Questo breve scritto di Gorkij risale al 1907, centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Tradotto da «M. Gor’kij. Materialy i issiedovanija» (Leningrado, 1934), fu pubblicato su l’Unità, 16 marzo 1968Garibaldi
Sentii per la prima volta questo nome grande e luminoso quando avevo tredici anni. Facevo allora lo sguattero su un battello passeggeri e per intere giornate lavavo le stoviglie, a metà assordato dal battito del motore, a metà intontito dall’odore di grasso bruciato.
Quando mi capitava un’oretta libera, andavo sul cassero di poppa. Là si radunavano i passeggeri di terza classe: contadini e operai. Chi seduto, chi in piedi, ascoltavano in un crocchio compatto il racconto sommesso e tranquillo di un passeggero.
Mi misi anch’io ad ascoltare.
Si chiamava Giuseppe, Osip come direbbero da noi, il suo cognome era Garibaldi, e faceva il pescatore. Grande era il suo animo, ed egli vedeva la vita amara del suo popolo oppresso dai nemici. Allora egli gettò un grido d’appello in tutto il paese: «Fratelli, la libertà è superiore e migliore della vita! Levatevi tutti alla lotta col nemico e ci batteremo finchè non sarà vinto!» E tutti lo ascoltarono perchè vedevano che lui sarebbe morto tre volte piuttosto di cedere. Lo seguirono tutti e vinsero.
Era sera, e il sole scendeva sulla Volga. Le onde rosate sembravano baciarsi e si struggevano in quel bacio. In seguito ho letto molto su Garibaldi, titano d’Italia. Ma il breve racconto di quell’ignoto contadino si radicò nel mio cuore più a fondo di tutti i libri...