentando loro come un ottimo manuale un Corso ripudiato dall’autore. Se non fossi convinto della integrità del compagno Mestcianinov e degli altri studiosi di linguistica, direi che una condotta simile equivale a un sabotaggio.
Come è potuto accadere questo? Ciò è accaduto perché il regime alla Arakceiev istaurato nella linguistica coltiva l’irresponsabilità e incoraggia simili scandali.
La discussione è stata molto utile innanzitutto perché ha portato questo regime alla Arakceiev alla luce del giorno e l’ha stritolato.
Ma l’utilità della discussione non si riduce a questo. Essa non ha soltanto demolito il vecchio regime nella linguistica, ma anche rivelato l’incredibile confusione di idee sulle più importanti questioni della linguistica, che domina nei circoli dirigenti di questo ramo della scienza. Prima dell’inizio della discussione, essi tacevano e nascondevano la disgraziata situazione esistente nella linguistica. Ma, dopo l’inizio della discussione, era ormai impossibile tacere ed essi sono stati costretti a pronunciarsi sulle colonne dei giornali. E allora? E’ risultato che nelle dottrine di N. Ia. Marr vi sono molte deficienze, errori, problemi non precisati e tesi non elaborate a fondo. Perché, ci si chiede, i «discepoli» di N. Ia. Marr hanno cominciato a parlare di questo soltanto ora, dopo l’inizio della discussione? Perché non si sono preoccupati di farlo prima? Perché non ne hanno parlato a tempo debito, apertamente e onestamente, come si conviene a scienziati?
Avendo ammesso «alcuni» errori di N. Ia. Marr i suoi «discepoli» pensano a quanto pare che la linguistica sovietica possa svilupparsi soltanto sulla base della teoria di N. Ia. Marr «rettificata», perché considerano questa teoria come marxista. Ma no, liberateci dal «marxismo» di N. Ia. Marr! N. Ia. Marr avrebbe infatti voluto essere e si è sforzato di essere una marxista, ma non riuscì a diventarlo. Egli non fu altro che un semplificatore e un volgarizzatore del marxismo, come gli esponenti del «Proletcult» o del «RAPP».
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica la formula sbagliata, non marxista della lingua come sovrastruttura; cadde nella confusione e portò la confusione nella linguistica. Sulla base di una formula sbagliata non è possibile sviluppare la linguistica sovietica.
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica l’altra formula, anch’essa sbagliata e non marxista, del «carattere di classe» della lingua; cadde nella confusione e portò la confusione nella linguistica. Sulla base di una formula sbagliata, in contrasto con tutto il corso della storia dei popoli e delle lingue, non è possibile sviluppare la linguistica sovietica.
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica un tono presuntuoso, borioso e arrogante, estraneo al marxismo, che ha portato a una grossolana e superficiale negazione di quanto era stato fatto nella linguistica prima di N. Ia. Marr.
N. Ia. Marr diffama a gran voce il metodo storico comparativo, chiamandolo «idealistico». Eppure bisogna dire che, malgrado le sue serie deficienze, il metodo storico comparativo è tuttavia migliore dell’analisi, effettivamente idealistica, con i «quattro elementi» di N. Ia. Marr, perché il primo stimola al lavoro, allo studio delle lingue, mentre l’altra incita soltanto all’ozio e a strologare sui fondi di caffè con l’aiuto dei famosi quattro elementi.
N. Ia. Marr tratta altezzosamente ogni tentativo di studiare i gruppi (le famiglie) linguistici come manifestazione della teoria della «prelingua». Eppure non si può negare, per esempio, che l’affinità linguistica delle nazioni slave è fuori discussione, e che uno studio dell’affinità linguistica di queste nazioni potrebbe essere di grande utilità per la linguistica, nello studio delle leggi di sviluppo della lingua. La teoria della «prelingua» non ha naturalmente nulla a che fare con la questione.
Ascoltando N. Ia. Marr e specialmente i suoi «discepoli», si potrebbe pensare che prima di N. Ia. Marr non esistesse nessuna linguistica, che la linguistica sia incominciata con la «nuova teoria» di N. Ia. Marr. Marx ed Engels erano molto più modesti: essi ritenevano che il loro materialismo dialettico fosse un prodotto dello sviluppo delle scienze, compresa la filosofia, nei periodi precedenti.
Così la discussione è stata utile anche perché ha messo in luce le lacune ideologiche della linguistica sovietica.
Credo che quanto prima la nostra linguistica si sbarazzerà degli errori di N. Ia. Marr, tanto più presto sarà possibile farla uscire dalla crisi che attraversa attualmente.
Eliminazione del regime alla Arakceiev nella linguistica, ripudio degli errori di N. Ia. Marr e penetrazione del marxismo della linguistica: tale è, a mio parere, la via per la quale si potrebbe risanare la linguistica sovietica.

20 giugno 1950

 

A proposito di alcune questioni di linguistica


Compagna Krasceninnikova, rispondo alle vostre domande.
Prima domanda: Il vostro articolo dimostra in modo convincente che la lingua non è né base né sovrastruttura. Sarebbe giusto considerare la lingua come un fenomeno peculiare sia della base che della sovrastruttura, o sarebbe più esatto ritenere la lingua un fenomeno intermedio?
Risposta: Naturalmente, è peculiare alla lingua come fenomeno sociale, ciò che è inerente a tutti i fenomeni sociali, compresa la base e la sovrastruttura, e precisamente: essa serve la società nello stesso modo come servono la società tutti gli altri fenomeni sociali, compresa la base e la sovrastruttura. Ma ciò, in sostanza, esaurisce quanto è comune e inerente a tutti i fenomeni sociali. Dopo di che, incominciano tra i fenomeni sociali serie distinzioni.
Sta di fatto che i fenomeni sociali hanno, oltre a quanto è comune, proprie peculiarità specifiche, che li distinguono gli uni dagli altri e che sono di grande importanza per la scienza. Le peculiarità specifiche della base consistono nel fatto che questa serve economicamente la società. Le peculiarità specifiche della sovrastruttura consistono nel fatto che questa serve la società per mezzo delle idee politiche, giuridiche, estetiche e di altro genere e crea per la società le corrispondenti istituzioni politiche, giuridiche e d’altro tipo. In che cosa consistono allora le peculiarità specifiche della lingua, che la distinguono dagli altri fenomeni sociali? Esse consistono nel fatto che la lingua serve la società come mezzo di comunicazione tra gli individui, come mezzo di scambio delle idee nella società, come mezzo che dà agli individui la possibilità di comprendersi reciprocamente e di organizzare un comune lavoro in tutte le sfere dell’attività umana, nella sfera della produzione come in quella delle relazioni economiche, nella sfera della politica come in quella della cultura, nella vita sociale e d’ogni giorno. Queste peculiarità appartengono solo alla lingua, la lingua costituisce l’oggetto di studio di una scienza indipendente, la linguistica. Se non vi fossero queste peculiarità della lingua, la linguistica perderebbe il suo diritto a una esistenza indipendente.
In breve: la lingua non può essere classificata né tra le basi né tra le sovrastrutture.
Essa non può neppure essere classificata tra i fenomeni «intermedi» tra la base e la sovrastruttura, in quanto tali fenomeni «intermedi» non esistono.
Ma forse la lingua potrebbe essere classificata tra le forze produttive della società, tra gli strumenti della produzione, per esempio? Effettivamente, tra la lingua e gli strumenti della produzione esiste una certa analogia: gli strumenti della produzione, al pari della lingua, manifestano una specie di indifferenza verso le classi e possono servire egualmente le differenti classi della società, sia vecchie che nuove. Questa circostanza dà motivo di classificare la lingua tra gli strumenti della produzione? No, non dà questo motivo.
Una volta, N. Ia. Marr, costatando che la sua formula: «la lingua è una sovrastruttura rispetto alla base», incontrava obiezioni, decise di «riaggiustare» la sua teoria e annunciò che «la lingua è uno strumento della produzione». Aveva ragione N. Ia. Marr di classificare la lingua tra gli strumenti della produzione? No, egli certamente aveva torto.
Sta di fatto che la rassomiglianza tra la lingua e gli strumenti della produzione si riduce a quella analogia di cui ho parlato prima. Ma, d’altra parte, esiste una differenza radicale tra la lingua e gli strumenti della produzione. Questa differenza sta nel fatto che, mentre gli strumenti della produzione producono beni materiali, la lingua non produce nulla, o «produce» soltanto parole. Per essere più esatti, gli individui che posseggono strumenti di produzione possono produrre beni materiali, ma quelle stesse persone che, pur disponendo della lingua, non hanno strumenti di produzione, non possono produrre beni materiali. Non è difficile comprendere che se la lingua fosse capace di produrre beni materiali, i chiacchieroni sarebbero le persone più ricche della terra.
Seconda domanda: Marx ed Engels definiscono la lingua «realtà immediata del pensiero», come «coscienza pratica… reale». «Le idee – dice Marx – non esistono separatamente dalla lingua». In quale misura, secondo la vostra opinione, la linguistica si dovrebbe occupare dell’aspetto semantico della lingua, della semantica, della semasiologia storica e stilistica, oppure il soggetto della linguistica dovrebbe essere soltanto la forma?
Risposta: La semantica (semasiologia) è una delle parti importanti della linguistica. La semantica delle parole e delle espressioni ha una grande importanza nello studio della lingua. Pertanto, alla semantica (semasiologia) deve essere riservato nella linguistica il posto che le conviene.
Tuttavia, trattando i problemi della semantica e utilizzando i suoi dati, non si deve in alcun modo sopravvalutarne la importanza, né tanto meno si deve abusare di essa. Penso a taluni linguisti che, indulgendo eccessivamente alla semantica, trascurano la lingua come «realtà immediata del pensiero» inseparabilmente connessa col processo del pensiero, separano il processo del pensiero dalla lingua, e sostengono che la lingua stia diventando una sopravvivenza e che sia possibile farne a meno.
Fate attenzione alle seguenti parole di N. Ia. Marr: «La lingua esiste solo in quanto si esprime con i suoni; l’azione del pensare avviene anche senza che ci sia la espressione… La lingua (lingua parlata) ha già cominciato a cedere le sue funzioni alle ultime invenzioni, che stanno conquistando senza riserve lo spazio, mentre il processo del pensiero si sta elevando sempre di più al di sopra delle sue accumulazioni nel passato inutilizzate e delle sue nuove acquisizioni, spodestando e sostituendo la lingua. La lingua futura sarà il processo del pensiero sviluppantesi in una tecnica libera da materia naturale. Nessuna lingua, neppure la lingua parlata, benché connessa con un processo naturale, riuscirà a resisterle».
(Vedi Opere scelte di N. Ia. Marr).
Se cerchiamo di tradurre questi giuochi di prestigio della teoria «magico-lavorativa» in un semplice linguaggio umano, si può trarre la conclusione che:
a) N. Ia. Marr separa il processo del pensiero dalla lingua;
b) N. Ia. Marr ritiene che la comunicazione tra gli uomini possa realizzarsi anche senza la lingua, con l’aiuto dello stesso processo del pensiero, libero dalla «materia naturale» della lingua, libero dalle «norme della natura»;
c) separando il processo del pensiero dalla lingua e avendolo «liberato» dalla «materia naturale» della lingua, N. Ia. Marr affonda nel pantano dell’idealismo.
Si dice che i pensieri sorgano nella mente dell’uomo prima che essi vengano espressi nel discorso, che sorgano senza il linguaggio materiale, senza un rivestimento linguistico, in una forma, per così dire, nuda. Ma ciò è assolutamente sbagliato. Qualsiasi pensiero sorga nella mente dell’uomo, esso può sorgere ed esistere solo sulla base del materiale linguistico, sulla base della terminologia e delle frasi del linguaggio. Pensieri nudi, liberi dal materiale linguistico, liberi dalla «materia naturale» della lingua non esistono. «La lingua è la realtà immediata del pensiero» (Marx). La realtà del pensiero si manifesta nella lingua. Solo gli idealisti possono parlare di un processo del pensiero non connesso alla «materia naturale» della lingua, di un processo del pensiero senza lingua.
In breve: una sopravvalutazione della semantica e l’abuso di essa hanno portato N. Ia. Marr all’idealismo.
Di conseguenza, se la semantica (semasiologia) viene salvaguardata dalle esagerazioni e dagli abusi, simili a quelli a cui indulgono N. Ia. Marr e alcuni suoi «discepoli», essa può dare alla linguistica un grande aiuto.
Terza domanda: Voi dite, del tutto giustamente, che i borghesi e i proletari hanno idee, rappresentazioni, costumi e princìpi morali diametralmente opposti. Il carattere di classe di questi fenomeni ha certamente avuto una influenza sull’aspetto semantico della lingua (e, a volte, anche sulla sua forma – il vocabolario – come giustamente viene rilevato nel vostro articolo). Analizzando il materiale linguistico concreto, e innanzitutto, il suo aspetto semantico, possiamo parlare dell’essenza classista dei concetti che esso esprime, particolarmente nei casi in cui si tratta dell’espressione linguistica non soltanto del pensiero dell’uomo ma anche del suo atteggiamento verso la realtà, dove la sua appartenenza a una classe si manifesta in modo particolarmente chiaro?
Risposta: In breve, voi volete sapere se le classi influenzino la lingua, se esse portino nella lingua le loro parole ed espressioni specifiche, se vi siano casi in cui gli uomini attribuiscono un significato differente, a seconda della classe a cui appartengono, alle stesse parole ed espressioni?
Sì, le classi influenzano la lingua, portano nella lingua le loro parole ed espressioni specifiche e, a volte, comprendono in modo diverso le stesse parole ed espressioni. Questo è indubbio.
Da ciò tuttavia, non deriva che le parole e le espressioni specifiche, e del pari la differenza nella semantica, possano avere seria importanza per lo sviluppo di una singola lingua comune a tutto il popolo, che esse siano capaci di attenuarne il significato o di mutarne il carattere.
Innanzitutto, queste parole ed espressioni specifiche, come pure i casi di differenza nella semantica, sono così pochi nella lingua, da costituire difficilmente l’uno per cento dell’intiero materiale linguistico. Di conseguenza, tutta la rimanente e prevalente massa di parole e di espressioni, come pure la loro semantica, sono comuni a tutte le classi della società.
In secondo luogo, le parole e le espressioni specifiche che hanno una parvenza di classe sono usate nel discorso non secondo le regole di una specie di grammatica «di classe», che non esiste nella realtà, ma secondo le regole della grammatica della lingua esistente, comune a tutto il popolo.
Di conseguenza, la presenza di parole ed espressioni specifiche e le differenze nella semantica della lingua non confutano, ma al contrario, confermano la esistenza e la necessità di una sola lingua, comune a tutto il popolo.
Quarta domanda: Nel vostro articolo voi definite giustamente Marr come un travisatore del marxismo. Significa ciò che i linguisti, compresi noi della giovane generazione, debbano trascurare tutta l’eredità linguistica di Marr, che, nondimeno, conta molte apprezzabili opere di ricerca linguistica (i compagni Cikobava, Sangeiev ed altri ne hanno scritto nel corso della discussione)? Possiamo noi, pur criticando Marr, trarre dalle sue opere ciò che è utile ed apprezzabile?
Risposta: Certamente, le opere di N. Ia. Marr non consistono soltanto di errori. N. Ia. Marr commise i più grossolani errori quando egli introdusse nella linguistica elementi del marxismo in una forma travisata, quando cercò di creare una teoria autonoma della lingua. Ma N. Ia. Marr ha scritto talune opere apprezzabili e di talento, nelle quali, dimenticando le sue pretese teoriche, con coscienza, e, si deve dire, con capacità, studia singole lingue. In tali opere si possono trovare non poche cose apprezzabili e istruttive. E’ chiaro che quanto vi è di apprezzabile e istruttivo deve essere preso da N. Ia. Marr e utilizzato.
Quinta domanda: Molti linguisti considerano il formalismo come una delle principali ragioni della stagnazione della linguistica sovietica. Gradiremmo conoscere la vostra opinione per sapere in che cosa consiste il formalismo nella linguistica e come debba essere superato.
Risposta: N. Ia. Marr e i suoi «discepoli» accusano di «formalismo» tutti i linguisti che non accettano la «nuova teoria» di N. Ia. Marr. Ciò, naturalmente, è poco serio e insensato.
N. Ia. Marr considerava la grammatica una vuota «formalità» e formalisti coloro i quali considerano il sistema grammaticale come fondamento della lingua. Ciò è del tutto ridicolo.
Ritengo che il «formalismo» sia stato inventato dagli autori della «nuova teoria» per facilitare la lotta contro i loro avversari nella linguistica.
Il motivo della stagnazione nella linguistica sovietica non è il «formalismo» inventato da N. Ia. Marr e dai suoi «discepoli», ma il regime alla Arakceiev e le deficienze teoriche nella linguistica. Il regime alla Arakceiev è stato istaurato dai «discepoli» di N. Ia. Marr. Il pasticcio teorico è stato portato nella linguistica da N. Ia. Marr e dai suoi scolari più vicini. Per uscire dalla stagnazione l’uno e l’altro vanno eliminati. L’eliminazione di queste piaghe sanerà la linguistica sovietica, la condurrà su una larga strada e le permetterà di occupare il primo posto nella linguistica del mondo.

29 giugno 1950

 

Risposta ai compagni


Al compagno Sangeiev
Caro compagno Sangeiev,
rispondo alla vostra lettera con molto ritardo, perché solo ieri essa mi è stata trasmessa dall’apparato del Comitato centrale.
Non v’è dubbio, voi interpretate giustamente la mia posizione sulla questione dei dialetti.
I «dialetti di classe», che sarebbe più esatto chiamare gerghi, servono non le masse del popolo, ma un ristretto gruppo sociale superiore. Inoltre, essi non hanno un proprio sistema grammaticale e un patrimonio lessicale fondamentale. Perciò non possono in alcun modo svilupparsi in lingue indipendenti.
I dialetti locali («territoriali»), invece, servono le masse del popolo e hanno un proprio sistema grammaticale e un proprio patrimonio lessicale fondamentale. Perciò taluni dialetti locali, nel processo di formazione delle nazioni, possono essere la base delle lingue nazionali e svilupparsi in lingue nazionali indipendenti. Così è avvenuto, per esempio, col dialetto di Kursk-Orel («parlata» di Kursk-Orel) della lingua russa, che è stato la base della lingua nazionale russa. Altrettanto può dirsi per il dialetto di Poltava-Kiev della lingua ucraina, che è stato la base della lingua nazionale ucraina. Per quanto riguarda gli altri dialetti di queste lingue, essi perdono la loro originalità, confluiscono in queste lingue e scompaiono in esse.
Si verificano pure dei processi inversi, quando la lingua unica di una nazionalità, non ancora divenuta nazione a causa dell’assenza delle condizioni economiche necessarie per tale sviluppo, scompare in seguito alla disintegrazione dello Stato di quella nazionalità, mentre i dialetti locali, non ancora arrivati a fondersi nella lingua unica, si ravvivano e costituiscono il punto di partenza per la formazione di lingue indipendenti, separate. E’ possibile che sia stato proprio questo il caso, per esempio, della lingua unica mongola.

11 luglio 1950

 

Ai compagni Bielkin e Furer
Ho ricevuto le vostre lettere.
Il vostro errore consiste nel fatto che avete confuso due cose differenti e sostituito l’oggetto che avevo esaminato nella mia risposta alla compagna Krasceninnikova con un altro oggetto.
1. – Io critico in questa risposta N. Ia. Marr, il quale, parlando della lingua (parlata) e del pensiero, separa la lingua dal pensiero e cade quindi nell’idealismo. Di conseguenza, si parla nella mia risposta delle persone normali, che posseggono una lingua. Io affermo quindi che i pensieri possono sorgere in queste persone solo sulla base del materiale linguistico; che pensieri nudi, senza legame con il materiale linguistico, non esistono nelle persone che posseggono una lingua.
Invece di accettare o respingere questa affermazione, voi venite a parlare delle persone anormali, senza lingua, dei sordomuti, che non hanno lingua e i cui pensieri, naturalmente, non possono sorgere sulla base di un materiale linguistico. Come vedete, questo è un tema del tutto differente, al quale non ho accennato e non potevo accennare, poiché la linguistica si occupa degli uomini normali, che posseggono una lingua, e non degli anormali, dei sordomuti che non hanno lingua.
Voi avete sostituito all’oggetto in discussione un altro oggetto, che non era in discussione.
2. – Dalla lettera del compagno Bielkin si vede che egli pone sullo stesso livello la «lingua delle parole» (lingua parlata) e la «lingua dei gesti» (la lingua «manuale» secondo N. Ia. Marr). Egli pensa, evidentemente, che la lingua dei gesti e la lingua parlata siano equivalenti; che una volta la società umana non aveva lingua parlata; che la lingua «manuale» era allora usata in luogo della lingua parlata, la quale sarebbe comparsa più tardi.
Ma se il compagno Bielkin pensa realmente una cosa simile, egli compie un grave errore. La lingua parlata o lingua delle parole è sempre stata la sola lingua della società umana, capace di servire come mezzo di comunicazione effettivo tra gli uomini. La storia non conosce una sola società umana, sia essa stata la più arretrata, che non abbia avuto la sua lingua parlata. L’etnografia non conosce nessuna piccola nazionalità arretrata, sia pure altrettanto primitiva o ancora più primitiva, per così dire, degli australiani o degli indigeni della Terra del Fuoco nel secolo scorso, che non abbia avuto la sua lingua parlata. La lingua parlata è stata, nella storia dell’umanità, una delle forze che hanno aiutato gli esseri umani a emergere dal mondo animale, a unirsi in società, a sviluppare il loro pensiero, a organizzare la produzione sociale, a condurre con successo la lotta contro le forze della natura e a conseguire il progresso che abbiamo attualmente.
Per questo aspetto, l’importanza della cosiddetta lingua dei gesti, in considerazione della sua estrema povertà e limitatezza, è trascurabile. Essa, in sostanza, non è una lingua e nemmeno un surrogato di lingua, capace, in un modo o nell’altro, di sostituire la lingua parlata, bensì uno strumento ausiliare, con mezzi estremamente limitati, usati a volte dall’uomo per sottolineare taluni momenti del suo discorso. La lingua dei gesti non può nemmeno essere posta sullo stesso livello della lingua parlata, così come non si può porre sullo stesso livello una primitiva zappa di legno e un moderno trattore con un aratro a cinque vomeri o una seminatrice.
3. – Evidentemente, voi vi interessate innanzitutto dei sordomuti e, solo dopo, dei problemi della linguistica. Probabilmente, è stata questa circostanza che vi ha spinto a rivolgermi varie domande. Bene, se voi insistete, non ho nulla in contrario a soddisfare il vostro desiderio. Come si pone la questione dei sordomuti? Lavora in essi il pensiero, sorgono in essi dei pensieri? Sì, in essi il pensiero lavora, i pensieri in essi sorgono. E’ chiaro che, nella misura in cui i sordomuti sono privati della lingua, i loro pensieri non possono sorgere sulla base di un materiale linguistico. Non significa ciò che i pensieri dei sordomuti sono pensieri nudi, non collegati con le «norme della natura» (espressione di N. Ia. Marr)? No, non lo significa affatto. I pensieri dei sordomuti sorgono e possono esistere solo sulla base di quelle immagini, percezioni, rappresentazioni, che essi si formano, rispetto agli oggetti del mondo esterno, nel corso della vita e nelle relazioni tra di loro, grazie ai sensi della vista, del tatto, del gusto e dell’odorato. Al di fuori di queste immagini, percezioni e rappresentazioni, il pensiero è vuoto, privo di qualsiasi contenuto, ossia non esiste.

22 luglio 1950

 

Al compagno Kholopov
Ho ricevuto la vostra lettera.
Vi rispondo con un certo ritardo perché sovraccarico di lavoro.
La vostra lettera procede, implicitamente, da due premesse: dalla premessa che sia ammissibile citare le opere di un autore staccandole dal periodo storico a cui si riferisce la citazione e, in secondo luogo, dalla premessa che questa o quella conclusione o formula del marxismo, a cui si sia giunti avendo studiato uno dei periodi dello sviluppo storico, siano giuste per tutti i periodi di sviluppo e quindi debbano rimanere immutabili.
Debbo dire che entrambe queste premesse sono profondamente errate.
Ecco alcuni esempi:
1. – Nel quarto decennio del secolo scorso, quando non esisteva ancora il capitalismo monopolistico, quando il capitalismo si sviluppava in modo più o meno regolare secondo una linea ascendente, estendendosi a nuovi territori non ancora da esso conquistati, e la legge dell’ineguale sviluppo non poteva ancora operare con tutta la sua forza, Marx ed Engels giunsero alla conclusione che la rivoluzione socialista non poteva vincere in un Paese soltanto, che essa poteva vincere solo in seguito a una azione generale in tutti o nella maggior parte dei Paesi civili. Questa conclusione divenne allora norma direttiva per tutti i marxisti.
Tuttavia, all’inizio del XX secolo, specialmente nel periodo della prima guerra mondiale, quando si rivelò evidente per tutti che il capitalismo premonopolistico si era chiaramente trasformato in capitalismo monopolistico, quando il capitalismo in ascesa era divenuto capitalismo morente, quando la guerra mise in luce le debolezze insanabili del fronte mondiale dell’imperialismo, mentre la legge dell’ineguale sviluppo determinava la maturazione della rivoluzione proletaria nei differenti Paesi in epoche diverse, Lenin, partendo dalla dottrina marxista, giunse alla conclusione che, nelle nuove condizioni di sviluppo, la rivoluzione socialista poteva benissimo vincere in un singolo determinato Paese, che la simultanea vittoria della rivoluzione socialista in tutti i Paesi o nella maggior parte dei Paesi civili era impossibile in considerazione dell’ineguale maturazione della rivoluzione in questi Paesi, che l’antica formula di Marx ed Engels non corrispondeva più alle nuove condizioni storiche.
Come si vede, abbiamo qui due differenti conclusioni circa la questione della vittoria del socialismo, le quali non soltanto si contraddicono, ma addirittura si escludono l’una con l’altra.
Taluni dogmatici e talmudisti che, senza penetrare la sostanza della questione, citano formalmente, senza tener conto delle condizioni storiche, potrebbero dire che una di queste conclusioni, in quanto assolutamente sbagliata, deve essere respinta, mentre l’altra, in quanto assolutamente giusta, deve essere estesa a tutti i periodi di sviluppo. Ma i marxisti non possono non sapere che i dogmatici e i talmudisti si sbagliano; non possono non sapere che entrambe queste conclusioni sono giuste, ma non in senso assoluto, bensì ciascuna per la sua epoca: la conclusione di Marx ed Engels, per il periodo del capitalismo premonopolistico, e la conclusione di Lenin, per il periodo del capitalismo monopolistico.
2. – Engels nel suo Antidühring ha detto che, dopo la vittoria della rivoluzione socialista, lo Stato deve scomparire. Su questa base, dopo la vittoria socialista nel nostro Paese, i dogmatici e i talmudisti del nostro partito cominciarono a chiedere che il partito prendesse delle misure per la più sollecita scomparsa del nostro Stato, per la dissoluzione degli organi dello Stato, per rinunziare all’esercito regolare.
Tuttavia, i marxisti sovietici, sulla base dello studio della situazione mondiale nei nostri tempi, sono giunti alla conclusione che, fino a che dura l’accerchiamento capitalistico, quando la vittoria della rivoluzione socialista ha avuto luogo in un solo Paese, mentre in tutti gli altri Paesi domina il capitalismo, il Paese della rivoluzione vittoriosa non deve indebolire, ma invece rafforzare in ogni modo il suo Stato, gli organi dello Stato, gli organi della vigilanza, l’esercito, a meno che questo paese non voglia essere travolto dall’accerchiamento capitalistico. I marxisti russi sono giunti alla conclusione che la formula di Engels considerava la vittoria del socialismo in tutti i Paesi, o nella maggior parte di essi, che essa è inapplicabile nel caso in cui il socialismo si affermi in un solo Paese, preso singolarmente, mentre in tutti gli altri Paesi domina il capitalismo.
Come si vece, abbiamo qui due diverse formule circa la questione della sorte di uno Stato socialista, che si escludono l’una con l’altra.
I dogmatici e i talmudisti possono dire che questa circostanza crea una situazione intollerabile, che una di queste formule deve essere respinta come assolutamente erronea, mentre l’altra, in quanto assolutamente giusta, deve essere applicata a tutti i periodi di sviluppo dello Stato socialista. I marxisti, tuttavia, non possono non sapere che i dogmatici e i talmudisti si sbagliano, perché entrambe queste formule sono giuste, ma non in senso assoluto, bensì ciascuna per la sua epoca; la formula dei marxisti sovietici, per il periodo della vittoria del socialismo in uno o più Paesi, e la formula di Engels, per il periodo in cui la successiva vittoria del socialismo in singoli Paesi condurrà alla vittoria del socialismo nella maggioranza dei Paesi, e quando verranno così a crearsi le condizioni necessarie per l’applicazione della formula di Engels.
Il numero di questi esempi potrebbe essere aumentato.
Lo stesso si deve dire per le due diverse formule circa la questione della lingua, prese da diverse opere di Stalin e citate dal compagno Kholopov nella sua lettera.
Il compagno Kholopov si riferisce allo scritto di Stalin A proposito del marxismo nella linguistica, in cui si trae la conclusione che, in seguito all’incrocio, diciamo, di due lingue, una di esse emerge di solito vittoriosa, mentre l’altra si estingue, e che, di conseguenza, l’incrocio non produce una nuova, terza lingua, ma conserva una delle due lingue. Egli si riferisce poi a un’altra conclusione, presa dal rapporto di Stalin al XVI Congresso del Partito comunista (b) dell’U.R.S.S., secondo la quale, nel periodo della vittoria del socialismo su scala mondiale, quando il socialismo sarà consolidato e sarà entrato nel costume degli uomini, le lingue nazionali dovranno inevitabilmente fondersi in una lingua comune, che, naturalmente, non sarà né la grande-russa, né la tedesca, ma qualcosa di nuovo. Paragonando queste due formule e costatando che esse, lungi dal coincidere, si escludono a vicenda, il compagno Kholopov si dà alla disperazione. «Dal vostro articolo – egli scrive nella sua lettera – ho compreso che una nuova lingua non può mai risultare dall’incrocio di più lingue, mentre prima di questo articolo ero fermamente convinto, d’accordo con il vostro discorso al XVI Congresso del Partito comunista (b) dell’U.R.S.S., che sotto il comunismo le lingue si fonderanno in una lingua comune».
E’ evidente che il compagno Kholopov, avendo scoperto una contraddizione tra queste due formule, è profondamente persuaso che la contraddizione debba venire eliminata; considera necessario disfarsi di una delle formule in quanto sbagliata, e attenersi all’altra, che sarebbe giusta per tutti i tempi e per tutti i Paesi. Ma a quale delle due formule precisamente restare attaccato, egli non lo sa. Sorge così una specie di situazione senza via di uscita. Il compagno Kholopov non sospetta nemmeno che ambedue le formule possano essere giuste, ciascuna per la sua epoca.
Così accade sempre ai dogmatici e ai talmudisti, i quali, senza penetrare nella sostanza della questione e citando formalmente, senza tener conto delle condizioni storiche alle quali le citazioni si riferiscono, si vengono invariabilmente a trovare in una situazione senza via d’uscita.
Eppure, se guardate alla sostanza delle cose, non v’è alcun motivo per una situazione senza via d’uscita. Il fatto è che l’opuscolo di Stalin A proposito del marxismo nella linguistica e il rapporto di Stalin al XVI Congresso del partito si riferiscono a due epoche completamente differenti, motivo per cui anche le formule differiscono.
La formula usata da Stalin nel suo opuscolo, nella parte in cui tratta dell’incrocio delle lingue, si riferisce all’epoca che precede la vittoria del socialismo su scala mondiale, quando le classi sfruttatrici sono la forza dominante nel mondo, quando l’oppressione nazionale e coloniale è ancora in vita, quando l’isolamento nazionale e la reciproca sfiducia tra le nazioni sono irrigidite dalle differenze di Stato; quando non vi è ancora eguaglianza nazionale, quando l’incrocio delle lingue procede nella forma di lotta per il dominio di una delle lingue, quando non vi sono ancora le condizioni per una pacifica e amichevole cooperazione tra le nazioni e tra le lingue, quando all’ordine del giorno non è la cooperazione e il reciproco arricchimento delle lingue, ma l’assimilazione di alcune lingue e la vittoria di altre. Si capisce che in queste condizioni vi possono essere soltanto lingue vincitrici e lingue vinte. Sono precisamente queste le condizioni a cui si riferisce la formula di Stalin, quando egli dichiara che l’incrocio, diciamo, di due lingue dà come risultato non la formazione di una nuova lingua, ma la vittoria dell’una e la sconfitta dell’altra.
Per quanto riguarda l’altra formula di Stalin, tratta dal discorso al XVI Congresso del partito, nella parte concernente la fusione delle lingue in una sola lingua comune, s’intende parlare, in tal caso, di una altra epoca, e precisamente dell’epoca successiva alla vittoria del socialismo su scala mondiale, quando l’imperialismo mondiale non esiste più, le classi sfruttatrici saranno state abbattute, l’oppressione nazionale e coloniale liquidata, l’isolamento nazionale e la reciproca sfiducia delle nazioni sostituite dalla reciproca fiducia e dal ravvicinamento delle nazioni stesse, la eguaglianza nazionale realizzata, la politica di soppressione e assimilazione delle lingue scomparsa, la cooperazione delle nazioni organizzata, e le lingue nazionali avranno la possibilità di arricchirsi liberamente a vicenda cooperando tra di loro. Si capisce che, in queste condizioni, non si può parlare di soppressione e di sconfitta di talune lingue e di vittoria di altre lingue. Allora non vi saranno due lingue, l’una delle quali venga ad essere sconfitta e l’altra a emergere vittoriosa dalla lotta, ma centinaia di lingue nazionali, dalle quali, in seguito alla prolungata collaborazione economica, politica e culturale delle nazioni, emergeranno dapprima le più ricche lingue comuni di zona, e a loro volta le lingue di zona si fonderanno successivamente in una comune lingua internazionale, che, naturalmente, non sarà né la tedesca, né la russa, né l’inglese, ma sarà una nuova lingua, la quale avrà assorbito i migliori elementi delle lingue nazionali e di zona.
Di conseguenza, le due diverse formule corrispondono a due diverse epoche di sviluppo della società e precisamente per il motivo che corrispondono ad esse, entrambe le formule sono giuste, ciascuna per la sua epoca.
Esigere che queste formule non si contraddicano l’una con l’altra, che non si escludano a vicenda, è altrettanto assurdo quanto sarebbe assurdo esigere che l’epoca del dominio del capitalismo non sia in contraddizione con l’epoca del dominio del socialismo, che il socialismo e il capitalismo non si escludano a vicenda.
I dogmatici e i talmudisti considerano il marxismo, le singole conclusioni e formule del marxismo, come una collezione di dogmi i quali non cambiano «mai», nonostante i cambiamenti nelle condizioni di sviluppo della società. Essi pensano che, se avranno imparato a memoria queste conclusioni e formule e cominceranno a citarle per diritto e per traverso, saranno capaci di risolvere qualsiasi problema, calcolando che le conclusioni e le formule imparate a memoria si adattino a tutte le epoche e a tutti i Paesi, a tutti i casi della vita. Ma in questo modo possono pensare solo coloro che vedono la lettera, ma non vedono la sostanza del marxismo, che imparano meccanicamente i testi delle conclusioni e delle formule del marxismo, ma non ne comprendono il contenuto.
Il marxismo è la scienza delle leggi di sviluppo della natura e della società, la scienza della rivoluzione delle masse oppresse e sfruttate, la scienza della vittoria del socialismo in tutti i Paesi, la scienza dell’edificazione della società comunista. Il marxismo, come scienza, non può restare immobile, ma si sviluppa e si perfeziona. Nel suo sviluppo il marxismo non può non arricchirsi di nuove esperienze, di nuove conoscenze, e pertanto le sue singole formule e conclusioni non possono non mutare nel corso del tempo, non possono non essere sostituite da nuove formule e conclusioni, corrispondenti ai nuovi compiti storici. Il marxismo non conosce conclusioni o formule immutabili obbligatorie per tutte le epoche e per tutti i periodi. Il marxismo è nemico di qualsiasi dogmatismo.

28 luglio 1950

Edited by Andrej Zdanov - 3/2/2014, 18:33
view post Posted: 21/11/2012, 18:38 Soviet Music - English
Source: www.northstarcompass.org/books/zhdanovm.doc


A. ZHDANOV'S SPEECH
AT THE DISCUSSION ON SOVIET MUSIC
IN THE CENTRAL COMMITTEE OF THE C.P.S.U.(B.)





Comrades! First of all, permit me to make a few remarks on the character of the discussion which has unfolded here.

The general appraisal of the position in the realm of musical creation is that it is none too good. True, the speakers have expressed various shades of opinion. Some said that things were particularly bad organisationally, and called attention to the unsatisfactory state of criticism and self-criticism and the incorrect management of musical affairs, especially in the Composers' Union. Others, while agreeing with the criticism of organisational methods and regime, stressed the unsatisfactory position with regard to the ideological trend of Soviet music. Still others have tried to minimize the urgency of the matter, or pass over unpleasant questions in silence. However for all these differences of shade in appraising the present situation, the gist of the discussion has been that things are not so good.

I have no intention of introducing dissonance or atonality into this appraisal, although "atonality" is now the fashion. (Laughter, animation in the hall.) Things really are in a bad way... worse even, in my opinion, than was stated here. I have no intention of denying the achievements of Soviet music. Of course, there have been such. But if we stop to think what achievements we could and should have had in Soviet music, if, also, we compare our successes in music with our achievements in other ideological spheres, we have to admit that the former are quite insignificant. In the case of literature, for instance, some of the big journals are at present hard put to find space in their coming numbers for all the material, perfectly suitable for publication, that has accumulated in their editorial folders. I hardly think any of the speakers could boast of such an "overflow" in music. There has been progress in the realm of the cinema and theatre, but in the realm of music there has not been any perceptible progress.

Music has lagged behind – such is the gist of all the speeches made here. The situation in both the Composers' Union and the Committee on Arts is decidedly abnormal. Little has been said about the Committee on Arts; it has been insufficiently criticised. At any rate, the Composers' Union has been hauled over the coals at much greater length and more sharply. Yet the Committee on Arts has played a very unseemly role. While pretending to stand fast for the realistic trend in music, the Committee has done its best to foster the formalistic trend, raising its exponents on high and so helping to disorganise and introduce ideological confusion into our composers' ranks. Itself ignorant and incompetent as concerns problems of music, the Committee has drifted along with the current, in the wake of the formalistically inclined composers.

The Organisational Committee of the Composers' Union has been compared here to a monastery or a body of generals without an army. Both these statements can well go unchallenged. If the destiny of Soviet music is becoming the prerogative of an extremely narrow circle of prominent composers and critics (the latter chosen on the basis of how fervently they support their chiefs, thus creating a suffocating atmosphere of adulation around these composers), if creative discussion is absent, if the stuffy, musty practice of classifying composers as first and second rate has become firmly established in the Composers' Union, if the dominant style of its creative meetings is polite silence or reverent praise of the chosen few, if the leadership of the Organisational Committee keeps aloof from the mass of composers – then it cannot be denied that the situation on our musical "Mt. Olympus" has indeed grown alarming.

Special mention must be made of the perverse trend of criticism and the absence of creative discussion in the Composers' Union. Since there is no creative discussion, no criticism and self-criticism, there can be no progress, either. Creative discussion and objective, independent criticism – this has already become axiomatic – are the most important pre-requisites of creative growth. When criticism and creative discussion are lacking, the wellsprings of growth run dry and a hothouse atmosphere of stuffiness and stagnation is created. Yet our composers could need nothing less than this. No wonder people participating in a discussion on musical problems for the first time find it strange that such irreconcilable contradictions can exist side by side as the very conservative organisational regime of the Composers' Union and the supposedly ultra-progressive views (in the ideological creative sphere) of its present leaders. We know that the leadership of the Union has inscribed such highly promising slogans on its banner as a call for innovations, rejection of outworn tradition, as the fight against "epigonism", and so on. But it is strange that the very people who wish to appear extremely radical and even arch-revolutionary in the matter of a creative platform, who pose as iconoclasts... that these same people prove extremely backward and unamenable to any novelty and change in so far as their participation in the activities of the Composers' Union is concerned, that in their methods of work and leadership they are conservative, and in organisational questions often gladly subservient to bad traditions and despised "epigonism", cultivating the stalest and mouldiest methods of leadership of the life and activity of their creative organisation.

It is not difficult to explain why this is so. If bombastic talk about an allegedly new trend in Soviet music is accompanied by actions which can by no means be called progressive, this in itself warrants legitimate doubt as to the progressive nature of the ideological creative tenets being implanted by such reactionary methods.

The organisational aspect of any matter is very important, as you all know quite well. The creative organisations of our composers and musicians apparently need a good airing. There is need of a fresh breeze to clear the atmosphere in these organisations, that normal conditions for the development of creative work may be established.

However, the organisational question, important as it is, is not the basic question. The basic question is that of the trend of Soviet music. In the course it has taken our discussion here has somewhat slurred over this question, and this is not right. Just as in music you seek the lucid musical phrase, so in the question of the trend of musical development we must also achieve clarity. To the question "Is it a matter of two trends in music?" the discussion has given a perfectly definite answer: yes, precisely that is the matter. Although some comrades have avoided calling things by their own names, and there has been quite a bit of shadow-boxing, it is clear that a struggle is taking place between the trends and that attempts are being made to replace one trend by another.

Some of the comrades maintained that there are no grounds for bringing up the question of a struggle between trends, that no changes of a qualitative nature have taken place, and that all that is happening is the further development of the heritage of the classical school under Soviet conditions. They said that no revision of the principles of classical music is being made, and that consequently there was nothing to argue or get excited about. They made it seem that it was merely a question of correcting something here and there, of isolated cases of absorption with technique alone, of isolated naturalistic mistakes, and so on. Since there has been this kind of camouflaging, the question of the fight between the two trends needs fuller treatment. Of course, it is not merely a question of making a few corrections, of there being a leak in the conservatory roof, and the need of mending it, in which need we cannot but agree with Comrade Shebalin. It is not only in the conservatory roof that there is a hole; that can be readily fixed. There is a much bigger hole in the foundation of Soviet music. There cannot be two opinions on this score. All the speakers have pointed out that a definite group of composers is now playing the leading role in the creative activity of the Composers' Union. The composers in question are Comrades Shostakovich, Prokofieff, Miaskovsky, Khachaturian, Popov, Kabalevsky, Shebalin. Is there anyone else you think should be added to this group?

Voice from the floor: Shaporin.

Zhdanov: In speaking of the leading group which holds all the strings and keys of The Executive Committee on Creative Work, these are the names most frequently mentioned. Let us consider these comrades the chief, leading figures of the formalistic trend in music. And this trend is fundamentally wrong.

The comrades just named have also spoken here, and declared that they too are dissatisfied with the absence of a critical atmosphere in the Composers' Union, with their being praised too highly, that they are aware of a certain weakening of their contact with the main bulk of composers, and with the public, and so on. But it was hardly necessary to wait for a not quite or not completely successful opera to come out with all these truths. These confessions might have been made much earlier. The point is that for the leading group of our formalistically inclined composers the regime which has existed until now in our musical organisations was, to put it mildly, "not altogether unpleasant". (Applause.) It took a meeting in the Central Committee of the Party for the comrades to discover the fact that this regime has its negative sides. However that may be, until this meeting in the Central Committee, none of them thought of changing the state of affairs in the Composers' Union. The forces of "traditionalism" and "epigonism" functioned smoothly. It has been said here that the time has come for a radical change. It is impossible not to concede this, inasmuch as the commanding posts in Soviet music are held by the comrades named, inasmuch as it has been proven that attempts to criticise them would have resulted, as Comrade Zakharov put it, in an explosion, in the immediate mobilisation of all forces against this criticism, we must conclude that it was precisely these comrades who created that same unbearable hothouse atmosphere of stagnation and back-slapping that they are now inclined to declare undesirable.

The leading comrades in the Composers' Union alleged here that there is no oligarchy in the Composers' Union. If so, the question arises: why do they hold so tenaciously to the leading posts in the Union? Is it that they like domination for the sake of domination? In other words, have people taken power into their hands because they enjoy power for the sake of power, because the administrative appetite got the better of them, and people simply want lo lord it over others, like Vladimir Galitsky in Prince Igor? (Laughter.) Or is this domination exercised for the sake of a definite trend in music? I think we can discord the first hypothesis; the second is more correct. We have no reason to say that leadership in the Union is not connected with a trend. No such charge can be made, for instance, against Shostakovich. It follows, then, that it was domination for the sake of the trend.

And, indeed, we are faced with a very acute, although outwardly concealed struggle between two trends in Soviet music. One trend represents the healthy, progressive principle in Soviet music, based upon recognition of the tremendous role of the classical heritage, and, in particular, the traditions of the Russian musical school, on the combination of lofty idea content in music, its truthfulness and realism, with profound, organic ties with the people and their music and songs – all this combined with a high degree of professional mastery. The other trend is that of formalism, which is alien to Soviet art, and is marked by rejection of the classical heritage under the guise of seeming novelty, by rejection of popular music, by rejection of service to the people in preference for catering to the highly individualistic emotions of a small group of select aesthetes.

This latter trend substitutes music that is false, vulgar and often simply pathological, for natural and beautiful human music. At the same time it is typical of this latter trend that it avoids frontal attacks, preferring to conceal its revisionistic activity behind a mask of seeming agreement with the fundamental tenets of socialist realism. Such "contraband" methods are, of course, not new. There are plenty of examples in history of revisionism under the guise of seeming agreement with the fundamental tenets of the teaching that is being revised. The more necessary is it, then, to expose the true essence of this other trend, and the harm it is doing to the development of Soviet music.

Let us examine the question of attitude towards the classical heritage, for instance. Swear as the above-mentioned composers may that they stand with both feet on the soil of the classical heritage, there is nothing to prove that the adherents of the formalistic school are perpetuating and developing the traditions of classical music. Any listener will tell you that the work of the Soviet composers of the formalistic trend is totally unlike classical music. Classical music is characterised by its truthfulness and realism, by the ability to attain to unity of brilliant artistic form with profound content, to combine great mastery with simplicity and comprehensibility. Classical music in general, and Russian classical music in particular, are strangers to formalism and crude naturalism. They are marked by lofty idea content, based upon recognition of the musical art of the peoples as the wellspring of classical music, by profound respect and love for the people, their music and songs.

What a step back from the highroad of musical development our formalists make when, undermining the bulwarks of real music, they compose false and ugly music, permeated with idealistic emotions, alien to the wide masses of people, and catering not to the millions of Soviet people, but to the few, to a score or more of chosen ones, to the "elite"! How this differs from Glinka, Chaikovsky, Rimsky-Korsakov, Dargomyjsky and Mussorgsky, who regarded the ability to express the spirit and character of the people in their works as the foundation of their artistic growth. Neglect of the demands of the people, their spirit and art means that the formalistic trend in music is definitely anti-popular in character.

It is simply a terrible thing if the "theory" that "we will be understood fifty or a hundred years hence", that "our contemporaries may not understand us, but posterity will" is current among a certain section of Soviet composers. If this altitude has become habitual, it is a very dangerous habit.

This type of reasoning means isolation from the people. If I – writer, artist, man of letters or Party worker – cannot count upon being understood by my contemporaries, for whom do I live and work? This can only lead to spiritual vacuity, to a blind alley. It is said that certain sycophantic musical critics are whispering this kind of "consolation" to our composers especially now. But can composers listen to this advice coolly and not feel like stigmatizing such advisers at least in a court of honour?

Remember how the classics felt about the needs of the people. We have begun to forget in what striking language the composers of the Big Five,[*] and the great music critic Stasov, who was affiliated with them, spoke of the popular element in music. We have begun to forget Glinka's wonderful words about the ties between the people and artists: "Music is created by the people and we artists only arrange it." We are forgetting that the great master did not stand aloof from any genres if these genres helped to bring music closer to the wide masses of people. You, on the other hand, hold aloof even from such a genre as the opera; you regard the opera as secondary, opposing it to instrumental symphony music, to say nothing of the fact that you look down on song, choral and concert music, considering it a disgrace to stoop to it and satisfy the demands of the people. Yet Mussorgsky adapted the music of the Hopak, while Glinka used the Komarinsky for one of his finest compositions. Evidently, we shall have to admit that the landlord Glinka, the official Serov and the aristocrat Stasov were more democratic than you. This is paradoxical, but it is a fact. Solemn vows that you are all for popular music are not enough. If you are, why do you make so little use of folk melodies in your musical works? Why are the defects, which were criticised long ago by Serov, when he said that "learned", that is, professional, music was developing parallel with and independently of folk music, repeating themselves? Can we really say that our instrumental symphony music is developing in close interaction with folk music – be it song, concert or choral music? No, we cannot say that. On the contrary, a gulf has unquestionably arisen here as the result of the underestimation of folk music by our symphony composers. Let me remind you of how Serov defined his attitude to folk music. I am referring to his article The Music of South Russian Songs in which he said: "Folk songs, as musical organisms, are by no means the work of individual musical talents, but the productions of a whole nation; their entire structure distinguishes them from the artificial music written in conscious imitation of previous examples, written as the products of definite schools, science, routine and reflexes. They are flowers that grow naturally in a given locale, that have appeared in the world of themselves and sprung to full beauty without the least thought of authorship or composition, and consequently, with little resemblance to the hothouse products of learned compositional activity. That is why the naivete of creation, and that (as Gogol aptly expressed it in Dead Souls) lofty wisdom of simplicity which is the main charm and main secret of every artistic work are most strikingly manifest in them.

Just as the lily, in its glorious and chaste beauty, outshines the brilliance of brocades and precious stones, so folk music, thanks to its very child-like simplicity, is a thousand times richer and stronger than all the artifices of the learning taught by pedants in the conservatories and musical academies."[†]

How well, truly and powerfully said! How aptly he expressed the fundamental principle that the development of music must take place on the basis of inter-action, of enrichment of "learned" music by folk music! This subject has almost entirely disappeared from our present theoretical and critical articles. This again confirms the danger of the isolation of our foremost modern composers from the people, in view of their rejection of such a wonderful source of art as the folk song and folk melody. Such a gulf must not exist in Soviet music.

Allow me to pass on to the question of the relation of national music to foreign music. The comrades have correctly noted here that there is a predilection for even a certain orientation on modern western bourgeois music, on decadent music, and that this, too, is one of the underlying features of the formalistic trend in Soviet music.

The relation of Russian music to the music of Western Europe was well defined by Stasov when he wrote, in his article, Some Hindrances to the New Russian Art, that: "It would be ridiculous to deny science or knowledge in any realm, music included, but only the new Russian musicians, who do not have behind them a historical background inherited from previous centuries, from a long chain of scholastic periods in Europe can look science bravely in the eye; they respect it, and enjoy the benefits it confers, but without overdoing it, without being obsequious about it. They deny the necessity of its dry and pedantic excesses, they deny its gymnastic diversions, to which thousands of people in Europe attach such importance, and do not believe that it is necessary to spend years on end doing nothing but humbly worshipping its sacred mysteries."[‡]

That was how Stasov spoke of West European classical music. As for modern bourgeois music, which has reached a state of decline and degeneration, there is nothing to take from it. The more absurd and ridiculous then is the manifestation of subservience to modern bourgeois music, in its present state of decline.

If we examine the history of our Russian, and then Soviet music, the conclusion must be drawn that it developed and became a powerful force precisely because it succeeded in standing on its own feet and finding its own roads of development, thus making it possible to reveal the rich inner world of our people. Those who think that the flowering of national music, whether Russian or that of the other Soviet peoples comprising the Soviet Union, means minimizing the significance of internationalism in art are deeply mistaken. Internationalism in art arises not as a result of minimizing or impoverishing national art. On the contrary, internationalism arises from the very flowering of national art. To forget this truth is to lose sight of the guiding line, to lose one's own face, to become homeless cosmopolitans. Only that nation which has its own highly developed musical culture can appreciate the music of other peoples. One cannot be an internationalist in music, or in any other realm without being at the same lime a genuine patriot of one's own country. If internationalism is founded on respect for other peoples, one cannot be an internationalist without respecting and loving one's own people.

The whole experience of the U.S.S.R. confirms this. It follows then that internationalism in music, respect for the art of other peoples is developing in our country on the basis of the enrichment and development of national musical art, on the basis of such a flowering of this art that it has something to share with other peoples, and not on the basis of the impoverishment of national art, of blind imitation of foreign models and the erasing of the distinctive features of the national character in music. None of this should be forgotten when speaking of the relation of Soviet music to foreign music.

Further, in speaking of the departure of the formalistic trend from the principles of the classical heritage, we must not omit to mention the diminution of the role of program music. This has already been touched upon here, but the kernel of the problem has not been properly revealed. It is quite obvious that there is less program music, or almost none at all. Things have reached the pass where the content of the musical compositions that see the light of day have to be interpreted after their appearance. A new profession has come into being – that of interpreting musical works by critics who are friends of the composers, who try on the basis of personal intuition to decipher post factum the content of musical works that have already been made public and whose hazy idea, it is said, is not quite clear even to their authors. The neglect of program music is also a retreat from progressive traditions. As you know, Russian classical music was, as a rule, program music.

The question of novelty has also come up here. The point was made that its novelty was practically the principle distinguishing feature of the formalistic trend. But novelty is not an end in itself; the new must be better than the old, otherwise it is senseless. It seems to me that the followers of the formalistic school use this word chiefly to popularise bad music. One cannot call every attempt at originality, every distortion and trick in music an innovation. Unless one wishes merely to bandy words about, one must give oneself a clear account of what in the old should be abandoned, and what precisely new goal one should try to reach. Without that, the word novelty can mean only one thing and that is revision of the foundations of music. It can only mean a breaking away from laws and standards of music which should not be abandoned. That these must not be abandoned does not imply conservatism, any more than that they are abandoned signifies novelty. Novelty is far from always coinciding with progress. Many young musicians are lead astray by this bugbear of novelty. They are told that unless they are original, new – they are the slaves of conservative traditions. But since novelty is not the equivalent of progress, spreading such ideas is tantamount to sowing abysmal confusion, if not to plain deceit.

Furthermore, the "novelty" of the formalists is by no means new, since this "novelty" smacks of the modern decadent bourgeois music of Europe and America. Here is where the real epigonists are to be found!

At one time, you remember, elementary and secondary schools went in for the "laboratory brigade" method and the "Dalton plan", which reduced the role of the teacher in the schools to a minimum and gave each pupil the right to set the theme of classwork at the beginning of each lesson. On arriving in the classroom, the teacher would ask the pupils "What shall we study today?" The pupils would reply: "Tell us about the Arctic," "Tell us about the Antarctic," "Tell us about Chapayev," "Tell us about Dneprostroi." The teacher had to follow the lead of these demands. This was called the "laboratory brigade method," but actually it amounted to turning the organisation of schooling completely topsy-turvy. The pupils became the directing force, and the teacher followed their lead. Once we had "loose-leaf textbooks", and the five point system of marks was abandoned. All these things were novelties, but I ask you, did these novelties stand for progress?

The Party cancelled all these "novelties," as you know. Why? Because these "novelties," in form very "leftish," were in actual fact extremely reactionary and made for the nullification of the school.

Or take this example. An Academy of Fine Arts was organised not so long ago. Painting is your sister, one of the muses. At one time, as you know, bourgeois influences were very strong in painting. They cropped up time and again under the most "leftist" flags, giving themselves such tags as futurism, cubism, modernism; "stagnant academism" was "overthrown," and novelty proclaimed. This novelty expressed itself in insane carryings on, as for instance, when a girl was depicted with one head on forty legs, with one eye turned towards us, and the other towards Arzamas.

How did all this end? In the complete crash of the "new trend." The Party fully restored the significance of the classical heritage of Repin, Briullov, Vereshchagin, Vasnetsov and Surikov. Did we do right in reinstating the treasures of classical painting, and routing the liquidators of painting?

Would not the continued existence of the like "schools" have meant the nullification of painting? Did the Central Committee act "conservatively," was it under the influence of "traditionalism," of "epigonism" and so on, when it defended the classical heritage in painting? This is sheer nonsense!

The same applies to music. We do not affirm that the classical heritage is the absolute acme of musical culture. To say so would mean admitting that progress ended with the classics. But the classical models do remain unexcelled to this day. This means that we must learn and learn, that we must take from the classical musical heritage all that is best, in it, all that is essential to the further development of Soviet music.

There is much empty talk about epigonism and the like; these words are used to intimidate the youth and keep it from learning from the classics. The slogan is thrown out that the classics must be outstripped. That would be fine, of course. But to outstrip the classics they must first be overtaken, while you rule out the stage of "overtaking" as if you had already passed through it. But to speak frankly and express the thoughts that are in the minds of the Soviet spectator and listener, it would not be so bad if we had more works now that resembled the classics in content and form, in grace, in beauty and musicality. If that is "epigonism," why, there's no disgrace, perhaps, in being that kind of an epigonist!

With regard to naturalistic distortions. It was made clear here that the natural, healthy standards of music have been increasingly discarded. Elements of crude naturalism are being used more and more in our music. Here is what Serov wrote ninety years ago, in warning against preoccupation with crude naturalism:

"In nature there is a sea of sound of the most divers kind and quality, but all these sounds, known as noise, thunder, roaring, splitting, splashing, rumbling, droning, pealing, howling, creaking, whistling, murmuring, whispering, rustling, hissing, rippling, and so on, and others not denoted in speech ... all these sounds either do not form the material of the musical tongue; or, if they are incorporated in it at all, it is only as exceptions (the ringing of bells, copper cymbals, musical triangles – the sound of drums, timbrels, etc.). The proper material of music is sound of a special quality….”[§]

Is it not true, is it not correct that the sound of cymbals and drums should be the exception in musical composition and not the rule?! Is it not clear that not even natural sound ought to be incorporated in musical compositions?! And yet how much inexcusable indulgence in vulgar naturalism unquestionably betokening retrogression, we find among us!

It must be frankly stated that quite a few works by modern composers are so saturated with naturalistic sounds that they make one think of a drilling machine if you will pardon the unaesthetic comparison, or of a musical murder van. You have got to realise that they are simply impossible to listen to!

With this music we begin to pass beyond the confines of the rational, beyond the confines not only of normal human emotions but also of normal human reason. True there are fashionable theories nowadays which assert that the pathological state of man is something of a higher state, and that the schizophrenic and the paranoic can in their hallucinations reach spiritual heights, such as the ordinary man can never reach in the normal state. These "theories" are not accidental, of course. They are very characteristic of the epoch of decay and decomposition of bourgeois culture. But let us leave all these "refinements" to the insane. Let us demand that our composers give us normal, human music.

What has been the result of this forgetting of the laws and canons on which musical creation is based? Music has wreaked its own vengeance on those who have tried to distort its nature. When music ceases to have content, to be highly artistic, when it becomes ungraceful, ugly, vulgar, it ceases to satisfy the needs for the gratification of which it exists, it ceases to be itself.

Perhaps you are surprised that the Central Committee of the Bolshevik Party is demanding that music be beautiful and graceful? What is this new idea?! No, this was no slip of the tongue. We declare that we stand for beautiful, graceful music, for music capable of satisfying the aesthetic demands and artistic tastes of the Soviet people. These demands and tastes have grown and developed immeasurably. The people appraise the value of a musical composition by how deeply it reflects the spirit of our day, the spirit of our people, by how comprehensible it is to the wide masses. What is genius in music? By no means that which can be understood only by some one person or by a small group of aesthetic gourmands. A musical composition is all the more a work of genius, the deeper and profounder its content, the greater mastery it displays, the more people it reaches, the more people it is capable of inspiring. Not everything that is comprehensible is a work of genius, but every genuine work of genius is comprehensible, and it is all the more a work of genius, the more comprehensible it is to the wide masses of people.

A. N. Serov was absolutely right when he said: "Time is powerless against the truly beautiful in art – otherwise we would not still admire Homer, Dante and Shakespeare, or Raphael, Titian and Poussain, or Palestrina, Handel and Gluck.[**]

The more chords of the human soul it moves to response, the greater a musical composition is. From the standpoint of musical perception, man is such a wonderful and rich membrane or radio receiver, functioning on thousands of waves – no doubt one could find a better comparison – that for him the sounding of a single note, a single chord, a single emotion is insufficient.

If the composer can arouse the response of only one or several human chords, it is not enough, for modern man, especially our Soviet man, is a very complex perceptive being. Even Glinka, Chaikovsky and Serov wrote of the highly developed musical feeling of the Russian people, but at the time when they wrote of this the Russian people had not yet acquired an extensive knowledge of classical music. During the years of Soviet government the musical culture of the people has risen tremendously. If our people were distinguished by great musical feeling even in the old days, today their artistic taste has been enriched as a result of the popularisation of classical music. If you have allowed music to be impoverished, if, as was the case in Muradeli's opera, the potentialities of the orchestra and abilities of the singers are not utilised, you have ceased to gratify the musical demands of your listeners. Sow the wind, and reap the tempest. Let the composers whose work has proven incomprehensible to the people not reckon on the people "growing up" to this music which they cannot understand. The people have no need for music which they cannot understand. Composers have themselves and not the people to blame. They must critically re-evaluate their work and come to see why it has not met with the requirements of the people, why it has not won the approval of the people, and what must be done that the people might understand and approve their compositions.

This is the line along which they must redirect their work, is it not?

Voices from floor: Right!

Zhdanov: I shall now pass on to the question of the danger of loss of professional mastery. If formalistic distortions make music poorer, they also entail the danger of loss of professional mastery. In this connection it would be well to consider still another widespread misconception: the claim that classical music is supposedly simpler, and the latest music more complex, and that complication of the technique of modern music represents a forward step, since development always means progression from the simple to the complex, from the particular to the general. It is not true that every instance of complication is a sign of increased mastery. Not every. Whoever believes every complication to be progress is grossly mistaken. Here is an example. Many foreign words are used, as you know, in the Russian literary tongue. You also know how Lenin ridiculed the abuse of the habit of using foreign words, and how he urged that our native tongue be cleansed of this foreign litter. The complication of the language through the introduction of a foreign word in place of a Russian word, when there is a perfectly good Russian word at hand, was never considered a sign of linguistic progress. The foreign word "lozung" (slogan) for instance, has been replaced now by the Russian word "prizyv," and is this not an improvement?! The same is true of music. Under the camouflage of superficial complication of compositional methods, lies a tendency to impoverish music. Musical language is becoming inexpressive. So much that is crude, vulgar and false is being incorporated in music, that it is ceasing to perform its intrinsic function – that of affording pleasure. Is the aesthetic role of music to be eliminated? Is that the aim of innovation? Or is music to become a soliloquy on the part of the composer? If that is so, then why force it on the people? This music is becoming anti-popular and rampantly individualistic, and the people do indeed have the right to feel indifferent to its fate, and they are beginning to. If the listener is expected to praise music that is crude, ungraceful, vulgar, based on atonality, on dissonance from beginning to end, music in which consonance is made the exception, and false notes and their combination the rule – this represents a direct retreat from the basic musical canons. All these things combined threaten to wipe out music entirely, just as cubism and futurism in painting represent nothing more nor less than the aim to nullify painting. Music that deliberately ignores the normal human emotions, and shocks the mind and nervous system of man, cannot be popular, cannot be useful to society.

Mention was made here of the one-sided interest in instrumental symphony music without texts. It is wrong to consign the varied genres of music to oblivion. What this leads to can be seen in Muradeli's opera. You remember how kind and generous the great masters of art were with regard to variety of genres? They understood that the people demand a variety of genres. Why are you so unlike your great predecessors? You are much harsher than those, who, though they had reached the summits of art, wrote solo and choral songs and orchestral music for the people.

And now, with regard to the loss of melody in music. Modern music is characterised by a one-sided interest in rhythm to the detriment of melody. But we know that music is enjoyable only when all its elements – melody and rhythm – are present in definite harmonic combinations. The one-sided interest in one element of music at the expense of another results in a violation of the correct interrelation of the various elements and cannot, naturally, be agreeable to the normal ear.

Distortions are also permitted in the use of instruments in other ways than they were intended to be used, as when the piano, for instance, is converted into a percussion instrument. The role of vocal music is minimised for the benefit of the one-sided development of instrumental music. And vocal music itself conforms less and less to the canons of vocal art. The critical comments of the vocalists expressed here by Comrades Derzhinskaya and Katulskaya, must be given full consideration.

All these and other digressions from the canons of musical art are a violation not only of the foundations of the normal functioning of musical sound, but also of the foundations of the physiology of normal hearing. Unfortunately, that realm of theory which deals with the physiological effect of music on the human organism has not been sufficiently elaborated by us. Nevertheless, we must take into account the fact that bad, disharmonic music unquestionably affects the correct psycho-physiological functioning of man.

The conclusions. The role of the classical heritage must be fully restored, normal human music must be fully restored. The danger that the formalistic trend harbors to the future of music must be stressed. This trend must be censured as a Herostratus-like attempt to destroy the temple of art built by the great masters of musical culture. All our composers must change their position and turn their face to their people. They must realise that our Party, which expresses the interests of our state and our people, will support only a healthy and progressive trend in music, the trend of Soviet socialist realism.

Comrades! If you cherish the lofty title of the Soviet composer you must prove that you are capable of serving your people better than you have been serving them up to the present day. A serious examination awaits you. The formalistic trend in music was censured by the Party as many as twelve years ago. Since then the government has given many of you, including those who erred along formalistic lines, Stalin Prizes. The fact that this honor was shown you was a great sign of trust. We did not believe in doing so, that your work was free of shortcomings, but we were patient, expecting our composers themselves to find the strength to choose the proper road. But it is now clear to all that the intervention of the Party has become imperative. The Central Committee is now telling you plainly that if you continue on the creative road you have chosen, our music will never be a credit to us.

Two extremely important tasks now face of Soviet composers. The chief task is to develop and perfect Soviet music. The second is the task of protecting Soviet music against the infiltration of elements of bourgeois decadence. Let us not forget that the U.S.S.R. is now the guardian of universal musical culture, just as in all other respects it is the mainstay of human civilisation and culture against bourgeois decadence and decomposition of culture. Let us remember that alien bourgeois influences from abroad will strike a response in the minds of certain representatives of the Soviet intelligentsia who still harbour survivals of capitalism, which express themselves in the thoughtless and outlandish desire to exchange the treasures of Soviet musical culture for the sorry rags of modern bourgeois art. Therefore, not only the musical, but also the political ear of Soviet composers must be very keen. Your contact with the people must be closer than ever before. Your musical "ear for criticism" must be highly developed. You must follow the processes taking place in western art. But your task is not only to prevent the infiltration of bourgeois influences into Soviet music. Your task is to prove the superiority of Soviet music, to create great Soviet music which will embody all that is best in the past development of music, which will reflect the present day of Soviet society, which will be capable of raising the culture of our people and their Communist awareness still higher.

We Bolsheviks do not reject the cultural heritage. On the contrary, we are critically assimilating the cultural heritage of all nations and all times in order to choose from it all that can inspire the working people of Soviet society to great exploits in labour, science and culture. We must help the people in this. If you do not set yourself this task, if you do not throw yourself heart and soul into its realisation, devoting to it all your ardour and creative enthusiasm, you will not be performing your historic role.

Comrades, we want, we ardently want to have our own Big Five, and for it to be more numerous and stronger than that group which once amazed the world by its talent, and covered our nation with glory. In order to be strong, you must cast aside everything that can weaken you, and choose only those weapons which can help you to become strong and mighty. If you draw upon the inspired classical musical heritage to the full, and at the same time develop it in the spirit of the new requirements of our great age, you will become a Soviet Big Five. We want you to overcome the retardation that has beset you as quickly as possible, to change your position as quickly as possible, and develop into a glorious cohort of Soviet composers who will be the pride of the entire Soviet people.



[*] The Big Five – a group of Russian composers who came forth in the 1860's: Balakirev, Mussorgsky, Borodin, Rimsky-Korsakov, Cui.

[†] A. N. Serov, Critical Articles, Vol. III, 1931.

[‡] V. V. Stasov, Selected Works, Two-volume Edition, Vol. II, p. 233.

[§] N. Serov, Critical Articles, Vol. I, p. 504

[**] N. Serov, Critical Articles, Vol. II, p. 1036.
view post Posted: 7/11/2012, 20:49 Recensione allo studio di A. L. Volynskij: Critici russi. Saggi letterari - G.V. Pelkhanov, Opere filosofiche scelte, vol. V
Estratto da “Scritti di estetica”, edizioni La nuova sinistra Samonà e Savelli, 1972:


RECENSIONE ALLO STUDIO DI A. L. VOLYNSKIJ: CRITICI RUSSI. SAGGI LETTERARI[2]. (Passi scelti)

... L’estetica idealista sapeva naturalmente che ogni grande epoca storica ha avuto la sua arte (ad esempio, Hegel distingue l’arte orientale, l’arte classica e la romantica); ma in questo caso tale estetica, costatando dei fatti evidenti, dava loro una spiegazione assolutamente insoddisfacente. La storia dell’arte era spiegata in ultima analisi mediante le proprietà dello spirito, mediante le leggi di sviluppo dell’idea assoluta. Quando un qualsiasi signor Volynskij ci fornisse simili chiarimenti, non ne esce fuori niente altro che vuote frasi che vorrebbero essere filosofiche. Quando invece è un gigante come Hegel che si accinge a un simile compito, allora indiscutibilmente ne risultano talora delle costruzioni logiche molto ingegnose e addirittura geniali. C’è solo un guaio: che queste costruzioni generalmente non spiegano proprio un bel niente, e cioè non conducono affatto allo scopo per cui vengono costruite. In effetti Hegel ci dice che l’arte classica è caratterizzata da un perfetto equilibrio tra la forma e il contenuto, mentre nell’arte romantica il contenuto (l’idea) ha la prevalenza sulla forma. Questa è un’osservazione molto interessante, che chiunque si occupi di storia dell’arte farà bene a tener presente. Ma perché il contenuto ha la prevalenza sulla forma nell’arte romantica?

A ciò non è in grado di rispondere l’estetica idealistica di Hegel, giacché non si può considerare una risposta l’affermazione che l’infinito (il contenuto, l’idea) nel suo sviluppo logico deve immancabilmente prevalere sul finito (la forma). Qui vediamo ripetersi in Hegel ciò che possiamo vedere anche nella sua Filosofia della storia, dove l’evoluzione storica dell’umanità viene spiegata mediante le leggi logiche dell’evoluzione della stessa idea assoluta, e dove queste leggi logiche allo stesso modo non dimostrano nulla. E così come accade nella Filosofia della storia, anche nell’Estetica Hegel abbandona ogni tanto il suo idealistico regno delle ombre per respirare l’aria fresca della realtà sociale. E’ notevole il fatto che in questi casi il petto del vecchio respira così bene, come se non avesse mai respirata altra aria che quella. Ricordiamo le sue considerazioni sulla pittura olandese.

E’ noto che i quadri dei pittori olandesi non sono quasi mai caratterizzati da un contenuto «elevato». Si direbbe quasi che questi pittori abbiano giurato di dimenticare i soggetti «elevati» e di rappresentare soltanto la prosa della vita. Hegel si chiede: così facendo questi pittori non hanno forse peccato contro le leggi dell’estetica? Ma risponde di no e afferma che i loro soggetti generalmente non sono così meschini come potrebbe sembrare a un primo sguardo.

«Gli olandesi, — egli dice, — attinsero il contenuto dei loro quadri da se stessi, dalla vita sociale contemporanea; non li si può rimproverare per il fatto che essi, mediante l’arte, riprodussero la realtà a loro contemporanea». Se essi non l’avessero riprodotta, i loro quadri avrebbero perduto ogni interesse agli occhi dei loro contemporanei. Per comprendere la pittura olandese bisogna ricordare la storia degli olandesi. Essi hanno strappato al mare il suolo su cui vivono; grazie alla loro ostinazione, pazienza e coraggio essi sono riusciti ad abbattere il dominio di Filippo Il e a conquistarsi la libertà religiosa e politica, e la loro operosità e intraprendenza hanno loro assicurato un notevole benessere. Agli olandesi erano care queste qualità di carattere e la rispettabile agiatezza borghese. E appunto queste qualità e questa agiatezza venne riprodotta nei quadri olandesi. Possiamo constatarlo nei quadri di Rembrandt, nei ritratti di Van Dyck e nelle scene di Wouwerman. Per noi qui non è tanto importante il fatto che Hegel cerchi di giustificare i pittori olandesi; secondo noi infatti essi non hanno mai avuto bisogno delle giustificazioni di nessuno. Noi vogliamo invece attirare l’attenzione del lettore sul fatto che il grande idealista sapeva spiegare benissimo almeno alcuni fenomeni della storia dell’arte fondandosi sul corso evolutivo della vita sociale. Per comprendere la pittura degli olandesi è necessario tener presente la loro storia. Questo è un pensiero assolutamente giusto. Ma questo giusto pensiero c’induce a delle riflessioni molto pericolose per l’estetica idealistica.

Che succederebbe se questo pensiero — assolutamente giusto se riferito alla pittura olandese — si dimostrasse altrettanto giusto se riferito alla pittura italiana, alla scultura greca, alla poesia francese e così via? Si comincerebbe a spiegare la storia dell’arte partendo dalla storia della vita sociale, e non si sentirebbe più la minima necessità di tutte le sottili costruzioni logiche degl’idealisti che si rifanno alle qualità dell’idea assoluta. L’estetica idealistica morirebbe di morte naturale.

E le cose sono andate effettivamente così. Mentre l’estetica idealistica si dava da fare con l’idea assoluta, nella letteratura dei paesi europei più progrediti si è venuta sempre più diffondendo e consolidando la convinzione che lo sviluppo spirituale dell’umanità è soltanto un riflesso del suo sviluppo sociale. Già all’inizio del XIX secolo veniva pubblicato il libro di madame de Staël: «De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales», (Paris, 1800). Il compito che l’autrice si era proposta vi era risolto in misura gravemente insufficiente: tale compito era di gran lunga superiore alle forze di questa scrittrice famosa ma sostanzialmente superficiale, e che forse non era nemmeno in grado di comprenderne tutto l’enorme significato. Ma il problema così era stato posto, e già questo fatto era straordinariamente interessante. Che esso sarebbe stato adeguatamente risolto era garantito dalla stessa vita sociale dell’Europa Occidentale.

La Francia fece senz’altro più degli altri paesi per la soluzione del problema, e tra gli stessi francesi quelli che lo comprendevano meglio molto spesso non appartenevano al numero dei letterati di professione. Così, ad esempio, il famoso storico Guizot lo comprendeva in modo incomparabilmente più giusto e più profondo di Villemain o di Victor Hugo. Nella sua notevole opera Etude sur Shakespeare (del 1821) Guizot si attiene senza alcuna esitazione e in maniera assolutamente coerente alla tesi che la storia letteraria di un determinato paese è il frutto della sua storia sociale. Shakespeare è il figlio perfettamente legittimo dei rapporti sociali e dei costumi vigenti in Inghilterra al tempo di Elisabetta. Allo stesso modo, se Guizot pensa che il classicismo abbia fatto il suo tempo, ciò dipende dal fatto che non esiste più quella società di cui esso è stato la splendida espressione. Infine, se Guizot pensa che soltanto il «sistema di Shakespeare» sia in grado di fornire les plans d’après lesquels le génie doit maintenant travailler, ciò dipende anche in questo caso da un fatto che ha le sue radici nell’assetto sociale: «soltanto quel sistema è in grado di abbracciare tutte le situazioni sociali e tutti i sentimenti ... i cui conflitti e la cui attività compongono ai nostri occhi lo spettacolo della vita umana».

Se paragoniamo questo studio di Guizot alla famosa prefazione al Cromwell[3] che viene considerata il manifesto letterario dei romantici, vediamo che quando si tratta di spiegare lo sviluppo storico del dramma il poeta ci appare un bambino nei confronti dello storico. E ciò non è affatto sorprendente. Un ricco patrimonio di conoscenze storiche è di per sé un’ottima cosa là dove si tratta di sviluppo storico. Ma il nostro storico non era soltanto uno storico. Questo studioso capace di un assiduo lavoro nel chiuso del suo gabinetto, era nello stesso tempo anche un uomo d’azione. Guizot fu uno degli uomini politici più notevoli della borghesia francese del XIX secolo. La lotta politica gli svelò ben presto dove si trovavano le molle nascoste degli avvenimenti politici, molle invisibili all’occhio impedito dal velo poetico. Egli fu uno dei primi che si resero chiaramente conto del fatto che i rapporti politici hanno le loro radici nei rapporti sociali. Ma dal riconoscimento di una tale verità non v’era oramai più che un passo per convincersi che i rapporti sociali spiegano anche la storia letteraria dei popoli.

Ma ciò non è ancora tutto. Prendendo parte attiva alla contemporanea lotta politica della borghesia contro l’aristocrazia ed il clero, Guizot comprese il significato dei reciproci urti delle classi sociali nel corso dell’evoluzione storica dell’umanità. Con le espressioni più ardite e assolutamente prive di ogni ambiguità Guizot proclamò che tutta la storia di Francia non è che il risultato ditali urti. Una volta fatto proprio un tale punto di vista, egli doveva naturalmente tentare di applicano alla storia della letteratura, e tale tentativo venne effettivamente compiuto nel suo Étude sur Shakespeare.

La poesia drammatica è sorta tra il popolo e per il popolo. Ma a poco a poco essa divenne dovunque il divertimento preferito delle classi superiori, la cui influenza doveva necessariamente mutarne completamente il carattere. E il mutamento non fu certo in meglio. Approfittando della propria posizione privilegiata, le classi superiori si staccano dal popolo elaborando a mano a mano dei punti di vista, delle abitudini, dei sentimenti e dei costumi loro peculiari. La semplicità e la naturalezza lasciano il posto all’artificialità e alla ricercatezza, i costumi diventano effeminati. Tutto ciò si riflette anche nel dramma, il cui campo si restringe generando monotonia. Ecco perché presso i popoli moderni la poesia drammatica fiorisce rigogliosa soltanto là dove, grazie a un fortunato concorso di circostanze, l’artificialità — sempre predominante nelle classi superiori — non ha ancora avuto il tempo di far pesare la propria nociva influenza sulla poesia drammatica stessa, e dove le classi superiori non hanno ancora del tutto rotto i legami con il popolo, conservando un patrimonio di gusti e di esigenze estetiche comune al popolo stesso. Appunto un tale concorso di circostanze si osserva durante il regno di Elisabetta in Inghilterra, dove per giunta la fine dei recenti torbidi e l’innalzamento del livello di vita del popolo dettero una più energica spinta alle forze morali e intellettuali della nazione. Già da allora si veniva accumulando quella colossale energia che doveva in seguito esprimersi nel movimento rivoluzionario; ma per il momento una tale energia si manifestava soprattutto in modo pacifico. Shakespeare la espresse nei suoi drammi. Tuttavia la sua patria non fu sempre in grado di apprezzare le sue opere geniali. Dal tempo della Restaurazione l’aristocrazia inglese, aspirando a trapiantare in patria i gusti e le abitudini della brillante nobiltà francese, dimentica Shakespeare. Dryden trova la sua lingua invecchiata, e all’inizio del secolo XVIII lord Shaftesbury deplora amaramente il suo stile barbaro e il suo spirito fuori moda. Infine Pope rimpiange il fatto che Shakespeare abbia creato per il popolo, senza curarsi di piacere agli spettatori di «livello superiore». Soltanto dall’epoca di Garrick si riprese a recitare integralmente Shakespeare sulla scena inglese (e cioè senza tagli nè rimaneggiamenti).

Sarebbe ridicolo affermare che Guizot abbia enumerato tutte le condizioni storiche che determinarono l’apparizione dei drammi di Shakespeare. Chi fosse in grado di stendere un simile elenco potrebbe anche dettare alla storia delle ricette per la produzione di scrittori di genio. Ma è indubbio che Guizot seguisse nelle sue ricerche una strada assolutamente giusta e che la storia spiega queste faccende molto meglio di quanto possa farlo «l’idea assoluta». Se Guizot avesse seguitato a lavorare in questo campo o se del suo punto di vista si fossero meglio impadroniti i critici successivi, oggi noi disporremmo certamente di molto materiale ottimamente elaborato per una storia universale della letteratura. Ma una coerente applicazione delle idee di Guizot divenne ben presto moralmente impossibile per gli ideologi della borghesia.

Già fin dall’anno 1830 l’alta borghesia occupa una posizione dominante in Francia. La sua lotta contro la nobiltà è ormai conclusa: il nemico un tempo così terribile è ora vinto e stremato; da questo momento non sono più da temere duri colpi da quella parte. Ma, ahimé!, la felicità su questa terra non è stabile. La ricca borghesia non ha fatto neppure a tempo a sbarazzarsi di un nemico, quand’ecco che già un altro muove contro di lei dal lato opposto. Gli operai e la piccola borghesia, che pure avevano preso così energicamente parte alla lotta contro l’antico regime, ma che erano rimasti come prima in una difficile situazione economica ed erano privi dei diritti politici, cominciarono ad avanzare nei confronti della recente alleata delle pretese che essa in parte non voleva e in parte non poteva assolutamente soddisfare senza suicidarsi. Ebbe così inizio una nuova lotta nel corso della quale la ricca borghesia dovette assumere una posizione difensiva. Ma è noto che le posizioni difensive non favoriscono lo sviluppo dell’amore per la verità nelle classi e nei ceti sociali che vi si arroccano. «Vivere in mezzo ai propri concittadini come in mezzo ai nemici, considerare il proprio popolo come un nemico e combattere contro di esso giocando d’astuzia e celando la propria ostilità, ricoprendola di vari veli più o meno artificiosi», ciò significa dire addio una volta per tutte ad ogni nobile impulso, amare non ciò che è vero ma ciò che è utile, e definire il bene con quella formula che — a quanto si dice — venne enunciata da un selvaggio a un missionario: bene è quando riesco a derubare qualcuno, male quando qualcuno deruba me. I dotti rappresentanti della borghesia francese, nelle loro ricerche dedicate a problemi sociali, cominciarono a chiacchierare molto volentieri e molto diffusamente del fatto che gli orecchi non crescono mai più alti della fronte, e che i poveri si sarebbero dimostrati persone ispirate da un’alta moralità solo a condizione che dimenticassero la loro disgraziata posizione, permettendo tranquillamente di arricchirsi a coloro a cui il destino ne aveva dato la possibilità. Qualsiasi allusione alla lotta tra le forze sociali cominciò allora ad essere considerata sconveniente nell’ambiente borghese, così come sarebbe stata considerata sconveniente vent’anni prima nell’ambiente aristocratico. E quello stesso Guizot che aveva proclamato un tempo che tutta la storia di Francia si può ricondurre a quella lotta e che questo fatto universalmente noto può essere occultato soltanto dagl’ipocriti, quello stesso Guizot cominciò ora a leggere delle prediche sul tema opposto. In particolar modo egli prese a diffondersi su questo argomento dopo l’anno 1848, che aveva incusso una tale paura nelle «classi medie» a lui così care.

Dal momento che il precedente modo di vedere era diventato praticamente indesiderabile e inaccettabile per la ricca borghesia, non c’è da stupirsi che i suoi ideologi si siano dimostrati sempre più riluttanti a farlo proprio ed a applicarlo anche in teoria. A poco a poco essi si dimenticarono completamente del fatto che i loro predecessori in un’epoca ancora recente si erano attenuti a quel modo di vedere con grande successo. Se ne dimenticarono e anzi a poco a poco si convinsero che quel modo di vedere era stato inventato dai malvagi sovvertitori delle fondamenta borghesi con il disgustoso fine di sommuovere la massa credula e ignorante e nuocere alla gente perbene. Nelle loro ricerche sulla storia dell’arte essi non cessarono di ripetere che l’arte è il riflesso di esigenze e gusti sociali; ma ormai capitava loro di rado di ricordarsi del fatto che la società è composta di varie classi, le cui esigenze e gusti debbono necessariamente mutare in connessione con i mutamenti intervenuti nei rapporti sociali. E anche questi rari casi si verificavano soltanto quando si trattava di fenomeni che si riferivano alla lotta del terzo stato contro l’ancien régime; allo stesso modo i vecchi ricordano la loro infanzia e la loro gioventù, ma si dimenticano di quel che è successo il giorno prima, e non sono neppure capaci di cogliere il senso evidente di ciò che si svolge sotto i loro occhi nel momento attuale: hanno occhi e quasi non vedono, hanno orecchi e ci sentono appena ...

La piccola borghesia e la classe lavoratrice furono posti dagli avvenimenti del 1830 in una situazione completamente diversa rispetto all’imparziale verità teorica. L’odio per i «privilegi» determinò in essi l’aspirazione alla giustizia e l’indignazione contro l’ipocrisia della ricca borghesia li induceva ad amare la verità prescindendo da qualsiasi considerazione pratica. Nel periodo compreso tra il 1830 e il 1848 la piccola borghesia francese ha generato un’enorme quantità di talenti di ogni genere, e le questioni relative all’arte e alla letteratura assunsero un immenso significato agli occhi della sua parte più colta. Nello stesso periodo i suoi ideologi fecero moltissimo per l’estetica scientifica. La posizione indefinita della loro classe (o, per dir meglio, del loro ceto sociale) tra la ricca borghesia e il proletariato non permetteva loro di considerare i rapporti tra le varie classi con la stessa chiarezza dimostrata in quel torno di tempo da Guizot e dai suoi seguaci. Essi avrebbero voluto porsi al disopra delle classi, trasferendo i problemi della vita sociale e della scienza neI regno nebuloso delle astrazioni. Di un conflitto tra gli elementi sociali queste persone, molte delle quali erano entusiasti seguaci delle dottrine del socialismo e del comunismo utopistico, non volevano nemmeno sentir parlare. E’ chiaro che essi non potevano capire la colossale importanza scientifica del punto di vista fermamente adottato da Guizot nel suo Saggio su Shakespeare.

Quanto al proletariato ..., non aveva tempo di occuparsi di estetica.

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In tal modo la teoria dell’arte, per delle ragioni — si può dire — da essa completamente indipendenti, non realizzò neppure lontanamente tutto ciò che aveva promesso negli anni venti del secolo attuale. Tuttavia ciò che essa riuscì comunque a realizzare era già abbastanza per dimostrare l’inutilità dell’estetica degl’idealisti assoluti.

Dimenticando gli urti e gli attriti tra i vari elementi e strati sociali, i teorici dell’arte chiusero gli occhi su un fattore straordinariamente importante, che è in grado di spiegare molti aspetti della storia di tutte le ideologie in generale. Essi si privarono così della possibilità di comprendere molti aspetti particolari della storia dell’arte, comprensione che è indispensabile per liberarsi dallo schematismo e dall’astrazione nella teoria. Tuttavia essi non desistettero dall’attenersi a una teoria giusta. Nessuno di essi infatti dubitava del fatto che la storia dell’arte si spiega attraverso la storia della società, ed alcuni — Taine, ad esempio — svilupparono questa idea con notevole talento. Una tale idea è insufficiente per una completa comprensione della storia dell’arte; tuttavia essa è già perfettamente sufficiente per permettere di dimenticarsi completamente dell’idea assoluta occupandosi di storia dell’arte.

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Lo sappiamo già: una autentica critica letteraria dev’essere competente nella valutazione di idee poetiche che hanno sempre una natura astratta. Così dice il signor Volynskij. A pagina 214 del suo libro questo autentico critico letterario rimprovera Dobroljubov per il fatto che la sua «analisi non penetra mai profondamente nell’argomento dell’opera letteraria con lo scopo di scoprire qualche generale principio psicologico o d’illuminare mediante una determinata concezione filosofica i complessi procedimenti della creazione umana». Disgraziatamente lo stesso signor Volynskij non ci ha dimostrato neanche una volta, con qualche esempio concreto, che cosa effettivamente significhi valutare un’idea poetica, o illuminare mediante una concezione filosofica il processo che si svolge nella testa dell’artista; gli attacchi isterici da cui è colto ogni tanto il nostro critico naturalmente non illuminano proprio nulla, a parte certi «processi» che interessano il suo proprio sistema nervoso. Pertanto, volenti o nolenti, ci tocca rivolgerci di nuovo all’«uomo che pensa l’eternità»[4].

In che consiste l’idea dell’Antigone di Sofocle? Nello scontro tra il diritto familiare e il diritto statale, risponde Hegel; il rappresentante del primo è Antigone e quello del secondo è Creonte. Antigone muore vittima di questo conflitto così vasto. Questa concezione di Hegel ci è molto più comprensibile delle prediche del signor Volynskij; ne prendiamo nota e andiamo avanti. Si domanda: la concezione che Hegel ci ha partecipato può considerarsi equivalente alla «scoperta di un qualche generale principio psicologico»? «No, — ci risponderebbe Hegel, — non credete al signor Volynskij se si metterà a dire che — secondo la mia filosofia — illuminare mediante una concezione filosofica il processo creativo dell’artista significa fare della psicologia. Voi sapete che in generale la psicologia non gode del mio favore. Illuminare un’opera d’arte alla luce della filosofia significa comprenderla come espressione di uno di quei principi dal cui conflitto, dalla cui contraddizione, risulta condizionata l’evoluzione della storia universale. I processi psicologici che si svolgono nell’anima dell’individuo m’interessano solo come espressione del generale, solo come riflesso del processo di sviluppo dell’idea assoluta».

Il lettore sa già che il nostro punto di vista è diametralmente opposto a quello idealistico. Ciò nondimeno è con il massimo piacere che noi qui ci richiamiamo a Hegel. Nelle sue idee sull’arte c’è generalmente molto di vero; solo che la verità in esse — secondo la nota espressione — sta a testa in giù, e bisogna esser capaci di rimetterla sulle sue gambe.

Se abbiamo considerato l’Antigone — sulla scorta di Hegel — come un’espressione artistica della lotta tra due principi giuridici, anche senza l’aiuto di Hegel saremo in grado di considerare, ad esempio, le Mariage de Figaro di Beaumarchais come espressione della lotta del terzo stato contro l’antico regime. E una volta che avremo imparato a illuminare le opere d’arte alla luce di una tale filosofia, ecco che ormai non avremo più nessun bisogno dell’idea assoluta, mentre d’altra parte sarà assolutamente indispensabile riconoscere che chi non si renda chiaramente conto di quella lotta, il cui multisecolare e multiforme processo costituisce la storia, non può evidentemente essere un critico d’arte cosciente.

Considerando il Mariage de Figaro com’espressione della lotta del terzo stato contro l’antico regime, naturalmente non chiuderemo gli occhi sul problema di come questa lotta sia stata espressa, e cioè di come l’artista abbia svolto il suo compito. Il contenuto di un’opera d’arte è costituito da una certa idea generale e (come dice il signor Volynskij, dimenticando la terminologia dell’«uomo che pensa l’eternità») astratta. Ma invece non vi è neppure una traccia di creazione artistica là dove l’idea appare sotto il suo aspetto «astratto». L’artista deve individualizzare quell’elemento generale che costituisce il contenuto della sua opera. E una volta che abbiamo a che fare con l’individuo, ecco che ci troviamo di fronte a determinati processi psicologici, e in questo caso non soltanto non è fuori luogo, ma al contrario è assolutamente obbligatoria e perfino straordinariamente istruttiva l’indagine psicologica. Ma la psicologia di determinati personaggi assume ai nostri occhi una straordinaria importanza proprio perché è la psicologia d’intere classi sociali o perlomeno d’interi strati sociali, e di conseguenza i processi che si svolgono nel l’animo di singoli individui costituiscono il riflesso di un movimento storico.

Forse il signor Volynskij si arrabbierà con noi e ci accuserà di utilitarismo, e magari ci dirà che ci avviciniamo a rapidi passi al punto di vista della critica impegnata da lui così odiata. Ma dai suoi colpi noi ci difenderemo riparandoci dietro le spalle dell’«uomo che pensa l’eternità». E lasciamo che il signor Volynskij se la veda con lo stesso Hegel.

Hegel avrebbe probabilmente dimostrato il più grande disprezzo verso tutti questi nostri talenti grandi e piccoli che ci promettono di mostrarci una «nuova bellezza» e intanto certe volte non sanno nemmeno cavarsela con la vecchia. Egli avrebbe certo affermato che nelle loro opere è assente ogni contenuto di una qualche importanza. E il contenuto era una cosa molto importante agli occhi di Hegel. E’ noto, ad esempio, che egli considerava con una certa malevolenza i cantori di sentimenti amorosi e brontolava spesso e volentieri contro i poeti che consideravano cosa della massima importanza il fatto che questo amasse quella e questa a sua volta amasse quello, tanto che per lei non esisteva nessun altro al mondo, e così via. In generale, secondo lui, la poesia che raccontava che «una pecorella si era smarrita, una fanciulla si era innamorata» non aveva un contenuto importante. Rimproveri di questo genere certo non sarebbero riusciti graditi ai nostri partigiani dell’arte per l’arte, che vi avrebbero scorto una certa tendenza per la critica impegnata, e il signor Volynskij avrebbe perfino rischiato una crisi isterica se si fosse dimenticato anche solo per un istante che chi brontola in questo caso è Hegel, e non un qualsiasi «fischiatore»[5].

In generale ci sembra che il signor Volynskij, dichiarandosi idealista, non si rendesse pienamente conto della quantità di pensieri eretici che si possono trovare nei diciotto tomi delle opere di Hegel.

Per non irritare il nostro «autentico» critico dovremmo dire francamente qual’è la critica che preferiamo: la critica filosofica o quella impegnata. Ma il guaio sta nel fatto che noi questo non possiamo dirlo, giacché noi pensiamo che una critica autenticamente filosofica è allo stesso tempo anche un’autentica critica impegnata.

Ci spiegheremo subito, ma prima vogliamo fare una piccola osservazione riguardo alla terminologia. Abbiamo definito filosofica la critica di un certo tipo unicamente perché così ha creduto di esprimersi il signor Volynskij, ed esponendo il nostro pensiero non volevamo correre il rischio di renderlo oscuro ricorrendo a una diversa terminologia. Ma in realtà siamo convinti che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, possiamo già permetterci il lusso di sostituire la vecchia critica filosofica e l’estetica in generale con una critica e un’estetica scientifica.

L’estetica scientifica non impone all’arte nessun precetto; non le dice: tu devi attenerti a queste regole e a questi procedimenti. Essa si limita ad osservare in qual modo sorgono le varie regole e procedimenti artistici che predominano nelle varie epoche storiche. Essa non proclama le eterne regole dell’arte; essa si sforza invece di studiare quelle eterne leggi dalla cui azione è condizionata l’evoluzione storica dell’arte stessa. Essa non dice: «la tragedia classica francese è buona, mentre il dramma romantico non vale nulla». Per essa tutto è buono a suo tempo; essa non è favorevole per partito preso più ad alcune che ad altre scuole artistiche; e se anche (come vedremo più oltre) essa dimostra certe preferenze, perlomeno non pretende giustificarle richiamandosi alle leggi eterne dell’arte. In una parola, essa è oggettiva come la fisica, e proprio per questo è estranea ad ogni metafisica. E appunto questa critica oggettiva — diciamo noi — diventa impegnata proprio nella misura in cui è autenticamente scientifica.

Per chiarire il nostro pensiero torniamo a Guizot, il quale ha dichiarato che il «sistema classico» è una creazione delle classi superiori della società francese. Immaginatevi che egli nel suo saggio non si sia limitato ad osservazioni ed indicazioni isolate, bensì, dopo aver caratterizzato dettagliatamente la convenzionalità che regnava nei costumi dell’aristocrazia, abbia dimostrato particolareggiatamente allo stesso tempo qual’era il terreno sociale da cui essa era sorta, e quale grado di sottomissione del terzo stato essa comportava. Immaginatevi anche che egli abbia scritto tutto questo in modo assolutamente oggettivo, come un monaco invecchiato nel suo monastero, il quale

Considera sereno i giusti e i colpevoli,
Registrando indifferente il bene e il male,
Senza conoscere pietà né collera[6] ...

Immaginatevi infine che questa oggettiva narrazione critica venga letta da un uomo che appartenga alla borghesia. Se quest’uomo non sarà completamente indifferente ai destini storici della propria classe, avvertirà senza dubbio nel suo animo una certa ostilità verso quel tipo di regime nel quale la nobiltà e il clero potevano tranquillamente coltivare le «buone maniere» standosene seduti in groppa al tiers-état. E giacché questo studio di Guizot apparve proprio nell’epoca in cui era giunta al culmine della violenza l’ultima lotta tra il vecchio regime e la nuova società borghese, siamo in grado di affermare fondatamente che esso ebbe un’importanza pubblicistica non piccola, e che l’avrebbe avuta anche maggiore se l’autore si fosse soffermato più a lungo sul legame storico causale che intercorre tra l’antico regime e il «sistema classico». In tal caso una tale ricerca storico-letteraria avrebbe potuto facilmente — senza cessare neanche per un istante di rispondere alle più severe esigenze scientifiche, e magari anche contro la volontà dello stesso autore — rivelarsi come l’ardente appello di un pubblicista. «Il poeta, anche quando insegna la sopportazione, inasprisce sempre le piaghe del cuore, giacché egli lo scuote sempre con forza», ha detto il Foscolo. Della critica scientifica si può dire che essa tanto più chiaramente sottolinea il male sociale, quanto più obbiettiva è la sua analisi, e cioè con quanta più chiarezza e rilievo essa rappresenta questo male.

Suggerire alla critica di non confondersi con la pubblicistica è altrettanto inutile quanto proclamare le leggi «eterne» dell’arte. Se anche vi si ascolta, ciò accade solo per qualche tempo, e cioè solo fino al momento in cui, sotto l’influsso della evoluzione sociale, non si muteranno i gusti predominanti e non verranno scoperte nuove «eterne» leggi dell’arte. Il nostro nemico della critica pubblicistica o impegnata, il signor Volynskij, evidentemente non sospetta nemmeno che vi siano state delle epoche in cui non soltanto la critica, ma anche la stessa creazione artistica erano completamente pervase di spirito pubblicistico. Forse che anche il freddo sfarzo e la stessa regale grandeur a cui si ispira l’arte del secolo di Luigi XIV non sono in parte pubblicistica? Forse che esse non sono state coscientemente introdotte nella creazione artistica proprio per nobilitare una certa concezione politica? Non vi è forse un elemento d’impegno politico nei quadri di David o nel cosiddetto dramma borghese? Certo che c’è; e anzi — se volete — ce n’è anche troppo. Ma che cosa volete farne? Se esistono delle leggi artistiche veramente eterne, esse sono appunto quelle in forza delle quali, in determinate epoche storiche, la pubblicistica invade irresistibilmente il campo della creazione artistica e vi si accampa come se si trovasse a casa propria.

La stessa cosa è da dire per la critica. In tutte le epoche in cui la società attraversa una fase di transizione, la critica si compenetra dello spirito della pubblicistica, e in parte diventa direttamente pubblicistica impegnata. E’ questa una cosa buona o cattiva? C’est selon! Ma l’importante è che ciò è inevitabile, e contro una simile malattia nessuno ancora è stato capace di trovare un rimedio efficace.

Un momento, un momento! Ci siamo sbagliati: un rimedio esiste! Ed esso consiste proprio nel diffondere una giusta visione della critica scientifica. Chi abbia una volta compreso la grande forza sociale propria di questa critica, certo non vorrà mai più rivolgersi all’arma della critica «impegnata» tra virgolette, così come chi avrà conosciuto l’efficacia di un fucile a ripetizione non tornerà certo al primitivo arco.

Vi ricordate l’articolo di Pisarev intitolato Acqua stagnante? In questo caso ci troviamo di fronte a una critica impegnata nel senso più pieno della parola. Sebbene sotto il titolo dell’articolo si possa leggere tra parentesi: Le opere di A. F. Pisemskij, ecc., nell’articolo stesso si parla soltanto di passaggio delle opere di Pisemskij, cosa di cui, del resto, l’autore stesso informa il lettore fin dalle prime righe. In generale nell’articolo si parla della nostra arretratezza, della nostra mancanza di personalità e di opinioni proprie, della nostra inerzia, dei nostri pregiudizi, del carattere barbarico dei nostri rapporti familiari, dell’asservimento della donna, e così via. Tutte queste nostre qualità negative vengono considerate come diretto risultato del nostro scarso sviluppo intellettuale, contro il quale è diretta l’appassionata filippica del l’autore. In una parola, qui — come in tutte le sue opere — Pisarev vede le cose da un punto di vista che i tedeschi chiamano illuministico, punto di vista da cui si può scorgere soltanto la astratta contrapposizione tra verità ed errore, tra scienza ed ignoranza, tra arretratezza e sviluppo intellettuale. Non si può negare che Pisarev fustiga in maniera ammirevole la nostra arretrata società, ma la sua predica infiammata, condannando l’ignoranza e bollando la grettezza del ceto mercantile, non ci indica nessun modo appena appena efficace di lottare contro di essi. Dire: studiate, educatevi!, è la stessa cosa che invocare: pentitevi, fratelli! Il tempo passa, e noi continuiamo a pentirci piuttosto male. Evidentemente devono esistere certe cause generali sia del nostro scarso sviluppo, come della nostra scarsa tendenza a pentirci. Finché non saranno state scoperte e indicate chiaramente queste cause generali, è chiaro che la predicazione della scienza non porterà quei frutti che essa sarebbe invece in grado di produrre. E lo stesso predicatore, volere o no, sarà pieno di dubbi. Sembra difficile credere nella virtù taumaturgica della scienza più ardentemente di quanto vi credesse Pìsarev; sembra difficile immaginarsi un tipo più adatto alla lotta contro la grettezza del ceto mercantile e contro i pregiudizi di quel che fosse Bazarov[7], nel quale — stando alle parole di Pisarev — c’è la scienza e la volontà. Eppure come Pisarev intende l’attività che si offre a Bazarov? Rileggete la conclusione dell’articolo Bazarov ed essa vi colpirà per il suo tono mesto e disperato: «Ma per i Bazarov la vita non è certo facile a questo mondo, per quanto essi cantino e fischiettino. Non vi è per loro né attività né amore, e quindi non vi è neppure piacere. Soffrire non sanno, e certo non si metteranno a piagnucolare; talora essi sentono soltanto che la vita è vuota, noiosa, incolore e assurda». Ma perché per loro non vi è attività? Ma sempre per il fatto che ormai è così schiacciante la forza della nostra arretratezza, della nostra mancanza di personalità e di opinioni proprie, della nostra inerzia e di tutte le altre nostre qualità negative che eccitano così spesso l’eloquente sdegno di Pisarev. Finché queste qualità non saranno comprese come «categorie storiche», finché non verranno spiegate come fenomeni transitori, finché il loro insorgere — così come la loro futura sparizione — non verranno collegati all’evoluzione storica dei nostri rapporti sociali, fino a quel momento esse dovranno necessariamente apparire come una qualche forza invincibile, una qualche realtà insormontabile, una specie di indistruttibile «cosa in sé» che Bazarov — nonostante tutte le sue conoscenze e la sua ferma volontà — non è in grado di affrontare. Ed ecco perché gli tocca voltare le spalle all’ambiente sociale che lo circonda e cercare salvezza in un «laboratorio».

Anche i «filosofi» francesi del XVIII secolo credevano ardentemente nella forza della ragione, ma anch’essi dovettero giungere più d’una volta all’amara conclusione che la vita è vuota, noiosa, incolore e assurda, e che ad un uomo che pensa non si offre nessuna attività. In generale non bisogna dimenticare che in tutti gli «illuministi» (Aufkläler, come dicono i tedeschi) la ferma fede nella forza della ragione si accompagnava con una fede altrettanto ferma nella forza dell’ignoranza, cosicché il loro umore era sottoposto a continui cambiamenti a seconda del tipo di fede che in essi prendeva temporaneamente il sopravvento.

E così la forza e l’azione della critica militante di Pisarev dovevano necessariamente indebolirsi in conseguenza del punto di vista da lui adottato. Attenendosi a un tale punto di vista, era possibile scrivere un ardente atto d’accusa contro l’ignoranza e la grettezza, ma non era possibile indicare quelle fatali forze sociali incomparabilmente più possenti di qualsiasi ignoranza e di qualsiasi grettezza, forze che, agendo allo stesso modo degli elementi naturali, preparano allo stesso tempo il terreno per il lavoro nobile e intelligente degli uomini dotati di buona volontà e di autentiche conoscenze. Se invece di quel suo ardente articolo intitolato Acqua stagnante Pisarev avesse scritto un’analisi assolutamente pacata e perfino fredda del racconto di Pisenskij intitolato Il materasso, presentando questo racconto come la rappresentazione dei lati oscuri di un modo di vita già sconfitto dalla storia (Acqua stagnante è stato pubblicato nell’ottobre del 1861), certo il suo pacato discorso avrebbe agito in maniera più incoraggiante sui lettori che non dei semplici attacchi, seppure scritti con talento, contro la debolezza di carattere e la stupidità.

Ma in questo caso — obietterà il lettore — Pisarev avrebbe dovuto mutare totalmente il carattere della sua attività letteraria e affrontare delle ricerche sociologiche.

E’ giusto, rispondiamo noi. Ai tempi di Pisarev per uno scrittore russo era impossibile adottare il punto di vista da noi indicato non avendo preventivamente risolto con la propria intelligenza tutta una serie di fondamentali problemi sociologici. Chiunque intenda impegnarsi a cercarne la soluzione dovrebbe rinunciare completamente all’attività di critico letterario. Ma noi non abbiamo intenzione di accusare Pisarev; noi diciamo soltanto che oggi parrebbe strano dedicarsi al genere di critica a cui egli dovette dedicarsi per le particolari circostanze in cui si trovò a vivere.

Oggi è possibile una critica letteraria scientifica perché oggi sono stati ormai fissati alcuni indispensabili prolegomeni di scienza sociale. E una volta diventata possibile una critica scientifica, la critica militante — intesa come qualcosa di distinto e d’indipendente dalla prima — diventa un ridicolo arcaismo. Ecco tutto quello che volevamo dire.

Fino ad ora abbiamo supposto che gli studiosi che si occupano di critica scientifica debbano e possano restare nei loro scritti freddi come marmo e impassibili come un monaco invecchiato nel suo monastero. Ma una tale supposizione è in realtà superflua. Se la critica scientifica considera la storia dell’arte come un risultato dell’evoluzione sociale, le è anche chiaro che essa stessa è un frutto di tale evoluzione. Se la storia e l’attuale situazione di una determinata classe sociale danno necessariamente origine all’interno di tale classe a certi determinati gusti e preferenze sociali piuttosto che ad altri, è chiaro che anche presso i critici scientifici possono manifestarsi certi determinati gusti e preferenze, giacché anch’essi sono un frutto della storia. Prendiamo ad esempio lo stesso Guizot. Egli è stato un critico scientifico in quanto ha saputo collegare la storia della letteratura con la storia delle classi nella nuova società. Indicando l’esistenza di un tale collegamento, egli ha proclamato una verità pienamente scientifica, e obiettiva. Ma tale collegamento diventò visibile ai suoi occhi unicamente perché la storia aveva posto la sua classe in un certo rapporto negativo nei confronti dell’antico regime. Se non si fosse determinato questo rapporto negativo — le cui conseguenze storiche sono praticamente innumerevoli — non sarebbe stata scoperta una verità oggettiva così importante per la storia della letteratura. Ma proprio perché la stessa scoperta di questa verità era un frutto della storia e degli scontri che in essa si verificano tra reali forze sociali, tale scoperta doveva essere accompagnata da una certa disposizione soggettiva la quale a sua volta doveva trovare una certa espressione letteraria. Ed effettivamente Guizot non parla soltanto del rapporto tra gusti letterari e regimi sociali. Egli condanna anche alcuni assetti sociali; egli dimostra che lo scrittore non deve sottomettersi ai capricci delle classi superiori della società; egli consiglia al poeta di non mettere la propria lira al servizio di nessuno, tranne che del «popolo».

La critica scientifica del nostro tempo ha il pieno diritto di venire accostata sotto questo rapporto alla critica di Guizot. La differenza sta soltanto nel fatto che l’ulteriore evoluzione storica dell’attuale società ha chiarito più esattamente ai nostri occhi di quali elementi contrastanti si componeva quel «popolo» in nome del quale Guizot condannava il vecchio regime; e ci ha dimostrato più chiaramente quale appunto tra questi elementi possedeva un’importanza storica effettivamente progressiva.


NOTE

[2] La recensione da cui sono tratti i passi che presentiamo al lettore costituisce il primo di quattro articoli strettamente collegati fra loro che Plechanov intitolò complessivamente Le sorti della critica russa (gli altri tre sono: Belinskij e la realtà razionale, Le opinioni letterarie di V. G. Belinskij e La teoria estetica di N. G. Černyševskij. La presente recensione è stata pubblicata per la prima volta nella rivista «Novoe slovo» (La nuova parola), nel fascicolo n. 7 dell’aprile 1897, sotto lo pseudonimo N. Kamenskij. La traduzione è condotta sul testo delle Opere filosofiche scelte di Plechanov, Mosca 1958, volume V.

[3] Si tratta della prefazione di Victor Hugo al dramma Cromwell (1827).

[4] Così è definito Hegel dal signor Volynskij.

[5] Così, dal nome del giornale satirico degli anni sessanta «Il fischietto», si solevano chiamare tutti coloro che attaccavano a fondo i pregiudizi sociali comunemente accettati dai benpensanti.

[6] Parole di Grigorij, dal Boris Godunov di Černyševskij.

[7] Si tratta del protagonista del romanzo di Turgenev Padri e figli.
view post Posted: 2/11/2012, 20:05 Rapport sur la situation internationale (1947) - Français

RAPPORT SUR LA SITUATION INTERNATIONALE (1947)
PC(b) de l'URSS


Rapport présenté par Andreï Jdanov, membre du Bureau Politique du Parti Communiste (bolchévik) de l'U.R.S.S.,
le 22 septembre 1947, devant la Conférence d'Information des Partis Communistes
(réunion constitutive du Kominform), à Szklarska Poreba (Pologne)



Ce rapport a été publié le 1er novembre 1947 dans Pour une paix durable, pour une démocratie populaire, l'organe du Kominform.
Les deux passages entre parenthèses [...] proviennent du texte original de Jdanov trouvé dans ses archives et publié en 1993 (édition bilingue anglo-russe) dans l'édition critique universitaire Cominform (cette volumineuse édition reprend l'ensemble des textes des trois Conférences qu'a connu le Kominform en 1947, 1948 et 1949) 1 ;
le passage entre parenthèses {...} se trouve dans le même manuscrit original de Jdanov, mais il a été barré par Jdanov.




I

LA SITUATION INTERNATIONALE APRES LA GUERRE





La fin de la Seconde Guerre mondiale a apporté des changements essentiels dans l’ensemble de la situation mondiale. La défaite militaire du bloc des Etats fascistes, le caractère antifasciste et de libération de la guerre, le rôle décisif joué par l’Union Soviétique dans la victoire sur les agresseurs fascistes tout cela a conduit à un changement radical dans le rapport des forces entre les deux systèmes — socialiste et capitaliste en faveur du socialisme.

En quoi consistent ces changements ?

Le résultat principal de la Seconde Guerre mondiale consiste dans la défaite militaire dc l’Allemagne et du Japon — les deux pays les plus militaristes et les plus agressifs du capitalisme.

Les éléments réactionnaires impérialistes du monde entier, et particulièrement en Angleterre, aux Etats-Unis d’Amérique et en France, avaient fondé des espoirs particuliers sur l’Allemagne et le Japon, et surtout sur l’Allemagne hitlérienne, premièrement, en tant que force la plus capable de porter un coup tel à l’Union Soviétique qu’il aurait pu l’affaiblir et miner son influence sinon l’écraser, et deuxièmement, en tant que force capable d’écraser le mouvement ouvrier révolutionnaire et démocratique en Allemagne même et dans tous les pays qui étaient l’objet de l’agression hitlérienne.

On visait, de cette façon, à consolider la situation générale du capitalisme.

C’est là qu’il faut chercher l’origine et l’une des principales causes de la politique munichoise d’avant-guerre, politique d’" apaisement " et d’encouragement à l’agression fasciste, politique menée méthodiquement par les milieux impérialistes dirigeants d’Angleterre, de France et des Etats-Unis d’Amérique.

Cependant, les espoirs que les impérialistes anglo-franco-américains nourrissaient à l’égard des hitlériens ne se sont pas justifiés. Contrairement à ce que supposaient les munichois, les hitlériens ont prouvé qu’ils étaient plus faibles, tandis que l’Union Soviétique et les peuples épris de liberté ont prouvé qu’ils étaient plus forts.

Ainsi, la Seconde Guerre mondiale a eu pour résultat ceci : les forces principales de la réaction fasciste internationale militante ont été mises en déroute et se sont trouvées pour longtemps hors de combat.

Par conséquent, le système capitaliste mondial, dans son ensemble, a subi de nouveau un coup sérieux.

Si le résultat le plus important de la Première Guerre mondiale fut la rupture du front uni de l’impérialisme et le détachement de la Russie du système capitaliste mondial ; si, par suite de la victoire du régime socialiste en U.R.S.S., le capitalisme a cessé d’être le système universel unique de l’économie mondiale, le résultat de la Seconde Guerre mondiale, avec la défaite du fascisme, avec l’affaiblissement des positions mondiales du capitalisme et le renforcement du mouvement antifasciste, a été le détachement de toute une série de pays de l’Europe centrale et sud-orientale du système impérialiste.

De nouveaux régimes populaires et démocratiques ont surgi dans ces pays.

Le grand exemple de la guerre patriotique de l’Union Soviétique, le rôle libérateur de l’Armée soviétique se confondaient avec l’élan de la lutte de masse de libération nationale des peuples épris de liberté contre les occupants fascistes et leurs complices.

Au cours de cette lutte ont été démasqués, comme traîtres aux intérêts nationaux, les éléments pro-fascistes qui avaient collaboré avec Hitler : gros capitalistes influents, grands propriétaires fonciers, hauts fonctionnaires, officiers monarchistes.

Dans les pays danubiens, la libération de l’esclavage germano-fasciste s’est accompagnée, d’une part, de l’élimination du pouvoir de la couche supérieure de la bourgeoisie et des gros propriétaires terriens, compromise par sa collaboration avec le fascisme allemand, et, d’autre part, de l’arrivée au pouvoir de nouvelles forces du peuple qui avaient fait leurs preuves durant la lutte contre les oppresseurs hitlériens.

Dans ces pays, ce sont les représentants des ouvriers, des paysans, des intellectuels progressifs qui sont arrivés au pouvoir.

Partout, dans ces pays, ce fut la classe ouvrière qui a manifesté le plus grand héroïsme, le plus de conséquence et d’intransigeance dans la lutte antifasciste, et, partant, son autorité et son influence parmi le peuple se sont énormément accrues.

Le nouveau pouvoir démocratique en Yougoslavie, en Bulgarie, en Roumanie, en Pologne, en Tchécoslovaquie, en Hongrie et en Albanie, s’appuyant sur les masses populaires, a réussi à réaliser, dans le délai le plus court, des transformations démocratiques progressives telles que la bourgeoisie n’est déjà plus capable d’en faire.

La réforme agraire a remis la terre aux paysans et a conduit à la liquidation de la classe des hobereaux.

La nationalisation de la grande industrie et des banques et la confiscation de la propriété des traîtres qui avaient collaboré avec les Allemands ont sapé d’une manière radicale des positions du capital monopoliste dans ces pays et ont affranchi les masses de la servitude impérialiste.

En même temps, ont été établis les fondements de la propriété de l’Etat.

Un nouveau type d’Etat a été créé : la République populaire, où le pouvoir appartient au peuple, où la grande industrie, le transport et les banques appartiennent à l’Etat et où la force dirigeante est constituée par le bloc des classes travailleuses de la population, ayant à sa tête la classe ouvrière.

Les peuples de ces pays se sont non seulement libérés de l’étau impérialiste, mais ils sont en train d’édifier les bases du passage vers le développement socialiste.

L’importance et l’autorité internationale de l’U.R.S.S. se sont considérablement accrues à la suite de la guerre. L’U.R.S.S. a été la force dirigeante et l’âme de l’écrasement militaire de l’Allemagne et du Japon.

Les forces démocratiques progressives du monde entier se sont rassemblées autour de l’Union Soviétique. L’Etat socialiste, aux prises mortelles avec l’ennemi le plus puissant, est sorti victorieux des terribles épreuves de la guerre.

L’Union Soviétique est sortie de la guerre renforcée.

La face du monde capitaliste a changé elle aussi bien sensiblement. Des six puissances appelées " grandes " (l’Allemagne, le Japon, l’Angleterre, les Etats-Unis d’Amérique, la France, l’Italie), trois ont été éliminées par suite de la défaite militaire : l’Allemagne, l’Italie, le Japon.

La France aussi a été affaiblie et a perdu son ancienne signification de grande puissance.

Ainsi, il ne reste plus que deux " grandes " puissances impérialistes mondiales : les Etats-Unis et l’Angleterre.

Mais les positions de l’un de ces pays, l’Angleterre, se sont trouvées ébranlées.

Durant la guerre, l’impérialisme anglais s’est montré affaibli du point de vue militaire et politique.

En Europe, l’Angleterre s’est montrée impuissante devant l’agression allemande.

En Asie, l’Angleterre — la plus grande puissance impérialiste — n’a pas réussi par ses propres forces à sauvegarder ses propres possessions coloniales.

Ayant temporairement perdu ses liaisons avec les colonies, qui approvisionnaient la métropole en denrées alimentaires et en matières premières et qui absorbaient une partie considérable de sa production industrielle, l’Angleterre s’est trouvée, du point de vue de son économie de guerre et en ce qui concerne ses propres fournitures industrielles et alimentaires, dépendante de l’Amérique.

Depuis la fin de la guerre, la dépendance financière et économique de l’Angleterre à l’égard des Etats-Unis d’Amérique n’a fait que croître.

Après la guerre, l’Angleterre a recouvré ses colonies : cependant, elle s’y est heurtée à une influence renforcée de l’impérialisme américain qui, pendant la guerre, avait déployé son activité dans toutes les zones considérées jusque-là comme des sphères d’influence du capitalisme monopoliste anglais : l’Orient arabe, l’Asie du Sud-Est.

L’influence de l’Amérique s’est renforcée dans les dominions de l’Empire britannique et en Amérique du Sud, où le rôle joué par l’Angleterre lui échappe de plus en plus au bénéfice des Etats-Unis d’Amérique.

La crise du système colonial, accentuée par l’issue de la Seconde Guerre mondiale, se manifeste par le puissant essor du mouvement de libération nationale dans les colonies et les pays dépendants.

Par là même, les arrières du système capitaliste se trouvent menacés.

Les peuples des colonies ne veulent plus vivre comme par le passé.

Les classes dominantes des métropoles ne peuvent plus gouverner les colonies commue auparavant.

Les tentatives d’écrasement du mouvement de libération nationale par la force militaire se heurtent maintenant à la résistance armée croissante des peuples des colonies et conduisent à des guerres coloniales de longue durée : Hollande en Indonésie, France au Vietnam.

La guerre, qui a à son origine le développement inégal du capitalisme dans les différents pays, a conduit à une nouvelle aggravation de cette inégalité.

De toutes les puissances capitalistes, une seule — les Etats-Unis d’Amérique — est sortie de la guerre sans être affaiblie, mais considérablement renforcée tant économiquement que militairement.

Les capitalistes américains ont grassement profité de la guerre.

Le peuple américain n’a pas souffert des privations accompagnant la guerre, ni du joug de l’occupation, ni des bombardements aériens, tandis que ses pertes humaines n’ont pas été comparativement nombreuses, puisque les Etats-Unis, en fait, n’ont pris part qu’à la dernière étape de la guerre, alors que le sort de celle-ci était déjà décidé.

Pour les Etats-Unis, la guerre a servi avant tout d’impulsion à un large développement de la production industrielle, au renforcement décisif de l’exportation, principalement vers l’Europe.

La fin de la guerre a posé devant les Etats-Unis une série de nouveaux problèmes.

Les monopoles capitalistes se sont efforcés de maintenir le niveau élevé de leurs profits de guerre.

Dans ce dessein, ils ont recherché à ce que le volume des commandes du temps de guerre ne soit pas réduit.

Mais pour cela les Etats-Unis devaient conserver tous les marchés extérieurs qui absorbaient la production américaine durant la guerre, et conquérir de nouveaux marchés, puisque s’est produite à la fin de la guerre une forte réduction de la capacité d’achat de la majorité des pays.

En même temps, la dépendance financière et économique de ces pays à l’égard des Etats-Unis d’Amérique s’est accrue.

Les Etats-Unis ont investi à l’étranger des crédits pour la somme de 19 milliards de dollars, non compris les investissements à la Banque internationale et au Fonds international des changes.

Les principaux concurrents des Etats-Unis — l’Allemagne et le Japon — ont disparu du marché mondial, et cela a ouvert de nouvelles et très grandes possibilités aux Etats-Unis d’Amérique.

Si, avant la Seconde Guerre mondiale, les cercles réactionnaires les plus influents de l’impérialisme américain s’en tenaient à la politique isolationniste et s’abstenaient d’intervenir activement dans les affaires de l’Europe et de l’Asie, maintenant, dans les nouvelles conditions d’après-guerre, les maîtres de Wall Street font une autre politique.

Ils ont dressé un programme d’utilisation de toute la puissance militaire et économique américaine, non seulement pour conserver et consolider les positions conquises à l’étranger pendant la guerre, mais aussi pour les étendre au maximum en se substituant sur le marché mondial à l’Allemagne, au Japon et à l’Italie.

L’affaiblissement considérable de la puissance économique des autres Etats capitalistes a fait surgir la possibilité d’utilisation spéculative des difficultés économiques d’après guerre, ce qui favorise la mise de ces Etats sous le contrôle des Etats-Unis.

Cet affaiblissement a permis en particulier l’utilisation des difficultés économiques d’après guerre de la Grande-Bretagne. Les Etats-Unis d’Amérique ont proclamé un nouveau cours ouvertement conquérant et expansionniste.

Le but que se propose le nouveau cours expansionniste des Etats-Unis est l’établissement de la domination mondiale de l’impérialisme américain.

Ce nouveau cours vise à la consolidation de la situation de monopole des Etats-Unis sur les marchés, monopole qui s’est établi par suite de la disparition de leurs deux concurrents les plus grands — l’Allemagne et le Japon — et par l’affaiblissement des partenaires capitalistes des Etats-Unis : l’Angleterre et la France.

Ce nouveau cours compte sur un large programme de mesures d’ordre militaire, économique et politique, dont l’application établirait dans tous les pays visés par l’expansionnisme des Etats-Unis la domination politique et économique de ces derniers, réduirait ces pays à l’état de satellites des Etats-Unis, y instaurerait des régimes intérieurs qui élimineraient tout obstacle de la part du mouvement ouvrier et démocratique à l’exploitation de ces pays par le capital américain.

Les Etats-Unis d’Amérique cherchent à étendre actuellement l’application de ce nouveau cours politique non seulement envers les ennemis de la guerre d’hier, ou envers les Etats neutres, mais aussi de façon toujours plus grande, envers les alliés de guerre des Etats-Unis d’Amérique.

On attache une attention spéciale à l’utilisation des difficultés économiques de l’Angleterre — l’allié et en même temps le rival capitaliste et concurrent de longue date des Etats-Unis.

Le cours expansionniste américain a pour point de départ la considération que, non seulement il faudra ne pas détendre l’étau de la dépendance économique vis-à-vis des Etats-Unis, dans lequel l’Angleterre est tombée durant la guerre, mais, au contraire, renforcer la pression sur l’Angleterre, afin de lui ravir successivement son contrôle sur les colonies, l’évincer de ses sphères d’influence et la réduire à l’état de vassal.

Ainsi, par leur nouvelle politique, les Etats-Unis tendent à raffermir leur situation de monopole et comptent assujettir et mettre sous leur dépendance leurs propres partenaires capitalistes.

Mais, sur le chemin de leurs aspirations à la domination mondiale, les Etats-Unis se heurtent à l’U.R.S.S. avec son influence internationale croissante, comme au bastion de la politique anti-impérialiste et antifasciste, aux pays de la nouvelle démocratie qui ont échappé au contrôle de l’impérialisme anglo-américain, aux ouvriers de tous les pays, y compris les ouvriers de l’Amérique même, qui ne veulent pas de nouvelle guerre de domination au profit de leurs propres oppresseurs.

C’est pourquoi le nouveau cours expansionniste et réactionnaire de la politique des Etats-Unis vise à la lutte contre l’U.R.S.S., contre les pays de la nouvelle démocratie, contre le mouvement ouvrier de tous les pays, contre le mouvement ouvrier aux Etats-Unis, contre les forces anti-impérialistes de libération dans tous les pays.

Les réactionnaires américains, inquiets des succès du socialisme en U.R.S.S., des succès des pays de la nouvelle démocratie et de la croissance du mouvement ouvrier et démocratique dans tous les pays du monde entier, après la guerre, sont enclins à se fixer comme tâche celle de " sauver " le système capitaliste du communisme.

De sorte que le programme franchement expansionniste des Etats-Unis rappelle extraordinairement le programme aventurier des agresseurs fascistes, qui a misérablement échoué, agresseurs qui, comme on le sait, se considéraient naguère aussi comme des prétendants à la domination mondiale.

Comme les hitlériens, lorsqu’ils préparaient l’agression de brigandage afin de s’assurer la possibilité d’opprimer et d’asservir tous les peuples et avant tout leur propre peuple, se masquaient de l’anticommunisme, de la même manière, les cercles dirigeants d’aujourd’hui des Etats-Unis dissimulent leur politique d’expansion et même leur offensive contre les intérêts vitaux de leur concurrent impérialiste devenu plus faible — l’Angleterre — par des tâches de pseudo-défense anticommuniste.

La course fiévreuse aux armements, la construction de nouvelles bases et la création de places d’armes pour les forces armées américaines dans toutes les parties du monde sont justifiées par les arguments pharisiens et faux de la soi-disant " défense " contre le danger militaire imaginaire de la part de l’U.R.S.S.

La diplomatie américaine agissant par les méthodes de menaces, de corruption et de chantage arrache facilement des autres pays capitalistes, et avant tout de l’Angleterre, le consentement à l’affermissement légal des positions avantageuses américaines en Europe et en Asie, dans les zones occidentales de l’Allemagne, en Autriche, en Italie, en Grèce, en Turquie, en Egypte, en Iran, en Afghanistan, en Chine, au Japon, etc.

Les impérialistes américains, se considérant comme la force principale opposée à l’U.R.S.S., aux pays de la nouvelle démocratie, au mouvement ouvrier et démocratique de tous les pays du monde, se considérant comme le bastion des forces réactionnaires, antidémocratiques du monde entier, ont entrepris littéralement, au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, de dresser contre l’U.R.S.S. et la démocratie mondiale un front hostile et d’encourager les forces réactionnaires, anti-populaires, les collaborationnistes et les anciennes créatures capitalistes dans les pays européens qui, libérés du joug hitlérien, ont commencé à organiser leur vie selon leur propre choix.

Les politiciens impérialistes les plus enragés et déséquilibrés ont commencé, après Churchill, à dresser des plans en vue d’organiser le plus rapidement possible une guerre préventive contre l’U.R.S.S., faisant ouvertement appel à l’utilisation contre les hommes soviétiques du monopole américain temporaire de l’arme atomique.

Les instigateurs de la nouvelle guerre tentant d’utiliser l’intimidation et le chantage non seulement envers l’U.R.S.S., mais aussi envers les autres pays, et en particulier, envers la Chine et l’Inde, présentent d’une façon calomnieuse l’U.R.S.S. comme agresseur possible, et se présentent eux-mêmes en qualité d’" amis " de la Chine et de l’Inde, comme " sauveurs " du danger communiste, appelés à " aider " les plus faibles. De cette façon, on accomplit la tâche de maintenir dans l’obéissance à l’impérialisme l’Inde et la Chine et de prolonger leur asservissement politique et économique.



II

NOUVELLE DISPOSITION DES FORCES POLITIQUES D’APRES-GUERRE ET FORMATION DES DEUX CAMPS





Les changements profonds survenus dans la situation internationale et dans la situation des différents pays, à la suite de la guerre, ont modifié tout le tableau politique du monde.

Une nouvelle disposition des forces politiques s’est créée.

Plus nous nous éloignons de la fin de la guerre, et plus nettement apparaissent les deux principales directions de la politique internationale de l’après-guerre, correspondant à la disposition en deux camps principaux des forces politiques qui opèrent sur l’arène mondiale : le camp impérialiste et antidémocratique d’une part, et, d’autre part, le camp anti-impérialiste et démocratique.

Les Etats-Unis sont la principale force dirigeante du camp impérialiste. L’Angleterre et la France sont unies aux Etats-Unis.

L’existence du gouvernement travailliste Atllee-Bevin en Angleterre et celle du gouvernement socialiste Ramadier en France n’empêchent pas l’Angleterre et la France de marcher comme des satellites, en ce qui concerne les questions principales, dans l’ornière de la politique impérialiste des Etats-Unis.

Le camp impérialiste est soutenu aussi par des Etats possesseurs de colonies, tels que la Belgique et la Hollande, et par des pays au régime réactionnaire antidémocratique, tels que la Turquie et la Grèce, ainsi que par des pays dépendant politiquement et économiquement des Etats-Unis, tel que le Proche-Orient, l’Amérique du Sud, la Chine.

Le but principal du camp impérialiste consiste à renforcer l’impérialisme, à préparer une nouvelle guerre impérialiste, a lutter contre le socialisme et la démocratie et à soutenir partout les régimes et mouvements pro-fascistes réactionnaires et antidémocratiques.

Pour réaliser ces tâches, le camp impérialiste est prêt à s’appuyer sur les forces réactionnaires et antidémocratiques dans tous les pays et à soutenir les ennemis de la guerre d’hier contre ses alliés de guerre.

Les forces anti-impérialistes et antifascistes forment l’autre camp. L’U.R.S.S. et les pays de la nouvelle démocratie en sont le fondement.

Les pays qui ont rompu avec l’impérialisme et qui se sont résolument engagés dans la voie du développement démocratique, tels que la Roumanie, la Hongrie, la Finlande, en font partie. Au camp anti-impérialiste adhèrent l’Indonésie, le Vietnam, l’Inde ; l’Egypte et la Syrie y apportent leurs sympathies. Le camp anti-impérialiste s’appuie dans tous les pays sur le mouvement ouvrier et démocratique, sur les Partis Communistes frères, sur les combattants du mouvement de libération nationale dans les pays coloniaux et dépendants, sur toutes les forces progressives et démocratiques qui existent dans chaque pays.

Le but de ce camp consiste à lutter contre les menaces de nouvelles guerres. et d’expansion impérialiste, pour l’affermissement de la démocratie et pour l’extirpation des restes du fascisme.

La fin de la Deuxième Guerre mondiale a placé les peuples épris de liberté devant l’importante tâche d’assurer une paix démocratique durable, consolidant la victoire sur le fascisme.

C’est à l’Union Soviétique et à sa politique extérieure qu’appartient le rôle dirigeant dans la solution de cette tâche principale d’après-guerre.

Cela provient de la nature de l’Etat soviétique socialiste, profondément étranger à tous les mobiles agressifs et exploiteurs, et intéressé à créer les conditions les plus favorables pour réaliser l’édification de la société communiste.

L’une de ces conditions, c’est la paix.

En tant que nouveau système social supérieur, l’Union Soviétique reflète, dans sa politique extérieure, les espoirs de toute l’humanité progressive, qui aspire à une paix durable et ne peut être intéressée à une nouvelle guerre engendrée par le capitalisme.

L’Union Soviétique, fidèle combattant de la liberté et de l’indépendance pour tous les peuples, est l’ennemie de l’oppression nationale et raciale, de l’exploitation coloniale sous toutes ses formes.

Le changement survenu à la suite de la Deuxième Guerre mondiale dans le rapport des forces entre le monde capitaliste et le monde socialiste de l’Etat soviétique a élargi le rayon de son activité politique extérieure.

C’est autour de la tâche consistant à assurer la paix démocratique juste que s’est opéré le ralliement de toutes les forces du camp anti-impérialiste et antifasciste.

C’est sur cette base qu’a pris naissance et que s’est renforcée la coopération amicale de l’U.R.S.S. avec les pays démocratiques à l’égard de tous les problèmes de politique extérieure.

Ces pays, et tout d’abord les pays de la nouvelle démocratie : la Yougoslavie, la Pologne, la Tchécoslovaquie, l’Albanie, qui ont joué un rôle important dans la guerre libératrice contre le fascisme, ainsi que la Bulgarie, la Roumanie, la Hongrie, partiellement la Finlande, qui ont rejoint le front antifasciste — sont devenus dans l’après-guerre, de fermes combattants pour la paix, pour la démocratie, pour la liberté et l’indépendance contre toutes les tentatives faites par les Etats-Unis et l’Angleterre pour faire retourner leur développement en arrière et les placer de nouveau sous le joug impérialiste.

Les succès et l’augmentation du prestige international du camp démocratique ne sont pas du goût des impérialistes. Déjà, pendant la Deuxième Guerre mondiale, en Angleterre et aux Etats-Unis, l’activité des forces réactionnaires s’est accrue infailliblement, s’efforçant de briser l’action coordonnée des puissances alliées, de faire traîner la guerre en longueur, de saigner à blanc l’U.R.S.S. et de sauver les agresseurs fascistes de la débâcle complète.

Le sabotage du deuxième front de la part des impérialistes anglo-saxons, Churchill en tête, reflétait nettement cette tendance, qui n’est, au fond, que la continuation de la politique de " Munich " dans la nouvelle situation changée.

Mais, tant que la guerre durait, les cercles réactionnaires d’Angleterre et des Etats-Unis n’osaient pas intervenir ouvertement contre l’Union Soviétique et les pays démocratiques, comprenant très bien que, dans tous les pays, la sympathie des masses populaires allait sans réserve à l’U.R.S.S. et aux pays démocratiques.

Mais, dès les derniers mois qui précédèrent la fin de la guerre, la situation commença à se modifier.

Déjà, au cours des pourparlers à la Conférence des Trois Puissances, à Berlin, en juillet 1945, les impérialistes anglo-américains ont montré leur désir de ne pas tenir compte des intérêts légitimes de l’U.R.S.S. et des pays démocratiques.

Au cours des deux dernières années, la politique extérieure de l’Union Soviétique et des pays démocratiques a été une politique de lutte pour la réalisation conséquente des principes démocratiques d’après-guerre.

Les Etats du camp anti-impérialiste se sont montrés de fidèles et conséquents combattants pour la réalisation de ces principes, sans en dévier d’un seul point.

C’est pourquoi la tâche principale de la politique extérieure des Etats démocratiques d’après-guerre est de lutter pour une paix démocratique, de liquider les restes du fascisme et d’empêcher une nouvelle agression fasciste impérialiste, de lutter pour l’affermissement des principes d’égalité des droits et le respect de la souveraineté des peuples, pour la réduction générale des armements et l’interdiction de tout genre d’armes de grande destruction, destinées à l’extermination en masse de la population paisible.

Dans la mise en application de toutes ces tâches, la diplomatie soviétique et la diplomatie des Etats démocratiques se sont heurtées à la résistance de la diplomatie anglo-américaine qui, après guerre, suit infailliblement et conséquemment une ligne visant à renoncer à tous les principes communs proclamés pendant la guerre par les Alliés pour l’organisation de la paix d’après-guerre, une ligne tendant à remplacer cette politique de paix et d’affermissement de la démocratie par une nouvelle politique ayant pour but de rompre la paix générale, d’assurer la défense des éléments fascistes et de persécuter la démocratie dans tous les pays.

L’activité commune de la diplomatie de l’U.R.S.S. et de la diplomatie des Etats démocratiques visant à résoudre le problème de la réduction des armements et l’interdiction de l’arme la plus destructrice — la bombe atomique — a une grande signification.

Sur l’initiative de l’Union Soviétique, il a été fait une proposition à l’Organisation des Nations Unies pour la réduction générale des armements et pour la reconnaissance, comme tâche de premier plan, de l’interdiction de la production et de l’utilisation de l’énergie atomique pour des buts de guerre.

Cette proposition du Gouvernement soviétique se heurta à une résistance acharnée de la part des Etats-Unis et de l’Angleterre.

Tous les efforts des milieux impérialistes ont été dirigés en vue de saboter cette décision.

Cela s’est exprimé par toutes sortes de barrières et d’atermoiements sans fin et stériles dans l’intention d’empêcher toutes mesures pratiques effectives.

L’activité des délégués de l’U.R.S.S. et de ceux des pays démocratiques dans les organes de l’Organisation des Nations Unies porte un caractère de lutte quotidienne, systématique, opiniâtre en faveur des principes démocratiques de coopération internationale et pour dévoiler les intrigues des comploteurs impérialistes contre la paix et la sécurité des peuples.

Cela se manifeste de façon particulièrement visible, par exemple, dans l’examen de la situation aux frontières septentrionales de la Grèce.

L’Union Soviétique et la Pologne sont intervenues ensemble, énergiquement, contre l’utilisation du Conseil de Sécurité un vue de discréditer la Yougoslavie, la Bulgarie, l’Albanie, faussement accusées par les impérialistes d’actes d’agression contre la Grèce.

La politique extérieure soviétique a pour point de départ le fait de la coexistence, pour une longue période, des deux systèmes, le capitalisme etle socialisme.

De là découle la possibilité de coopération entre l’U.R.S.S. et les pays possédant un autre système, à condition de respecter le principe de réciprocité et d’exécuter les engagements pris.

On sait que l’U.R.S.S. a toujours été et reste fidèle à ses engagements.

L’Union Soviétique a montré sa volonté et son désir de coopération.

À l’Organisation des Nations Unies, l’Angleterre et l’Amérique mènent une politique complètement opposée.

Elles font tout pour renoncer à leurs engagements, pris antérieurement, et pour se délier les mains, afin de mener une nouvelle politique, non pas dans l’esprit de coopération des peuples, mais pour les dresser les uns contre les autres, politique visant à violer les droits et les intérêts des peuples démocratiques et à isoler l’U.R.S.S.

La politique soviétique suit la ligne d’entretien loyal des rapports de bon voisinage avec tous les Etats qui montrent leur désir de coopérer.

L’Union Soviétique a toujours été, est et sera toujours une amie fidèle et une alliée envers les pays qui sont ses véritables amis et alliés. La politique extérieure soviétique vise à une extension ultérieure de l’aide amicale de la part de l’Union Soviétique à ces pays.

Défendant la cause de la paix, la politique extérieure de l’U.R.S.S. rejette le principe de vengeance envers les peuples vaincus.

Comme on le sait, l’U.R.S.S. est pour la formation d’une Allemagne unie, éprise de liberté, démilitarisée, démocratique. Formulant la politique soviétique envers l’Allemagne, le camarade Staline a dit :

" Bref, la politique de l’Union Soviétique dans le problème allemand se résume à la démilitarisation et à la démocratisation de l’Allemagne...

La démilitarisation et la démocratisation de l’Allemagne sont une des plus importantes conditions pour instaurer une paix durable et solide. "

Cependant, cette politique de l’Etat soviétique envers l’Allemagne se heurte à une résistance effrénée des milieux impérialistes des Etats-Unis et d’Angleterre.

La session du Conseil des ministres des Affaires étrangères, qui s’est tenue à Moscou en mars-avril 1947, a montré que les Etats-Unis, l’Angleterre et la France sont prêts, non seulement à faire échec à la démocratisation et à la démilitarisation de l’Allemagne, mais aussi à liquider l’Allemagne en tant qu’Etat uni, à la démembrer et à résoudre séparément le problème de la paix.

La réalisation de cette politique s’effectue actuellement dans de nouvelles conditions, alors que l’Amérique a rompu avec l’ancien cours de Roosevelt et passe à une nouvelle politique, à une politique de nouvelles aventures militaires.





III

LE PLAN AMERICAIN D’ASSERVISSEMENT DE L’EUROPE





Le passage de l’impérialisme américain au cours agressif et ouvertement expansionniste depuis la fin de la Deuxième Guerre mondiale, a trouvé son expression tant dans la politique extérieure des Etats-Unis que dans leur politique intérieure.

Le soutien actif des forces réactionnaires et antidémocratiques dans le monde entier, la mise en échec des décisions de Potsdam visant à la démocratisation et à la démilitarisation de l’Allemagne, la protection des réactionnaires japonais, l’extension des préparatifs militaires, l’accumulation des réserves de bombes atomiques, tout cela s’accompagne d’une offensive contre les droits démocratiques élémentaires des travailleurs a l’intérieur des Etats-Unis.

Bien que les Etats-Unis aient été relativement peu touchés par la guerre, la majorité écrasante des Américains ne veut pas d’une nouvelle guerre et des sacrifices et restrictions qui en découlent.

Cela incite le capital monopoliste et ses serviteurs parmi les cercles dirigeants des Etats-Unis à chercher des moyens extraordinaires pour briser l’opposition intérieure à ce cours expansionniste et agressif, et ainsi se laisser les mains libres pour continuer à mener cette politique dangereuse.

Mais la campagne contre le communisme, proclamée par les milieux dirigeants américains, s’appuyant sur les monopoles capitalistes, aboutit, avec une inévitable logique, à la violation des droits et des intérêts vitaux des travailleurs américains, à la fascisation intérieure de la vie politique des Etats-Unis, à la diffusion des " théories " et notions misanthropes les plus sauvages.

Nourrissant des rêves de préparation d’une troisième guerre mondiale, les milieux expansionnistes américains sont profondément intéressés à étouffer à l’intérieur du pays toute résistance possible aux aventures extérieures, à empoisonner de chauvinisme et de militarisme les masses politiquement arriérées et peu cultivées des Américains moyens, à abrutir le petit bourgeois américain à l’aide des moyens les plus divers de propagande antisoviétique, anticommuniste, par exemple le cinéma, la radio, l’église, la presse.

La politique extérieure expansionniste, inspirée et menée par la réaction américaine, prévoit une activité simultanée dans toutes les directions :

1o Mesures militaires stratégiques ;

2o Expansion économique ;

3o Lutte idéologique.

La réalisation des plans militaires stratégiques de futures agressions est liée aux efforts pour utiliser au maximum l’appareil de production militaire des Etats-Unis, qui s’est accru considérablement vers la fin de la Deuxième Guerre mondiale.

L’impérialisme américain mène une politique conséquente de militarisation du pays.

Aux Etats-Unis, les dépenses pour l’armée et la flotte dépassent 11 milliards de dollars par an. En 1947-48, les Etats-Unis ont assigné pour l’entretien de leurs forces armées 35 % du budget, soit onze fois plus qu’en 1937-38.

Si, au début de la Deuxième Guerre mondiale, l’armée des Etats-Unis occupait la 17e place de tous les pays capitalistes, actuellement elle occupe la première place.

Parallèlement à l’accumulation des bombes atomiques, les stratèges américains ne se gênent pas pour dire qu’aux Etats-Unis se font des préparatifs pour l’arme bactériologique.

Le plan militaire stratégique des Etats-Unis prévoit la création, en temps de paix, de nombreuses bases et places d’armes, très éloignées du continent américain et destinées à être utilisées dans des buts d’agression contre l’U.R.S.S. et les pays de la nouvelle démocratie.

Les bases américaines militaires, aériennes et navales, existent ou sont de nouveau en voie de création en Alaska, au Japon, en Italie, au sud de la Corée, en Chine, en Egypte, en Iran, en Turquie, en Grèce, en Autriche et en Allemagne occidentale.

Une mission militaire américaine opère en Afghanistan et même au Népal. Des préparatifs se font fiévreusement pour utiliser l’Arctique en vue d’une agression militaire.

Bien que la guerre soit déjà finie depuis longtemps, l’alliance militaire entre l’Angleterre et les Etats-Unis subsiste encore, de même que l’état-major anglo-américain unifié des forces armées.

Sous l’enseigne de la convention sur la standardisation des armements, les Etats-Unis ont étendu leur contrôle sur les forces armées et les plans militaires des autres pays, en premier lieu de l’Angleterre et du Canada.

Sous l’enseigne de la défense commune de l’hémisphère occidental, les pays de l’Amérique latine sont en voie d’entrer dans l’orbite des plans d’expansion militaire des Etats-Unis.

Le gouvernement des Etats-Unis a annoncé que sa tâche officielle était d’aider à la modernisation de l’armée turque.

L’armée du Kuomintang réactionnaire fait son instruction avec des officiers américains et reçoit du matériel américain.

La clique militaire devient une force politique active aux Etats-Unis, dont elle fournit, sur une grande échelle, les hommes d’Etat et les diplomates qui suivent une ligne militariste agressive dans toute la politique du pays.

L’expansion économique des Etats-Unis complète d’une façon importante la réalisation du plan stratégique. L’impérialisme américain s’efforce, comme un usurier, d’exploiter les difficultés d’après-guerre des pays européens, surtout la pénurie de matières premières, de combustibles et de denrées alimentaires dans les pays alliés qui ont le plus souffert de la guerre, pour leur dicter ses conditions asservissantes de secours.

En prévision de la crise économique imminente, les Etats-Unis s’empressent de trouver de nouvelles sphères de monopole pour l’investissement des capitaux et pour l’écoulement des marchandises. Le " secours " économique des Etats-Unis a pour but d’asservir l’Europe au capital américain.

Plus la situation économique d’un pays est grave, plus les monopoles américains s’efforcent de lui dicter de dures conditions.

Mais le contrôle économique entraîne aussi avec lui une dépendance politique de l’impérialisme américain.

Ainsi, l’extension des sphères d’écoulement des marchandises américaines se combine pour les Etats-Unis avec l’acquisition de nouvelles places d’armes propices à la lutte contre les nouvelles forces démocratiques de l’Europe.

En " sauvant " un pays de la famine et de la ruine, les monopoles américains ont le dessein de le priver de toute indépendance.

L’" aide " américaine entraîne presque automatiquement des modifications de la ligne politique du pays qui reçoit cette " aide " : viennent au pouvoir des partis et des personnalités qui, obéissant aux directives de Washington, sont prêts à réaliser, dans leur politique intérieure et extérieure, le programme désiré par les Etats-Unis (France, Italie, etc.)

Enfin, les aspirations des Etats-Unis à la domination mondiale et leur ligne antidémocratique comportent aussi une lutte idéologique.

La tâche principale de la partie idéologique du plan stratégique américain consiste à user du chantage envers l’opinion publique, à répandre des calomnies sur la prétendue agressivité de l’Union Soviétique et des pays de la nouvelle démocratie, afin de pouvoir ainsi présenter le bloc anglo-saxon dans le rôle d’un bloc de prétendue défense et le décharger de la responsabilité dans la préparation de la nouvelle guerre.

La popularité de l’Union Soviétique à l’étranger s’est considérablement accrue pendant la Deuxième Guerre mondiale. Par sa lutte héroïque, pleine d’abnégation, contre l’impérialisme, l’Union Soviétique a gagné l’amour et le respect des travailleurs de tous les pays.

La puissance militaire et économique de l’Etat socialiste et la force indestructible de l’unité morale et politique de la société soviétique ont été démontrées clairement à la face du monde entier.

Les milieux réactionnaires des Etats-Unis et de l’Angleterre se demandent avec souci comment dissiper l’impression inoubliable que le régime socialiste produit sur les ouvriers et les travailleurs du monde entier.

Les instigateurs de guerre se rendent très bien compte que, pour envoyer les soldats combattre contre l’Union Soviétique, une longue préparation idéologique est nécessaire.

Dans leur lutte idéologique contre l’U.R.S.S., les impérialistes américains, qui s’orientent mal dans les problèmes politiques et montrent leur ignorance, mettent en avant tout d’abord l’image représentant l’Union Soviétique comme une force soit-disant antidémocratique, totalitaire, tandis que les Etats-Unis, l’Angleterre et tout le monde capitaliste sont présentés comme des démocraties.

Cette plate-forme de la lutte idéologique — défense de la pseudo-démocratie bourgeoise et attribution au communisme de traits totalitaires — unit tous les ennemis de la classe ouvrière sans exception, depuis les magnats capitalistes jusqu’aux leaders socialistes de droite qui, avec un grand empressement, s’emparent de n’importe quelle calomnie antisoviétique, dictée par leurs maîtres impérialistes.

Le pivot de cette propagande fourbe réside dans l’affirmation que l’existence de plusieurs partis et d’une minorité oppositionnelle organisée serait l’indice d’une démocratie véritable. Sur cette base, les " travaillistes " anglais, ne ménageant pas leurs forces pour lutter contre le communisme, auraient voulu déceler qu’il y a, en U.R.S.S., des classes antagonistes et une lutte de partis correspondante.

Ignorants en politique, ils ne peuvent pas arriver à comprendre que, depuis longtemps déjà, il n’y a plus en U.R.S.S. de capitalistes et de propriétaires fonciers, qu’il n’y a plus de classes antagonistes et, partant, qu’il ne pourrait y exister plusieurs partis.

Ils auraient voulu avoir en U.R.S.S. des partis chers à leurs cœurs, des partis bourgeois, y compris des partis pseudo-socialistes, en tant qu’agence impérialiste.

Mais, pour leur malheur, l’histoire a condamné ces partis bourgeois exploiteurs à disparaître.

Ne ménageant pas les mots pour monter des calomnies contre le régime soviétique, les " travaillistes " et autres avocats de la démocratie bourgeoise trouvent en même temps tout à fait normale la dictature sanglante de la minorité fasciste sur le peuple en Grèce et en Turquie ; ils ferment les yeux sur les nombreuses infractions révoltantes aux normes mêmes de la démocratie formelle dans les pays bourgeois ; ils passent sous silence le joug national et racial, la corruption, l’usurpation sans cérémonie des droits démocratiques aux Etats-Unis.

L’une des lignes de la " campagne " idéologique qui accompagne les plans d’asservissement de l’Europe est l’attaque contre les principes de souveraineté nationale, l’appel à renoncer aux droits souverains des peuples, auxquels on oppose l’idée d’un " gouvernement mondial ".

Le sens de cette campagne consiste à embellir l’expansion effrénée de l’impérialisme américain qui, sans cérémonie, porte atteinte aux droits souverains des peuples, et à présenter les Etats-Unis dans le rôle de champion des lois humaines, tandis que ceux qui résistent à la pénétration américaine sont présentés en partisans d’un nationalisme " égoïste " périmé. L’idée d’un " gouvernement mondial ", reprise par les intellectuels bourgeois rêveurs et pacifistes, est utilisée non seulement comme moyen de pression en vue de désarmer moralement les peuples qui défendent leur indépendance contre les attentats de l’impérialisme américain, mais aussi comme mot d’ordre spécialement opposé à l’Union Soviétique, qui défend infatigablement et conséquemment le principe d’une réelle égalité des droits et de la protection des droits souverains de tous les peuples grands et petits.

Dans les conditions actuelles, les pays impérialistes tels que les Etats-Unis, l’Angleterre et les Etats qui leur sont proches, deviennent des ennemis dangereux de l’indépendance nationale et de l’autodétermination des peuples, tandis que l’Union Soviétique et les pays à nouvelle démocratie constituent le rempart sûr dans la défense de l’égalité des droits et de l’autodétermination nationale des peuples.

Il est tout à fait caractéristique que les éclaireurs militaires et politiques américains, du genre Bullitt, les leaders syndicaux jaunes du genre Green, les socialistes français avec Blum, l’apologiste fieffé du capitalisme en tête, le social-démocrate allemand Schumacher, et les leaders travaillistes du type Bevin, collaborent étroitement à la réalisation du plan idéologique établi par l’impérialisme américain.

La " doctrine Truman " et le " plan Marshall " sont, dans les conditions actuelles aux Etats-Unis, l’expression concrète des efforts expansionnistes.

Au fond, ces deux documents sont l’expression d’une même politique, bien qu’ils se distinguent par la forme sous laquelle y est présentée une même et seule prétention américaine d’asservir l’Europe.

En ce qui concerne l’Europe, les principales lignes de la " doctrine Truman " sont les suivantes :

1o Création de bases américaines dans la partie orientale du bassin méditerranéen, afin d’affermir la domination américaine dans cette zone ;

2o Soutien démonstratif des régimes réactionnaires en Grèce et en Turquie, en tant que bastions de l’impérialisme américain contre la nouvelle démocratie dans les Balkans (aide militaire et technique à la Grèce et à la Turquie, octroi d’emprunts) ;

3o Pression ininterrompue sur les Etats à nouvelle démocratie, ce qui s’exprime par de fausses accusations de totalitarisme et d’aspirations expansionnistes, par les attaques contre les fondements du nouveau régime démocratique, par l’immixtion continuelle dans les affaires intérieures de ces Etats, par le soutien de tous les éléments antidémocratiques à l’intérieur de ces pays — éléments qui luttent contre l’Etat par la cessation démonstrative des rapports économiques avec ces pays en vue de créer à ces derniers des difficultés économiques, de freiner leur développement économique, de faire échec à leur industrialisation, etc.

La " doctrine Truman " qui prévoit l’offre de l’aide américaine à tous les régimes réactionnaires, qui agissent de façon active contre les peuples démocratiques, porte un caractère ouvertement agressif.

Sa publication a provoqué une certaine gêne même dans les milieux des capitalistes américains habitués à n’importe quoi.

Aux Etats-Unis et dans d’autres pays, les éléments progressistes ont protesté énergiquement contre le caractère provoquant, ouvertement impérialiste, de l’intervention Truman.

L’accueil défavorable qui a été fait à la " doctrine Truman " a rendu nécessaire le " plan Marshall ", qui est une tentative plus voilée de mener cette même politique d’expansion.

Le fond des formules voilées, embrouillées intentionnellement du " plan Marshall " consiste à former un bloc d’Etats liés aux Etats-Unis par des engagements et à offrir aux Etats européens des crédits américains, en paiement de la renonciation à leur indépendance économique et ensuite à leur indépendance politique. L’essentiel du " plan Marshall " est donc de reconstruire les régions industrielles de l’Allemagne occidentale, contrôlées par les monopoles américains.

Il ressort des délibérations qui se sont succédé et des interventions des hommes d’Etat américains que l’objet du " plan Marshall " n’est pas une offre de secours, tout d’abord aux pays vainqueurs appauvris, alliés de l’Amérique dans la lutte contre l’Allemagne, mais une offre de secours aux capitalistes allemands, afin que ceux-ci, tenant en main les sources principales de charbon et de métal nécessaires à l’Europe et à l’Allemagne, les Etats qui ont besoin de charbon et de métal soient placés sous la dépendance de la puissance économique de l’Allemagne en voie de restauration.

Malgré le fait que le " plan Marshall " prévoit l’abaissement de l’Angleterre, ainsi que celui de la France, à l’état de puissances de second ordre, le gouvernement travailliste d’Attlee en Angleterre et le gouvernement socialiste de Ramadier en France, se sont accrochés au " plan Marshall " comme à une planche de salut.

On sait que l’Angleterre a déjà presque dépensé l’emprunt américain de 3.750 millions de dollars qui lui fut octroyé en 1946.

On sait aussi que l’Angleterre a eu les pieds et les mains liés par les conditions asservissantes de cet emprunt. Le gouvernement travailliste de l’Angleterre, serré comme dans un nœud coulant par sa dépendance financière envers les Etats-Unis ne voit d’autre issue, pour en sortir, que l’obtention de nouveaux emprunts.

C’est pourquoi il a accueilli le " plan Marshall " comme une issue à l’impasse économique, comme une chance d’obtenir de nouveaux crédits.

En outre, les hommes politiques anglais avaient compté sur la création du bloc des pays de l’Europe occidentale — pays débiteurs des Etats-Unis — afin d’essayer de jouer à l’intérieur de ce bloc le rôle d’un gérant en chef américain qui pourrait, à la rigueur, un tirer profit au détriment des pays faibles.

La bourgeoisie anglaise avait caressé le rêve qu’en utilisant le " plan Marshall ", en rendant des services aux monopoles américains et en se soumettant à leur contrôle, elle recouvrerait ses positions perdues dans certains pays et, en particulier, rétablirait ses positions dans les régions balkano-danubiennes.

Afin de donner extérieurement une plus grande apparence " d’objectivité " aux propositions américaines, il avait été décidé d’inclure, au nombre des initiateurs devant préparer la réalisation du " plan Marshall ", la France, qui avait déjà sacrifié à moitié sa souveraineté nationale en faveur des Etats-Unis, puisque l’octroi du crédit à la France, en mai 1947, de la part des Etats-Unis, avait été conditionné par l’éloignement des communistes du gouvernement.

Suite à la directive de Washington, les gouvernements d’Angleterre et de France avaient proposé à l’Union Soviétique de participer à l’examen des propositions Marshall. Une telle démarche devait masquer le caractère hostile à l’U.R.S.S. de ces propositions. Sachant bien d’avance que l’U.R.S.S. se refuserait à discuter les propositions d’aide américaine selon les conditions formulées par Marshall, on avait fait le calcul d’en profiter pour essayer de mettre à la charge de l’U.R.S.S. la responsabilité du " refus de contribuer à la reconstruction économique de l’Europe ", et de cette façon dresser contre l’U.R.S.S. les pays européens qui ont besoin d’un secours réel.

Si, par contre, l’U.R.S.S. acceptait de participer aux pourparlers, il serait facile de faire tomber dans le piège de " la reconstruction économique de l’Europe avec l’aide de l’Amérique " les pays de l’Est et du Sud-Est de l’Europe. Pendant que le " plan Truman " misait sur l’intimidation terroriste de ces pays, le " plan Marshall " avait comme objectif de sonder la fermeté de leur situation économique, de tenter de les séduire et de les lier ensuite par le " secours " du dollar.

Le " plan Marshall " était appelé, dans ce cas donné, à contribuer à la réalisation de l’une des tâches les plus importantes du programme américain général : restaurer le pouvoir de l’impérialisme dans les pays de la nouvelle démocratie, obliger ces pays à renoncer à leur coopération économique et politique étroite avec l’Union Soviétique.

Les représentants de l’U.R.S.S., ayant consenti à examiner à Paris, avec les gouvernements de l’Angleterre et de la France, les propositions de Marshall, ont démasqué, à la Conférence de Paris, le manque de fondement de la tâche visant à l’élaboration d’un programme économique pour toute l’Europe.

Ils ont dévoilé, dans la tentative de créer une nouvelle organisation européenne sous l’égide de la France et de l’Angleterre, une menace d’immixtion dans les affaires intérieures des pays européens et de violation de leur souveraineté.

Ils ont démontré que le " plan Marshall " est en contradiction avec les principes normaux de coopération internationale, qu’il porte dans son sein la scission de l’Europe, la menace d’assujettissement d’un certain nombre de pays européens aux intérêts du capitalisme américain et qu’il est basé sur l’octroi préférentiel, par rapport aux Alliés, de secours aux consortiums et monopoles allemands à la reconstitution desquels le " plan Marshall " réserve avec évidence un rôle particulier en Europe.

Cette position claire de l’Union Soviétique a enlevé le masque au plan des impérialistes américains et de leurs commis anglo-français.

La Conférence européenne a subi un échec scandaleux.

Huit Etats européens ont refusé d’y participer.

Mais il y a eu aussi, parmi les Etats qui avaient accepté de participer à l’examen du " plan Marshall " et à l’élaboration de mesures concrètes pour sa réalisation, un certain nombre de pays qui n’ont pas fait un accueil particulièrement enthousiaste à ce " plan ", d’autant plus qu’on s’est bientôt aperçu que les suppositions de l’U.R.S.S. étaient entièrement justes, c’est-à-dire que ce plan est loin de comporter une aide effective et réelle.

Il se trouve que le gouvernement des Etats-Unis ne se presse pas du tout de réaliser les promesses de Marshall.

Des personnalités politiques américaines du Congrès ont reconnu que ce dernier ne discuterait pas avant 1948 les nouvelles sommes allouées pour les crédits promis à quelques pays européens.

Ainsi, il est devenu évident que l’Angleterre, la France et d’autres Etats de l’Europe occidentale, qui ont accepté le " schéma parisien de réalisation " du " plan Marshall ", sont tombés eux-mêmes victimes du chantage américain.

Cependant, les tentatives de former un bloc occidental sous l’égide de l’Amérique continuent.

Il faut noter que la variante américaine du bloc occidental ne peut pas ne pas rencontrer de sérieuses oppositions, même dans les pays qui dépendent déjà des Etats-Unis, tels que l’Angleterre et la France.

La perspective de restaurer l’impérialisme allemand en tant que force réelle capable de s’opposer à la démocratie et au communisme en Europe ne peut séduire ni l’Angleterre ni la France.

Nous nous trouvons là en présence d’une des principales contradictions intérieures du bloc Angleterre-Etats-Unis-France. Visiblement, les monopoles américains, comme toute la réaction internationale, n’estiment pas que Franco ou encore les fascistes grecs soient un rempart un tant soit peu sûr des Etats-Unis contre l’U.R.S.S. et les nouvelles démocraties en Europe.

C’est pourquoi ils nourrissent des espoirs particuliers sur la restauration de l’Allemagne capitaliste, considérant qu’elle constituerait la plus importante garantie pour le succès de la lutte contre les forces démocratiques en Europe. Ils n’ont confiance ni dans les " travaillistes " en Angleterre, ni dans les socialistes en France, estimant que, malgré toute leur complaisance, ils sont des " semi-communistes " n’ayant pas suffisamment mérité la confiance.

C’est pourquoi la question allemande, et en particulier celle du bassin de la Ruhr, base du potentiel militaire et industriel du bloc hostile à l’U.R.S.S., est la plus importante de la politique internationale et fournit un sujet de litige entre les Etats-Unis, l’Angleterre et la France.

Les appétits des impérialistes américains ne peuvent pas ne pas provoquer de sérieuses inquiétudes en Angleterre et en France.

Les Etats-Unis ont fait comprendre d’une manière non équivoque qu’ils veulent prendre la Ruhr aux Anglais.

Les impérialistes américains exigent aussi la fusion des trois zones d’occupation et veulent établir ouvertement l’isolement politique de l’Allemagne occidentale sous le contrôle américain.

Les Etats-Unis insistent pour que le niveau de production de l’acier soit élevé dans le bassin de la Ruhr sur la base du maintien des entreprises capitalistes sous l’égide des Etats-Unis.

Les crédits promis par Marshall pour la reconstruction de l’Europe sont compris à Washington de préférence comme aide aux impérialistes allemands.

Ainsi apparaît le " bloc occidental " qu’est en train de forger l’Amérique, non d’après le modèle du plan Churchill des Etats-Unis d’Europe, qui fut conçu comme instrument de la politique anglaise, mais comme protectorat américain dans lequel les Etats souverains d’Europe, y compris l’Angleterre elle-même, auront à jouer un rôle qui n’est pas si éloigné du rôle du fameux " 49e Etat d’Amérique ".

L’impérialisme américain traite l’Angleterre et la France de plus en plus insolemment et cyniquement. Les délibérations à deux et à trois sur les problèmes concernant la fixation du niveau de production industrielle de l’Allemagne occidentale (Angleterre-Etats-Unis, Etats-Unis-France), qui enfreignent arbitrairement les décisions de Potsdam, prouvent en même temps que les Etats-Unis ne tiennent nullement compte des intérêts vitaux de leurs partenaires en pourparlers. L’Angleterre, et surtout la France sont obligées d’entendre le diktat américain et de l’accepter avec résignation.

La conduite de la diplomatie américaine à Londres et à Paris, sous maints aspects, rappelle celle que l’on observe en Grèce, où les représentants américains n’estiment plus du tout nécessaire de respecter les convenances, nomment et déplacent comme bon leur semble les ministres grecs et se conduisent en conquérants.

Ainsi, le nouveau plan de " dawisation " de l’Europe est, au fond, dirigé contre les intérêts fondamentaux des peuples d’Europe ; c’est un plan d’asservissement et d’assujettissement de l’Europe aux Etats-Unis.

Le " plan Marshall " est dirigé contre l’industrialisation des pays démocratiques de l’Europe et, par conséquent, contre les fondements de leur indépendance.

En son temps, le plan de " dawisation " de l’Europe fut mis en échec, alors que les forces de la résistance au plan Dawes étaient bien inférieures à celles d’aujourd’hui. Maintenant, dans l’Europe d’après-guerre, il existe un nombre parfaitement suffisant de forces, sans parler de l’Union Soviétique, qui, si elles manifestent leur volonté et leur décision, peuvent faire échec à ce plan d’asservissement.

Il n’est question pour les peuples d’Europe que de faire preuve de volonté de résistance, d’être prêts à la résistance.

En ce qui concerne l’U.R.S.S., elle mettra toutes ses forces à empêcher la réalisation de ce plan.

L’appréciation que les pays du camp anti-impérialiste ont donnée du " plan Marshall " a été entièrement confirmée par la marche des événements.

Le camp des pays démocratiques s’est montré vis-à-vis du " plan Marshall " comme une force puissante qui veille à la sauvegarde de l’indépendance et de la souveraineté de tous les peuples européens, une force qui ne se laisse pas influencer par le chantage et l’intimidation, et qui, de même, ne se laisse pas tromper par les fausses manœuvres de la diplomatie du dollar.

Le gouvernement soviétique n’a jamais fait d’objection à l’utilisation de crédits étrangers, en particulier américains, en tant que moyen capable d’accélérer le processus de la reconstruction économique. Cependant, l’Union Soviétique s’en tient toujours à ce principe que les conditions de crédit ne portent pas un caractère d’asservissement, ne conduisent pas à l’asservissement économique et politique de l’Etat débiteur par l’Etat créditeur.

Ayant comme point de départ cette orientation politique, l’Union Soviétique a toujours défendu la position suivant laquelle les crédits étrangers ne doivent pas être l’instrument principal de la reconstitution de l’économie du pays.

La condition fondamentale et décisive de la reconstruction économique doit consister dans l’utilisation des ressources intérieures de chaque pays et dans la création de sa propre industrie.

Sur une telle base seulement peut être assurée l’indépendance du pays contre les atteintes de la part du capital étranger qui manifeste constamment sa tendance à utiliser le crédit comme instrument d’asservissement politique et économique.

Tel est précisément le " plan Marshall ", dirigé contre l’industrialisation des pays européens et visant, par conséquent, à saper leur indépendance.





IV

LES TÂCHES DES PARTIS COMMUNISTES POUR LE RASSEMBLEMENT DE TOUS LES ELEMENTS DEMOCRATIQUES, ANTIFASCISTES ET AMIS DE LA PAIX, DANS LA LUTTE CONTRE LES NOUVEAUX PLANS DE GUERRE ET D’AGRESSION





L’Union Soviétique défend inlassablement la thèse que les rapports politiques et économiques réciproques entre les différents Etats doivent s’édifier exclusivement sur les principes d’égalité des droits de chaque Etat et le respect réciproque de leur souveraineté.

La politique extérieure soviétique, et en particulier les rapports économiques soviétiques avec les Etats étrangers sont basés sur le principe d’égalité des droits, assurant dans les accords conclus des avantages bilatéraux. Les traités avec l’U.R.S.S. constituent des accords réciproquement avantageux pour les parties contractantes.

Ils ne contiennent jamais rien qui pourrait porter atteinte à l’indépendance de l’Etat, à la souveraineté nationale des parties contractantes. Cette distinction fondamentale des accords de l’U.R.S.S. avec les autres Etats saute nettement aux yeux, surtout maintenant à la lumière des accords injustes, basés sur l’inégalité des droits, que les Etats-Unis concluent et préparent.

La politique commerciale extérieure de l’Union Soviétique ne connaît pas d’accords fondés sur l’inégalité des droits.

Bien plus, le développement des rapports économiques de l’U.R.S.S. avec tous les Etats intéressés montre sur quelle base doivent s’établir des rapports normaux entre les Etats.

Il suffit de rappeler les traités que l’U.R.S.S. a conduis récemment avec la Pologne, la Yougoslavie, la Tchécoslovaquie, la Hongrie, la Bulgarie et la Finlande.

L’U.R.S.S. montre ainsi clairement les voies dans lesquelles l’Europe peut trouver une issue à sa situation économique difficile. L’Angleterre pourrait bénéficier d’un tel traité si le gouvernement travailliste, subissant la pression du dehors, n’avait pas laissé tomber l’accord en préparation avec l’U.R.S.S.

C’est un mérite indiscutable de la politique extérieure de l’U.R.S.S. et des pays de la nouvelle démocratie d’avoir démasqué le plan américain d’asservissement économique des pays européens.

Il faut, en outre, tenir compte de la circonstance suivante : l’Amérique elle-même se trouve devant la menace d’une crise économique.

La générosité officielle de Marshall a ses propres causes sérieuses. Si les pays européens ne reçoivent pas de crédits américains, la demande de marchandises américaines de la part de ces pays va diminuer, ce qui contribuera de son côté à accélérer et à renforcer la crise économique qui s’approche aux Etats-Unis.

C’est pourquoi, si les pays européens font preuve de la maîtrise nécessaire et de la volonté de résister aux conditions asservissantes de crédit, l’Amérique pourra se voir obligée de reculer.

La dissolution du Komintern 2, répondant aux exigences du développement du mouvement ouvrier dans les conditions de la nouvelle situation historique, a joué son rôle positif.

Par la dissolution du Komintern, il a été mis fin pour toujours à la calomnie répandue par les adversaires du communisme et du mouvement ouvrier, à savoir que Moscou s’immisce dans la vie intérieure des autres Etats et que, soi-disant, les Partis Communistes des différents pays n’agissent pas dans l’intérêt de leur peuple, mais d’après les ordres du dehors.

Le Komintern avait été créé après la Première Guerre mondiale, quand les Partis Communistes étaient encore faibles, quand la liaison entre la classe ouvrière des différents pays était presque inexistante et quand les Partis Communistes n’avaient pas encore de dirigeants du mouvement ouvrier généralement reconnus.

Le Komintern eut le mérite de rétablir et de raffermir les relations entre les travailleurs des différents pays, d’élaborer les positions théoriques du mouvement ouvrier dans les nouvelles conditions du développement d’après-guerre, d’établir les règles communes d’agitation et de propagande des idées du communisme et de faciliter la formation des dirigeants du mouvement ouvrier.

Ainsi ont été créées les conditions de la transformation des jeunes Partis Communistes en partis ouvriers de masse.

Cependant, à partir du moment où les partis communistes se transformèrent en partis ouvriers de masse, leur direction provenant d’un centre devenait impossible et non conforme au but.

On est arrivé à ceci que le Komintern, de facteur aidant au développement des Partis Communistes, avait commencé à se transformer en facteur freinant ce développement.

La nouvelle phase de développement des Partis Communistes exigeait de nouvelles formes de liaison entre les Partis. Ce sont ces circonstances qui ont déterminé la nécessité de la dissolution du Komintern et de l’organisation de nouvelles formes de liaison entre les Partis.

Pendant les quatre années qui se sont écoulées depuis la dissolution du Komintern, on enregistre un renforcement considérable des Partis Communistes, une extension de leur influence dans presque tous les pays de l’Europe et de l’Asie. L’influence des Partis Communistes s’est accrue non seulement dans les pays de l’Europe orientale, mais également dans presque tous les pays de l’Europe qui avaient connu la domination fasciste, ainsi que dans les pays comme la France, la Belgique, les Pays-Bas, la Norvège, le Danemark, la Finlande, etc., qui avaient connu l’occupation fasciste allemande. L’influence des communistes s’est renforcée tout particulièrement dans les pays de la nouvelle démocratie, où les Partis Communistes sont devenus les partis les plus influents de ces Etats.

Pourtant, dans la situation actuelle des Partis Communistes, il y a aussi des faiblesses propres.

Certains camarades avaient considéré la dissolution du Komintern comme signifiant la liquidation de toutes les liaisons, de tout contact entre les Partis Communistes frères.

Or, comme l’expérience l’a démontré, une pareille séparation des Partis Communistes n’est pas juste, mais nuisible et foncièrement contre nature.

Le mouvement communiste se développe dans les cadres nationaux, mais, en même temps, il est placé devant des tâches et des intérêts communs aux Partis Communistes des différents pays.

En fait, on se trouve devant un tableau bien étrange : les socialistes, qui se démènent farouchement pour prouver que le Komintern avait soi-disant dicté des directives de Moscou aux communistes de tous les pays, ont reconstitué leur Internationale, tandis que les communistes s’abstiennent de se rencontrer, et encore plus, de se consulter sur les questions qui les intéressent mutuellement, et tout cela par crainte de la calomnie des ennemis au sujet de la " main de Moscou ".

Les représentants des différentes branches d’activité — les savants, les coopérateurs, les militants syndicaux, les jeunes, les étudiants — estiment qu’il est possible d’entretenir entre eux un contact international, de faire des échanges de leurs expériences et de se consulter sur les questions concernant leurs travaux, d’organiser des conférences et des délibérations internationales, tandis que les communistes, même ceux des pays qui ont des relations d’alliés, se sentent gênés d’établir entre eux des relations d’amitié.

Il n’y a pas de doute que pareille situation, si elle se prolonge, ne soit grosse de conséquences très nuisibles au développement du travail des Partis frères.

Ce besoin de consultation et de coordination libre des activités des différents Partis est devenu particulièrement pressant, surtout maintenant, alors que la continuation de l’éparpillement pourrait conduire à l’affaiblissement de la compréhension réciproque et parfois même à des erreurs sérieuses.

[L’absence de liens entre nous, qui résulte dans un isolement mutuel, affaiblit indubitablement nos forces. En particulier, si on parle d’erreurs, il nous faut faire référence aux erreurs commises par les dirigeants des Partis Communistes de France et d’Italie envers la nouvelle campagne de l’impérialisme américain contre la classe ouvrière.

La direction du Parti Communiste français n’a pas démasqué et ne démasque pas de façon adéquate pour le peuple de son pays le plan Truman-Marshall, le plan américain d’esclavage de l’Europe, et de la France en particulier.

Le départ des communistes du Gouvernement Ramadier a été traité par le Parti Communiste comme un événement domestique, alors que la véritable raison de l’expulsion des communistes du Gouvernement était que celle-ci avait été exigée par l’Amérique.

Il est à présent devenu assez évident que l’expulsion des communistes du Gouvernement était la condition préalable pour que la France reçoive des crédits américains.

Un crédit américain de 250 millions de dollars était le prix modeste payé par la France pour renoncer à sa souveraineté nationale.

Comment le Parti Communiste français a-t-il réagi face à cet acte honteux des cercles dirigeants de France qui ont vendu la souveraineté nationale du pays ?

Au lieu de dénoncer comme honteuse, comme une trahison de la défense de l’honneur et de l’indépendance de la patrie, la conduite des autres partis, socialistes inclus, le Parti Communiste français a réduit la question à un problème de violation des pratiques démocratiques, qui s’exprimait par un empiétement sur les droits du parti le plus nombreux au Parlement français, alors que la violation de la tradition parlementaire était, dans ce cas, simplement le prétexte et non la cause.

Cet étouffement des raisons réelles pour lesquelles les communistes ont été exclus du Gouvernement constitue sans aucun doute une erreur sérieuse de la part de la direction du Parti Communiste français, et soit était dû à une mauvaise compréhension de la situation, et il est difficile de supposer que ça ait été le cas, soit les communistes français se sont laissés intimider par des arguments sur les intérêts " nationaux " de la France. Apparemment, les communistes craignaient qu’ils puissent être accusés de constituer un obstacle à l’octroi par l’Amérique d’un crédit à la France, et ainsi, de soi-disant nuire aux intérêts de leur pays.

De cette manière, les communistes ont cédé à un chantage qui leur reprochait de ne pas être suffisamment patriotique alors que la seule force patriotique en France aurait été le Parti Communiste, s’il avait démasqué la signification réelle du crédit américain, qui avait été conditionné à une modification de la composition du Gouvernement par l’exclusion des communistes, ce qui, partant, affaiblissait la souveraineté même de la France.

A€ cette occasion, le Parti Communiste français a cédé à la pression de la réaction, même s’il savait que cette pression était dictée par des forces impérialistes hostiles au peuple français.

Les communistes français auraient dû se présenter fièrement devant le peuple, dévoilant le rôle de l’impérialisme américain qui avait ordonné à la France d’expulser les communistes du Gouvernement national et expliquer au peuple qu’il ne s’agissait pas simplement d’une autre " crise gouvernementale ", pas d’une simple violation des traditions parlementaires (bien que cela soit aussi significatif en tant que caractéristique de la crise de la démocratie bourgeoise), mais d’un cas d’ingérence étrangère dans les affaires françaises, une abrogation de l’indépendance politique de la France, une vente de la souveraineté de la nation par les socialistes français.

Il est déplorable que les dirigeants responsables des communistes français aient échoué jusqu’ici à expliquer au peuple français et à l’opinion publique mondiale dans son ensemble la cause sous-jacente de ces événements qui ont eu lieu en France, et le rôle honteux joué dans cette question par les socialistes français.

Les communistes français ont accusé les socialistes de " glissement vers la droite ". Mais quel glissement vers la droite peut-il y avoir eu ? Blum 3 a-t-il jamais été de gauche ? Nous savons que Blum n’a jamais été de droite ni de gauche mais a toujours été, est et restera un serviteur loyal de la bourgeoisie, une courroie de transmission de l’influence de celle-ci dans le mouvement ouvrier.

En conséquence, il ne saurait glisser nulle part, et les camarades français ont évidemment échoué à discerner suffisamment clairement les manœuvres des dirigeants socialistes.

La triste expérience de la France a servi de signal pour une " crise gouvernementale " en Italie.

Exactement comme en France, la source principale de cette " crise gouvernementale ", créée artificiellement, était la question d’un crédit américain et la présentation par les cercles impérialistes américains, comme un préliminaire à celui-ci, d’une exigence d’expulsion des communistes du Gouvernement.

La presse italienne de droite a dévoilé ce secret sans vraiment de honte. " Si nous voulons vivre, écrivait le journal de droite italien Buon Senso, nous devons obtenir un prêt des U.S.A. " De cela, le journal tirait la conclusion : " La crise doit être résolue de façon à nous permettre de recevoir le crédit dont nous avons besoin.

Les arguments contraires sont sans fondement. Nous devons comprendre ce qui s’est passé en France, où les socialistes ont rompu avec les communistes et où ces derniers se sont laissés expulser des postes ministériels sans faire de scandale. "

L’annonce de la décision de De Gasperi 4 d’expulser les représentants du Parti Communiste italien du Gouvernement a provoqué les masses et a causé de multiples protestations. Mais malheureusement, on n’a pas soutenu ni dirigé suffisamment cette initiative des masses.

La conclusion qu’il faut tirer est que, en Italie comme en France, en surestimant les forces de la réaction, les communistes ont été les victimes de l’intimidation et du chantage impérialiste.

Ils ont sous-estimé leurs propres forces, les forces de la démocratie, la volonté des masses de défendre les droits nationaux et intérêts fondamentaux de leurs pays.

C’est d’autant plus décevant que tant les Partis Communistes français qu’italien ont démontré, dans des conditions difficiles, leur capacité à rallier autour de la bannière communiste les larges masses de la classe ouvrière, les paysans pauvres et l’intelligentsia.]

Puisque la plus grande partie des dirigeants des partis socialistes (surtout les travaillistes anglais et les socialistes français) se comporte comme agents de cercles impérialistes des Etats-Unis d’Amérique, c’est aux Partis Communistes qu’incombe le rôle historique particulier de se mettre à la tête de la résistance au plan américain d’asservissement de l’Europe et de démasquer résolument tous les auxiliaires intérieurs de l’impérialisme américain.

En même temps, les communistes doivent soutenir tous les éléments vraiment patriotiques qui n’acceptent pas de laisser porter atteinte à leur patrie, qui veulent lutter contre l’asservissement de leur patrie au capital étranger et pour la sauvegarde de la souveraineté nationale de leur pays.

Les communistes doivent être la force dirigeante qui entraîne tous les éléments antifascistes épris de liberté à la lutte contre les nouveaux plans expansionnistes américains d’asservissement de l’Europe.

Il importe de considérer qu’il y a très loin du désir des impérialistes de déclencher une nouvelle guerre à la possibilité d’organiser une telle guerre.

Les peuples du monde entier ne veulent pas la guerre.

Les forces attachées à la paix sont si grandes et si puissantes qu’il suffirait qu’elles fassent preuve de ténacité et de fermeté dans la lutte pour le défense de la paix pour que les plans des agresseurs subissent un fiasco total.

Il ne faut pas oublier que le bruit fait par les agents impérialistes autour des dangers de guerre tend à intimider les gens sans fermeté ou ceux à nerfs faibles, afin de pouvoir, au moyen du chantage, obtenir des concessions en faveur de l’agresseur.

Actuellement, le danger principal pour la classe ouvrière consiste en la sous-estimation de ses propres forces et en la surestimation des forces de l’adversaire.

De même que, dans le passé, la politique munichoise a encouragé l’agression hitlérienne, de même aujourd’hui, les concessions à la nouvelle orientation des Etats-Unis d’Amérique et du camp impérialiste, peuvent inciter ses inspirateurs à devenir plus insolents et plus agressifs.

C’est pourquoi les Partis Communistes doivent se mettre à la tête de la résistance dans tous les domaines — gouvernemental, économique et idéologique — aux plans impérialistes d’expansion et d’agression.

Ils doivent serrer leurs rangs, unir leurs efforts sur la base d’une plate-forme anti-impérialiste et démocratique commune, et rallier autour d’eux toutes les forces démocratiques et patriotiques du peuple.

Une tâche particulière incombe aux Partis Communistes frères de France, d’Italie, d’Angleterre et des autres pays. Ils doivent prendre en main le drapeau de la défense de l’indépendance nationale et de la souveraineté de leurs propres pays. Si les Partis Communistes frères restent fermes sur leurs positions, s’ils ne se laissent pas influencer par l’intimidation et le chantage, s’ils se comportent résolument en sentinelles de la paix durable et de la démocratie populaire, de la souveraineté nationale, de la liberté et de l’indépendance de leur pays, s’ils savent, dans leur lutte contre les tentatives d’asservissement économique et politique de leur pays, se mettre à la tête de toutes les forces disposées à défendre la cause de l’honneur et de l’indépendance nationale, aucun des plans d’asservissement de l’Europe ne pourra être réalisé.

[Parce que l’Union Soviétique se tient à la tête de la résistance aux nouvelles tentatives d’expansion impérialiste, les Partis Communistes frères doivent partir de la considération suivante : tout en renforçant leur situation politique dans leurs propres pays, c’est en même temps dans leur intérêt de renforcer la puissance de l’Union Soviétique, comme bastion principal de la démocratie et du socialisme.

Cette politique de soutien à l’Union Soviétique, en tant que force dirigeante dans la lutte pour une paix ferme et durable, dans la lutte pour la démocratie, doit être poursuivie par les Partis Communistes de façon honnête et franche.

Il faut souligner aussi fermement que possible que les efforts des Partis Communistes frères pour renforcer l’U.R.S.S. coïncident avec les intérêts vitaux de leurs propres pays.

Il est impossible d’accepter comme correcte l’insistance constante de certaines figures dirigeantes des Partis Communistes frères sur leur indépendance vis-à-vis de Moscou.

Il ne s’agit pas d’une question d’indépendance, car Moscou n’a mis et ne souhaite mettre personne dans une situation de dépendance.

L’insistance délibérée sur cette " indépendance " de Moscou, ce " renoncement " de Moscou, revient essentiellement à de la servilité, à de l’opportunisme envers ceux pour qui Moscou est l’ennemi.

Les Partis Communistes ne doivent pas avoir peur de proclamer bruyamment qu’ils soutiennent la politique pacifiste et démocratique de Moscou, ils ne doivent pas avoir peur de déclarer que la politique de l’Union Soviétique coïncide avec les intérêts des autres peuples épris de paix.]

{Il faut aussi faire mention des erreurs " de gauche ", si on peut utiliser ce terme, liées à la critique de l’aide soi-disant insuffisante offerte par l’Union Soviétique aux pays amis, et à l’affirmation d’exigences non fondées concernant l’étendue de cette aide.

Des erreurs de ce type ont été commises, en particulier dans les pays de nouvelle démocratie comme la Yougoslavie, et se manifestent par des déclarations selon lesquelles l’U.R.S.S., soi-disant sur base de considérations de haute politique, non désireuse d’endommager ses relations avec les grandes puissances, ne lutte pas avec suffisamment d’énergie pour soutenir les demandes des petits pays, en particulier la Yougoslavie.

Une critique comme celle-là naît de la sous-estimation de la grande importance et du grand rôle de l’Union Soviétique, qui ne peut pas et ne doit pas disperser des forces qui sont nécessaires pour des conflits plus importants.

Les exigences envers l’Union Soviétique selon lesquelles elle devrait, partout et dans tous les cas, soutenir n’importe quelle demande, même au prix d’amoindrir ses propres positions, sont sans fondement.}


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Documents annexés



COMMUNIQUE SUR LA CONFERENCE D’INFORMATION DES REPRESENTANTS DE QUELQUES PARTIS COMMUNISTES

LE DEVOIR ESSENTIEL DES PARTIS COMMUNISTES :
DEFENDRE, CONTRE LES PLANS IMPERIALISTES D’EXPANSION ET D’AGRESSION, L’HONNEUR ET LA SOUVERAINETE DE LEURS PAYS





À la fin du mois de septembre s’est tenue en Pologne une Conférence d’information avec la participation des partis suivants : le Parti Communiste de Yougoslavie : camarades E. Kardelj et M. Djilas ; le Parti Ouvrier Bulgare (communiste) : camarades V. Tchervenkov et V. Poptomov ; le Parti Communiste de Roumanie : camarades G. Dej et A. Pauker ; le Parti Communiste Hongrois : camarades M. Farkache et I. Reval ; le Parti Ouvrier Polonais : camarades W. Gomulka et H. Minc ; le Parti Communiste (bolchévik) de l’U.R.S.S. : camarades A. Jdanov et G. Malenkov ; le Parti Communiste Français : camarades J. Duclos et E. Fajon ; le Parti Communiste de Tchécoslovaquie : camarades R. Slanski et S. Bastovanski ; le Parti Communiste d’Italie : camarades L. Longo et E. Reale.

Les participants à la conférence ont entendu des rapports d’information sur l’activité des Comités Centraux des Partis représentés à la Conférence : pour le Parti Communiste de Yougoslavie, des camarades E. Kardelj et M. Djilas ; pour le Parti Ouvrier Bulgare (communiste), du camarade V. Tchervenkov ; pour le Parti Communiste de Roumanie, du camarade G. Dej ; pour le Parti Communiste Hongrois, du camarade I. Reval ; pour le Parti Ouvrier Polonais, du camarade W. Gomulka ; pour le Parti Communiste (bolchévik) de l’U.R.S.S., du camarade G. Malenkov ; pour le Parti Communiste Français, du camarade J. Duclos ; pour le Parti Communiste de Tchécoslovaquie, du camarade R. Slanski ; et pour le Parti Communiste d’Italie, du camarade L. Longo.

Ayant procédé à un échange de vues sur lesdits rapports, les participants à la conférence ont décidé d’examiner la situation internationale, ainsi que le problème de l’échange des expériences et de la coordination de l’activité des partis communistes représentés à la conférence.

Le rapport sur la situation internationale a été présenté par le camarade A. Jdanov. Les participants à la conférence ont échangé leurs opinions sur ledit rapport et constaté leur accord complet dans l’appréciation de la situation internationale actuelle et des tâches qui en découlent, après quoi ils ont adopté à l’unanimité une déclaration sur les problèmes de la situation internationale.

Le rapport sur l’échange des expériences et la coordination de l’activité des partis communistes a été présenté par le camarade W. Gomulka. En ce qui concerne ce problème, constatant les effets négatifs qui découlent de l’absence de contacts entre les partis représentés à la conférence, et tenant compte de la nécessité de l’échange mutuel de leurs expériences, la conférence a décidé la création d’un Bureau d’Information.

Le Bureau d’Information sera constitué de représentants des Comités Centraux des partis nommés ci-dessus.

Les tâches du Bureau d’Information consistent dans l’organisation de l’échange des expériences entre les partis intéressés et, en cas de nécessité, dans la coordination de leur activité sur la base d’un libre consentement.

Il a été décidé qu’un organe sera édité par le Bureau d’Information.

Le siège du Bureau d’Information et de la rédaction de son organe a été fixé à Belgrade.





DECLARATION SUR LES PROBLEMES DE LA SITUATION INTERNATIONALE





Les représentants du Parti Communiste de Yougoslavie, du Parti Ouvrier Bulgare (communiste), du Parti Communiste de Roumanie, du Parti Communiste Hongrois, du Parti Ouvrier Polonais, du Pari Communiste (bolchévik) de l’U.R.S.S., du Parti Communiste Français, du Parti Communiste de Tchécoslovaquie et du Parti Communiste d’Italie, après avoir échangé leurs vues sur les problèmes de la situation internationale, se sont mis d’accord sur la déclaration suivante :

Dans la situation internationale résultant de la Deuxième Guerre mondiale et de la période d’après-guerre, des changement essentiels sont intervenus.

Ces changements sont caractérisés par une nouvelle disposition des forces politiques fondamentales agissant sur l’arène internationale, par la modification des rapports entre les Etats vainqueurs dans la Seconde Guerre mondiale, par un nouveau regroupement de ces Etats.

Pendant la guerre contre l’Allemagne et le Japon, les Etats alliés marchaient ensemble et constituaient un seul camp. Cependant, il existait déjà dans le camp des alliés une différence dans la détermination des buts de la guerre, ainsi que dans la détermination des tâches relatives à l’organisation du monde après la guerre. Pour l’Union Soviétique et pour les autres pays démocratiques, les buts fondamentaux de la guerre comportaient le rétablissement, l’affermissement des régimes démocratiques en Europe, la liquidation du fascisme, les mesures propres à prévenir la possibilité d’une nouvelle guerre d’agression de la part de l’Allemagne, l’établissement d’une coopération dans tous les domaines et pour une longue période entre les peuples d’Europe. Les Etats-Unis d’Amérique et en accord avec eux l’Angleterre se fixaient d’autres buts de guerre, notamment l’éviction de leur concurrents sur les marchés (l’Allemagne, le Japon) et l’instauration de leur propre hégémonie. Ce désaccord dans la détermination des buts de la guerre et des tâches relatives à l’organisation du monde après la guerre n’a cessé de s’approfondir depuis la fin des hostilités. Deux lignes politiques opposées se sont manifestées : à l’un des pôles, la politique de l’U.R.S.S. et des autres pays démocratiques, qui vise à saper l’impérialisme et à renforcer la démocratie ; au pôle opposé, la politique des Etats-Unis et de l’Angleterre, qui vise à renforcer l’impérialisme et à étrangler la démocratie. Et parce que l’U.R.S.S. et les démocraties nouvelles sont devenues un obstacle à la réalisation des plans impérialistes de lutte pour la domination mondiale et pour l’écrasement des mouvements démocratiques, une croisade est organisée contre elles. Cette croisade s’accompagne de menaces d’une nouvelle guerre de la part des hommes politiques impérialistes les plus acharnés des Etats-Unis et de l’Angleterre.

Ainsi deux camps se sont formés dans le monde : d’une part, le camp impérialiste et antidémocratique, qui a pour but essentiel l’établissement de la domination mondiale de l’impérialisme américain et l’écrasement de la démocratie et, d’autre part, le camp anti-impérialiste et démocratique, dont le but essentiel consiste à saper l’impérialisme, à renforcer la démocratie, à liquider les restes du fascisme.

La lutte entre ces deux camps, entre le camp impérialiste et le camp anti-impérialiste, se déroule dans les conditions de l’accentuation continue de la crise générale du capitalisme, de l’affaiblissement des forces du capitalisme et de l’affermissement des forces du socialisme et de la démocratie.

C’est pour cela que le camp impérialiste et sa force dirigeante, les Etats-Unis, déploient une activité particulièrement agressive. Cette activité se développe à la fois sur tous les plans : sur le plan militaire et stratégique, sur le plan de l’expansion économique et sur le plan de la lutte idéologique. Le plan Truman-Marshall constitue seulement la partie européenne de la politique d’expansion que les Etats-Unis réalisent dans toutes les parties du monde. Au plan d’asservissement économique et politique de l’Europe par l’impérialisme américain s’ajoutent des plans d’asservissement économique et politique de la Chine, de l’Indonésie, des pays de l’Amérique du Sud. Les Etats-Unis préparent les agresseurs d’hier — les magnats capitalistes de l’Allemagne et du Japon — à jouer un nouveau rôle, le rôle d’instrument de la politique impérialiste des Etats-Unis en Europe et en Asie.

Le camp impérialiste a recours aux moyens tactiques les plus variés où se conjuguent la menace de l’emploi direct de la force, le chantage et les violences, toutes sortes de mesures de pression politique et économique, la corruption, l’utilisation des contradictions intérieures et des querelles pour renforcer les positions impérialistes. Tout cela est dissimulé sous le masque du libéralisme et du pacifisme en vue de tromper et de prendre au piège les gens sans expérience politique.

Parmi les moyens tactiques des impérialistes, une place particulière revient à l’utilisation de la politique de trahison des socialistes de droite du type Blum en France, Attlee et Bevin en Angleterre, Schumacher en Allemagne, Renner et Sherf en Autriche, Saragat en Italie, etc. Ils s’efforcent de dissimuler le caractère de brigandage de la politique impérialiste sous le masque de la démocratie et d’une phraséologie socialiste alors qu’ils ne sont en fait que les auxiliaires fidèles des impérialistes en suscitant la désagrégation dans les rangs de la classe ouvrière et en empoisonnant la conscience de cette dernière. Ce n’est pas par hasard que la politique extérieure de l’impérialisme anglais a trouvé en la personne de Bevin, son serviteur le plus conséquent et le plus zélé.

Dans ces conditions, le camp anti-impérialiste et démocratique se trouve devant la nécessité de s’unir, de se mettre librement d’accord sur un plan d’action commune, d’élaborer sa tactique contre les forces principales du camp impérialiste, contre l’impérialisme américain, contre ses alliés anglais et français, contre les socialistes de droite, avant tout en Angleterre et en France.

Les efforts de l’ensemble des forces démocratiques anti-impérialistes de l’Europe sont nécessaires pour mettre en échec le plan d’agression impérialiste. Les socialistes de droite se comportent en traîtres. À l’exception de ceux des pays de démocratie nouvelle, où le bloc des communistes et des socialistes avec les autres partis progressifs et démocratiques constitue la base de la résistance de ces pays aux plans impérialistes, les socialistes dans la plupart des autres pays et, avant tout, les socialistes français, et les labouristes anglais — Ramadier, Blum, Attlee et Bevin — facilitent par leur complaisance la tâche du capital américain, l’incitent aux actes de violence et conduisent leurs propres pays à l’état de vassaux dépendant des Etats-Unis. Dans ces conditions, les partis communistes ont pour devoir essentiel de prendre en main le drapeau de la défense de l’indépendance nationale et de la souveraineté de leur propre pays.

Si les partis communistes restent fermes sur leurs positions, s’ils ne se laissent pas influencer par l’intimidation et le chantage, s’ils se comportent résolument en sentinelles de la démocratie, de la souveraineté, de la liberté et de l’indépendance de leurs pays, s’ils savent dans leur lutte contre les tentatives d’asservissement économique et politique se mettre à la tête de toutes les forces disposées à défendre la cause de l’honneur national et de l’indépendance nationale, aucun des plans d’asservissement de l’Europe et de l’Asie ne pourra être réalisé.

Telle est, à l’heure actuelle, une des tâches principales des partis communistes.

Il importe de considérer qu’il y a très loin entre le désir des impérialistes de déclencher une nouvelle guerre et la possibilité d’organiser une telle guerre. Les peuples du monde entier ne veulent pas la guerre. Les forces attachées à la paix sont si grandes et si puissantes qu’il suffirait qu’elles fassent preuve de ténacité et de fermeté dans la lutte pour la défense de la paix pour que les plans des agresseurs subissent un fiasco total. Il ne faut pas oublier que le bruit fait par les agents impérialistes autour des dangers de guerre tend à intimider les gens sans fermeté ou ceux à nerfs faibles, afin de pouvoir, au moyen du chantage, obtenir des concessions en faveur de l’agresseur.

Le danger principal pour la classe ouvrière consiste actuellement dans la sous-estimation de ses propres forces et dans la surestimation des forces du camp impérialiste. De même que, dans le passé, la politique munichoise a encouragé l’agression hitlérienne, de même aujourd’hui, les concessions à la nouvelle politique des Etats-Unis, au camp impérialiste, peuvent inciter ses inspirateurs à devenir plus insolents et plus agressifs.

C’est pourquoi les partis communistes doivent se mettre à la tête de la résistance dans tous les domaines — gouvernemental, politique, économique et idéologique — aux plans impérialistes d’expansion et d’agression. Ils doivent serrer leurs rangs, unir leurs efforts sur la base d’une plate-forme anti-impérialiste et démocratique commune et rallier autour d’eux, toutes les forces démocratiques et patriotiques du peuple.





RESOLUTION SUR L’ECHANGE DES EXPERIENCES ET LA COORDINATION DE L’ACTIVITE DES PARTIS REPRESENTES À LA CONFERENCE





La Conférence constate que l’absence de contacts entre les Partis Communistes qui y sont représentés comporte dans la situation de sérieux inconvénients.

L’expérience a prouvé qu’un tel manque de liaison entre les Partis Communistes est grandement dommageable et ne saurait se justifier. La nécessité de l’échange des expériences et d’une coordination librement consentie de l’action des partis intéressés, revêt en ce moment une acuité particulière dans les conditions compliquées de la situation d’après-guerre où l’absence d’une liaison entre Partis Communistes peut conduire à une situation préjudiciable à la classe ouvrière.

En conséquence, les participants à la Conférence se sont mis d’accord sur ce qui suit :

1. Il sera crée un Bureau d’Information des représentants du Parti Communiste de Yougoslavie, du Parti Ouvrier Bulgare (communiste), du Parti Communiste de Roumanie, du Parti Communiste Hongrois, du Parti Ouvrier Polonais, du Parti Communiste (bolchévik) de l’U.R.S.S., du Parti Communiste Français, du Parti Communiste de Tchécoslovaquie, du Parti Communiste d’Italie.

2. Le Bureau d’Information aura pour tâche d’organiser l’échange des expériences et, en cas de nécessité, la coordination de l’activité des Partis Communistes sur la base d’un libre consentement.

3. Le Bureau d’Information sera composé de représentants des Comités Centraux à raison de deux pour chacun d’eux. Les délégués des Comités Centraux doivent être nommés et remplacés par les Comités Centraux intéressés.

4. Le Bureau d’Information éditera un organe bimensuel, et plus tard, hebdomadaire. L’organe sera édité en français et en russe et, dans la mesure des possibilités, en d’autres langues.

5. Le siège du Bureau d’Information est fixé à Belgrade.







Notes :

1. The Cominform — Minutes of the Three Conferences 1947/1948/1949, édité par Giuliano Procacci, Feltrinelli Editore (Milan, 1994), Appendix A, pp.451-457, 461.

2. L’Internationale Communiste (Komintern) fut dissoute en 1943.

3. Léon Blum : Dirigeant des socialistes français en 1947. En 1936, il a formé la coalition des socialistes radicaux, des socialistes et des communistes au sein du Front Populaire, qui a obtenu une majorité écrasante aux élections. Arrêté en 1940 par le gouvernement de Vichy, il a été emprisonné jusqu’à la fin de la guerre. En 1946-47, il a été brièvement à la tête d’un cabinet socialiste.

4. Alcide De Gasperi : premier ministre italien et fondateur du Parti Chrétien Démocrate. De 1945 à 1953, il a été premier ministre de huit gouvernements de coalition successifs, avec les Chrétiens Démocrates comme parti dominant. À ce titre, il a été le principal architecte de la restauration post-fasciste d’après-guerre. En 1947, De Gasperi a exclu les communistes et les socialistes de gauche du Gouvernement.
view post Posted: 2/11/2012, 17:38 Discussione sul film “Ivan il Terribile, Parte II” - Documenti biografici e opere minori
CITAZIONE (frenksx @ 2/11/2012, 00:31) 
a me sembra una conversazione fasulla...

Tutto potrebbe essere, considerando la fonte da cui è tratta. Tuttavia, il testo della conversazione è redatto in base agli appunti di Cerkassov ed è stato pubblicato anche su altri siti comunisti, come Revolutionary Democracy.
view post Posted: 2/11/2012, 14:20 Risoluzione dell’Ufficio di informazione - Scritti di altri autori
Da l’Unità, 29 giugno 1948:


Risoluzione dell’Ufficio di informazione
sulla situazione esistente nel Partito comunista di Jugoslavia


L’Ufficio di informazione, riunito con la partecipazione dei rappresentanti del Partito operaio (comunista) bulgaro, del Partito operaio rumeno, del Partito ungherese dei lavoratori, del Partito operaio polacco, del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica, del Partito comunista francese, del Partito comunista della Cecoslovacchia, e del Partito comunista italiano, esaminata la questione della situazione esistente nel Partito comunista della Jugoslavia, e constatato che i rappresentanti del Partito comunista della Jugoslavia hanno rifiutato di venire alla riunione dell’Ufficio di informazioni, ha approvato all’unanimità le conclusioni seguenti.

1. ― L’Ufficio di informazione rileva che la direzione del Partito comunista della Jugoslavia, nelle questioni principali di politica estera e interna segue in questi ultimi tempi una linea sbagliata, che costituisce un abbandono della dottrina marxista-leninista. In conseguenza di ciò, l’Ufficio di informazione approva l’azione del Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica, che ha preso l’iniziativa di metter in chiaro la politica sbagliata del Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia, e prima di tutto la politica sbagliata dei compagni Tito, Kardely, Gilas e Rankovic.

2. ― L’Ufficio di informazione constata che la direzione del Partito comunista della Jugoslavia segue una politica non amichevole nei confronti dell’Unione Sovietica e del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica. In Jugoslavia si è lasciato che si sviluppasse una indegna politica di diffamazione degli specialisti militari sovietici e di discredito dell’Esercito sovietico. Per gli specialisti civili sovietici è stato creato in Jugoslavia un regime speciale, in forza del quale sono stati sottoposti alla sorveglianza degli organi della polizia di Stato jugoslava, e sono stati pedinati da agenti di questa polizia. Sono stati pure sottoposti a un simile controllo e pedinamento da parte degli organi della polizia di Stato jugoslava il rappresentante nell’Ufficio di informazione del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica compagno Judin e parecchi rappresentanti ufficiali dell’Unione Sovietica in Jugoslavia.
Tutti questi fatti e altri consimili attestano che i dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia hanno preso una posizione indegna di comunisti, in forza della quale sono giunti a identificare la politica estera dell’Unione Sovietica con la politica estera delle potenze imperialistiche, e si comportano verso l’Unione Sovietica nello stesso modo che si comportano verso gli Stati borghesi. E’ appunto in conseguenza di questa posizione antisovietica che nel Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia si è diffusa una propaganda di calunnie sulla «degenerazione» del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica, sulla «degenerazione» dell’Unione Sovietica, ecc., propaganda presa a prestito dall’arsenale del trotzkismo controrivoluzionario.
L’Ufficio di informazione condanna questi orientamenti antisovietici dei dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia, che non sono compatibili col marxismo-leninismo e si addicono solo a dei nazionalisti.

3. ― Nella loro politica all’interno del paese i dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia abbandonano le posizioni della classe operaia e rompono con la teoria marxista delle classi e della lotta di classe. Essi negano il fatto dell’accrescimento degli elementi capitalistici nel loro paese e l’accentuazione della lotta di classe nelle campagne jugoslave che ne deriva. Questa negazione trae origine dalla posizione opportunistica secondo la quale nel periodo di transizione dal capitalismo al socialismo la lotta di classe non si inasprirebbe, come insegna il marxismo-leninismo, ma si attenuerebbe, come affermavano gli opportunisti tipo Bucharin, che predicavano la teoria di una pacifica integrazione del capitalismo nel socialismo.
I dirigenti jugoslavi seguono nelle campagne una politica sbagliata, ignorando la differenziazione di classe nelle campagne stesse e considerando i contadini individuali come un tutto uniforme, a dispetto della teoria marxista delle classi e della lotta di classe, a dispetto della nota tesi di Lenin secondo la quale la piccola azienda contadina genera costantemente, ogni giorno, ogni ora, spontaneamente e in massa, il capitalismo e la borghesia. La situazione politica nelle campagne jugoslave non offre alcun motivo per essere soddisfatti di sè e tranquilli. Nella situazione in cui in Jugoslavia predomina l’azienda contadina individuale, non vi è nazionalizzazione della terra, sussiste la proprietà privata e la compra e vendita della terra, notevoli estensioni di terreno sono concentrate nelle mani dei contadini ricchi (kulak), si impiega il lavoro salariato, ecc., — in questa situazione non si può educare il partito nello spirito di un indebolimento della lotta di classe e di una conciliazione dei contrasti di classe, senza in questo modo disarmare il partito stesso davanti alle difficoltà della costruzione del socialismo.
I dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia stanno scivolando dalla via marxista-leninista sulla via di un partito populista di contadini ricchi (kulak), a proposito della questione della funzione dirigente della classe operaia. Essi affermano infatti che i contadini «sono la base più solida dello Stato jugoslavo». Lenin insegna che «il proletariato, come unica classe rivoluzionaria sino all’ultimo nella società moderna… deve essere il dirigente, l’egemone nella lotta di tutto il popolo per una completa trasformazione democratica, nella lotta di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati contro gli oppressori e gli sfruttatori».
I dirigenti jugoslavi violano questa tesi del marxismo-leninismo.
Per quanto riguarda i contadini, la loro maggioranza, e cioè i contadini poveri e medi, possono essere o già sono alleati della classe operaia, ma in questa alleanza la direzione rimane a quest’ultima.
La posizione dei dirigenti jugoslavi indicata sopra viola queste tesi del marxismo-leninismo.
Come si vede questa posizione rivela delle opinioni che convengono a dei nazionalisti piccolo-borghesi, ma non a dei marxisti-leninisti.

4. ― L’Ufficio di informazione ritiene che la direzione del Partito comunista della Jugoslavia procede a una revisione della dottrina marxista-leninista del Partito. Secondo la teoria del marxismo-leninismo, il partito è nel paese la forza dirigente e orientatrice fondamentale, che ha il suo proprio programma e non si disperde nella massa senza partito. Il Partito è la forma più elevata di organizzazione e l’arma più importante della classe operaia. In Jugoslavia invece viene considerato forza dirigente nel paese non il Partito comunista, ma il Fronte popolare. I dirigenti jugoslavi abbassano la funzione del Partito comunista, disperdono di fatto il Partito nel Fronte popolare senza partito, il quale include in sè gli elementi di classe più diversi (operai, contadini, lavoratori con una azienda individuale, contadini ricchi, commercianti, piccoli imprenditori, intellettuali borghesi, ecc.) ed anche gruppi politici di varia natura, compresi persino alcuni partiti borghesi. I dirigenti jugoslavi persistono nel non voler riconoscere l’errore del loro orientamento, secondo il quale il Partito comunista della Jugoslavia non potrebbe e non dovrebbe avere il suo programma particolare, ma dovrebbe accontentarsi del programma del Fronte popolare.
Il fatto che in Jugoslavia si presenta sull’arena politica solo il Fronte popolare, mentre il Partito e le sue organizzazioni non agiscono apertamente e in nome proprio davanti al popolo, non solo abbassa la funzione del Partito nella vita politica del paese, ma scalza le basi del Partito come forza politica indipendente, chiamato a conquistare sempre più la fiducia del popolo, ad attirare sotto la sua influenza masse sempre più larghe di lavoratori con una attività politica aperta, con l’aperta propaganda delle sue posizioni e del suo programma. I dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia ripetono gli errori dei menscevichi russi circa la dispersione del Partito marxista nell’organizzazione delle masse senza partito. Tutto ciò attesta la esistenza in Jugoslavia di tendenze liquidatrici del Partito comunista.
L’Ufficio di informazione ritiene che questa politica del Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia minaccia la esistenza stessa del Partito comunista e, in ultima analisi, cela un pericolo di degenerazione della Repubblica popolare jugoslava.

5. ― L’Ufficio di informazione ritiene che il regime burocratico istaurato dai dirigenti jugoslavi all’interno del Partito è nefasto per la vita e per lo sviluppo del Partito comunista della Jugoslavia. Nel Partito non vi è democrazia interna, non vi è eleggibilità delle cariche, non vi è nè critica nè autocritica. Il Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia, nonostante le infondate asserzioni dei compagni Tito e Kardely, è composto in maggioranza di membri non eletti, ma cooptati. Il Partito comunista si trova di fatto in una situazione di semilegalità. Non si riuniscono assemblee di partito, oppure si riuniscono clandestinamente, il che non può non scalzare la influenza del Partito tra le masse. Questa forma di organizzazione del Partito comunista della Jugoslavia non può essere definita altrimenti che settaria e burocratica. Essa porta alla liquidazione del Partito come organismo attivo e indipendente, sviluppa nel Partito metodi militari di direzione, simili a quelli coltivati a suo tempo da Trotzki.
E’ assolutamente intollerabile che nel Partito comunista della Jugoslavia vengano calpestati i più elementari diritti dei membri del Partito, che la minima critica della falsa situazione interna del Partito abbia come conseguenza rappresaglie severe.
L’Ufficio di informazione considera vergognosi fatti quali l’espulsione dal partito e l’arresto dei compagni Giuiovic ed Hebrang, membri del Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia, per avere osato criticare gli orientamenti antisovietici dei dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia ed essersi espressi a favore dell’amicizia tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica.
L’Ufficio di informazione ritiene che non è tollerabile nel Partito comunista un così vergogno regime, di puro despotismo turco, e di terrorismo. Gli interessi della esistenza stessa e dello sviluppo del Partito comunista della Jugoslavia esigono che si ponga termine a un siffatto regime.

6. ― L’Ufficio di informazione ritiene che la critica degli errori del Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia fatta dal Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica e dai Comitati centrali di altri partiti comunisti è un aiuto fraterno dato al Partito comunista jugoslavo e crea per la direzione di questo partito tutte le condizioni necessarie per la rapida correzione degli errori commessi. Però, invece di accogliere onestamente questa critica e mettersi sulla via di una correzione bolscevica degli errori commessi, i dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia, in preda a una ambizione sfrenata, all’arroganza e alla presunzione, hanno accolto la critica con animosità e in modo ostile, si sono messi su una via antipartito negando in pieno i loro errori, hanno violato la dottrina del marxismo-leninismo circa lo atteggiamento del partito politico verso i suoi errori, e in questo modo hanno aggravato i loro errori contro il partito.
Trovatisi privi di argomenti di fronte alla critica del Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica e dei Comitati centrali di altri partiti fratelli, i dirigenti jugoslavi si sono messi sulla strada dell’inganno diretto del loro partito e del loro popolo, nascondendo al Partito comunista della Jugoslavia la critica della falsa politica del suo Comitato centrale, nascondendo inoltre al partito e al popolo le vere cause delle misure repressive contro i compagni Giuiovic e Hebrang.
In questi ultimi tempi, i dirigenti jugoslavi, già dopo la critica dei loro errori fatta dal Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica e dai partiti fratelli, hanno tentato di approvare per decreto una serie di nuove misure legislative di sinistra. Essi si sono affrettati a pubblicare una nuova legge per la nazionalizzazione della piccola industria e del piccolo commercio. La applicazione di questa legge non è stata preparata in nessun modo e questa precipitazione non può che ostacolare l’approvigionamento della popolazione jugoslava. Con la stessa precipitazione hanno pubblicato una nuova legge relativa all’imposta sul grano per i contadini, e anche questa legge, non essendo stata nemmeno essa preceduta da una adeguata preparazione, non può che compromettere il rifornimento di pane della popolazione delle città. Infine i dirigenti jugoslavi hanno recentemente proclamato in modo del tutto inatteso e rumoroso il loro amore e la loro devozione per l’Unione Sovietica, mentre è ben noto che in pratica hanno seguito finora una politica non amichevole verso l’Unione Sovietica.
Ma questo non è tutto. In questi ultimi tempi i dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia annunciano con molta sicumera una politica di liquidazione degli elementi capitalistici in Jugoslavia. In una lettera del 13 aprile al Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica, i compagni Tito e Kardely scrivono che «la riunione plenaria del Comitato centrale ha approvato delle misure, proposte dall’Ufficio politico, per la liquidazione dei residui del capitalismo nel paese».
In conformità con questo orientamento, Kardely, nel suo discorso del 25 aprile all’Assemblea della Repubblica federale popolare di Jugoslavia, dichiarava: «Nel nostro paese tutti i residui dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo hanno i giorni contati».
Questo orientamento dei dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia verso la liquidazione degli elementi capitalistici nelle odierne condizioni del paese, e quindi verso la liquidazione dei contadini ricchi (kulak) come classe, non può essere qualificato se non come una avventura non marxista. E’ infatti impossibile assolvere questo compito sino a che è predominante nel paese la azienda contadina individuale, la quale genera inevitabilmente il capitalismo; fino a che non sono preparate le condizioni per la collettivizzazione in massa della agricoltura e fino a che la maggioranza dei contadini lavoratori non si è convinta dei vantaggi del metodo collettivo di gestione agricola. La esperienza del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica attesta che solo sulla base della collettivizzazione in massa della agricoltura è possibile la liquidazione dell’ultima e più numerosa classe di sfruttatori, della classe cioè dei contadini ricchi (kulak); che la liquidazione dei contadini ricchi come classe è parte integrante e organica della collettivizzazione dell’agricoltura.
Per liquidare con successo i contadini ricchi come classe e quindi per liquidare gli elementi capitalistici nelle campagne, si richiede preliminarmente dal partito un lungo lavoro preparatorio, inteso a limitare gli elementi capitalistici nelle campagne, a rafforzare l’alleanza della classe operaia con i contadini sotto la guida della classe operaia, a sviluppare una industria socialista capace di organizzare la produzione delle macchine necessarie per la conduzione collettiva della agricoltura. In questo campo la precipitazione non può che recare danni irreparabili.
Solo sulla base di queste misure, accuratamente preparate e applicate in modo conseguente, è possibile il passaggio dalla limitazione degli elementi capitalistici nelle campagne alla loro liquidazione.
Qualsiasi tentativo dei dirigenti jugoslavi di assolvere questo compito con precipitazione e con decreti di tipo burocratico, non significa altro che una avventura sicuramente votata all’insuccesso, oppure una vanteria demagogica priva di qualsiasi contenuto.
L’Ufficio di informazione ritiene che i dirigenti jugoslavi, seguendo una tattica così falsa e demagogica, vogliono dimostrare che non solo sono sul terreno della lotta di classe, ma vanno al di là di quelle richieste che si sarebbero potute fare al Partito comunista jugoslavo nel campo della limitazione degli elementi capitalistici senza perdere di vista le possibilità reali.
L’Ufficio di informazione ritiene che queste dichiarazioni e questi decreti estremisti della direzione jugoslava, essendo nel momento attuale demagogici e non realizzabili, possono soltanto compromettere la bandiera della edificazione socialista in Jugoslavia.
Per questo l’Ufficio di informazione considera una simile tattica di avventura come una manovra indegna e come un giuoco politico inammissibile.
Come si vede le suddette misure e dichiarazioni estremiste e demagogiche dei dirigenti jugoslavi tendono a mascherare il loro rifiuto di riconoscere i loro errori e di correggerli onestamente.

7. ― Tenendo conto della situazione creatasi nel Partito comunista della Jugoslavia e nell’intento di offrire ai dirigenti di questo partito una via di uscita da questa situazione, il Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) dell’Unione Sovietica e i Comitati centrali di altri partiti fratelli avevano proposto di esaminare la questione della situazione esistente nel Partito comunista della Jugoslavia in una riunione dell’Ufficio di informazione, sulla base degli stessi principi normali di partito, secondo i quali era stata esaminata nella prima riunione dell’Ufficio di informazione l’attività di altri partiti comunisti. Ma i dirigenti jugoslavi hanno opposto un rifiuto alle ripetute proposte dei partiti comunisti fratelli di esaminare nell’Ufficio di informazione la situazione esistente nel Partito comunista della Jugoslavia.
Tentando di sfuggire alla giusta critica dei partiti fratelli nell’Ufficio di informazione, i dirigenti jugoslavi hanno inventato che essi non si sarebbero trovati «in condizioni di uguaglianza». Occorre dire che nulla di vero c’è in questa affermazione. A tutti è noto che quando venne organizzato l’Ufficio di informazione, i partiti comunisti sono partiti dalla tesi indiscutibile, secondo la quale ogni partito è tenuto a riferire all’Ufficio di informazione, così come ogni partito ha il diritto di criticare gli altri partiti. Alla prima riunione dei nove partiti comunisti, il Partito comunista della Jugoslavia ha utilizzato ampiamente questo suo diritto. Il rifiuto dei jugoslavi di riferire all’Ufficio di informazione circa la loro attività e di ascoltare le osservazioni critiche degli altri partiti comunisti, significa di fatto una violazione del principio della uguaglianza dei partiti comunisti, ed equivale alla richiesta di creare nell’Ufficio di informazione una condizione di privilegio per il Partito comunista della Jugoslavia.

8. ― Tenuto conto di tutto ciò che precede, l’Ufficio di informazione solidarizza con il giudizio sulla situazione esistente nel Partito comunista della Jugoslavia, con la critica degli errori del Comitato centrale di questo partito e con l’analisi politica di questi errori, quali sono stati esposti nelle lettere del Comitato centrale del Partito comunista (bolscevico) della Unione Sovietica al Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia nei mesi di marzo, aprile, maggio 1948.
L’Ufficio di informazione è unanime nel concludere che i dirigenti del Partito comunista della Jugoslavia, con le loro posizioni antisovietiche e antipartito, incompatibili con il marxismo-leninismo, con tutta la loro condotta e con il rifiuto di prendere parte alla riunione dell’Ufficio di informazione, si sono messi contro i partiti comunisti che fanno parte dell’Ufficio di informazione, si sono posti sulla via del distacco dal fronte unico socialista contro l’imperialismo, sulla via del tradimento della causa della solidarietà internazionale dei lavoratori e del passaggio alle posizioni del nazionalismo.
L’Ufficio di informazioni condanna questa politica contraria al partito e condanna la condotta del Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia.
L’Ufficio di informazione riconosce che, per tutto questo, il Comitato centrale del Partito comunista della Jugoslavia pone sè stesso e pone il Partito comunista jugoslavo fuori della famiglia dei partiti comunisti fratelli, fuori del fronte unico dei comunisti e, quindi, fuori delle file dell’Ufficio di informazione.

* * *


L’Ufficio di informazione ritiene che tutti questi errori della direzione del Partito comunista jugoslavo derivano dal fatto indiscutibile che nella direzione di questo partito, negli ultimi cinque-sei mesi, hanno preso apertamente il sopravvento elementi di nazionalismo che esistevano anche prima nascostamente; derivano dal fatto che la direzione del Partito comunista della Jugoslavia ha rotto le tradizioni internazionalistiche di questo partito e si è messa sulla strada del nazionalismo.
I dirigenti jugoslavi, sopravalutando fortemente le forze nazionali interne e le possibilità della Jugoslavia, credono di poter conservare l’indipendenza della Jugoslavia e di poter costruire il socialismo senza l’appoggio dei partiti comunisti degli altri paesi, senza l’appoggio dei paesi di nuova democrazia, senza l’appoggio dell’Unione Sovietica. Essi credono che la nuova Jugoslavia possa fare a meno dell’appoggio di queste forze rivoluzionarie.
Male orientandosi nella situazione internazionale e spaventati dalle minacce e dai ricatti degli imperialisti, i dirigenti jugoslavi ritengono, facendo una serie di concessioni agli Stati imperialistici, di potersi cattivare la benevolenza di questi Stati, di poter intendersi con essi circa l’indipendenza della Jugoslavia, e a poco a poco imporre ai popoli jugoslavi di orientarsi verso questi Stati, e cioè verso il capitalismo. Nel fare ciò essi partono tacitamente dalla nota tesi nazionalista borghese, secondo la quale «gli Stati capitalistici rappresentano per l’indipendenza della Jugoslavia un pericolo minore che l’Unione Sovietica».
I dirigenti jugoslavi probabilmente non comprendono, oppure fingono, forse, di non comprendere, che un simile orientamento nazionalista può soltanto portare alla degenerazione della Jugoslavia in una comune Repubblica borghese, alla perdita dell’indipendenza della Jugoslavia e alla sua trasformazione in una colonia dei paesi imperialistici.
L’Ufficio di informazione non dubita che in seno al Partito comunista della Jugoslavia vi sono abbastanza elementi sani, fedeli al marxismo-leninismo, fedeli alle tradizioni internazionalistiche del Partito comunista jugoslavo, fedeli al Fronte unico socialista.
Queste forze sane del Partito comunista della Jugoslavia hanno il compito di costringere i loro dirigenti attuali a riconoscere apertamente e onestamente i loro errori e a correggerli, di costringerli a rompere col nazionalismo, a ritornare allo internazionalismo e a rafforzare in tutti i modi il fronte unico socialista contro l’imperialismo, oppure, se i dirigenti attuali del Partito comunista della Jugoslavia si dimostreranno incapaci di farlo, hanno il dovere di cambiarli e di costituire una nuova direzione internazionalista del Partito comunista della Jugoslavia.
L’Ufficio di informazione non dubita che il Partito comunista della Jugoslavia saprà adempiere questo compito d’onore.

Edited by Andrej Zdanov - 2/5/2013, 14:52
view post Posted: 21/10/2012, 12:42 Marx ed Engels sull’insurrezione - Scritti di altri autori
Da Stalin, Opere Complete, vol. 1, Edizioni Rinascita, Roma, 1955, Marx ed Engels sull’insurrezione, pp. 277-282:


MARX ED ENGELS SULL’INSURREZIONE
(Luglio 1906)

Testo pubblicato in lingua georgiana come articolo firmato Koba sul n. 19 di Akhali Tskhovreba (La vita nuova) quotidiano bolscevico di Tiflis che uscì dal 20 giugno al 14 luglio 1906 sotto la direzione di Stalin.


Il menscevico N. Kh. sa che la fortuna arride agli audaci e... osa accusare ancora una volta i bolscevichi di blanquismo1 (Simartle,2 n. 7). Certo, in questo non v’è nulla di sorprendente. Gli opportunisti tedeschi Bernstein e Vollmar da molto tempo chiamano Kautsky e Bebel blanquisti. Gli opportunisti francesi Jaurès e Millerand da molto tempo accusano Guesde e Lafargue di blanquismo e di giacobinismo.3 Ciononostante, tutto il mondo sa che Bernstein, Millerand, Jaurès e altri sono opportunisti, che essi tradiscono il marxismo, mentre Kautsky, Bebel, Guesde, Lafargue e altri sono marxisti rivoluzionari. Che cosa c’è di sorprendente se gli opportunisti della Russia e il loro seguace N. Kh. imitano gli opportunisti d’Europa e ci chiamano blanquisti? Ciò significa soltanto che i bolscevichi sono, come Kautsky e Guesde, marxisti rivoluzionari.
Qui potremmo terminare il colloquio con N. Kh. Ma egli “approfondisce” la questione e cerca di dimostrare la sua tesi. Quindi non l’offenderemo e staremo ad ascoltare.
N. Kh. non è d’accordo con la seguente opinione dei bolscevichi: “Diciamo4 che il popolo delle città è imbevuto di odio verso il governo,5 esso può sempre insorgere e combattere se si presenta l’occasione. Ciò significa che quantitativamente noi siamo già pronti. Ma questo è ancora insufficiente. Perché l’insurrezione sia vittoriosa è necessario stabilire in precedenza il piano della lotta, elaborare in precedenza la tattica di combattimento, è necessario avere reparti organizzati, ecc.” (Akhali Tskhovreba, n. 6).
N. Kh. non è d’accordo con questo. Perché? Perché questo, secondo lui, è blanquismo. E così N. Kh. non vuol avere né una “tattica di combattimento”, né “reparti organizzati”, né un’azione organizzata: tutto ciò, a quanto pare, non è essenziale, è superfluo. I bolscevichi dicono che il solo “odio verso il governo è insufficiente”, che è “insufficiente” la sola coscienza, che bisogna anche avere “reparti e tattica di combattimento”. N. Kh. respinge tutto ciò dicendo che è blanquismo.
Ricordiamocene e andiamo avanti.
A N. Kh. non piace il seguente pensiero di Lenin: “Noi dobbiamo far tesoro dell’esperienza fatta nelle insurrezioni di Mosca, del Donez, di Rostov e delle altre insurrezioni, diffondere questa esperienza, preparare tenacemente e pazientemente nuove forze di combattimento, istruirle e temprarle in una serie di azioni partigiane di combattimento. La nuova esplosione non avverrà forse ancora in primavera, ma essa avverrà e con ogni probabilità non è troppo lontana. Noi dobbiamo affrontarla armati, militarmente organizzati, capaci di operazioni offensive risolute” (Partinye Izvestia).6
N. Kh. non è d’accordo con questo pensiero di Lenin. Perché? Perché questo, vedete un po’, è blanquismo!
Quindi secondo N. Kh. risulta che noi non dobbiamo “far tesoro dell’esperienza fatta nell’insurrezione di dicembre” e non dobbiamo “diffonderla”. In realtà l’esplosione s’approssima, ma secondo N. Kh. non dobbiamo “affrontarla armati”, non dobbiamo prepararci ad “operazioni offensive risolute”. Perché? Perché, verosimilmente, disarmati e impreparati vinceremo più presto! I bolscevichi dicono che ci si può attendere l’esplosione e che perciò è nostro dovere prepararci ad essa sia dal punto di vista della coscienza che dal punto di vista dell’armamento. N. Kh. sa che l’esplosione è probabile, ma tranne l’agitazione verbale non ammette altro e dubita perciò della necessità dell’armamento, lo ritiene superfluo. I bolscevichi dicono che è necessario immettere coscienza e organizzazione nell’insurrezione, che è iniziata in modo spontaneo e disunito. N. Kh. non riconosce neppure questo: vedete un po’, è blanquismo. I bolscevichi dicono che a un momento determinato sono necessarie “operazioni offensive risolute”. A N. Kh. non piacciono né la decisione né le operazioni offensive: tutto questo, vedete un po’, è blanquismo.
Ricordiamo tutto ciò e vediamo quale era l’atteggiamento di Marx ed Engels verso l’insurrezione armata.
Ecco che cosa scriveva Marx dopo il 1850: “Una volta incominciata l’insurrezione, si deve agire con la più grande decisione, passare all’offensiva. La difensiva è la morte di ogni insurrezione armata... Bisogna sorprendere gli avversari mentre le loro forze sono disperse e avere dei nuovi successi, sia pure piccoli, ma ogni giorno; bisogna conservare l’ascendente morale datovi dalla prima sollevazione vittoriosa; raccogliere così attorno a voi quegli elementi vacillanti, che seguono sempre la spinta più forte e si schierano sempre dalla parte che ha dei successi. Dovete costringere il nemico a ritirarsi prima che abbia potuto riunire le sue forze contro di voi. Insomma, seguite le parole di Danton, il più grande maestro di tattica rivoluzionaria finora conosciuto: De l’audace, de l’audace, encore de l’audace” (Saggi storici di K. Marx, pag. 95).7
Così parla il più grande dei marxisti, Karl Marx.
Come vedete, secondo Marx, chi vuole la vittoria dell’insurrezione deve prendere la via dell’offensiva. Ma noi sappiamo che chi prende la via dell’offensiva deve avere armamento, cognizioni militari e reparti addestrati: senza questo l’offensiva è impossibile. Per quanto riguarda le audaci operazioni offensive, esse, secondo Marx, sono la carne e il sangue di ogni insurrezione. N. Kh., invece, deride sia le audaci operazioni offensive sia la politica dell’offensiva sia i reparti organizzati sia la diffusione delle cognizioni militari; tutto questo, vedete un po’, è blanquismo! Ne consegue che N. Kh. è marxista e Marx blanquista! Povero Marx! Potesse egli levarsi dalla tomba e ascoltare il balbettio di N. Kh.!
E che cosa dice Engels dell’insurrezione? Engels, in un passo di un suo opuscolo, parlando, in polemica con gli anarchici, dell’insurrezione spagnola, dice: “La sollevazione, anche se cominciata in modo irriflessivo, aveva sempre grandi probabilità di successo, a condizione che fosse diretta con un po’ di buon senso, sia pure alla maniera delle rivolte militari spagnole, nel corso delle quali la guarnigione di una città si solleva, si dirige verso una città vicina, trascina con sé la guarnigione di questa città, già guadagnata alla causa in precedenza e ingrossando come una valanga, avanza verso la capitale, finché un combattimento favorevole o il passaggio agli insorti delle truppe inviate contro di essi determina la vittoria. Questo metodo era particolarmente applicabile in questo caso. Gli insorti erano dappertutto organizzati da molto tempo in battaglioni di volontari (udite, compagni, Engels parla di battaglioni!) con una disciplina a dir il vero molto debole, ma certo non inferiore a quella del vecchio esercito spagnolo, in gran parte sbandato. Le sole truppe sulle quali il governo poteva contare erano i gendarmi (guardias civiles) e questi erano sparsi per tutto il paese. Innanzitutto si doveva quindi impedire il concentramento dei gendarmi: e ciò poteva farsi soltanto iniziando l’offensiva e avventurandosi in campo aperto... (attenzione, attenzione, compagni!). E se si voleva vincere non c’era altro mezzo...”. Più avanti, Engels rimprovera i bakuninisti di aver elevato a principio ciò che si sarebbe dovuto evitare: “la dispersione e l’isolamento delle forze rivoluzionarie, che permetteva alle stesse truppe governative di schiacciare una rivolta dopo l’altra” (I bakuninisti al lavoro di F. Engels).8
Così parla il noto marxista Federico Engels... Battaglioni organizzati, politica dell’offensiva, organizzazione dell’insurrezione, unione delle diverse insurrezioni: ecco che cosa è indispensabile, secondo Engels, per la vittoria dell’insurrezione.
Ne consegue che N. Kh. è marxista ed Engels è blanquista! Povero Engels!
Come vedete, N. Kh. non conosce le idee di Marx e di Engels sull’insurrezione.
E questo non sarebbe ancora nulla. Noi affermiamo che la tattica proposta da N. Kh. svaluta e nega di fatto l’importanza dell’armamento, dei reparti rossi e delle cognizioni militari. Questa è la tattica dell’insurrezione disarmata. Questa tattica ci spinge alla “sconfitta di dicembre”. Perché a dicembre9 non avevamo armi, reparti, cognizioni militari, ecc.? Perché nel partito era molto diffusa la tattica dei compagni somiglianti a N. Kh...
Ma il marxismo e la vita reale smentiscono concordemente una simile tattica disarmata.
Così parlano i fatti.


NOTE

1. Seguaci di L.A. Blanqui (1805-1881), uno dei capi della rivoluzione francese del 1848. Passò gran parte della sua vita in carcere.

2. Simartle (La verità), quotidiano politico letterario dei menscevichi georgiani. Uscì a Tiflis nel 1906.

3. I giacobini, gruppo rivoluzionario durante la grande Rivoluzione francese che teneva le proprie riunioni a Parigi nell’ex convento dei domenicani o “giacobini” in rue Saint-Honoré. Di tendenza radicale, i giacobini avevano come massimi dirigenti Robespierre, Saint-Just e Marat.

4.* Qui N. Kh. ha sostituito alla parola “diciamo” la parola “quando”, ciò che muta alquanto il significato.

5.* Qui N. Kh. ha omesso le parole “verso il governo” (Akhali Tskhovreba, n. 6).

6. La citazione è presa dall’articolo di Lenin, La situazione attuale della Russia e la tattica del partito operaio (Opere, vol. 10), pubblicato la prima volta sul n. 1 del 7 febbraio 1906 di Partinye Izvestia (Notizie del partito), organo del Comitato centrale unificato del POSDR, di cui uscirono clandestinamente due numeri a Pietroburgo alla vigilia del quarto congresso del partito.

7. K. Marx-F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania (1852), in Opere complete, vol. 11.

8. F. Engels, Die Bakunisten an der Arbeit, pubblicato nel Volksstaat, 31 ottobre, 2 e 5 novembre 1873.

9. Nel dicembre 1905 scoppiò l’insurrezione armata di Mosca, che segnò il punto culminante della prima rivoluzione russa.

Edited by Andrej Zdanov - 21/10/2012, 14:04
view post Posted: 9/10/2012, 19:02 Su una critica “hoxhaista” dello “zdanovismo” - Articoli dei membri della Scuola quadri
Ho dato un'occhiata, interessante. Speriamo che il compagno Curatoli ed il suo gruppo portino a termine la traduzione dei verbali dei processi al più presto. Su sito di Noicomunisti è stato pubblicato integralmente anche la drammatica dichiarazione finale di Bukharin.
view post Posted: 8/10/2012, 14:08 Su una critica “hoxhaista” dello “zdanovismo” - Articoli dei membri della Scuola quadri
CITAZIONE
Volevo chiederti la fonte del documento sulle direttive datte da Trotski a Bressonov sull assassinio di Gorki. Si tratta del libro di Davis?

No, sono citate nei documenti ufficiali dei processi di Mosca. Io le ho tratte da una vecchia copia de l’Unità del 1938, nella quale erano riprodotti numerosi materiali sul processo del gruppo di Bukharin. Con una diversa traduzione, quelle direttive sono citate anche ne La grande congiura di M. Sayers, A. E. Kahn, in un paragrafo solo recentemente tradotto in italiano da un volenteroso compagno della Redazione Noicomunisti: http://noicomunisti.blogspot.it/2012/09/su...e-di-gorkj.html.
view post Posted: 6/10/2012, 19:28 A. ZHDANOV—THE INTERNATIONAL SITUATION - English
Source: www.directdemocracy4u.org/DDDEN/com/nov10_1947.html


A. ZHDANOV—THE INTERNATIONAL SITUATION*





1. The Post-War World Situation

The end of the Second World War brought with it big changes in the world situation. The military defeat of the bloc of fascist states, the character of the war as a war of liberation from fascism, and the decisive role played by the Soviet Union in the vanquishing of the fascist aggressors sharply altered the alignment of forces between the two systems—the Socialist and Capitalist—in favour of Socialism.

What is the essential nature of these changes?

The principal outcome of World War II was the military defeat of Germany and Japan—the two most militaristic and aggressive of the capitalist countries. The reactionary, imperialist elements all over the world, notably in Britain, America and France, had reposed great hopes in Germany and Japan, and chiefly in Hitler Germany: firstly as in a force most capable of inflicting a blow on the Soviet Union in order to, if not having it destroyed altogether, weaken it at least and undermine its influence; secondly, as in a force capable of smashing the revolutionary labour and democratic movement in Germany herself and in all countries singled our for Nazi aggression, and thereby strengthening capitalism generally. This was the chief reason for the pre-war policy of “appeasement” and encouragement of fascist aggression, the so-called Munich policy consistently pursued by the imperialist ruling circles of Britain, France and the United States.

But the hopes reposed by the British, French and American imperialists in the Hitlerites were not realized. The Hitlerites proved to be weaker, and the Soviet Union and the freedom-loving peoples stronger than the Munichists had anticipated. As a result of World War II the major forces of bellicose international fascist reaction had been smashed and put out of commission for a long time to come.

This was accompanied by another serious loss to the world capitalist system generally. Whereas the principal result of the World War I had been that the united imperialist front was breached and that Russia dropped out of the world capitalist system, and whereas, as a consequence of the triumph of the Socialist system in the U.S.S.R., capitalism ceased to be an integral, world-wide economic system. World War II and the defeat of fascism, the weakening of the world position of capitalism and the enhanced strength of the anti-fascist movement resulted in a number of countries in Central and Southeastern Europe dropping out of the imperialist system. In these countries new, popular democratic regimes arose. The impressive lesson given by the Patriotic War of the Soviet Union and the liberating role of the Soviet Army were accompanied by a mass struggle of the freedom-loving peoples for national-liberation from the fascist invaders and their accomplices. In the course of this struggle the pro-fascist elements, the collaborators with Hitler—the most influential of the big capitalists, large landowners, high officials and monarchist officers—were exposed as betrayers of the national interests. In the Danubian countries, liberation from German fascist slavery was accompanied by the removal from power of the top bourgeoisie and landlords, compromised by collaborating with German fascism, and by the rise to power of new forces from among the people who had proved their worth in the struggle against the Hitlerite conquerors. In these countries, representatives of the workers, the peasants and the progressive intellectuals took over power. Since the working class had everywhere displayed the greatest heroism, the greatest consistency and implacability in the struggle against fascism, its prestige and influence among the people have increased immensely.

The new democratic power in Yugoslavia, Bulgaria, Rumania, Poland, Czechoslovakia, Hungary and Albania, backed by the mass of the people, was able within a minimum period to carry through such progressive democratic reforms as bourgeois democracy is no longer capable of effecting. Agrarian reform turned over the land to the peasants and led to the elimination of the landlord class. Nationalization of large-scale industry and banks, and the confiscation of the property of traitors who had collaborated with the Germans radically undermined the position of monopoly capital in these countries and redeemed the masses from imperialist bondage. Together with this, the foundation was laid of state, national ownership, and a new type of state was created—the people’s republic, where the power belongs to the people, where large-scale industry, transport and banks are owned by the state, and where a bloc of labouring classes of the population, headed by the working class, constitute a leading force. As a result, the peoples of these countries have not only torn themselves from the clutches of imperialism, but are paving the way for entry onto the path of Socialist development.

The war immensely enhanced the international significance and prestige of the U.S.S.R. The U.S.S.R. was the leading force and the guiding spirit in the military defeat of Germany and Japan. The progressive democratic forces of the whole world rallied around the Soviet Union. The socialist state successfully stood the strenuous test of the war and emerged victorious from the mortal struggle with a most powerful enemy. Instead of being enfeebled, the U.S.S.R. has became stronger.

The capitalist world has also undergone a substantial change. Of the six so-called great imperialist powers (Germany, Japan, Britain, the U.S.A., France and Italy), three have been eliminated by military defeat (Germany, Italy and Japan). France has also been weakened and has lost its significance as a great power. As a result, only two “great” imperialist world powers remain—the United States and Britain. But the position of one of them, Great Britain, has been undermined. The war revealed that militarily and politically British imperialism was not so strong as it had been. In Europe, Britain was helpless against German aggression. In Asia, Britain, one of the biggest of the imperialist powers, was unable to retain hold of her colonial possessions without outside aid. Temporarily cut off from colonies that supplied her with food and raw materials and absorbed a large part of her industrial products, Britain found herself dependent, militarily and economically, upon American supplies of food and manufactured goods. After the war, Britain became increasingly dependent, financially and economically, on the United States. Although she succeeded in recovering her colonies after the war, Britain found herself faced there with the enhanced influence of American imperialism, which during the war had invaded all the regions that before the war had been regarded as exclusive spheres of influence of British capital (the Arab East, Southeast Asia). America has also increased her influence in the British dominions and in South America, where the former role of Britain is very largely and to an ever increasing extent passing to the United States.

World War II aggravated the crisis of the colonial system, as expressed in the rise of a powerful movement for national liberation in the colonies and dependencies. This has paced the rear of the capitalist system in jeopardy. The peoples of the colonies no longer wish to live in the old way. The ruling classes of the metropolitan countries can no longer govern the colonies on the old lines. Attempts to crush the national liberation movement by military force now increasingly encounter armed resistance on the part of the colonial peoples and lead to protracted colonial wars (Holland—Indonesia, France—Viet Nam).

The war—itself a product of the unevenness of capitalist development in different countries—still further intensified this unevenness. Of all the capitalist powers, only one—the United States—emerged from the war not only unweakened, but even considerably stronger economically and militarily. The war greatly enriched the American capitalists. The American people on the other hand, did not experience the privations that accompany war, the hardship of occupation, or aerial bombardment; and since America entered the war practically in its concluding stage, when the issue was already decided, her human casualties were relatively small. For the U.S.A., the war was primarily and chiefly a spur to extensive industrial development and to a substantial increase of exports (principally to Europe).

But the end of the war confronted the United States with a number of new problems. The capitalist monopolies were anxious to maintain their profits at the former high level, and accordingly pressed hard to prevent a reduction of the wartime volume of deliveries. But this meant that the United States must retain the foreign markets had absorbed American products during the war, and moreover, acquire new markets, inasmuch as the war had substantially lowered the purchasing power of most of the countries. The financial and economic dependence of these countries on the U.S.A. has likewise increased. The United States extended credits abroad to a sum of 19,000 million dollars, not counting investments in the International Bank and the International Monetary Fund. America’s principal competitors, Germany and Japan, have disappeared from the world market, and this has opened up new and very considerable opportunities for the United States. Whereas before World War II, the most influential reactionary circles of American imperialism had adhered to an isolationist policy and had refrained from active interference in the affairs of Europe and Asia, in the new, post-war conditions, the Wall Street bosses adopted a new policy. They advanced a program of utilizing America’s military and economic might, not only to retain and consolidate the positions won abroad during the war, but to expand them to the maximum, and to replace Germany, Japan and Italy in the world market. The sharp decline of the economic power of other capitalist states makes it possible to speculate on their post-war economic difficulties, and, in particular, on the post-war economic difficulties of Great Britain, which makes it easier to bring these countries under American control. The United States proclaimed a new frankly predatory and expansionist course.

The purpose of this new, frankly expansionist course is to establish the world supremacy of American imperialism. With a view to consolidating America’s monopoly position in the markets gained as a result of the disappearance of her two biggest competitors, Germany and Japan, and the weakening of her capitalist partners, Great Britain and France, the new course of United States policy envisages a broad program of military, economic and political measures, designed to establish United States political and economic domination in all countries marked out for American expansion, to reduce these countries to the status of satellites of the United States, and to set up regimes within them which would eliminate all obstacles on the part of the labour and democratic movement to the exploitation of these countries by American capital. The United States is now endeavouring to extend this new line of policy not only on its enemies in the war and to neutral countries, but in an increasing degree to its wartime allies.

Special attention is being paid to exploitation of the economic difficulties of Britain, which is not only America’s ally but also a long-standing capitalist rival and competitor. It is the design of America’s expansionist policy not only to prevent Britain from escaping from the wise of economic dependence on the United States in which she was gripped during the war, but, on the contrary, to increase the pressure, with a view of gradually depriving her of control over her colonies, ousting her from her spheres of influence, and reducing her to the status of a vassal power.

Thus the new policy of the United States is designed to consolidate its monopoly position and to reduce its capitalist partners to a state of subordination and dependence on America.

But America’s aspirations to world supremacy encounter an obstacle in the U.S.S.R., the stronghold of anti-imperialist and anti-fascist policy, and its growing international influence, in the new democracies, which have escaped from control of British and American imperialism, and in the workers of all countries, including America itself, who do not want a new war for the supremacy of their oppressors. Accordingly, the new expansionist and reactionary policy of the United States envisages a struggle against the U.S.S.R., against the labour movement in all countries, including the United States, and against the emancipationist, anti-imperialist forces in all countries.

Alarmed by the achievements of Socialism in the U.S.S.R., by the achievements of the new democracies, and by the post-war growth of the labour and democratic movement in all countries, the American reactionaries are disposed to take upon themselves the mission of “saviours” of the capitalist system from Communism.

The frank expansionist program of the United States is therefore highly reminiscent of the reckless program, which failed so ignominiously, of the fascist aggressors, who, as we know, also made a bid for world supremacy.

Just as the Hitlerites, when they were making their preparations for piratical aggression, adopted the camouflage of anti-Communism in order to make it possible to oppress and enslave all peoples and primarily and chiefly their own people, America’s present-day ruling circles mask their expansionist policy, and even their offensive against the vital interests of their weaker imperialist rival, Great Britain, by fictitious considerations of defence against Communism. The feverish piling up of armaments, the construction of new military bases and the creation of bridgeheads for American armed forces in all parts of the world is justified on the false and pharisaical grounds of “defence” against an imaginary threat of war on the part of the U.S.S.R. With the help of intimidation, bribery and chicanery, American diplomacy finds it easy to extort from other capitalist countries, and primarily from Great Britain, consent to the legitimization of America’s superior position in Europe and Asia—in the Western zones of Germany, in Austria, Italy, Greece, Turkey, Egypt, Iran, Afghanistan, China, Japan and so forth.

The American imperialists regard themselves as the principal force opposed to the U.S.S.R., the new democracies and the labour and democratic movement in all countries of the world, as the bulwark of the reactionary, anti-democratic forces in all parts of the globe. Accordingly, literally on the day following the conclusion of World War II, they set to work to build up a front hostile to the U.S.S.R. and world democracy, and to encourage the anti-popular, reactionary forces— collaborationists and former capitalist stooges—in the European countries which had been liberated from the Nazi yoke and which were beginning to arrange their affairs according to their own choice.

The more malignant and unbalanced imperialist politicians followed the lead of Churchill in hatching plans for the speedy launching of a preventive war against the U.S.S.R. and openly called for the employment of America’s temporary monopoly of the atomic weapon against the Soviet people. The new warmongers are trying to intimidate and browbeat not only the U.S.S.R., but other countries as well, notably China and India, by libellously depicting the U.S.S.R. as a potential aggressor while they themselves pose as “friends” of China and India, as “saviours” from the Communist peril, their mission being to “help” the weak. By these means they are seeking to keep India and China under the sway of imperialism and in continued political and economic bondage.



II. The New Post-War Alignment of Political Forces and the Formation of Two Camps: the Imperialist and Anti-Democratic Camp, and the Anti-Imperialist and Democratic one.




The fundamental changes caused by the war on the international scene and in the position of individual countries has entirely changed the political landscape of the world. A new alignment of political forces has arisen. The more the war recedes into the past, the more distinct become two major trends in post-war international policy, corresponding to the division of the political forces operating on the international arena into two major camps: the imperialist and anti-democratic camp, on the one hand and the anti-imperialist and democratic camp, on the other. The principal driving force of the imperialist camp is the U.S.A. Allied with it are Great Britain and France. The existence of the Attlee-Bevin Labour Government in Britain and the Ramadier Socialist Government in France does not hinder these countries from playing the part of satellites of the United States and following the lead of its imperialist policy on all major questions. The imperialist camp is also supported by colony-owning countries, such as Belgium and Holland, by countries with reactionary anti-democratic regimes such as Turkey and Greece, and by countries politically and economically dependent on the United States, such as the Near- Eastern, South-American countries and China.

The cardinal purpose of the imperialist camp is to strengthen imperialism, to hatch a new imperialist war, to combat Socialism and democracy, and to support reactionary anti-democratic pro-fascist regimes and movements everywhere.

In the pursuit of these ends the imperialist camp is prepared to rely on reactionary and anti- democratic forces in countries, and to support its former adversaries in the war against its wartime allies.

The anti-fascist forces comprise the second camp. This camp is based on the U.S.S.R. and the new democracies. It also includes countries that have broken with imperialism and have firmly set foot on the path of democratic development, such as Rumania, Hungary and Finland. Indonesia and Viet Nam are associated with it; it has the sympathy of India, Egypt and Syria. The anti-imperialist camp is backed by the labour and democratic movement and by the fraternal Communist parties in all countries, by the fighters for national liberation in the colonies and dependencies, by all progressive and democratic forces in every country. The purpose this camp is to resist the threat of new wars and imperialist expansion, to strengthen democracy and to extirpate the vestiges of fascism.

The end of the Second World War confronted all the freedom-loving nations with the cardinal task of securing a lasting democratic peace sealing victory over fascism. In the accomplishment of this fundamental task of the post-war period the Soviet Union and its foreign policy are playing a leading role. This follows from the very nature of the Soviet Socialist State, to which motives of aggression and exploitation are utterly alien, and which is interested in creating the most favourable conditions for the building of a Communist society. One of these conditions is external peace. As embodiment of a new and superior social system, the Soviet Union reflects in its foreign policy the aspirations of progressive mankind, which desires lasting peace and has nothing to gain from a new war hatched by capitalism. The Soviet Union is a staunch of the liberty and independence of all nations, and a foe of national and racial oppression and of colonial exploitation in any shape or form. The change in the general alignment of forces between the capitalist world and the Socialist world brought about by the war has still further enhanced the significance of the foreign policy of the Soviet state and enlarged the scope of its activity on the international arena.

All the forces of the anti-imperialist and anti-fascist camp have united in the effort to secure a just and democratic peace. It is this united effort that has brought about and strengthened friendly co-operation between the U.S.S.R. and democratic countries on all questions of foreign policy. These countries, and in the first place the new democracies—Yugoslavia, Poland, Czechoslovakia and Albania, which played a big part in the war of liberation from Fascism, as well as Bulgaria, Rumania, Hungary and to some extend Finland, which have joined the anti-fascist front—have proved themselves in the post-war period staunch defenders of peace, democracy and their own liberty and independence against all attempts on the part of United States and Great Britain to turn them back in their course and to bring them again under the imperialist yoke.

The successes and the growing international prestige of the democratic camp were not to the liking of the imperialists. Even while World War II was still on, reactionary forces in Great Britain and the United States became increasingly active, striving to prevent concerted action by the Allied powers, to protract the war, to bleed the U.S.S.R., and to save the fascist aggressors from utter defeat. The sabotage of the Second Front by the Anglo-Saxon imperialists, headed by Churchill, was a clear reflection of this tendency, which was in point of fact a continuation of the Munich policy in the new and changed conditions. But while the war was still in progress British and American reactionary circles did not venture to come out openly against the Soviet Union and the democratic countries, realizing that they had the undivided sympathy of the masses of the masses all over the world. But in the concluding months of the war, the situation began to change. The British and American imperialists already manifested their unwillingness to respect the legitimate interests of the Soviet Union and the democratic countries at the Potsdam tripartite conference, in July 1945.

The foreign policy of the Soviet Union and the democratic countries in these two past years has been a policy of consistently working for the observance of the democratic principles in the post-war settlement. The countries of the anti-imperialist camp have loyally and consistently striven for the implementation of these principles, without deviating from them one iota. Consequently, the major objective of the post-war foreign policy of the democratic states has been a democratic peace, the eradication of the vestiges of fascism and the prevention of a resurgence of fascist imperialist aggression, the recognition of the principle of the equality of nations and respect for their sovereignty, and general reduction of all armaments and the outlawing of the most destructive weapons, those designed for the mass slaughter of the civilian population. In their effort to secure these objectives Soviet diplomacy and the diplomacy of the democratic countries met with the resistance of Anglo-American diplomacy, which since the war has persistently and unswervingly striven for the rejection of the general principles of the post-war settlement proclaimed by the Allies during the war, and to replace the policy of peace and consolidation of democracy by a new policy aiming at violating general peace, protecting fascist elements, and persecuting democracy in all countries.

Of immense importance are the joint efforts of the diplomacy of the U.S.S.R. and that of the other democratic countries to secure a reduction of armaments and the outlawing of the most destructive of them—the atom bomb.

On the initiative of the Soviet Union, a resolution was moved in the United Nations calling for a general reduction of armaments and the recognition, as a primary task, of the necessity to prohibit the production and use of atomic energy for warlike purposes. This motion of the Soviet Government was fiercely resisted by the United State and Great Britain. All the efforts of the imperialist elements were concentrated on sabotaging this decision by erecting endless and fruitless obstacles and barriers, with the object of preventing the adoption of any effective practical measures. The activities of the delegates of the U.S.S.R. and the other democratic countries in the agencies of the United Nations bear the character of a systematic, stubborn day-to-day struggle for democratic principles of international co-operation, for the exposure of the intrigues of the imperialist plotters against the peace and security of the nations.

This was openly demonstrated, for example, in the discussion of the situation on Greece’s northern frontiers. The Soviet Union and Poland vigorously objected to the Security Council being used as a means of discrediting Yugoslavia, Bulgaria and Albania, who are falsely accused by the imperialists of aggressive acts against Greece.

Soviet foreign policy proceeds from the fact of the co-existence for a long period of the two systems—capitalism and socialism. From this it follows that co-operation between the U.S.S.R. and the countries with other systems is possible, provided that principle of reciprocity is observed and that obligations once assumed are honoured. Everyone knows that the U.S.S.R. has always honoured the obligations it has assumed. The Soviet Union has demonstrated its will and desire for co-operation.

Britain and America are pursuing the very opposite policy in the United Nations. They are doing everything they can to renounce their commitments and to secure a free hand for the prosecution of a new policy, a policy which envisages not co-operation among the nations, but the hounding of one against the other, violation of the rights and interests of democratic nations, and the isolation of the U.S.S.R.

Soviet policy follows the line of maintaining loyal, good-neighbour relations with all states that display the desire for co-operation. As to the countries that are its genuine friends and allies, the Soviet Union has always behaved, and will always behave, as their true friend and ally. Soviet foreign policy envisages a further extension of friendly aid by the Soviet Union to these countries.

Soviet foreign policy, defending the cause of peace, discountenances a policy of vengeance towards the vanquished countries.

It is known that the U.S.S.R. is in favour of a united, peace-loving demilitarized and democratic Germany. Comrade Stalin formulated the Soviet policy towards Germany when he said: »In short, the policy of the Soviet Union on the German Question reduces itself to the demilitarization and democratization of Germany. The demilitarization and democratization of Germany is one of the most important guarantees for the establishment of a solid and lasting peace«. However, this policy of the Soviet Union towards Germany is being encountered by frantic opposition from the imperialist circles in the United States and Great Britain.

The meeting of the Council of Foreign Ministers in Moscow in March and April 1947 demonstrated that the United States, Great Britain and France are prepared not only to prevent the democratic reconstruction and demilitarization of Germany, but even to liquidate her as an integral state, to dismember her, and to settle the question of peace separately.

Today this policy is being conducted under new conditions, now that America has abandoned the old course of Roosevelt and is passing to a new policy, a policy of preparing for new military adventures.


III. The American Plan for The Enthrallment of Europe.



The aggressive and frankly expansionist course to which American imperialism has committed itself since the end of World War II find expression in both the foreign and home policy of the United States. The active support rendered to the reactionary, anti-democratic forces all over the world, the sabotage of the Potsdam decisions which call for the democratic reconstruction of Germany, the protection given to Japanese reactionaries, the extensive war preparations and the accumulation of atomic bombs—all this goes hand in hand with an offensive against the elementary democratic rights of the working people in the United States itself.

Although the U.S.A. suffered comparatively little from the war, the vast majority of the Americans do not want another war, with its accompanying sacrifices and limitations. This has induced monopoly capital and its servitors among the ruling circles in the United States to resort to extraordinary means in order to crush the opposition at home to the aggressive expansionist course and to secure a free hand for the further prosecution of this dangerous policy.

But the crusade against Communism proclaimed by America’s ruling circles with the backing of the capitalist monopolies leads as a logical consequence to attacks on the fundamental rights and interests of the American working people, to the fascization of America’s political life, and to the dissemination of the most savage and misanthropic “theories” and views. Dreaming about preparing for a new war, a third world war, American expansionist circles are vitally interested in stifling all possible resistance within the country to adventures abroad, in poisoning the minds of the politically backward and unenlightened American masses with the virus of chauvinism and militarism, and in stultifying the average American with the help of all the diverse means of anti-Soviet and anti-Communist propaganda—the cinema, the radio, the church and the press. The expansionist foreign policy inspired and conducted by the American reactionaries envisages simultaneous action along the lines:

1) strategical military measures,

2) economic expansion, and

3) ideological struggle.

Realization of the strategical plans for future aggression is connected with the desire to utilize to the utmost the war production facilities of the United States, which had grown to enormous proportions by the end of World War II. American imperialism is persistently pursuing a policy of militarizing the country. Expenditure on the U.S. army and navy exceeds 11,000 million dollars per annum. In 1947-48, 35 per cent of America’s budget was appropriated for the armed forces, or eleven times more than in 1937-1938.

On the outbreak of World War II American army was seventeenth largest in the capitalist world; today it is the largest one. The United States is not only accumulating stocks of atomic bombs; American strategists say quite openly that it is preparing for bacteriological weapons.

The strategical plans of the United States envisage the creation in peace-time of numerous bases and vantage grounds situated at great distances from the American continent and designed to be used for aggressive purposes against the U.S.S.R. and the countries of the new democracy. America has built, or is building air and naval bases in Alaska, Japan, Italy, South Korea, China, Egypt, Iran, Turkey, Greece, Austria and Western Germany. There are American military missions in Afghanistan and even in Nepal. Feverish preparations are being made to use the Arctic for purposes of military aggression.

Although the war has long since ended, the military alliance between Britain and the United States and even a combined Anglo-American military staff continue to exist. Under the guise of agreement for the standardisation of weapons, the United States has established its control over the armed forces and military plans of other countries, notably of Great Britain and Canada. Under the guise of joint defence of the Western Hemisphere the countries of Latin America are being brought into the orbit of America’s plans of military expansion. The United States government has officially declared that it has committed itself to assist in the modernisation of the Turkish Army. The army of the reactionary Kuomintang is being trained by American instructors and armed with American material. The military circles are becoming an active political force in the United States, supplying large numbers of government officials and diplomats who are directing the whole policy of the country into an aggressive military course.

Economic expansion is an important supplement to the realization of America’s strategical plan. American imperialism is endeavouring, like a usurer, to take advantage of the post-war difficulties of the European countries, in particular of the shortage of raw materials, fuel and food in the Allied countries that suffered most from the war, to dictate to them extortionate terms for any assistance rendered. With an eye to the impending economic crisis, the United States is in a hurry to find new monopoly spheres of capital investment and markets for its goods. American economic “assistance” pursues the broad aim of bringing Europe into bondage to American capital. The more drastic the economic situation of a country is, the harsher are the terms which the American monopolies endeavour to dictate to it.

But economic control logically leads to political subjugation to American imperialism. Thus the United States combines the extension of monopoly markets for its goods with the acquisition of new bridgeheads for its fight against the new democratic forces of Europe. In “saving” a country from starvation and collapse, the American monopolies at the same time seek to rob it of all vestige of independence. American “assistance” automatically involves a change in the policy of the country to which it is rendered: parties and individuals come to power that are prepared on directions from Washington, to carry out a program of home and foreign policy suitable to the United States (France, Italy, and so on).

Lastly, the aspiration to world supremacy and an the anti-democratic policy of the United States involve an ideological struggle. The principal purpose of the ideological part of the American strategical plan is to deceive public opinion by slanderously accusing the Soviet Union and the new democracies of aggressive intentions, and thus representing the Anglo-Saxon bloc in a defensive role and absolving it of responsibility for preparing a new war. During the Second World War the popularity of the Soviet Union in foreign countries was enormously enhanced. Its devoted and heroic struggle against imperialism earned it the affection and respect of working people in all countries. The military and economic might of the Socialist State, the invincible strength of the moral and political unity of Soviet Society were graphically demonstrated to the whole world. The reactionary circles in the United States and Great Britain are anxious to erase the impression made by the Socialist system on the working people of the world. The warmongers fully realize that long ideological preparation is necessary before they can get their soldiers to fight the Soviet Union.

In their ideological struggle against the U.S.S.R. the American imperialists, who have no great insight into political questions, demonstrate their ignorance by laying primary stress on the allegation that Soviet Union is undemocratic and totalitarian, while the United States and Great Britain and the whole capitalist world are democratic. On this platform of ideological struggle—on this defence of bourgeois pseudo-democracy and condemnation of Communism as totalitarian—are united all the enemies of the working class without exception, from the capitalist magnates to the Right Socialist leaders, who seize with the greatest eagerness on any slanderous imputations against the USSR suggested to them by their imperialist masters. The pith and substance of this fraudulent propaganda is the claim that the earmark of true democracy is the existence of a plurality of parties and of an organized opposition minority. On these grounds the British Labourites, who spare no effort in their fight against Communism, would like to discover antagonistic classes and a corresponding struggle of parties in the USSR. Political ignoramuses that they are, they cannot understand that capitalists and landlords, antagonistic classes, and hence a plurality of parties, have long ceased to exist in the USSR. They would like to have in the USSR the bourgeois parties which are so dear to their hearts, including pseudo-socialistic parties, as an agency of imperialism. But to their bitter regret these parties of the exploiting bourgeoisie have been doomed by history to disappear from the scene.

The Labourites and other advocates of bourgeois democracy will go to any length to slander the Soviet regime, but at the same time they regard the bloody dictatorship of the fascist minority over the people in Greece and Turkey as perfectly normal, they close their eyes to many crying violations even of formal democracy in the bourgeois countries, and say nothing about the national and racial oppression, the corruption and the unceremonious abrogation of democratic rights in the United States of America.

One of the lines taken by the ideological “campaign” that goes hand in hand with the plans for the enslavement of Europe is an attack on the principle of national sovereignty, an appeal for the renouncement of the sovereign rights of nations, to which is opposed the idea of a “world government.” The purpose of this campaign is to mask the unbridled expansion of American imperialism, which is ruthlessly violating the sovereign rights of nations, to represent the United States as a champion of universal laws, and those who resist American penetration as believers in a obsolete and “selfish” nationalism. The idea of a “world government” has been taken up by bourgeois intellectual cranks and pacifists, and is being exploited not only as a means of pressure, with the only purpose of ideologically disarming the nations that defend their independence against the encroachments of American imperialism, but also as a slogan specially directed against the Soviet Union, which indefatigably and consistently upholds the principle of real equality and protection of the sovereign rights of all nations, big and small. Under present conditions imperialist countries like U.S.A., Great Britain and the states closely associated with them become dangerous enemies of national independence and the self-determination of nations, while the Soviet Union and the new democracies are a reliable bulwark against encroachments on the equality and self-determination of nations.

It is a noteworthy fact that American military-political intelligence agents of the Bullitt breed, yellow trade union leaders of the Green brand, the French Socialists headed by that inveterate apologian of capitalism. Blum, the German social-democrat Schumacher, and Labour leaders of the Bevin type are all united in close fellowship in carrying out the ideological plan of American imperialism.

At this present juncture the expansionist ambitions of the United States find concrete expression in the “Truman doctrine” and the “Marshall plan”. Although they differ in form of presentation, both are an expression of a single policy, they are both an embodiment of the American design to enslave Europe.

The main features of the “Truman doctrine,” as applied to Europe are as follows:

1. Creation of American bases in the Eastern Mediterranean with the purpose of establishing American supremacy in that area.

2. Demonstrative support of the reactionary regimes in Greece and Turkey as bastions of American imperialism against the new democracies in the Balkans (military and technical assistance to Greece and Turkey, the granting of loans).

3. Unintermitting pressure on the countries of the new democracy, as expressed in false accusations of totalitarianism and expansionist ambitions, in attacks on the foundations of the new democratic regime, in constant interference in their domestic affairs, in support of all anti-national, anti-democratic elements within these countries, and in the demonstrative breaking off of economic relations with these countries with the idea of creating economic difficulties, retarding their economic development, preventing their industrialization, and so on.

The “Truman doctrine”, which provides for the rendering of American assistance to all reactionary regimes which actively oppose the democratic peoples, bears a frankly aggressive character. Its announcement caused some dismay even among circles of American capitalists that are accustomed to anything. Progressive public elements in the U.S.A. and other countries vigorously protested against the provocative, and frankly imperialistic character of Truman’s announcement.

The unfavourable reception which the “Truman doctrine” was met with accounts for the necessity of the appearance of the “Marshall Plan”, which is a more carefully veiled attempt to carry through the same expansionist policy.

The vague and deliberately guarded formulations of the “Marshall plan”, amount in essence to a scheme to create a bloc of states bound by obligations to the United States, and to grant American credits to European countries as a recompense for their renunciation of economic and then of political independence. Moreover, the cornerstone of the “Marshall Plan” is the restoration of the industrial areas of Western Germany controlled by the American monopolies.

It is the design of the “Marshall Plan”, as transpired from the subsequent talks and the statements of American leaders, to render aid in the first place, not to the impoverished victor countries, America’s allies in the fight against Germany, but to the German capitalists, with the idea of bringing under American sway the major sources of coal and iron needed by Europe and by Germany, and of making the countries which are in need of coal and iron dependent on the restored economic might of Germany.

In spite of the fact that the “Marshall Plan” envisages the ultimate reduction of Britain and France to the status of second-rate powers, the Attlee Labour government in Britain and the Ramadier Socialist government in France clutched at the “Marshall Plan” as at an anchor of salvation. Britain as we know, has already practically used up the American loan of a 3,750,000,000 dollars granted to her in 1946. We also know that the terms of this loan were so onerous as to bind Britain hand and foot. Even when already caught in the noose of financial dependence on the USA, the British Labour government could conceive of no other alternative than the receipt of new loans. It therefore hailed the “Marshall Plan” as a way out of the economic impasse, as a chance of securing fresh credits. The British politicians, moreover, hoped to take advantage of a creation of a bloc of Western European debtor countries of the United States to play within this bloc the role of America’s chief agent, who might perhaps profit at the expense of weaker countries. The British bourgeoisie hoped, by using the “Marshall Plan”, by rendering service to the American monopolies and submitting to their control, to recover its lost positions in a number of countries, in particular in the countries of the Balkan-Danubian area.

In order to lend the American proposals a specious gloss of “impartiality,” it was decided to enlist as one of the sponsors of the implementation of the “Marshall Plan” France, as well which had already half sacrificed her sovereignty to the United States, inasmuch as the credit she obtained from America in May 1947 was granted on the stipulation that the Communists would be eliminated from the French Government.

Acting on instructions from Washington, the British and French governments invited the Soviet Union to take part in a discussion of the Marshall proposals. This step was taken in order to mask the hostile nature of the proposals with respect to the USSR. The calculation was that, since it was well known beforehand that the USSR would refuse American assistance on the terms proposed by Marshall, it might be possible to shift the responsibility on the Soviet Union for “declining to assist the economic restoration of Europe,” and thus incite against the USSR the European countries that are in need of real assistance. If, on the other hand, the Soviet Union should consent to take part in the talks, it would be easier to lure the countries of East and South-East Europe into the trap of the “economic restoration of Europe with American assistance.” Whereas the Truman plan was designed to terrorize and intimidate these countries, the “Marshall Plan” was designed to test their economic staunchness, to lure them into a trap and then shackle them in the fetters of dollar “assistance”.

In that case, the “Marshall Plan” would facilitate one of the most important objectives of the general American program, namely, to restore the power of imperialism in the countries of the new democracy and to compel them to renounce close economic and political co-operation with the Soviet Union.

The representatives of the USSR, having agreed to discuss the Marshall proposals in Paris with the governments of Great Britain and France, exposed at the Paris Conference the unsoundness of attempting to work out an economic program for the whole of Europe, and showed that the attempt to create a new European organization under the aegis of France and Britain was a threat to interfere in the internal affairs of the European countries and to violate their sovereignty. They showed that the “Marshall Plan” was in contradiction to the normal principles of international co-operation, that it harboured the danger of splitting Europe and the threat of subjugating a number of European countries to American capitalist interests, that it was designed to give priority of assistance to the monopolistic concerns of Germany over the Allies, and that the restoration of these concerns was obviously designated in the “Marshall Plan” to play a special role in Europe.

This clear position of the Soviet Union stripped the mask from the plan of the American imperialists and their British and French coadjutors.

The all-European conference was a resounding failure. Nine European states refused to take part in it. But even in the countries that consented to participate in the discussion of the “Marshall Plan” and in the working out of concrete measures for its realization, it was not greeted with any special enthusiasm, all the more so since it was soon discovered that the USSR was fully justified in its supposition that what the plan envisaged was far from real assistance. It transpired that, in general, the U.S. government was in no hurry to carry out Marshall’s promises. U.S. Congress leaders admitted that Congress would not examine the question of granting new credits to European countries before 1948.

It thus became evident that in accepting the Paris scheme for the implementation of the “Marshall Plan”, Britain, France and other European states themselves fell dupes to American chicanery.

Nevertheless, the efforts to build up a western bloc under the aegis of America are being continued.

It should be noted that the American variant of the Western bloc is bound to encounter serious resistance even in countries already so dependent on the United States as Britain and France. The prospect of the restoration of German imperialism, as an effective force capable of opposing democracy and Communism in Europe, cannot be very alluring either to Britain or to France. Here we have one of the major contradictions within the Anglo-French-American bloc. Evidently, the American monopolies, and the international reactionaries generally, do not regard France and Greek fascists as a very reliable bulwark of the United States against the USSR and the new democracies in Europe. They are, therefore, staking their main hopes on the restoration of capitalist Germany, which they consider would be a major guarantee of the success of the fight against the democratic forces of Europe. They trust neither the British Labourites nor the French Socialists, whom, in spite of their manifest desire to please, they regard as “semi-Communists”, insufficiently worthy of confidence.

It is for this reason that the question of Germany and, in particular of the Ruhr as a potential war-industrial base of a bloc hostile to the USSR, is playing such an important part in international politics and is an apple of discord between the USA and Britain and France.

The appetites of the American imperialists cannot but cause serious uneasiness in Britain and France. The United States has unambiguously given it to be understood that it wants to take the Ruhr out of the hands of the British. The American imperialists are also demanding that the three occupation zones be merged, and that the political separation of Western Germany under American control be openly implemented. The United States insists that the level of steel output in the Ruhr must be increased, with the capitalist firms under American aegis. Marshall’s promise of credits for European rehabilitation is interpreted in Washington as a promise of priority assistance to the German capitalists.

We thus see that America is endeavouring to build a “Western bloc” not on the pattern of Churchill’s plan for a United States of Europe, which was conceived as an instrument of British policy, but as an American protectorate in which sovereign European states, not excluding Britain itself, are assigned a role not very far removed from that of the “49th State of America”. American imperialism is becoming more and more arrogant and unceremonious in its treatment of Britain and France. The bilateral, and trilateral talks regarding the level of industrial production in Western Germany (Great Britain—USA, USA—France), apart from constituting an arbitrary violation of the Potsdam decisions and, are a demonstration of the complete indifference of the United States to the vital interests of its partners in the negotiations. Britain and especially France, are compelled to listen to the America’s dictates and to obey them without a murmur. The behaviour of American diplomats in London and Paris has come to be highly reminiscent of their behaviour in Greece, where American representatives already considering it quite unnecessary to observe the elementary decencies appoint and dismiss Greek ministers at will and conduct themselves as conquerors. Thus the new plan for the Dawesization of Europe essentially strikes at the vital interests of the peoples of Europe and represents a plan for the enthrallment and enslavement of Europe by the United States.

The “Marshall Plan” strikes at the industrialization of the democratic countries of Europe, and hence at the foundations of their integrity and independence. And if the plan for the Dawesization of’ Europe was doomed to failure, at a time when the forces of resistance to the Dawes Plan were much weaker they are now, today, in post-war Europe, there are quite sufficient forces, even leaving aside the Soviet Union, and if they display the will and the determination they can fell this plan of enslavement. All that is needed is the determination and readiness of the peoples of Europe to resist. As to the USSR, it will bend every effort in order that this plan be doomed to failure.

The assessment given by the countries of the anti-imperialist camp of the “Marshall Plan” has been completely confirmed by the whole course of developments. In relation to the “Marshall Plan”, the camp of democratic countries have proved that they are a mighty force standing guard over the independence and sovereignty of all European nations, that they refuse to yield to brow-beating and intimidation, just as they refuse to be deceived by the hypocritical manoeuvres of dollar diplomacy.

The Soviet government has never objected to using foreign, and in particular American credits as a means capable of expediting the process of economic rehabilitation. However, the Soviet Union has always taken the stand that the terms of credits must not be extortionate, and must not result in the economic and political subjugation of the debtor country to the creditor country. From this political stand, the Soviet Union has always held that foreign credits must not be the principal means of restoring a country’s economy. The chief and paramount condition of a country’s economic rehabilitation must be the utilisation of its own internal forces and resources and the creation of its own industry. Only in this way can its independence be guaranteed against encroachments on the part of foreign capital, which constantly displays a tendency to utilise credits as an instrument of political and economic enthrallment. Such precisely is the “Marshall Plan”, which would strike at the industrialisation of the European countries and is consequently designed to undermine their independence.

The Soviet Union unswervingly holds the position that political and economic relations between states must be built exclusively on the basis of equality of the parties and mutual respect for their sovereign rights. Soviet foreign policy and, in particular, Soviet economic relations with foreign countries, are based on the principle of equality, on the principle that agreements must be of advantage to both parties. Treaties with the USSR are agreements that are of mutual advantage to both parties, and never contain anything that encroaches on the national independence and sovereignty of the contracting parties. This fundamental feature of the agreements of the USSR with other states stands out particularly vividly just now, in the light of the unfair and unequal treaties being concluded or planned by the United States. Unequal agreements are alien to Soviet foreign trade policy. More, the development of the Soviet Union’s economic relations with all countries interested in such relations demonstrates on what principles normal relations between states should be built. Suffice it to recall the treaties recently concluded by the USSR with Poland, Yugoslavia, Czechoslovakia, Hungary, Bulgaria and Finland. In this way the USSR has clearly shown along what lines Europe may find the way out of its present economic plight. Britain might have had a similar treaty, if the Labour Government had not, under outside pressure, frustrated the agreement with the USSR, the agreement which was already on its way to conclusion.


The exposure of the American plan for the economic enslavement of the European countries is an undisputable service rendered by the foreign policy of the USSR and the new democracies.

It should be borne in mind that the America herself is threatened with an economic crisis. There are weighty reasons for Marshall’s official generosity. If the European countries do not receive American credits, their demand for American goods will diminish, and this will tend to accelerate and intensify the approaching economic crisis in the United States. Accordingly, if the European countries display the necessary stamina and readiness to resist the enthralling terms of the American credit. America may find herself compelled to beat a retreat.



IV. The Tasks of the Communist Parties Uniting the Democratic, Anti-Fascist, Peace-Loving Elements to Resist the New Plans of War and Aggression




The dissolution of the Comintern, which conformed to the demands of the development of the labour movement in the new historical situation, played a positive role. The dissolution of the Comintern once and for all disposed of the slanderous allegation of the enemies of Communism and the labour movement that Moscow was interfering in the internal affairs of other states, and that the Communist Parties in the various countries acting not in the interests of their nations, but on orders from outside.

The Comintern was founded after the first world war, when the Communist Parties were still weak, when practically no ties existed between the working classes of the different countries, and when the Communist Parties had not yet produced generally recognized leaders of the labour movement. The service performed by the Comintern was that it restored and strengthened the ties between the working people of the different countries, that it elaborated theoretical questions of the labour movement in the new, post-war conditions of development that it established general standards of propaganda of the ideas of Communism, and that it facilitated the preparation of leaders of the labour movement. This created the conditions for the conversion of the young Communist Parties into mass labour parties. But once the young Communist Parties had become mass labour parties, the direction of these parties from one centre became impossible and inexpedient. As a result, the Comintern, from a factor promoting the development of the Communist Parties began to turn into a factor hindering their development. The new stage in the development of the Communist Parties demanded new forms of contact among the parties. It was these considerations that made it necessary to dissolve the Comintern and to devise new forms of connection between the parties.

In the course of the four years that have elapsed since the dissolution of the Comintern, the Communist Parties have grown considerably in strength and influence in nearly all the countries of Europe and Asia. The influence of the Communist Parties has increased not only in Eastern Europe, but in practically all European countries were fascism held sway, as well as in those which were occupied by the German fascists—France, Belgium, Holland, Norway, Denmark, Finland etc. The influence of the Communists has increased especially in the new democracies, where the Communist Parties are among the most influential parties in the state.

But the present position of the Communist Parties has its shortcomings. Some comrades understood the dissolution of the Comintern to imply the elimination of all ties, of all contact between the fraternal Communist Parties. But experience has shown that such mutual isolation of the Communist Parties is wrong, harmful and, in point of fact, unnatural. The Communist movement develops within national frameworks, but there are tasks and interests common to the parties of various countries. We get a rather curious state of affairs: the Socialists, who stopped at nothing to prove that the Comintern dictated directives from Moscow to the Communists of all countries, have restored their International; yet Communists even refrained from meeting one another, let alone consulting with one another on questions of mutual interest to them, from fear of the slanderous talk of their enemies regarding the “hand of Moscow”. Representatives of the most diverse fields of endeavour—scientist, cooperators, trade unionists, the youth, students—deem it possible to maintain international contact, to exchange experience and consult with one another on matters relating to their work, to arrange international congresses and conferences; yet the Communists, even of countries that are bound together as allies, hesitate to establish friendly ties. There can be no doubt that if the situation were to continue it would be fraught with most serious consequences to the development of the work of the fraternal parties. The need for mutual consultation and voluntary coordination of action between individual parties has become particularly urgent at the present juncture when continued isolation may lead to a slackening of mutual understanding, and at times, even to serious blunders.

In view of the fact that the majority of the leaders of the Socialist parties (especially the British Labourites and the French Socialists) are acting as agents of United States imperialist circles, there has devolved upon the Communists the special historical task of leading the resistance to the American plan for the enthrallment of Europe, and of boldly denouncing all coadjutors of American imperialism in their own countries. At the same time, Communists must support all the really patriotic elements who do not want their countries to be imposed upon, who want to resist enthrallment of their countries to foreign capital, and to uphold their national sovereignty. The Communists must be the leaders in enlisting all anti-fascist and freedom-loving elements in the struggle against the new American expansionist plans for the enslavement of Europe.

It must be borne in mind that a great gulf lies between the desire of the imperialists to unleash a new war and the possibility of engineering such a war. The peoples of the world do not want war. The forces that stand for peace are so big and influential that if they are staunch and determined in defence of peace, if they display fortitude and firmness, the plans of the aggressors will come to grief. It should not be forgotten that all the hullabaloo of the imperialist agents about the danger of war is designed to frighten the weak-nerved and unstable and to extort concessions to the aggressor by means of intimidation.

The chief danger to the working class at this present juncture lies in underrating its own strength and overrating the strength of the enemy. Just as in the past the Munich policy untied the hands of the Nazi aggressors, so today concessions to the new course of the United States and the imperialist camp may encourage its inspirers even more insolent and aggressive. The Communist Parties must therefore head the resistance to the plans of imperialist expansion and aggression along every line—state, economic and ideological; they must rally their ranks and unite their efforts on the basis of a common anti-imperialist and democratic platform, and gather around them all the democratic and patriotic forces of the people.

A special task devolves on the fraternal Communist Parties of France, Italy, great Britain and other countries. They must take up the standard in defence of the national independence and sovereignty of their countries. If the Communist Parties firmly stick to their position, if they do not allow themselves to be intimidated and blackmailed, if they act as courageous sentinels of enduring peace and popular democracy, of the national sovereignty, liberty and independence of their countries, if, in their struggle against the attempts to economically and politically enthrall their countries, they are able to take the lead of all the forces prepared to uphold the national honour and independence, no plans for the enthrallment of Europe can possibly succeed.



* A speech delivered at the Informative Conference of representatives of a number of the Communist Parties held in Poland at the end of September, 1947.
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