Archivio Ždanov

Il marxismo e la linguistica, Stalin

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 8/12/2012, 20:48

Advanced Member

Group:
Administrator
Posts:
1,394

Status:


Da Stalin, Il marxismo e la linguistica, traduzione di Palmiro Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1952:


Il marxismo e la linguistica



A proposito del marxismo nella linguistica


Si è rivolto a me un gruppo di giovani compagni, chiedendomi di esprimere sulla stampa la mia opinione a proposito delle questioni relative alla scienza del linguaggio, particolarmente in riferimento al marxismo nella linguistica. Non sono un glottologo, e non posso, naturalmente, soddisfare completamente questi compagni. Ma, per quanto riguarda il marxismo nella linguistica, come nelle altre scienze sociali, questo è un tema con il quale ho un legame diretto. Ho quindi acconsentito a rispondere a una serie di domande rivoltemi da questi compagni.

Domanda: E’ vero che il linguaggio è una sovrastruttura in rapporto alla base?
Risposta: No, non è vero.
La base è la struttura economica della società in un determinato stadio del suo sviluppo. La sovrastruttura consiste nelle opinioni politiche, giuridiche, religiose, artistiche e filosofiche della società, nonché nelle corrispondenti istituzioni politiche, giuridiche e d’altro genere.
Ogni base ha una propria sovrastruttura, ad essa corrispondente. La base del sistema feudale ha la propria sovrastruttura, le proprie opinioni politiche, giuridiche, ecc. e le relative istituzioni; ha la propria sovrastruttura la base capitalistica, così come la base socialista. Se la base cambia e viene liquidata, allora, dopo di essa cambia e viene liquidata anche la sua sovrastruttura; se una nuova base sorge, allora, dopo di essa sorge una sovrastruttura ad essa corrispondente.
Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura. Prendiamo, come esempio, la società russa e la lingua russa. Nel corso degli ultimi trent’anni è stata liquidata in Russia la vecchia base capitalistica e una base nuova, socialista, è stata costruita. Parallelamente, è stata liquidata la sovrastruttura della base capitalistica e creata una nuova struttura corrispondente alla base socialista. Le vecchie istituzioni politiche, giuridiche, ecc., sono quindi state soppiantate da istituzioni nuove, socialiste. Ma ciò nonostante, la lingua russa è rimasta fondamentalmente quella che era prima della Rivoluzione di Ottobre.
Che cosa è mutato nella lingua russa in questo periodo? In una certa misura, è mutato il lessico della lingua russa, nel senso che è stato arricchito da un cospicuo numero di nuove parole ed espressioni, scaturite in relazione con il sorgere della nuova produzione socialista, con l’apparire del nuovo Stato, della nuova cultura socialista, di un nuovo costume, di una nuova morale e, infine, in relazione con lo sviluppo della tecnica e della scienza; è mutato il significato di molte parole ed espressioni, che hanno preso un nuovo significato; è scomparso dal vocabolario un certo numero di parole antiquate. Ma per quanto riguarda il patrimonio lessicale fondamentale e la struttura grammaticale della lingua russa, che costituiscono il fondamento del linguaggio, essi, dopo la liquidazione della base capitalistica, lungi dall’essere stati liquidati e soppiantati da un nuovo patrimonio lessicale fondamentale e da una nuova struttura grammaticale del linguaggio, sono stati conservati nella loro integrità e non hanno subìto alcun serio mutamento: sono stati conservati precisamente come fondamento della moderna lingua russa.
Inoltre, la sovrastruttura è un prodotto della base; ma ciò non significa che essa rifletta semplicemente la base, che essa sia passiva, neutrale, indifferente alla sorte della sua base, alla sorte delle classi, al carattere del sistema. Al contrario non appena sorge, essa diviene una forza eccezionalmente attiva, che aiuta energicamente la sua base ad assumere una forma e a consolidarsi facendo quanto è in suo potere per aiutare il nuovo sistema a distruggere e liquidare la vecchia base e le vecchie classi.
Né potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura viene dalla base creata precisamente perché possa servirla, perché possa attivamente aiutarla ad assumere una forma e a consolidarsi, perché possa attivamente contribuire alla liquidazione della base antica, decrepita, assieme alla sua vecchia sovrastruttura. Basta che la sovrastruttura rinunci alla sua funzione ausiliaria, basta che la sovrastruttura passi da una posizione di attiva difesa della sua base a un atteggiamento di indifferenza verso di essa, a un atteggiamento eguale verso tutte le classi, perché essa perda il suo valore e cessi di essere una sovrastruttura.
Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura. La lingua non è il prodotto di questa o quella base, di una base vecchia o nuova, entro una determinata società, ma dell’intiero corso della storia della società e della storia delle basi per secoli e secoli. Essa è stata creata non da una classe, ma da tutta la società, da tutte le classi della società, dagli sforzi di centinaia di generazioni. Essa è stata creata per soddisfare le necessità non di una sola classe, ma di tutta la società, di tutte le classi della società. Precisamente per questo è stata creata come un unico linguaggio per la società, comune a tutti i membri di essa, come linguaggio comune di tutto il popolo. Di conseguenza, la funzione ausiliare del linguaggio, come mezzo di comunicazione tra gli uomini, consiste non nel servire una classe a danno di altre classi, ma nel servire egualmente tutta la società, tutte le classi della società. Ciò difatti spiega il motivo per cui la lingua può egualmente servire sia l’antico, decrepito sistema, sia il sistema nuovo, nascente, l’antica base come la nuova, gli sfruttatori come gli sfruttati.
Non è un segreto per nessuno che la lingua russa serviva il capitalismo e la cultura borghese russa prima della Rivoluzione d’Ottobre, altrettanto bene quanto essa serve ora il sistema e la cultura socialista della società russa.
Lo stesso va detto per l’ucraino, il bielorusso, l’uzbeko, il kazako, il georgiano, l’armeno, l’estone, il lettone, il lituano, il moldavo, il tartaro, l’azerbaigiano, il basckiro, il turkmeno e le altre lingue delle nazioni sovietiche, le quali servivano l’antico sistema borghese di queste nazioni altrettanto bene quanto servono il sistema nuovo, socialista.
Né potrebbe essere altrimenti. La lingua esiste, la lingua è stata creata precisamente allo scopo di servire la società nel suo complesso, come mezzo di comunicazione tra gli uomini, allo scopo di essere comune ai membri della società e di essere l’unico linguaggio della società, servendo egualmente ai membri della società, indipendentemente dalla loro posizione di classe. Basta che una lingua si allontani da questa posizione di essere comune a tutto il popolo, basta che una lingua si ponga nella posizione di preferire e appoggiare un qualsiasi gruppo sociale a danno di altri gruppi sociali della società, perché essa perda la sua qualità, cessi di essere un mezzo di comunicazione tra gli uomini in società e si trasformi nel gergo di un gruppo sociale, degeneri e sia condannata a scomparire.
Per questo aspetto la lingua, mentre differisce in linea di principio dalla sovrastruttura, non differisce dagli strumenti di produzione, dalle macchine, diciamo, che possono egualmente servire il sistema capitalista e quello socialista.
Inoltre la sovrastruttura è il prodotto di un’epoca, durante la quale esiste e opera una determinata base economica. La sovrastruttura pertanto non vive a lungo; essa viene liquidata e scompare con la liquidazione e la scomparsa di quella determinata base.
La lingua, al contrario, è il prodotto di una serie di epoche, nel corso delle quali essa prende forma, si arricchisce, si sviluppa, si perfeziona. La lingua, pertanto, dura incommensurabilmente più a lungo di qualsiasi base o di qualsiasi sovrastruttura. In questo modo si spiega il motivo per cui la creazione e la liquidazione non soltanto di una base e della sua sovrastruttura, ma di varie basi e delle loro corrispondenti sovrastrutture, non portano, nella storia, alla liquidazione di una determinata lingua, alla liquidazione della sua struttura e al sorgere di una nuova lingua, con un nuovo patrimonio lessicale e un nuovo sistema grammaticale.
Sono passati più di cento anni dalla morte di Pusckin. In questo periodo sono stati liquidati in Russia il sistema feudale e il sistema capitalistico e un terzo sistema, quello socialista, è sorto. Pertanto, sono state liquidate due basi con le loro sovrastrutture e una base nuova socialista è sorta, con la sua nuova sovrastruttura. Eppure, se prendiamo come esempio la lingua russa, essa non ha, in questo lungo periodo di tempo, subìto alcuna rottura, e la lingua russa moderna differisce assai poco nella sua struttura dalla lingua di Pusckin.
Cos’è cambiato nella lingua russa in questo periodo? In questo periodo il lessico russo si è considerevolmente arricchito; moltissime parole antiquate sono state eliminate dal patrimonio lessicale; il significato di molte parole è mutato; la struttura grammaticale è migliorata. Ma per quanto riguarda la struttura della lingua di Pusckin, con il suo sistema grammaticale e con il suo patrimonio lessicale fondamentale, essa è stata conservata in tutta la sua essenza come base del russo moderno.
E ciò è del tutto comprensibile. Difatti, è veramente necessario che dopo ogni rivoluzione, la struttura esistente della lingua, il suo sistema grammaticale, il suo patrimonio lessicale fondamentale siano distrutti e sostituiti da altri, come si verifica di consueto per la sovrastruttura? Che bisogno vi è che «acqua», «terra», «montagna», «foresta», «pesce», «uomo», «camminare», «fare», «produrre», «commerciare», ecc. non vengano più chiamati acqua, terra, montagna, ecc. ma in altro modo? Che bisogno vi è che il mutamento delle parole nella lingua e il loro collocamento nelle proposizioni non avvengano più secondo la grammatica esistente, ma secondo una grammatica completamente diversa? Di quale utilità sarebbe per la rivoluzione un simile rivolgimento nella lingua? La storia generalmente non compie nulla di sostanziale senza che vi sia una particolare necessità. Quale può essere, ci si chiede, la necessità di un simile rivolgimento linguistico, quando è dimostrato che la lingua esistente e la sua struttura sono fondamentalmente del tutto adeguate alla necessità del nuovo sistema? L’antica sovrastruttura può e deve essere distrutta e sostituita da una nuova nel corso di alcuni anni, allo scopo di dare libero campo allo sviluppo delle forze produttive della società; ma come si può distruggere una lingua esistente e costruire invece di essa una lingua nuova nel corso di alcuni anni, senza provocare l’anarchia nella vita sociale e senza creare una minaccia di collasso della società? Chi se non un Don Chisciotte potrebbe porsi un simile compito?
Infine, esiste un’altra differenza radicale tra la sovrastruttura e la lingua. La sovrastruttura non è direttamente connessa con la produzione, con l’attività produttiva dell’uomo. Essa è connessa con la produzione solo indirettamente, attraverso l’economia, attraverso la base. La sovrastruttura, pertanto, non riflette i mutamenti nello sviluppo delle forze produttive né immediatamente né direttamente, ma soltanto dopo i mutamenti della base, attraverso la rifrazione dei mutamenti della produzione nei mutamenti della base. Ciò significa che la sfera d’azione della sovrastruttura è limitata e ristretta.
La lingua, al contrario, è connessa con l’attività produttiva dell’uomo direttamente e non soltanto con l’attività produttiva, ma con tutte le altre attività dell’uomo, in tutte le sfere del suo lavoro, dalla produzione alla base, dalla base alla sovrastruttura. Per questo la lingua riflette i mutamenti della produzione immediatamente e direttamente, senza aspettare i cambiamenti della base. E’ per questo motivo che la sfera d’azione della lingua, che abbraccia tutte le sfere di attività dell’uomo, è assai più vasta e multiforme della sfera d’azione della sovrastruttura. Anzi, essa è praticamente illimitata.
Ciò spiega innanzitutto il motivo per cui la lingua, o meglio il suo patrimonio lessicale, è in uno stato quasi continuo di mutamento. Il costante sviluppo dell’industria e dell’agricoltura, del commercio e dei trasporti, della tecnica e della scienza, esige che la lingua arricchisca il suo lessico di nuove parole ed espressioni, che sono necessarie per il loro lavoro. E la lingua, riflettendo direttamente queste necessità, arricchisce il suo lessico di nuove parole e perfeziona la sua struttura grammaticale.
Pertanto:
a) un marxista non può considerare la lingua come una sovrastruttura della base;
b) confondere il linguaggio con la sovrastruttura è un grave errore.

Domanda: E’ vero che la lingua ha sempre avuto e ha un carattere di classe, che non esiste una lingua comune e unica per tutta la società, non di classe, uguale per tutto il popolo?
Risposta: No, non è vero.
Non è difficile comprendere che in una società dove non vi siano classi, non si può nemmeno parlare di una lingua di classe. La comunità primitiva del clan non conosceva le classi, e di conseguenza non poteva esservi in essa una lingua di classe; la lingua era allora comune, unica per l’intiera collettività. L’obiezione che per classe si deve intendere qualsiasi collettività umana, compresa la comunità primitiva, non è una obiezione, ma un giuoco di parole che non vale la pena di confutare.
Per quanto riguarda lo sviluppo successivo, dalle lingue del clan alle lingue della tribù, dalle lingue della tribù alle lingue di una nazionalità – e dalle lingue di una nazionalità alle lingue nazionali, – dappertutto e in tutti gli stadi di sviluppo la lingua, come mezzo di comunicazione tra gli uomini nella società, è stata sempre comune e unica per la società, servendo in modo eguale i membri della società indipendentemente dalla loro posizione sociale.
Non mi riferisco qui agli imperi del periodo schiavistico e del periodo medioevale, agli imperi di Ciro e di Alessandro il Grande, diciamo, o agli imperi di Cesare e di Carlo Magno, che non avevano una base economica propria ed erano transitorie e instabili associazioni militari e amministrative. Questi imperi non soltanto non avevano ma non potevano avere una lingua unica per l’impero, compresa da tutti i membri dell’impero. Essi erano conglomerati di tribù e di nazionalità, ciascuna delle quali viveva una propria vita e aveva una propria lingua. Di conseguenza, non è di questi imperi e di altri analoghi che intendo parlare, ma delle tribù e delle nazionalità facenti parte di un impero che avesse una propria base economica e una lingua propria, formatasi da tempo. La storia ci dice che le lingue di queste tribù e di queste nazionalità non erano lingue di classe ma lingue comuni a tutto il popolo, comuni alle tribù e alle nazionalità e comprese da esse.
Naturalmente accanto ad esse vi erano i dialetti e i vernacoli, ma essi erano dominati dall’unica e comune lingua della tribù o della nazionalità e ad essa subordinati.
Più tardi, con il sorgere del capitalismo, con la liquidazione dello sminuzzamento feudale e con la formazione del mercato nazionale, le nazionalità si svilupparono in nazioni e le lingue delle nazionalità in lingue nazionali. La storia ci dice che le lingue nazionali non sono lingue di classe ma lingue di tutto il popolo, comuni ai membri della nazione e uniche per la nazione.
Si è detto sopra che la lingua, come mezzo di comunicazione tra gli uomini nella società, serve egualmente tutte le classi della società e per questo mostra una specie di indifferenza rispetto alle classi. Ma gli uomini, i singoli gruppi sociali, le classi sono lungi dall’essere indifferenti alla lingua. Essi si sforzano di utilizzare la lingua nei propri interessi, di imporle il proprio lessico particolare, i propri termini, le proprie espressioni particolari. Si distinguono in questo specialmente gli strati superiori delle classi abbienti, che sono separati dal popolo e lo detestano: l’aristocrazia nobiliare e l’alta borghesia. Si formano così i dialetti «di classe», i gerghi, le «lingue» da salotto. Nella letteratura non di rado questi dialetti e gerghi vengono non giustamente qualificati come lingue: «lingua nobiliare», «lingua borghese», contrapponendoli alla «lingua proletaria», alla «lingua contadina». Per questo motivo, per quanto possa sembrare strano, taluni dei nostri compagni sono giunti alla conclusione che la lingua nazionale sia una finzione e che in realtà esistano solo lingue di classe.
Credo non vi sia nulla di più errato di questa conclusione. Possono questi dialetti e gerghi essere considerati lingue? Certamente no. Non lo possono, innanzi tutto, perché questi dialetti e gerghi non hanno una loro struttura grammaticale e un patrimonio lessicale fondamentale: essi li prendono dalla lingua nazionale. Non lo possono, in secondo luogo, perché questi dialetti e gerghi hanno una sfera di applicazione ristretta ai membri dello strato più elevato di una determinata classe e sono del tutto inadatti come mezzo di comunicazione per gli uomini, per la società nel suo complesso. Che cosa vi è allora in essi? Vi è una raccolta di parole specifiche, che riflettono i gusti particolari dell’aristocrazia o dell’alta borghesia; vi è un certo numero di espressioni e di frasi che si distinguono per la ricercatezza e la preziosità, e sono privi delle espressioni e costruzioni «grossolane» della lingua nazionale; vi è, infine, un certo numero di parole straniere. Ma tutto l’essenziale, cioè la grandissima maggioranza delle parole e del sistema grammaticale, è preso dalla lingua comune, nazionale. I dialetti e i gerghi sono pertanto ramificazioni della comune lingua nazionale, non possiedono una indipendenza linguistica di qualsiasi genere e sono destinati alla stagnazione. Chiunque creda che i dialetti e i gerghi possano svilupparsi come lingua indipendente, che essi siano capaci di eliminare e soppiantare la lingua nazionale, ha perso ogni senso della prospettiva storica e abbandonato la posizione marxista.
Si fa riferimento a Marx e si cita un brano del suo articolo Sankt Max in cui si dice che i borghesi hanno «una loro lingua», che questa lingua «è il prodotto della borghesia», che essa è permeata di uno spirito di mercantilismo, di compra e vendita. Taluni compagni citano questo passo per provare che Marx credesse nel «carattere di classe» della lingua e negasse l’esistenza di una unica lingua nazionale. Se questi compagni avessero considerato la cosa obiettivamente, avrebbero dovuto citare anche un altro passo dello stesso articolo Sankt Max, in cui Marx, accennando alla questione del modo di formazione di una sola lingua nazionale, parla del «concentramento dei dialetti in una unica lingua nazionale, quale risultato del concentramento economico e politico».
Marx, di conseguenza, riconosceva la necessità di una unica lingua nazionale, come forma superiore a cui i dialetti, quale forma inferiore, sono subordinati.
Che cosa può essere allora la lingua borghese che, secondo le parole di Marx, è un «prodotto della borghesia»? Marx la considerava forse una lingua alla stessa stregua di una lingua nazionale, con la propria specifica struttura linguistica? Poteva egli considerarla in tal modo? Naturalmente no! Marx intendeva soltanto dire che i borghesi avevano inquinato la comune lingua nazionale con il loro lessico da mercanti, che i borghesi in altre parole hanno il loro gergo da mercanti.
E’ pertanto evidente che questi compagni hanno travisato Marx. E lo hanno travisato perché hanno citato Marx non da marxisti ma da dogmatici, senza approfondire l’essenza della questione.
Si fa riferimento a Engels e si citano da Le condizioni della classe operaia in Inghilterra, le parole di Engels in cui egli dice che «… la classe operaia inglese con il passare del tempo è diventata un popolo completamente diverso dalla borghesia inglese», che «gli operai parlano un altro dialetto, hanno altre idee e concezioni, altri costumi e princìpi morali, un’altra religione e un’altra politica che la borghesia». Taluni compagni traggono da questo passo la conclusione che Engels negasse la necessità di una lingua comune, nazionale, che egli credesse, di conseguenza, nel «carattere di classe» della lingua. In realtà, Engels parla qui di un dialetto, non di una lingua, comprendendo perfettamente che, essendo un derivato della lingua nazionale, il dialetto non può sostituirsi ad essa. Ma questi compagni, evidentemente, non considerano con simpatia l’esistenza di una differenza tra lingua e dialetto.
E’ ovvio che la citazione è inappropriata, perché Engels parla qui non di «lingue di classe», ma soprattutto di idee, concezioni, costumi, princìpi morali, sentimenti religiosi e opinioni politiche di classe. E’ verissimo che le idee, le concezioni, i costumi, i princìpi morali, la religione e le opinioni politiche dei borghesi e dei proletari sono direttamente antitetici. Ma che c’entra qui la lingua nazionale o il «carattere di classe» della lingua? Forse che l’esistenza delle contraddizioni di classe nella società può servire come argomento a favore del «carattere di classe» della lingua o contro la necessità di una unica lingua nazionale? Il marxismo dice che la lingua comune è uno dei segni distintivi più importanti di una nazione, pur sapendo benissimo che in seno alla nazione vi sono contraddizioni di classe. Riconoscono i compagni di cui si è parlato questa tesi marxista?
Si fa riferimento a Lafargue e si dice che nel suo opuscolo La lingua e la rivoluzione egli riconosca il «carattere di classe» della lingua e neghi la necessità di una lingua comune nazionale. Ciò non è vero. Lafargue effettivamente parla di «lingua della nobiltà» o «lingua della aristocrazia» e di «gerghi» dei vari strati della società. Ma questi compagni dimenticano che Lafargue, non interessandosi della questione della differenza tra lingua e gergo e chiamando i dialetti ora «parlata artificiale», ora «gergo», dice in definitiva nel suo opuscolo che «la parlata artificiale dell’aristocrazia deriva dalla lingua comune a tutto il popolo, in cui parlavano il borghese e l’artigiano, la città e la campagna».
Di conseguenza, Lafargue riconosce l’esistenza e la necessità della comune lingua nazionale e comprende pienamente che la «lingua aristocratica» e gli altri dialetti e gerghi sono subordinati e dipendono dalla comune lingua nazionale.
Ne deriva che il riferimento a Lafargue non coglie nel segno.
Si fa riferimento al fatto che una volta in Inghilterra i lord feudali parlarono «per secoli» in francese mentre il popolo inglese parlava l’inglese, ciò che costituirebbe un argomento a favore del «carattere di classe» della lingua e contro la necessità di una comune lingua nazionale. Ma questo non è un argomento, è piuttosto una arguzia. Innanzi tutto non tutti i lord feudali parlavano allora francese, ma soltanto un piccolo strato più elevato di baroni feudali inglesi, alla corte e nelle contee. In secondo luogo, essi non parlavano una «lingua di classe», ma la comune normale lingua nazionale francese. In terzo luogo, sappiamo che questo trastullarsi con la lingua francese è scomparso in seguito senza lasciare tracce, cedendo il passo alla comune lingua nazionale inglese. Questi compagni pensano forse che i feudali inglesi abbiano «per secoli» comunicato con il popolo inglese per tramite di interpreti, che non usassero la lingua inglese, che non vi fosse allora una comune lingua nazionale inglese e che la lingua francese in Inghilterra fosse allora una cosa più seria di una lingua da salotto usata solo dall’alta aristocrazia? Come si può negare l’esistenza e la necessità di una comune lingua nazionale sulla base di «argomenti» allegri come questi?
Anche gli aristocratici russi un tempo si trastullavano con la lingua francese alla corte dello zar e nei salotti. Essi si inorgoglivano del fatto che, parlando russo, inciampavano nel francese, che sapevano parlare russo solo con accento francese. Significa ciò che non vi fosse allora in Russia una comune lingua nazionale russa, che la comune lingua nazionale fosse una finzione e la «lingua di classe» una realtà?
I nostri compagni commettono qui almeno due errori.
Il primo errore sta nel fatto che essi confondono la lingua con la sovrastruttura. Essi pensano che, avendo la sovrastruttura un carattere di classe, anche la lingua deve essere una lingua di classe e non una comune lingua nazionale. Ma ho già detto che la lingua e la sovrastruttura sono due nozioni differenti e che un marxista non può confonderle.
Il secondo errore sta nel fatto che essi considerano la contrapposizione di interessi della borghesia e del proletariato, la loro aspra lotta di classe, come una scissione della società, una rottura di qualsiasi legame tra le classi ostili. Essi credono che, essendosi scissa la società e non esistendo più una società unica ma solo delle classi, per questo non sia nemmeno necessaria una lingua unica della società, non sia necessaria una lingua nazionale. Se la società si è scissa, e non esiste più una lingua nazionale, cosa rimane? Rimangono le classi e le «lingue di classe». Naturalmente, ogni «lingua di classe» avrà la sua grammatica «di classe», una grammatica «proletaria», una grammatica «borghese». E’ vero che queste grammatiche di fatto non esistono, ma ciò non turba questi compagni: essi credono che simili grammatiche finiranno per apparire.
Vi furono un tempo dei «marxisti», nel nostro Paese, i quali asserivano che le ferrovie rimasteci dopo la Rivoluzione d’Ottobre erano ferrovie borghesi, che sarebbe stato sconveniente per noi marxisti utilizzarle, che avrebbero dovuto essere divelte e che occorreva costruire delle ferrovie nuove, «proletarie». Per questo essi furono soprannominati «trogloditi»…
E’ evidente che una tale visione primitiva e anarchica della società, delle classi, della lingua, non ha nulla in comune con il marxismo. Ma essa indubbiamente esiste e continua a prevalere nelle menti di taluni nostri compagni confusionari.
Naturalmente non è vero che, essendoci una aspra lotta di classe, la società si sia scissa in classi, le quali non siano più economicamente legate l’una all’altra nella società. Al contrario. Fino a che esisterà il capitalismo, i borghesi e i proletari saranno legati assieme da tutti i fili dell’economia, come parti di una unica società capitalistica. Il borghese non può vivere e arricchirsi se non ha a sua disposizione gli operai salariati; i proletari non possono continuare la loro esistenza, se non si assoggettano al salario dei capitalisti. La fine di qualsiasi legame economico tra di loro significherebbe la fine di qualsiasi produzione, e la fine di qualsiasi produzione porterebbe alla rovina della società, alla rovina delle classi stesse. Naturalmente nessuna classe vuole distruggere se stessa. Per questo, per quanto aspra possa essere la lotta di classe, essa non può portare alla scissione della società. Solo la ignoranza del marxismo e una totale incomprensione della natura della lingua possono aver suggerito ad alcuni nostri compagni la favola della scissione della società, delle lingue «di classe» e delle grammatiche «di classe».
Si fa pure riferimento a Lenin e si ricorda che egli aveva riconosciuto l’esistenza di due culture sotto il capitalismo, l’una borghese e l’altra proletaria, e che la parola d’ordine della cultura nazionale sotto il capitalismo è una parola d’ordine nazionalista. Tutto questo è vero e Lenin ha assolutamente ragione. Ma che c’entra il «carattere di classe» della lingua? Quando questi compagni si riferiscono a ciò che Lenin disse sulle due culture sotto il capitalismo, è evidente che vogliono suggerire al lettore che l’esistenza di due culture, borghese e proletaria, in una società, significhi che vi debbano essere anche due lingue, in quanto la lingua sarebbe legata alla cultura; che Lenin neghi quindi l’esistenza di una comune lingua nazionale; che Lenin sia per la lingua «di classe». L’errore di questi compagni sta nel fatto che essi identificano e confondono la lingua con la cultura. Ma la cultura e la lingua sono due cose diverse. La cultura può essere borghese o socialista, mentre la lingua, come mezzo di comunicazione, è sempre una comune lingua nazionale e può servire sia la cultura borghese che quella socialista. Non è un fatto che le lingue russa, ucraina, uzbeka, oggi servono la cultura socialista di queste nazioni, proprio come servivano le loro culture borghesi prima della Rivoluzione d’Ottobre? Questo vuol dire che si sbagliano profondamente questi compagni, affermando che l’esistenza di due differenti culture porti alla formazione di due lingue diverse e alla negazione della necessità di una lingua unica.
Quando parlava di due culture, Lenin partiva precisamente dal principio che l’esistenza di due culture non può portare alla negazione di una lingua comune e alla formazione di due lingue, che la lingua deve essere una sola. Quando gli esponenti del Bund accusarono Lenin di negare la necessità di una lingua nazionale e di considerare la cultura come «non nazionale», Lenin, come è noto, protestò risolutamente e dichiarò che egli combatteva contro la cultura borghese e non contro la lingua nazionale, la cui necessità egli considerava indiscutibile. E’ strano che alcuni dei nostri compagni abbiano seguito le orme degli esponenti del Bund.
Per quanto riguarda il linguaggio unico, la cui necessità Lenin negherebbe, basta rivolgere l’attenzione alle seguenti parole di Lenin:
«La lingua è il mezzo più importante di comunicazione umana; l’unità della lingua e il suo sviluppo senza ostacoli è una delle condizioni più importanti per un commercio realmente libero e vasto, adeguato al capitalismo moderno, per un libero e vasto raggruppamento della popolazione in classi».
Ne deriva che i nostri egregi compagni hanno travisato le opinioni di Lenin.
Si fa infine riferimento a Stalin. Si cita il passo di Stalin, in cui si dice che «la borghesia e i suoi partiti nazionalisti erano e rimangono in tale periodo la principale forza dirigente di queste nazioni». Ciò è verissimo. La borghesia e il suo partito nazionalista realmente dirigono la cultura borghese, così come il proletariato e il suo partito internazionalista dirigono la cultura proletaria. Ma che c’entra qui il «carattere di classe» della lingua? Non sanno forse questi compagni che la lingua nazionale è una forma della cultura nazionale, che la lingua nazionale può servire sia la cultura borghese che quella socialista? Non conoscono dunque i nostri compagni la nota formula dei marxisti che le attuali culture russa, ucraina, bielorussa, ecc. sono socialiste nel contenuto e nazionali nella forma, ossia nella lingua? Sono essi d’accordo con questa formula marxista?
Qui l’errore dei nostri compagni sta nel fatto che essi non vedono la differenza tra cultura e lingua, non comprendono che la cultura muta di contenuto ad ogni nuovo periodo di sviluppo della società, mentre la lingua rimane fondamentalmente la stessa lingua per la durata di alcuni periodi, servendo la nuova come la vecchia cultura.
Pertanto:
a) la lingua come mezzo di comunicazione è sempre stata e rimane unica per una società e comune a tutti i suoi membri;
b) l’esistenza di dialetti e di gerghi non nega ma conferma l’esistenza di una lingua comune a tutto il popolo, della quale essi sono le ramificazioni e alla quale sono subordinati;
c) la formula del «carattere di classe» della lingua è una formula errata e non marxista.

Domanda: Quali sono i tratti caratteristici della lingua?
Risposta: La lingua è uno di quei fenomeni sociali che operano per tutta la durata di una società. Essa nasce e si sviluppa con il nascere e lo svilupparsi della società. Essa muore col morire della società. Senza società non c’è lingua. Perciò la lingua e le sue leggi di sviluppo possono essere comprese solo se vengono studiate in inscindibile connessione con la storia della società, con la storia del popolo a cui appartiene la lingua studiata e che è creatore e depositario di questa lingua.
La lingua è un mezzo, uno strumento con l’aiuto del quale gli uomini comunicano gli uni con gli altri, scambiano i pensieri e giungono a comprendersi reciprocamente. Essendo direttamente connessa con il pensiero, la lingua registra e cristallizza in parole, e in parole coordinate in proposizioni, i risultati del pensiero e i successi del lavoro di ricerca dell’uomo, rendendo così possibile lo scambio delle idee nella società umana.
Lo scambio delle idee è una necessità costante e vitale, perché senza di esso è impossibile coordinare le azioni degli uomini nella lotta contro le forze della natura, nella lotta per la produzione dei beni materiali indispensabili; è impossibile ottenere successi nell’attività produttiva della società e, pertanto, è impossibile l’esistenza stessa della produzione sociale. Di conseguenza, senza una lingua compresa dalla società e comune a tutti i suoi membri, la società cessa la produzione e cessa di esistere come società. In questo senso la lingua, strumento di comunicazione, è in pari tempo strumento di lotta e di sviluppo della società.
Come è noto, tutte le parole di una lingua messe assieme ne formano il cosiddetto patrimonio lessicale. La cosa principale nel patrimonio lessicale di una lingua è la sua parte fondamentale, che comprende anche, come suo nocciolo, tutti i vocaboli radicali. Esso è molto meno esteso del patrimonio lessicale della lingua, ma vive molto a lungo nel corso del secoli, e dà alla lingua una base per la formazione di nuove parole. Il patrimonio lessicale riflette lo stato della lingua: quanto più ricco e vario è il patrimonio lessicale tanto più ricca e sviluppata è la lingua.
Tuttavia, di per se stesso, il patrimonio lessicale non costituisce ancora la lingua: esso è piuttosto il materiale di costruzione della lingua. Così come nel lavoro edile i materiali di costruzione non costituiscono l’edificio, sebbene quest’ultimo non possa essere costruito senza di essi, così pure il patrimonio lessicale non costituisce la lingua stessa, sebbene nessuna lingua sia concepibile senza di esso. Ma il patrimonio lessicale di una lingua assume un’estrema importanza quando è messo a disposizione della grammatica, che fissa le regole della modificazione delle parole e l’ordinamento delle parole nelle proposizioni, dando così alla lingua un carattere ordinato e significativo. La grammatica (morfologia, sintassi) è la raccolta delle regole che governano la modificazione dei vocaboli e il loro coordinamento nelle proposizioni. E’ pertanto grazie alla grammatica che la lingua acquista la possibilità di rivestire i pensieri dell’uomo di un tegumento linguistico materiale.
Il tratto caratteristico della grammatica sta nel fatto che essa dà le regole della modificazione delle parole, non riferendosi a parole concrete, ma a parole in generale, senza alcuna concretezza; essa dà pure le regole per la formazione delle proposizioni, non riferendosi ad alcuna proposizione concreta, per esempio a un soggetto concreto, a un predicato concreto, ecc., ma, in generale, a tutte le proposizioni, indipendentemente dalla forma concreta dell’una o dell’altra. Pertanto, facendo astrazione dal particolare e dal concreto, così nelle parole, come nelle proposizioni, la grammatica prende ciò che è generale, ciò che sta alla base della modificazione delle parole e del loro coordinamento in proposizioni, traendone regole e leggi grammaticali. La grammatica è il risultato di un lungo lavoro di astrazione del pensiero umano, è un indice degli immani progressi del pensiero.
Sotto questo aspetto, la grammatica ricorda la geometria, la quale fissa le proprie leggi facendo astrazione dagli oggetti concreti, considerando gli oggetti come corpi privi di ogni concretezza e definendo le relazioni tra di essi non come relazioni concrete tra oggetti concreti, ma come relazioni di corpi in generale, privi di ogni concretezza.
A differenza della sovrastruttura, che è connessa alla produzione non direttamente ma pel tramite dell’economia, la lingua è direttamente connessa all’attività produttiva dell’uomo, come pure a ogni altra attività in tutte le sfere del suo lavoro, senza eccezione. Perciò il patrimonio lessicale della lingua, essendo il più sensibile ai mutamenti, si trova in condizioni di mutamento quasi ininterrotto e, diversamente dalla sovrastruttura, la lingua non deve aspettare che la base sia liquidata: essa apporta cambiamenti al suo patrimonio lessicale prima che la base sia liquidata e prescindendo dalla consistenza della base.
Tuttavia il patrimonio lessicale di una lingua non cambia come la sovrastruttura, abolendo il vecchio e costruendo qualcosa di nuovo, ma arricchendo il vocabolario esistente con nuove parole, sorte in relazione con i cambiamenti del sistema sociale, con lo sviluppo della produzione, con lo sviluppo dell’agricoltura, della scienza, ecc. E sebbene un certo numero di parole antiquate scompaiano abitualmente dal patrimonio lessicale della lingua, un numero molto più grande di nuove parole vengono ad aggiungersi ad esso. Quanto alla parte fondamentale di questo patrimonio, essa essenzialmente si conserva e viene utilizzata come base per il patrimonio lessicale della lingua.
E la cosa è comprensibile. Non v’è necessità di distruggere la parte fondamentale del patrimonio lessicale, se essa può venire efficacemente usata per la durata di vari periodi storici; senza dire che, essendo impossibile creare un nuovo patrimonio lessicale fondamentale entro un breve periodo di tempo, la distruzione del patrimonio lessicale fondamentale accumulato nel corso dei secoli provocherebbe la paralisi della lingua, la completa interruzione delle comunicazioni tra gli uomini.
La struttura grammaticale di una lingua cambia ancora più lentamente del suo patrimonio lessicale fondamentale. Elaborata nel corso delle epoche e divenuta carne e sangue della lingua, la struttura grammaticale muta ancor più lentamente del patrimonio lessicale fondamentale. Essa naturalmente subisce dei cambiamenti con l’andar del tempo, si perfeziona, migliora, precisa le sue regole e si arricchisce di regole nuove; ma le fondamenta della struttura grammaticale durano per lunghissimo tempo poiché, come insegna la storia, possono utilmente servire alla società per la durata delle varie epoche.
Così la struttura grammaticale della lingua e il suo patrimonio lessicale fondamentale ne costituiscono il fondamento e l’essenza specifica.
La storia registra la grande stabilità delle lingue e la loro enorme capacità di resistenza alla assimilazione forzata. Alcuni storici, invece di spiegare questo fenomeno, si limitano a meravigliarsene. Ma non c’è qui nessuna ragione di meraviglia. La stabilità di una lingua si spiega con la stabilità della sua struttura grammaticale e del suo patrimonio lessicale fondamentale. Per centinaia di anni gli assimilatori turchi si sforzarono di mutilare, frantumare e distruggere le lingue dei popoli balcanici. Durante questo periodo il vocabolario delle lingue balcaniche subì notevoli mutamenti; molte parole ed espressioni turche furono assorbite; vi furono «convergenze» e «divergenze», ma le lingue balcaniche si mantennero salde e sopravvissero. Perché? Perché la struttura grammaticale e il patrimonio lessicale fondamentale di queste lingue si erano in complesso conservati.
Da tutto ciò deriva che non si può considerare una lingua, e la sua struttura, come prodotto di una sola epoca. La struttura della lingua, la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale sono il prodotto di parecchie epoche.
E’ presumibile che i rudimenti della lingua moderna si siano formati in una remota antichità, prima dell’era della schiavitù. Era quella una lingua non complessa, con un patrimonio lessicale molto esiguo, ma con una sua struttura grammaticale, sia pure primitiva.
Il successivo sviluppo della produzione, l’apparire delle classi, l’apparire della scrittura, il nascere dello Stato, che aveva bisogno di una più o meno regolare corrispondenza, l’invenzione della stampa, lo sviluppo della letteratura, tutto ciò portò grandi cambiamenti nello sviluppo della lingua. Frattanto le tribù e le nazionalità si frazionarono e si sparpagliarono, si mescolarono e si incrociarono; e successivamente apparvero le lingue e gli Stati nazionali, avvennero rivolgimenti rivoluzionari e i vecchi regimi sociali furono soppiantati dai nuovi. Tutto ciò portò cambiamenti ancora maggiori nella lingua e nel suo sviluppo.
Sarebbe tuttavia un profondo errore pensare che lo sviluppo della lingua sia avvenuto nello stesso modo che lo sviluppo della sovrastruttura: distruggendo ciò che esisteva e costruendo qualcosa di nuovo. In realtà lo sviluppo della lingua non è avvenuto per mezzo della distruzione della lingua esistente e la creazione di una lingua nuova, ma per mezzo dell’espansione e del perfezionamento degli elementi fondamentali della lingua esistente. Cosicché il passaggio di una lingua da una qualità ad un’altra non è avvenuto per mezzo di un’esplosione, per mezzo della distruzione in un sol colpo dell’antico e della creazione del nuovo, ma per mezzo di un graduale e prolungato accumularsi degli elementi della nuova qualità, della nuova struttura della lingua e attraverso la graduale scomparsa degli elementi della vecchia qualità.
Si dice che la teoria dello sviluppo per stadi delle lingue è una teoria marxista, poiché essa riconosce la necessità delle improvvise esplosioni come condizioni per il passaggio di una lingua da una vecchia a una nuova qualità. Ciò è naturalmente falso, perché è difficile trovare qualcosa di marxista in questa teoria. Se la teoria degli stadi ammette realmente le esplosioni improvvise nella storia dello sviluppo delle lingue, tanto peggio per essa. Il marxismo non ammette le esplosioni improvvise nello sviluppo delle lingue, la morte improvvisa di una lingua esistente e l’improvvisa comparsa di una lingua nuova. Lafargue sbagliava quando parlava di una «improvvisa rivoluzione linguistica avvenuta tra il 1789 e il 1794» in Francia (vedi l’opuscolo di Lafargue La lingua e la rivoluzione). Nessuna rivoluzione linguistica, e tanto meno improvvisa, avvenne allora in Francia. Certo in quel periodo il patrimonio lessicale della lingua francese venne arricchito di parole ed espressioni nuove, un certo numero di parole antiquate scomparvero e il significato di certe parole mutò, e questo fu tutto. Ma i cambiamenti di questo genere non decidono affatto del destino di una lingua. La cosa principale di una lingua è la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale. Ma la struttura grammaticale e il patrimonio lessicale fondamentale della lingua francese non solo non scomparvero nel periodo della Rivoluzione francese, ma si conservarono senza cambiamenti sostanziali e non solo si conservarono, ma continuano a vivere anche oggi nella moderna lingua francese. E non parlo neppure del fatto che per la liquidazione di una lingua esistente e per la formazione di una nuova lingua nazionale («una improvvisa rivoluzione linguistica»!) un periodo di cinque o sei anni è breve fino al ridicolo. Occorrono secoli, per questo.
Il marxismo ritiene che il passaggio di una lingua da una vecchia a una nuova qualità non avviene per mezzo di un’esplosione, per mezzo della distruzione della lingua esistente e della creazione di una nuova lingua, ma per mezzo della graduale accumulazione degli elementi della nuova qualità, e conseguentemente, per mezzo della graduale scomparsa degli elementi della vecchia qualità.
Bisogna dire, in generale, per questi compagni che hanno una infatuazione per le esplosioni, che la legge di transizione da una vecchia a una nuova qualità per mezzo di un’esplosione non soltanto è inapplicabile alla storia dello sviluppo della lingua, ma non è sempre applicabile neppure agli altri fenomeni sociali, siano essi di ordine strutturale o sovrastrutturale. Essa è obbligatoria per una società divisa in classi ostili; ma non è affatto obbligatoria per una società dove non esistono classi ostili. In un periodo di otto-dieci anni noi abbiamo effettuato, nell’agricoltura del nostro Paese, un passaggio dall’ordinamento borghese contadino individuale all’ordinamento socialista, colcosiano. E’ stata una rivoluzione che ha eliminato il vecchio ordinamento economico borghese nelle campagne e ha creato il nuovo ordinamento socialista. Tuttavia questo rivolgimento non è avvenuto per mezzo di una esplosione, vale a dire per mezzo del rovesciamento del potere esistente e della creazione di un nuovo potere, ma per mezzo di un passaggio graduale dal vecchio ordinamento agricolo borghese a un nuovo ordinamento. E si è riusciti a far questo perché questa è stata una rivoluzione dall’alto, perché il rivolgimento è stato compiuto per iniziativa del potere esistente, con l’appoggio delle masse fondamentali dei contadini.
Si dice che numerosi esempi d’incrocio delle lingue avvenuti nella storia danno motivo di supporre che, quando avviene l’incrocio, si forma una nuova lingua, per mezzo di un’esplosione, per mezzo di un subitaneo passaggio da una vecchia a una nuova qualità. Ciò è assolutamente falso.
L’incrocio delle lingue non può essere considerato come un unico atto, un colpo decisivo, che dà i suoi risultati in pochi anni. L’incrocio delle lingue è un lungo processo, che continua per centinaia di anni. Non si può quindi parlare in tali casi di nessuna esplosione.
Ancora. Sarebbe assolutamente sbagliato pensare che come risultato dell’incrocio, diciamo, di due lingue, si ottenga una nuova, terza lingua, che non assomigli a nessuna delle due lingue incrociatesi e differisca qualitativamente da ciascuna delle due. Difatti, una delle lingue esce solitamente vittoriosa dall’incrocio, conserva la sua struttura grammaticale, conserva il suo patrimonio lessicale fondamentale e continua a svilupparsi secondo le leggi interne del suo sviluppo, mentre l’altra lingua perde gradatamente la sua qualità e gradatamente si estingue.
Di conseguenza, l’incrocio non produce una nuova terza lingua; ma conserva una delle lingue, conserva la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale e le dà la possibilità di svilupparsi secondo le leggi interne del suo sviluppo.
E’ vero, con ciò si produce un certo arricchimento del patrimonio lessicale della lingua vincitrice a spese della lingua vinta, ma ciò non l’indebolisce, anzi, al contrario, la rafforza.
Così è avvenuto, ad esempio, per la lingua russa, con la quale, nel corso dello sviluppo storico, si incrociarono le lingue di molti altri popoli, e che è sempre uscita vittoriosa.
Naturalmente, il patrimonio lessicale della lingua russa è stato arricchito, nel corso di tale processo, dal patrimonio lessicale delle altre lingue, però ciò non solo non ha indebolito, anzi, al contrario, ha arricchito e rafforzato la lingua russa.
Per quanto riguarda l’originalità nazionale della lingua russa, essa non ne ha avuto il benché minimo danno, poiché la lingua russa, conservando la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale, ha continuato a progredire e a perfezionarsi secondo le leggi interne del suo sviluppo.
E’ fuori dubbio che la teoria dell’incrocio non può dare nulla di serio alla linguistica. Se è vero che il principale compito della linguistica è lo studio delle leggi interne dello sviluppo della lingua, bisogna riconoscere che la teoria dell’incrocio, non solo non assolve questo compito, ma non se lo pone neppure: essa semplicemente non lo avverte o non lo comprende.

Domanda: Ha fatto bene la Pravda ad aprire una libera discussione sui problemi della linguistica?
Risposta: Sì, ha fatto bene.
In questo senso verranno risolti problemi della linguistica, sarà chiaro alla fine della discussione. Ma si può dire fin d’ora che la discussione è stata molto proficua.
La discussione ha rivelato, in primo luogo, che negli organismi linguistici, sia al centro che nelle repubbliche, dominava un regime non adatto alla scienza e agli uomini di scienza. La minima critica alla situazione esistente nella linguistica sovietica, finanche i più timidi tentativi di criticare la cosiddetta «nuova dottrina» della lingua erano perseguitati e stroncati dai circoli linguistici dirigenti. Per aver avuto un atteggiamento critico verso l’eredità di N. Ia. Marr o per la più piccola disapprovazione della dottrina di N. Ia. Marr, valenti studiosi e ricercatori nel campo della linguistica sono stati allontanati dal loro posto o retrocessi. Gli studiosi di linguistica sono stati chiamati a posti di responsabilità non per riconoscimento del loro lavoro, ma per la incondizionata accettazione della dottrina di N. Ia. Marr.
Si riconosce generalmente che nessuna scienza può svilupparsi e fiorire senza lotta delle opinioni, senza libertà di critica. Ma questa norma riconosciuta da tutti è stata ignorata e calpestata nel modo più sfacciato. Si è costituito un ristretto gruppo di dirigenti infallibili, che, essendosi assicurato contro ogni possibile critica, si è messo ad agire arbitrariamente e scandalosamente.
Un esempio: il cosiddetto Corso di Bakù (lezioni tenute da N. Ia. Marr a Bakù), che l’autore stesso aveva ripudiato vietandone la ristampa, è stato tuttavia ripubblicato per ordine di questa casta dirigente (il compagno Mestcianinov li chiama discepoli di N. Ia. Marr) e incluso senza riserve nella lista dei manuali raccomandati agli studenti. Ciò significa che si sono ingannati gli studenti ripresentando loro come un ottimo manuale un Corso ripudiato dall’autore. Se non fossi convinto della integrità del compagno Mestcianinov e degli altri studiosi di linguistica, direi che una condotta simile equivale a un sabotaggio.
Come è potuto accadere questo? Ciò è accaduto perché il regime alla Arakceiev istaurato nella linguistica coltiva l’irresponsabilità e incoraggia simili scandali.
La discussione è stata molto utile innanzitutto perché ha portato questo regime alla Arakceiev alla luce del giorno e l’ha stritolato.
Ma l’utilità della discussione non si riduce a questo. Essa non ha soltanto demolito il vecchio regime nella linguistica, ma anche rivelato l’incredibile confusione di idee sulle più importanti questioni della linguistica, che domina nei circoli dirigenti di questo ramo della scienza. Prima dell’inizio della discussione, essi tacevano e nascondevano la disgraziata situazione esistente nella linguistica. Ma, dopo l’inizio della discussione, era ormai impossibile tacere ed essi sono stati costretti a pronunciarsi sulle colonne dei giornali. E allora? E’ risultato che nelle dottrine di N. Ia. Marr vi sono molte deficienze, errori, problemi non precisati e tesi non elaborate a fondo. Perché, ci si chiede, i «discepoli» di N. Ia. Marr hanno cominciato a parlare di questo soltanto ora, dopo l’inizio della discussione? Perché non si sono preoccupati di farlo prima? Perché non ne hanno parlato a tempo debito, apertamente e onestamente, come si conviene a scienziati?
Avendo ammesso «alcuni» errori di N. Ia. Marr i suoi «discepoli» pensano a quanto pare che la linguistica sovietica possa svilupparsi soltanto sulla base della teoria di N. Ia. Marr «rettificata», perché considerano questa teoria come marxista. Ma no, liberateci dal «marxismo» di N. Ia. Marr! N. Ia. Marr avrebbe infatti voluto essere e si è sforzato di essere una marxista, ma non riuscì a diventarlo. Egli non fu altro che un semplificatore e un volgarizzatore del marxismo, come gli esponenti del «Proletcult» o del «RAPP».
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica la formula sbagliata, non marxista della lingua come sovrastruttura; cadde nella confusione e portò la confusione nella linguistica. Sulla base di una formula sbagliata non è possibile sviluppare la linguistica sovietica.
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica l’altra formula, anch’essa sbagliata e non marxista, del «carattere di classe» della lingua; cadde nella confusione e portò la confusione nella linguistica. Sulla base di una formula sbagliata, in contrasto con tutto il corso della storia dei popoli e delle lingue, non è possibile sviluppare la linguistica sovietica.
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica un tono presuntuoso, borioso e arrogante, estraneo al marxismo, che ha portato a una grossolana e superficiale negazione di quanto era stato fatto nella linguistica prima di N. Ia. Marr.
N. Ia. Marr diffama a gran voce il metodo storico comparativo, chiamandolo «idealistico». Eppure bisogna dire che, malgrado le sue serie deficienze, il metodo storico comparativo è tuttavia migliore dell’analisi, effettivamente idealistica, con i «quattro elementi» di N. Ia. Marr, perché il primo stimola al lavoro, allo studio delle lingue, mentre l’altra incita soltanto all’ozio e a strologare sui fondi di caffè con l’aiuto dei famosi quattro elementi.
N. Ia. Marr tratta altezzosamente ogni tentativo di studiare i gruppi (le famiglie) linguistici come manifestazione della teoria della «prelingua». Eppure non si può negare, per esempio, che l’affinità linguistica delle nazioni slave è fuori discussione, e che uno studio dell’affinità linguistica di queste nazioni potrebbe essere di grande utilità per la linguistica, nello studio delle leggi di sviluppo della lingua. La teoria della «prelingua» non ha naturalmente nulla a che fare con la questione.
Ascoltando N. Ia. Marr e specialmente i suoi «discepoli», si potrebbe pensare che prima di N. Ia. Marr non esistesse nessuna linguistica, che la linguistica sia incominciata con la «nuova teoria» di N. Ia. Marr. Marx ed Engels erano molto più modesti: essi ritenevano che il loro materialismo dialettico fosse un prodotto dello sviluppo delle scienze, compresa la filosofia, nei periodi precedenti.
Così la discussione è stata utile anche perché ha messo in luce le lacune ideologiche della linguistica sovietica.
Credo che quanto prima la nostra linguistica si sbarazzerà degli errori di N. Ia. Marr, tanto più presto sarà possibile farla uscire dalla crisi che attraversa attualmente.
Eliminazione del regime alla Arakceiev nella linguistica, ripudio degli errori di N. Ia. Marr e penetrazione del marxismo della linguistica: tale è, a mio parere, la via per la quale si potrebbe risanare la linguistica sovietica.

20 giugno 1950

 

A proposito di alcune questioni di linguistica


Compagna Krasceninnikova, rispondo alle vostre domande.
Prima domanda: Il vostro articolo dimostra in modo convincente che la lingua non è né base né sovrastruttura. Sarebbe giusto considerare la lingua come un fenomeno peculiare sia della base che della sovrastruttura, o sarebbe più esatto ritenere la lingua un fenomeno intermedio?
Risposta: Naturalmente, è peculiare alla lingua come fenomeno sociale, ciò che è inerente a tutti i fenomeni sociali, compresa la base e la sovrastruttura, e precisamente: essa serve la società nello stesso modo come servono la società tutti gli altri fenomeni sociali, compresa la base e la sovrastruttura. Ma ciò, in sostanza, esaurisce quanto è comune e inerente a tutti i fenomeni sociali. Dopo di che, incominciano tra i fenomeni sociali serie distinzioni.
Sta di fatto che i fenomeni sociali hanno, oltre a quanto è comune, proprie peculiarità specifiche, che li distinguono gli uni dagli altri e che sono di grande importanza per la scienza. Le peculiarità specifiche della base consistono nel fatto che questa serve economicamente la società. Le peculiarità specifiche della sovrastruttura consistono nel fatto che questa serve la società per mezzo delle idee politiche, giuridiche, estetiche e di altro genere e crea per la società le corrispondenti istituzioni politiche, giuridiche e d’altro tipo. In che cosa consistono allora le peculiarità specifiche della lingua, che la distinguono dagli altri fenomeni sociali? Esse consistono nel fatto che la lingua serve la società come mezzo di comunicazione tra gli individui, come mezzo di scambio delle idee nella società, come mezzo che dà agli individui la possibilità di comprendersi reciprocamente e di organizzare un comune lavoro in tutte le sfere dell’attività umana, nella sfera della produzione come in quella delle relazioni economiche, nella sfera della politica come in quella della cultura, nella vita sociale e d’ogni giorno. Queste peculiarità appartengono solo alla lingua, la lingua costituisce l’oggetto di studio di una scienza indipendente, la linguistica. Se non vi fossero queste peculiarità della lingua, la linguistica perderebbe il suo diritto a una esistenza indipendente.
In breve: la lingua non può essere classificata né tra le basi né tra le sovrastrutture.
Essa non può neppure essere classificata tra i fenomeni «intermedi» tra la base e la sovrastruttura, in quanto tali fenomeni «intermedi» non esistono.
Ma forse la lingua potrebbe essere classificata tra le forze produttive della società, tra gli strumenti della produzione, per esempio? Effettivamente, tra la lingua e gli strumenti della produzione esiste una certa analogia: gli strumenti della produzione, al pari della lingua, manifestano una specie di indifferenza verso le classi e possono servire egualmente le differenti classi della società, sia vecchie che nuove. Questa circostanza dà motivo di classificare la lingua tra gli strumenti della produzione? No, non dà questo motivo.
Una volta, N. Ia. Marr, costatando che la sua formula: «la lingua è una sovrastruttura rispetto alla base», incontrava obiezioni, decise di «riaggiustare» la sua teoria e annunciò che «la lingua è uno strumento della produzione». Aveva ragione N. Ia. Marr di classificare la lingua tra gli strumenti della produzione? No, egli certamente aveva torto.
Sta di fatto che la rassomiglianza tra la lingua e gli strumenti della produzione si riduce a quella analogia di cui ho parlato prima. Ma, d’altra parte, esiste una differenza radicale tra la lingua e gli strumenti della produzione. Questa differenza sta nel fatto che, mentre gli strumenti della produzione producono beni materiali, la lingua non produce nulla, o «produce» soltanto parole. Per essere più esatti, gli individui che posseggono strumenti di produzione possono produrre beni materiali, ma quelle stesse persone che, pur disponendo della lingua, non hanno strumenti di produzione, non possono produrre beni materiali. Non è difficile comprendere che se la lingua fosse capace di produrre beni materiali, i chiacchieroni sarebbero le persone più ricche della terra.
Seconda domanda: Marx ed Engels definiscono la lingua «realtà immediata del pensiero», come «coscienza pratica… reale». «Le idee – dice Marx – non esistono separatamente dalla lingua». In quale misura, secondo la vostra opinione, la linguistica si dovrebbe occupare dell’aspetto semantico della lingua, della semantica, della semasiologia storica e stilistica, oppure il soggetto della linguistica dovrebbe essere soltanto la forma?
Risposta: La semantica (semasiologia) è una delle parti importanti della linguistica. La semantica delle parole e delle espressioni ha una grande importanza nello studio della lingua. Pertanto, alla semantica (semasiologia) deve essere riservato nella linguistica il posto che le conviene.
Tuttavia, trattando i problemi della semantica e utilizzando i suoi dati, non si deve in alcun modo sopravvalutarne la importanza, né tanto meno si deve abusare di essa. Penso a taluni linguisti che, indulgendo eccessivamente alla semantica, trascurano la lingua come «realtà immediata del pensiero» inseparabilmente connessa col processo del pensiero, separano il processo del pensiero dalla lingua, e sostengono che la lingua stia diventando una sopravvivenza e che sia possibile farne a meno.
Fate attenzione alle seguenti parole di N. Ia. Marr: «La lingua esiste solo in quanto si esprime con i suoni; l’azione del pensare avviene anche senza che ci sia la espressione… La lingua (lingua parlata) ha già cominciato a cedere le sue funzioni alle ultime invenzioni, che stanno conquistando senza riserve lo spazio, mentre il processo del pensiero si sta elevando sempre di più al di sopra delle sue accumulazioni nel passato inutilizzate e delle sue nuove acquisizioni, spodestando e sostituendo la lingua. La lingua futura sarà il processo del pensiero sviluppantesi in una tecnica libera da materia naturale. Nessuna lingua, neppure la lingua parlata, benché connessa con un processo naturale, riuscirà a resisterle».
(Vedi Opere scelte di N. Ia. Marr).
Se cerchiamo di tradurre questi giuochi di prestigio della teoria «magico-lavorativa» in un semplice linguaggio umano, si può trarre la conclusione che:
a) N. Ia. Marr separa il processo del pensiero dalla lingua;
b) N. Ia. Marr ritiene che la comunicazione tra gli uomini possa realizzarsi anche senza la lingua, con l’aiuto dello stesso processo del pensiero, libero dalla «materia naturale» della lingua, libero dalle «norme della natura»;
c) separando il processo del pensiero dalla lingua e avendolo «liberato» dalla «materia naturale» della lingua, N. Ia. Marr affonda nel pantano dell’idealismo.
Si dice che i pensieri sorgano nella mente dell’uomo prima che essi vengano espressi nel discorso, che sorgano senza il linguaggio materiale, senza un rivestimento linguistico, in una forma, per così dire, nuda. Ma ciò è assolutamente sbagliato. Qualsiasi pensiero sorga nella mente dell’uomo, esso può sorgere ed esistere solo sulla base del materiale linguistico, sulla base della terminologia e delle frasi del linguaggio. Pensieri nudi, liberi dal materiale linguistico, liberi dalla «materia naturale» della lingua non esistono. «La lingua è la realtà immediata del pensiero» (Marx). La realtà del pensiero si manifesta nella lingua. Solo gli idealisti possono parlare di un processo del pensiero non connesso alla «materia naturale» della lingua, di un processo del pensiero senza lingua.
In breve: una sopravvalutazione della semantica e l’abuso di essa hanno portato N. Ia. Marr all’idealismo.
Di conseguenza, se la semantica (semasiologia) viene salvaguardata dalle esagerazioni e dagli abusi, simili a quelli a cui indulgono N. Ia. Marr e alcuni suoi «discepoli», essa può dare alla linguistica un grande aiuto.
Terza domanda: Voi dite, del tutto giustamente, che i borghesi e i proletari hanno idee, rappresentazioni, costumi e princìpi morali diametralmente opposti. Il carattere di classe di questi fenomeni ha certamente avuto una influenza sull’aspetto semantico della lingua (e, a volte, anche sulla sua forma – il vocabolario – come giustamente viene rilevato nel vostro articolo). Analizzando il materiale linguistico concreto, e innanzitutto, il suo aspetto semantico, possiamo parlare dell’essenza classista dei concetti che esso esprime, particolarmente nei casi in cui si tratta dell’espressione linguistica non soltanto del pensiero dell’uomo ma anche del suo atteggiamento verso la realtà, dove la sua appartenenza a una classe si manifesta in modo particolarmente chiaro?
Risposta: In breve, voi volete sapere se le classi influenzino la lingua, se esse portino nella lingua le loro parole ed espressioni specifiche, se vi siano casi in cui gli uomini attribuiscono un significato differente, a seconda della classe a cui appartengono, alle stesse parole ed espressioni?
Sì, le classi influenzano la lingua, portano nella lingua le loro parole ed espressioni specifiche e, a volte, comprendono in modo diverso le stesse parole ed espressioni. Questo è indubbio.
Da ciò tuttavia, non deriva che le parole e le espressioni specifiche, e del pari la differenza nella semantica, possano avere seria importanza per lo sviluppo di una singola lingua comune a tutto il popolo, che esse siano capaci di attenuarne il significato o di mutarne il carattere.
Innanzitutto, queste parole ed espressioni specifiche, come pure i casi di differenza nella semantica, sono così pochi nella lingua, da costituire difficilmente l’uno per cento dell’intiero materiale linguistico. Di conseguenza, tutta la rimanente e prevalente massa di parole e di espressioni, come pure la loro semantica, sono comuni a tutte le classi della società.
In secondo luogo, le parole e le espressioni specifiche che hanno una parvenza di classe sono usate nel discorso non secondo le regole di una specie di grammatica «di classe», che non esiste nella realtà, ma secondo le regole della grammatica della lingua esistente, comune a tutto il popolo.
Di conseguenza, la presenza di parole ed espressioni specifiche e le differenze nella semantica della lingua non confutano, ma al contrario, confermano la esistenza e la necessità di una sola lingua, comune a tutto il popolo.
Quarta domanda: Nel vostro articolo voi definite giustamente Marr come un travisatore del marxismo. Significa ciò che i linguisti, compresi noi della giovane generazione, debbano trascurare tutta l’eredità linguistica di Marr, che, nondimeno, conta molte apprezzabili opere di ricerca linguistica (i compagni Cikobava, Sangeiev ed altri ne hanno scritto nel corso della discussione)? Possiamo noi, pur criticando Marr, trarre dalle sue opere ciò che è utile ed apprezzabile?
Risposta: Certamente, le opere di N. Ia. Marr non consistono soltanto di errori. N. Ia. Marr commise i più grossolani errori quando egli introdusse nella linguistica elementi del marxismo in una forma travisata, quando cercò di creare una teoria autonoma della lingua. Ma N. Ia. Marr ha scritto talune opere apprezzabili e di talento, nelle quali, dimenticando le sue pretese teoriche, con coscienza, e, si deve dire, con capacità, studia singole lingue. In tali opere si possono trovare non poche cose apprezzabili e istruttive. E’ chiaro che quanto vi è di apprezzabile e istruttivo deve essere preso da N. Ia. Marr e utilizzato.
Quinta domanda: Molti linguisti considerano il formalismo come una delle principali ragioni della stagnazione della linguistica sovietica. Gradiremmo conoscere la vostra opinione per sapere in che cosa consiste il formalismo nella linguistica e come debba essere superato.
Risposta: N. Ia. Marr e i suoi «discepoli» accusano di «formalismo» tutti i linguisti che non accettano la «nuova teoria» di N. Ia. Marr. Ciò, naturalmente, è poco serio e insensato.
N. Ia. Marr considerava la grammatica una vuota «formalità» e formalisti coloro i quali considerano il sistema grammaticale come fondamento della lingua. Ciò è del tutto ridicolo.
Ritengo che il «formalismo» sia stato inventato dagli autori della «nuova teoria» per facilitare la lotta contro i loro avversari nella linguistica.
Il motivo della stagnazione nella linguistica sovietica non è il «formalismo» inventato da N. Ia. Marr e dai suoi «discepoli», ma il regime alla Arakceiev e le deficienze teoriche nella linguistica. Il regime alla Arakceiev è stato istaurato dai «discepoli» di N. Ia. Marr. Il pasticcio teorico è stato portato nella linguistica da N. Ia. Marr e dai suoi scolari più vicini. Per uscire dalla stagnazione l’uno e l’altro vanno eliminati. L’eliminazione di queste piaghe sanerà la linguistica sovietica, la condurrà su una larga strada e le permetterà di occupare il primo posto nella linguistica del mondo.

29 giugno 1950

 

Risposta ai compagni


Al compagno Sangeiev
Caro compagno Sangeiev,
rispondo alla vostra lettera con molto ritardo, perché solo ieri essa mi è stata trasmessa dall’apparato del Comitato centrale.
Non v’è dubbio, voi interpretate giustamente la mia posizione sulla questione dei dialetti.
I «dialetti di classe», che sarebbe più esatto chiamare gerghi, servono non le masse del popolo, ma un ristretto gruppo sociale superiore. Inoltre, essi non hanno un proprio sistema grammaticale e un patrimonio lessicale fondamentale. Perciò non possono in alcun modo svilupparsi in lingue indipendenti.
I dialetti locali («territoriali»), invece, servono le masse del popolo e hanno un proprio sistema grammaticale e un proprio patrimonio lessicale fondamentale. Perciò taluni dialetti locali, nel processo di formazione delle nazioni, possono essere la base delle lingue nazionali e svilupparsi in lingue nazionali indipendenti. Così è avvenuto, per esempio, col dialetto di Kursk-Orel («parlata» di Kursk-Orel) della lingua russa, che è stato la base della lingua nazionale russa. Altrettanto può dirsi per il dialetto di Poltava-Kiev della lingua ucraina, che è stato la base della lingua nazionale ucraina. Per quanto riguarda gli altri dialetti di queste lingue, essi perdono la loro originalità, confluiscono in queste lingue e scompaiono in esse.
Si verificano pure dei processi inversi, quando la lingua unica di una nazionalità, non ancora divenuta nazione a causa dell’assenza delle condizioni economiche necessarie per tale sviluppo, scompare in seguito alla disintegrazione dello Stato di quella nazionalità, mentre i dialetti locali, non ancora arrivati a fondersi nella lingua unica, si ravvivano e costituiscono il punto di partenza per la formazione di lingue indipendenti, separate. E’ possibile che sia stato proprio questo il caso, per esempio, della lingua unica mongola.

11 luglio 1950

 

Ai compagni Bielkin e Furer
Ho ricevuto le vostre lettere.
Il vostro errore consiste nel fatto che avete confuso due cose differenti e sostituito l’oggetto che avevo esaminato nella mia risposta alla compagna Krasceninnikova con un altro oggetto.
1. – Io critico in questa risposta N. Ia. Marr, il quale, parlando della lingua (parlata) e del pensiero, separa la lingua dal pensiero e cade quindi nell’idealismo. Di conseguenza, si parla nella mia risposta delle persone normali, che posseggono una lingua. Io affermo quindi che i pensieri possono sorgere in queste persone solo sulla base del materiale linguistico; che pensieri nudi, senza legame con il materiale linguistico, non esistono nelle persone che posseggono una lingua.
Invece di accettare o respingere questa affermazione, voi venite a parlare delle persone anormali, senza lingua, dei sordomuti, che non hanno lingua e i cui pensieri, naturalmente, non possono sorgere sulla base di un materiale linguistico. Come vedete, questo è un tema del tutto differente, al quale non ho accennato e non potevo accennare, poiché la linguistica si occupa degli uomini normali, che posseggono una lingua, e non degli anormali, dei sordomuti che non hanno lingua.
Voi avete sostituito all’oggetto in discussione un altro oggetto, che non era in discussione.
2. – Dalla lettera del compagno Bielkin si vede che egli pone sullo stesso livello la «lingua delle parole» (lingua parlata) e la «lingua dei gesti» (la lingua «manuale» secondo N. Ia. Marr). Egli pensa, evidentemente, che la lingua dei gesti e la lingua parlata siano equivalenti; che una volta la società umana non aveva lingua parlata; che la lingua «manuale» era allora usata in luogo della lingua parlata, la quale sarebbe comparsa più tardi.
Ma se il compagno Bielkin pensa realmente una cosa simile, egli compie un grave errore. La lingua parlata o lingua delle parole è sempre stata la sola lingua della società umana, capace di servire come mezzo di comunicazione effettivo tra gli uomini. La storia non conosce una sola società umana, sia essa stata la più arretrata, che non abbia avuto la sua lingua parlata. L’etnografia non conosce nessuna piccola nazionalità arretrata, sia pure altrettanto primitiva o ancora più primitiva, per così dire, degli australiani o degli indigeni della Terra del Fuoco nel secolo scorso, che non abbia avuto la sua lingua parlata. La lingua parlata è stata, nella storia dell’umanità, una delle forze che hanno aiutato gli esseri umani a emergere dal mondo animale, a unirsi in società, a sviluppare il loro pensiero, a organizzare la produzione sociale, a condurre con successo la lotta contro le forze della natura e a conseguire il progresso che abbiamo attualmente.
Per questo aspetto, l’importanza della cosiddetta lingua dei gesti, in considerazione della sua estrema povertà e limitatezza, è trascurabile. Essa, in sostanza, non è una lingua e nemmeno un surrogato di lingua, capace, in un modo o nell’altro, di sostituire la lingua parlata, bensì uno strumento ausiliare, con mezzi estremamente limitati, usati a volte dall’uomo per sottolineare taluni momenti del suo discorso. La lingua dei gesti non può nemmeno essere posta sullo stesso livello della lingua parlata, così come non si può porre sullo stesso livello una primitiva zappa di legno e un moderno trattore con un aratro a cinque vomeri o una seminatrice.
3. – Evidentemente, voi vi interessate innanzitutto dei sordomuti e, solo dopo, dei problemi della linguistica. Probabilmente, è stata questa circostanza che vi ha spinto a rivolgermi varie domande. Bene, se voi insistete, non ho nulla in contrario a soddisfare il vostro desiderio. Come si pone la questione dei sordomuti? Lavora in essi il pensiero, sorgono in essi dei pensieri? Sì, in essi il pensiero lavora, i pensieri in essi sorgono. E’ chiaro che, nella misura in cui i sordomuti sono privati della lingua, i loro pensieri non possono sorgere sulla base di un materiale linguistico. Non significa ciò che i pensieri dei sordomuti sono pensieri nudi, non collegati con le «norme della natura» (espressione di N. Ia. Marr)? No, non lo significa affatto. I pensieri dei sordomuti sorgono e possono esistere solo sulla base di quelle immagini, percezioni, rappresentazioni, che essi si formano, rispetto agli oggetti del mondo esterno, nel corso della vita e nelle relazioni tra di loro, grazie ai sensi della vista, del tatto, del gusto e dell’odorato. Al di fuori di queste immagini, percezioni e rappresentazioni, il pensiero è vuoto, privo di qualsiasi contenuto, ossia non esiste.

22 luglio 1950

 

Al compagno Kholopov
Ho ricevuto la vostra lettera.
Vi rispondo con un certo ritardo perché sovraccarico di lavoro.
La vostra lettera procede, implicitamente, da due premesse: dalla premessa che sia ammissibile citare le opere di un autore staccandole dal periodo storico a cui si riferisce la citazione e, in secondo luogo, dalla premessa che questa o quella conclusione o formula del marxismo, a cui si sia giunti avendo studiato uno dei periodi dello sviluppo storico, siano giuste per tutti i periodi di sviluppo e quindi debbano rimanere immutabili.
Debbo dire che entrambe queste premesse sono profondamente errate.
Ecco alcuni esempi:
1. – Nel quarto decennio del secolo scorso, quando non esisteva ancora il capitalismo monopolistico, quando il capitalismo si sviluppava in modo più o meno regolare secondo una linea ascendente, estendendosi a nuovi territori non ancora da esso conquistati, e la legge dell’ineguale sviluppo non poteva ancora operare con tutta la sua forza, Marx ed Engels giunsero alla conclusione che la rivoluzione socialista non poteva vincere in un Paese soltanto, che essa poteva vincere solo in seguito a una azione generale in tutti o nella maggior parte dei Paesi civili. Questa conclusione divenne allora norma direttiva per tutti i marxisti.
Tuttavia, all’inizio del XX secolo, specialmente nel periodo della prima guerra mondiale, quando si rivelò evidente per tutti che il capitalismo premonopolistico si era chiaramente trasformato in capitalismo monopolistico, quando il capitalismo in ascesa era divenuto capitalismo morente, quando la guerra mise in luce le debolezze insanabili del fronte mondiale dell’imperialismo, mentre la legge dell’ineguale sviluppo determinava la maturazione della rivoluzione proletaria nei differenti Paesi in epoche diverse, Lenin, partendo dalla dottrina marxista, giunse alla conclusione che, nelle nuove condizioni di sviluppo, la rivoluzione socialista poteva benissimo vincere in un singolo determinato Paese, che la simultanea vittoria della rivoluzione socialista in tutti i Paesi o nella maggior parte dei Paesi civili era impossibile in considerazione dell’ineguale maturazione della rivoluzione in questi Paesi, che l’antica formula di Marx ed Engels non corrispondeva più alle nuove condizioni storiche.
Come si vede, abbiamo qui due differenti conclusioni circa la questione della vittoria del socialismo, le quali non soltanto si contraddicono, ma addirittura si escludono l’una con l’altra.
Taluni dogmatici e talmudisti che, senza penetrare la sostanza della questione, citano formalmente, senza tener conto delle condizioni storiche, potrebbero dire che una di queste conclusioni, in quanto assolutamente sbagliata, deve essere respinta, mentre l’altra, in quanto assolutamente giusta, deve essere estesa a tutti i periodi di sviluppo. Ma i marxisti non possono non sapere che i dogmatici e i talmudisti si sbagliano; non possono non sapere che entrambe queste conclusioni sono giuste, ma non in senso assoluto, bensì ciascuna per la sua epoca: la conclusione di Marx ed Engels, per il periodo del capitalismo premonopolistico, e la conclusione di Lenin, per il periodo del capitalismo monopolistico.
2. – Engels nel suo Antidühring ha detto che, dopo la vittoria della rivoluzione socialista, lo Stato deve scomparire. Su questa base, dopo la vittoria socialista nel nostro Paese, i dogmatici e i talmudisti del nostro partito cominciarono a chiedere che il partito prendesse delle misure per la più sollecita scomparsa del nostro Stato, per la dissoluzione degli organi dello Stato, per rinunziare all’esercito regolare.
Tuttavia, i marxisti sovietici, sulla base dello studio della situazione mondiale nei nostri tempi, sono giunti alla conclusione che, fino a che dura l’accerchiamento capitalistico, quando la vittoria della rivoluzione socialista ha avuto luogo in un solo Paese, mentre in tutti gli altri Paesi domina il capitalismo, il Paese della rivoluzione vittoriosa non deve indebolire, ma invece rafforzare in ogni modo il suo Stato, gli organi dello Stato, gli organi della vigilanza, l’esercito, a meno che questo paese non voglia essere travolto dall’accerchiamento capitalistico. I marxisti russi sono giunti alla conclusione che la formula di Engels considerava la vittoria del socialismo in tutti i Paesi, o nella maggior parte di essi, che essa è inapplicabile nel caso in cui il socialismo si affermi in un solo Paese, preso singolarmente, mentre in tutti gli altri Paesi domina il capitalismo.
Come si vece, abbiamo qui due diverse formule circa la questione della sorte di uno Stato socialista, che si escludono l’una con l’altra.
I dogmatici e i talmudisti possono dire che questa circostanza crea una situazione intollerabile, che una di queste formule deve essere respinta come assolutamente erronea, mentre l’altra, in quanto assolutamente giusta, deve essere applicata a tutti i periodi di sviluppo dello Stato socialista. I marxisti, tuttavia, non possono non sapere che i dogmatici e i talmudisti si sbagliano, perché entrambe queste formule sono giuste, ma non in senso assoluto, bensì ciascuna per la sua epoca; la formula dei marxisti sovietici, per il periodo della vittoria del socialismo in uno o più Paesi, e la formula di Engels, per il periodo in cui la successiva vittoria del socialismo in singoli Paesi condurrà alla vittoria del socialismo nella maggioranza dei Paesi, e quando verranno così a crearsi le condizioni necessarie per l’applicazione della formula di Engels.
Il numero di questi esempi potrebbe essere aumentato.
Lo stesso si deve dire per le due diverse formule circa la questione della lingua, prese da diverse opere di Stalin e citate dal compagno Kholopov nella sua lettera.
Il compagno Kholopov si riferisce allo scritto di Stalin A proposito del marxismo nella linguistica, in cui si trae la conclusione che, in seguito all’incrocio, diciamo, di due lingue, una di esse emerge di solito vittoriosa, mentre l’altra si estingue, e che, di conseguenza, l’incrocio non produce una nuova, terza lingua, ma conserva una delle due lingue. Egli si riferisce poi a un’altra conclusione, presa dal rapporto di Stalin al XVI Congresso del Partito comunista (b) dell’U.R.S.S., secondo la quale, nel periodo della vittoria del socialismo su scala mondiale, quando il socialismo sarà consolidato e sarà entrato nel costume degli uomini, le lingue nazionali dovranno inevitabilmente fondersi in una lingua comune, che, naturalmente, non sarà né la grande-russa, né la tedesca, ma qualcosa di nuovo. Paragonando queste due formule e costatando che esse, lungi dal coincidere, si escludono a vicenda, il compagno Kholopov si dà alla disperazione. «Dal vostro articolo – egli scrive nella sua lettera – ho compreso che una nuova lingua non può mai risultare dall’incrocio di più lingue, mentre prima di questo articolo ero fermamente convinto, d’accordo con il vostro discorso al XVI Congresso del Partito comunista (b) dell’U.R.S.S., che sotto il comunismo le lingue si fonderanno in una lingua comune».
E’ evidente che il compagno Kholopov, avendo scoperto una contraddizione tra queste due formule, è profondamente persuaso che la contraddizione debba venire eliminata; considera necessario disfarsi di una delle formule in quanto sbagliata, e attenersi all’altra, che sarebbe giusta per tutti i tempi e per tutti i Paesi. Ma a quale delle due formule precisamente restare attaccato, egli non lo sa. Sorge così una specie di situazione senza via di uscita. Il compagno Kholopov non sospetta nemmeno che ambedue le formule possano essere giuste, ciascuna per la sua epoca.
Così accade sempre ai dogmatici e ai talmudisti, i quali, senza penetrare nella sostanza della questione e citando formalmente, senza tener conto delle condizioni storiche alle quali le citazioni si riferiscono, si vengono invariabilmente a trovare in una situazione senza via d’uscita.
Eppure, se guardate alla sostanza delle cose, non v’è alcun motivo per una situazione senza via d’uscita. Il fatto è che l’opuscolo di Stalin A proposito del marxismo nella linguistica e il rapporto di Stalin al XVI Congresso del partito si riferiscono a due epoche completamente differenti, motivo per cui anche le formule differiscono.
La formula usata da Stalin nel suo opuscolo, nella parte in cui tratta dell’incrocio delle lingue, si riferisce all’epoca che precede la vittoria del socialismo su scala mondiale, quando le classi sfruttatrici sono la forza dominante nel mondo, quando l’oppressione nazionale e coloniale è ancora in vita, quando l’isolamento nazionale e la reciproca sfiducia tra le nazioni sono irrigidite dalle differenze di Stato; quando non vi è ancora eguaglianza nazionale, quando l’incrocio delle lingue procede nella forma di lotta per il dominio di una delle lingue, quando non vi sono ancora le condizioni per una pacifica e amichevole cooperazione tra le nazioni e tra le lingue, quando all’ordine del giorno non è la cooperazione e il reciproco arricchimento delle lingue, ma l’assimilazione di alcune lingue e la vittoria di altre. Si capisce che in queste condizioni vi possono essere soltanto lingue vincitrici e lingue vinte. Sono precisamente queste le condizioni a cui si riferisce la formula di Stalin, quando egli dichiara che l’incrocio, diciamo, di due lingue dà come risultato non la formazione di una nuova lingua, ma la vittoria dell’una e la sconfitta dell’altra.
Per quanto riguarda l’altra formula di Stalin, tratta dal discorso al XVI Congresso del partito, nella parte concernente la fusione delle lingue in una sola lingua comune, s’intende parlare, in tal caso, di una altra epoca, e precisamente dell’epoca successiva alla vittoria del socialismo su scala mondiale, quando l’imperialismo mondiale non esiste più, le classi sfruttatrici saranno state abbattute, l’oppressione nazionale e coloniale liquidata, l’isolamento nazionale e la reciproca sfiducia delle nazioni sostituite dalla reciproca fiducia e dal ravvicinamento delle nazioni stesse, la eguaglianza nazionale realizzata, la politica di soppressione e assimilazione delle lingue scomparsa, la cooperazione delle nazioni organizzata, e le lingue nazionali avranno la possibilità di arricchirsi liberamente a vicenda cooperando tra di loro. Si capisce che, in queste condizioni, non si può parlare di soppressione e di sconfitta di talune lingue e di vittoria di altre lingue. Allora non vi saranno due lingue, l’una delle quali venga ad essere sconfitta e l’altra a emergere vittoriosa dalla lotta, ma centinaia di lingue nazionali, dalle quali, in seguito alla prolungata collaborazione economica, politica e culturale delle nazioni, emergeranno dapprima le più ricche lingue comuni di zona, e a loro volta le lingue di zona si fonderanno successivamente in una comune lingua internazionale, che, naturalmente, non sarà né la tedesca, né la russa, né l’inglese, ma sarà una nuova lingua, la quale avrà assorbito i migliori elementi delle lingue nazionali e di zona.
Di conseguenza, le due diverse formule corrispondono a due diverse epoche di sviluppo della società e precisamente per il motivo che corrispondono ad esse, entrambe le formule sono giuste, ciascuna per la sua epoca.
Esigere che queste formule non si contraddicano l’una con l’altra, che non si escludano a vicenda, è altrettanto assurdo quanto sarebbe assurdo esigere che l’epoca del dominio del capitalismo non sia in contraddizione con l’epoca del dominio del socialismo, che il socialismo e il capitalismo non si escludano a vicenda.
I dogmatici e i talmudisti considerano il marxismo, le singole conclusioni e formule del marxismo, come una collezione di dogmi i quali non cambiano «mai», nonostante i cambiamenti nelle condizioni di sviluppo della società. Essi pensano che, se avranno imparato a memoria queste conclusioni e formule e cominceranno a citarle per diritto e per traverso, saranno capaci di risolvere qualsiasi problema, calcolando che le conclusioni e le formule imparate a memoria si adattino a tutte le epoche e a tutti i Paesi, a tutti i casi della vita. Ma in questo modo possono pensare solo coloro che vedono la lettera, ma non vedono la sostanza del marxismo, che imparano meccanicamente i testi delle conclusioni e delle formule del marxismo, ma non ne comprendono il contenuto.
Il marxismo è la scienza delle leggi di sviluppo della natura e della società, la scienza della rivoluzione delle masse oppresse e sfruttate, la scienza della vittoria del socialismo in tutti i Paesi, la scienza dell’edificazione della società comunista. Il marxismo, come scienza, non può restare immobile, ma si sviluppa e si perfeziona. Nel suo sviluppo il marxismo non può non arricchirsi di nuove esperienze, di nuove conoscenze, e pertanto le sue singole formule e conclusioni non possono non mutare nel corso del tempo, non possono non essere sostituite da nuove formule e conclusioni, corrispondenti ai nuovi compiti storici. Il marxismo non conosce conclusioni o formule immutabili obbligatorie per tutte le epoche e per tutti i periodi. Il marxismo è nemico di qualsiasi dogmatismo.

28 luglio 1950

Edited by Andrej Zdanov - 3/2/2014, 18:33
 
Web  Top
0 replies since 8/12/2012, 20:48   132 views
  Share