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L’etica dell’illuminismo, Karl Kautsky

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view post Posted on 8/12/2012, 20:54

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Da Karl Kautsky, Etica e concezione materialistica della storia, Milano, Feltrinelli, 1958:


L’etica dell’illuminismo


Dal Rinascimento in poi, lo studio della natura ebbe nuovi stimoli e con esso la filosofia, che, da allora sino alla maggior parte del XVIII secolo, fu prevalentemente filosofia della natura e come tale elevò la nostra conoscenza molto al di sopra del livello raggiunto nel mondo antico, partendo dai progressi che gli arabi avevano fatto nel Medio evo nel campo delle scienze naturali, superando la scienza greca. Il culmine di quest’epoca della filosofia è rappresentato dalla dottrina di Spinoza (1632-1677).
Nei pensatori di ques’epoca, l’etica stava in seconda linea, essa era subordinata alla conoscenza della natura, di cui formava una parte. Ma essa tornò in primo piano quando la rapida ascesa del capitalismo nel XVIII secolo creò, per l’Europa occidentale, una situazione analoga a quella che era stata in Grecia dall’ascesa economica dopo le guerre persiane: un rapido capovolgimento dei vecchi ordinamenti economici e, con ciò, una dissoluzione delle organizzazioni sociali e delle concezioni morali tradizionali. Ebbe inizio, per parlare in termini moderni, un sovvertimento di tutti i valori e con ciò stesso un alacre pensare ed indagare sull’essenza e la base della moralità. Oltre a ciò, però, si ebbe un’indagine altrettanto alacre sulla essenza del nuovo modo di produzione. Assieme al rilievo acquistato dall’etica una nuova scienza ebbe inizio, una scienza che l’antichità non aveva conosciuto e che è la figlia particolare della produzione mercantile capitalistica, alla cui spiegazione essa serve: l’economia politica.
Nell’etica, noi troviamo nuovamente tre correnti, l’una accanto all’altra, che offrono parecchi paralleli con le tre correnti dell’antichità, la platonica, l’epicurea e la stoica: una antimaterialista – la cristiana tradizionale – una materialistica e infine una che assume, tra queste due, una posizione intermedia. L’amore per la vita e per i piaceri proprii della borghesia in ascesa o perlomeno dei suoi elementi più progrediti e cioè dei suoi intelettuali, si sentiva adesso abbastanza forte per presentarsi apertamente e gettar via qualsiasi velo ipocrita, cui fino a quel momento l’aveva costretto il cristianesimo dominante. E per quanto il presente potesse essere, da molti punti di vista, miserevole, la borghesia avanzante sentiva tuttavia che la parte migliore della realtà, il futuro, le apparteneva e sentiva in se stessa la capacità di trasformare questa valle di lacrime in un paradiso, dove agli uomini fosse lecito di seguire liberamente i propri impulsi. I suoi pensatori videro nella realtà e negli impulsi naturali degli uomini i germi d’ogni bene, non di ogni male. Questa nuova corrente di pensiero, però, trovò da principio un pubblico favorevole non soltanto nelle parti più avanzate della borghesia ma anche presso la nobiltà cortigiana, che allora aveva conquistato un tale potere assoluto nello Stato da credersi di potersi sottrarre ad ogni ipocrisia cristiana nella sua vita di piaceri, tanto più che adesso un abisso la separava dalla massa del popolo. Questa nobiltà considerava borghesi e contadini come esseri di tipo inferiore, cui la sua filosofia era assolutamente inaccessibile e inintelligibile, sicché essa poteva svilupparla francamente e liberamente senza dover temere di indebolire così anche la forza del suo mezzo di dominio, la religione e l’etica cristiana.
Queste condizioni per una nuova concezione della vita e dell’etica s’erano sviluppate più vigorosamente che altrove in Francia. Qui essa ebbe anche la sua espressione più ardita e più acuta. Come nell’antico epicureismo anche nella nuova filosofia illuministica di Lamettrie (1709-1751), D’Holbach (1723-1789) e Helvétius (1715-1771) l’etica dell’egoismo, dell’utile o del piacere era in stretto legame logico con una filosofia materialistica. Il mondo quale ce lo mosta l’esperienza appariva ad essa come l’unico che potesse essere preso in considerazione.
Le cause di questo nuovo epicureismo avevano molto analogie con quelle dell’antico, e così anche i risultati cui ambedue pervenivano. Ciò nonostante ambedue avevano, in un punto essenziale, un carattere fondamentalmente diverso. L’antico epicureismo non si presentava come un capovolgimento delle concezioni religiose tradizionali, cui esso seppe invece adattarsi; non era, appunto, la dottrina di una classe rivoluzionaria, ma una dottrina che predicava il piacere contemplativo, non la lotta. L’idealismo e il teismo platonico furono piuttosto la dottrina del rovesciamento delle concezioni religiose tradizionali, la dottrina delle classi insoddisfatte.
Altrimenti stavano le cose con la filosofia illuministica. Essa pure aveva radici conservatrici, vedeva la felicità nel piacere contemplativo in quanto serviva ai bisogni della nobiltà cortigiana che, dal potere esistente dello Stato assoluto, traeva i suoi mezzi di sussistenza. Ma principalmente essa era la filosofia degli elementi più intelligenti, più evoluti ed anche più audaci della borghesia avanzante. Ciò dava ad essa un carattere rivoluzionario. Essendo sin dagli inizi in contrasto con la religione e l’etica tradizionali, essa diventò, nella misura in cui aumentava la forza e l’autocoscienza della borghesia, sempre più una concezione di lotta, una concezione che era molto lontana dall’antico epicureismo; una concezione di lotta contro preti e tiranni, per dei nuovi ideali.
Il tipo e la maniera delle concezioni morali e l’altezza delle passioni morali sono determinati, secondo i materialisti francesi, dai rapporti di vita degli uomini, in particolare dalla costituzione dello Stato e dall’educazione. E’ sempre l’interesse particolare che determina l’uomo; esso può però diventare un interesse sociale se la società è organizzata in modo che l’interesse particolare si fonda con l’interesse per la comunità e le passioni dell’uomo servano al benessere comune. La vera virtù consiste tuttavia nella sollecitudine per il bene comune e può fiorire soltanto là dove l’uomo promuove, assieme al bene comune, anche il proprio, là dove egli non può danneggiare il bene comune senza danneggiare se stesso.
E’ l’ignoranza sugli interessi particolari, duraturi e superiori degli uomini, l’ignoranza sulla migliore forma dello Stato, della società, dell’educazione, che rende possibili situazioni le quali necessariamente portano in conflitto reciproco il bene comune e l’interesse particolare. Bisogna por fine a questa ignoranza, trovare la forma di Stato, società ed educazione corrispondente alla ragione, per dare per sempre una base duratura alla felicità e alla virtù.
Qui vediamo il nucleo rivoluzionario del materialismo francese, che accusa lo Stato esistente come il promotore dei vizi, vale a dire del contrasto tra interesse comune e interesse particolare. Perciò esso si eleva al di sopra dell’antico epicureismo e perciò anche esso aumenta la debolezza insita nella sua etica.
Infatti, non basta trovare la forma migliore di Stato e di società. Bisogna anche combattere per essa, opporsi ai despoti dominanti ed abbatterli per fondare il regno della virtù. Ma per questo occorrono grandi passioni morali e da dove debbono venire esse se la società esistente è così cattiva che non fa sbocciare nessuna virtù, nessuna moralità? Non sarà necessario che, prima che possa nascere la società superiore, ci sia la moralità superiore? Non sarà necessario che l’ideale morale viva in noi, prima che l’ordinamento morale diventi un fatto? Ma da dove prendere questo ideale morale in un mondo vizioso?
A queste domande non riceviamo nessuna risposta soddisfacente.
In maniera un po’ diversa dai francesi, gli inglesi cercarono, nel XVIII secolo, di spiegare la legge morale. In generale essi si dimostrarono meno arditi e più inclini al compromesso: cosa che corrisponde alla storia dell’Inghilterra dall’epoca della Riforma. Da quell’epoca la situazione insulare aveva favorito in maniera eccezionale lo sviluppo economico dell’Inghilterra; l’aveva anche spinta alla navigazione, che, nel XVII e XVIII secolo, era la più rapida via di arrichimento a causa del sistema coloniale; e aveva anche liberato l’Inghilterra da tutti i pesi e le devastazioni delle guerre terrestri, che esaurivano le potenze del continente. Così, nel XVII e XVIII secolo, l’Inghilterra si arricchisce più rapidamente di tutte le altre nazioni europee e sta economicamente alla loro testa. Ma, se in un paese sorgono nuove classi, nuovi antagonismi di classe e con ciò nuovi problemi sociali, prima che altrove, le nuove classi, per lo più, sono giunte ad un grado non elevato di autocoscienza e sono ancora prigioniere del vecchio modo di pensare, sicché anche gli antagonismi di classe vi si mostarno ancora in una forma non sviluppata.
Così in un primo momento, in un paese del genere non si arriva ad un radicale superamento delle vecchie classi, che continuano a dominare ancora illimitatamente e, in tutti i paesi circostanti, sono ancora in pieno vigore. Le nuove classi vi sono ancora incapaci a dominare da sole poiché non si trovano a loro agio nella società, hanno paura della novità delle proprie aspirazioni e ancora, persino, cercano appoggi e punti di riferimento nei rapporti superati.
Sembra perciò essere una legge universale dello sviluppo sociale che paesi, i quali precedono gli altri nello sviluppo economico, siano inclini a compromessi piuttosto che a soluzioni radicali.
Così la Francia nel Medio Evo, era, accanto all’Italia, alla testa dello sviluppo economico dell’Europa. Essa perciò fu anche la prima ad entrare in contrasto col papato romano e il suo potere statale fu il primo a ribellarsi. Ma, proprio perché era alla testa delle altre nazioni, non riuscì a fondare una propria chiesa statale e fu capace soltanto di costringere il papato ad un compromesso che, con poche interruzioni, è durato sino ad oggi. Invece, più tardi, divennero i più radicali campioni nella lotta contro il potere papale due Stati che economicamente erano rimasti i più arretrati, la Scozia e la Svezia.
Dall’epoca della Riforma l’Inghilterra, e con essa la Scozia, al posto della Francia e dell’Italia, si pose alla testa dello sviluppo economico e perciò il compromesso divenne per questi paesi la forma per concludere le loro lotte di classe in quel tempo. Proprio perché in Inghilterra il capitale si rafforzò più rapidamente che altrove, perché esso vi arrivò, prima che in altri paesi europei, alla lotta contro l’aristocrazia feudale, questa lotta terminò con un compromesso, la cui conseguenza fu che la proprietà fondiaria feudale in Inghilterra è oggi ancora più forte che in qualsiasi altro paese dell’Europa, esclusa forse l’Austria-Ungheria. Per la stessa ragione di uno sviluppo economico così rapido, in Inghilterra la lotta di classe tra proletariato e borghesia scoppiò prima che nel resto del mondo. Essa vi ebbe inizio in un’epoca in cui proletari e capitalisti industriali non avevano, tutti e due, superato ancora il modo di pensare della piccola borghesia, in cui molti osservatori, anche acuti, confondevano le due classi in quella unica degli “industriali”, in cui il tipo del proletariato autocosciente, che edifica per il futuro della sua classe, come quello del magnate capitalista dell’industria, che ha un potere illimitato nello Stato, non erano ancora sviluppati. Così la lotta delle due classi, dopo una breve e tempestosa effervescenza, si arenò in un compromesso che per decenni rese il dominio della borghesia sul proletariato in Inghilterra più illimitato che in qualsiasi altro paese con una produzione moderna.
Naturalmente gli effetti di questa legge, come quelli di qualsiasi altra, possono essere sia ostacolati da tendenze secondarie disturbatrici, sia rafforzati da tendenze secondarie che li favoriscono. In ogni caso, però, bisogna guardarsi dalla concezione volgare del materialismo storico, per la quale quel paese che ha la direzione nello sviluppo economico dovrebbe sempre portare le forme della lotta di classe, ad esso corrispondenti, all’espressione più acuta e più decisa.
Anche il materialismo e l’ateismo, come l’etica, cedettero, in Inghilterra, allo spirito del compromesso che la dominava dal XVII secolo. La lotta delle classi democratiche avanzanti contro il potere statale monarchico indipendente, che era nelle mani della nobiltà feudale, contro la sua nobiltà di corte e la sua chiesa di Stato cominciò in Inghilterra più di un secolo prima che in Francia, in un’epoca in cui il pensiero cristiano era stato superato soltanto da poche menti. Se in Francia la lotta contro la chiesa di Stato diventò una lotta tra cristianesimo e materialismo ateo, in Inghilterra essa fu soltanto una lotta di sette democratiche cristiane contro la setta organizzata come chiesa di Stato. E se in Francia, nell’epoca dell’Illuminismo, la maggioranza degli intellettuali e delle classi che erano sotto la loro influenza pensava in maniera materialistica e ateistica, in Inghilterra gli intellettuali cercarono un compromesso fra materialismo e cristianesimo. E’ vero che il materialismo moderno trovò la sua prima aperta espressione in Inghilterra, nella dottrina di Thomas Hobbes (1588-1679); è vero che in Inghilterra si ebbero dei pensatori, sulle questioni della morale, la cui arditezza superò anche quella dei più arditi pensatori francesi, come Mandeville (1670-1733) il quale definì la morale un mezzo di dominio, una invenzione per soggiogare le classi lavoratrici e vide nel vizio la radice di ogni bene sociale. Tali idee, tuttavia, avevano poca influenza sul pensiero della nazione stessa. I sentimenti cristiani rimasero il contrassegno della gente per bene e il compito di ogni uomo dotto, che non volesse entrare in conflitto con la società, fu, se non di provarli, almeno di fingerli.
Così gli inglesi rimasero in una posizione assai critica verso l’etica materialistica, che voleva fondare la legge morale sull’egoismo, ovvero sul piacere, ovvero sull’utile dell’individuo. E’ vero che i rappresentanti intellettuali della borghesia avanzante, anche in Inghilterra, cercarono di spiegare la legge morale come un fenomeno naturale; ma essi compresero che il suo potere costrittivo non poteva essere spiegato con semplici considerazioni di utilità e che quelle costrizioni, divenute necessarie anche soltanto per conciliare i comandamenti della moralità con i moventi dell’utilità o del piacere, erano troppo artificiose, senza parlare poi del tentativo di farne una valida forza motrice. Essi distinsero perciò esattamente accanto agli impulsi egoistici dell’uomo quelli della simpatia, riconobbero un senso morale, che induce l’uomo ad essere attivo per la felicità del suo prossimo. Dopo lo scozzese Hutcheson (1694-1747), propugnò questa dottrina particolarmente il grande economista Adam Smith (1723-1790). Nelle sue due grandi opere principali egli indagò sugli effetti dei due moventi dell’azione umana. Nella Teoria dei sentimenti morali (1759) egli partiva dalla simpatia come dal vincolo più importante della società umana; la sua Ricerca sull’essenza e la natura della ricchezza delle nazioni presuppone l’egoismo, l’interesse materiale dell’individuo come il movente delle azioni umane. Il libro fu pubblicato nel 1786 ma i principi in esso contenuti erano stati esposti a voce da Smith già sin dal 1752-53, a Glasgow. La sua teoria dell’egoismo e la sua teoria della compassione quindi non si escludevano, bensì si completavano a vicenda. Il fatto che questi inglesi contrapponessero l’egoismo e il senso morale fu, rispetto ai materialisti, un avvicinamento al platonismo e al cristianesimo. Tuttavia le loro concezioni rimasero nettamente distinte da queste dottrine. Infatti, se, secondo la dottrina cristiana, l’uomo è per natura cattivo, e se, secondo la dottrina platonica, i nostri impulsi naturali sono ciò che è immorale dentro di noi, per cui la moralità rappresenta qualche cosa di extranaturale e di soprannaturale, per la scuola inglese del XVIII secolo il senso morale stava sì in opposizione all’egoismo, ma era, come questo, soltanto un impulso naturale. L’egoismo, inoltre, appariva loro non come un impulso cattivo bensì come un impulso perfettamente giustificato, altrettanto necessario per la prosperità della società umana che la compassione per il prossimo. Il senso morale era un senso come qualsiasi altro senso dell’uomo, in un certo modo il suo sesto senso.
Certamente, con questa ipotesi, la difficoltà era, come nei materialisti francesi, piuttosto spostata che risolta. Per la domanda donde viene nell’uomo questo particolare senso morale, gli inglesi non avevano una risposta. Esso era dato all’uomo appunto per natura. Ciò poteva bastare loro, poiché essi dovevano fare i conti con l’idea di un creatore del mondo, ma non rendeva superflua l’ipotesi di quest’ultimo.
In questa situazione apparve chiaro quale fosse il compito per sviluppare scientificamente l’etica. La scuola francese, come quella inglese, aveva dato molto per la spiegazione psicologica e storica di singoli sentimenti e intuizioni morali. Ma a nessuna delle due era riuscito di far comprendere la moralità come un prodotto, senza residui, di cause esistenti nell’ambito della nostra esperienza. Bisognava andare oltre la scuola inglese per ricercare le cause del senso morale; bisognava andare oltre la scuola francese e mostrare le cause dell’ideale morale.
Ma lo sviluppo non è rettilineo, bensì dialettico. Esso si muove entro contrasti. Il passo immediatamente seguente della filosofia, riguardo all’etica, non si mosse in questa direzione ma in quella opposta. Invece di inserire la natura etica dell’uomo ancor più che in passato nel quadro della necessità naturale universale, essa la portò di nuovo completamente al di fuori.
La filosofia tedesca compì questo passo con Kant (1724-1804). Oggi è di moda dire: torniamo a Kant! ma chi nel dire ciò avesse in mente l’etica kantiana potrebbe altrettanto giustamente proclamare: torniamo a Platone!
 
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