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Su una critica “hoxhaista” dello “zdanovismo”, Andrej Zdanov (utente)

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Alaricus Rex
view post Posted on 18/8/2012, 22:45 by: Alaricus Rex

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Su una critica “hoxhaista” dello “zdanovismo”

zdanov


Solitamente siamo abituati ad udire, contro Andrei Zdanov, i noiosi strali degli eroi della libertà borghese, i quali attaccano ciò che, a loro dire, sarebbe una delle massime espressioni del totalitarismo e del soffocamento della libertà culturale. Al contrario, quella che ebbi a leggere non molto tempo fa è una critica di tipo particolare, che, ponendosi da un punto di vista marxista-leninista, secondo le parole del suo autore, «lungi dall’essere una condanna perentoria e definitiva dello Zdanovismo, intende rivelarsi un utile contributo all’approfondimento di questo fenomeno». Malgrado questa rassicurazione, fin dalle prime righe dello scritto, traspare un tono molto affine a quello di una tale «condanna perentoria e definitiva». In effetti, ci viene detto che la teoria e la prassi zdanoviane provocarono «danni che si estendono dall’ambito prettamente artistico e culturale, sino alla politica estera». L’oggetto della critica non è, dunque, a differenza di quanto avviene solitamente, limitato ai risvolti culturali dello “zdanovismo”, che pure ne costituiscono l’aspetto principale; si tratta di una critica che bersaglia ogni aspetto dell’opera di Zdanov, atta a raffigurarla come «l’altra faccia della medaglia dell’anticomunismo». Donde proviene una condanna così tonante?

I.
Analizziamo, innanzi tutto, le opinioni dell’autore della critica in materia di politica culturale. Egli dipinge gli anni Venti, privi di qualsivoglia intervento di qualche rilevanza da parte del partito bolscevico, come una sorta di giardino dell’Eden, celebrando ditirambicamente soprattutto il futurismo:

«Nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, sino agli Anni Trenta [il corsivo è mio N.d.R.], l’arte e la cultura sovietica conobbero un successo e una diffusione inimmaginabile, varcarono i confini dello stato sovietico costituendo l’espressione universale della cultura dei proletari e dei contadini, oltre ad essere elogiate in patria, accettate dalle autorità sovietiche sia durante il governo di Lenin che quello di Stalin, e ancora oggi riscuotono ammirazione e compiacimento quando vengono rimembrate e menzionate dai progressisti di tutto il mondo, al punto che taluni quartieri operai sovietici formarono persino gruppi “comunisti-futuristi”».

A questa «età dell’oro della cultura, dell’arte e della poesia sovietiche», si contrappone tutto il periodo successivo, durante il quale il partito bolscevico mise in atto molteplici interventi nel campo della cultura e dell’arte. La critica addita nella prematura morte di Vladimir Majakovskij una sorta di segno premonitore, foriero del periodo oscuro che di lì a poco il paese avrebbe attraversato. Superando i canoni delle ordinarie interpretazioni borghesi, si giunge addirittura ad ipotizzare l’omicidio di Majakovskij. Il nostro autore complottisticamente si domanda: «chi mai avrebbe potuto nutrire interesse nell’eliminazione fisica del cantore ufficiale della Rivoluzione e del Proletariato?» Ovviamente, gli «scherani di Zdanov», gli risponderebbe il noto trotskista Antonio Moscato. Del resto, una simile insinuazione non è poi così distante dai pensieri del nostro autore, considerando che, circa quattro anni dopo la fine di Majakovskij, si verificò un «fatto maggiormente sconcertante»: il I Congresso degli scrittori sovietici, durante il quale, per opera di Gorki e Zdanov, il realismo socialista conobbe la sua formulazione definitiva; le Idi di marzo dell’arte proletaria, secondo la critica.
A dispetto di tutte le assicurazioni in contrario, una simile interpretazione è costellata di analogie con quelle degli ideologi del capitalismo, i quali, proprio come il nostro autore, dell’arte sovietica salvano solamente gli anni Venti, gli anni della Nep, quando le diverse correnti artistiche si sviluppavano “indipendentemente” dalla politica, la quale non soleva ingerirsi negli affari culturali. Gli anni successivi sono invece sottoposti ad una damnatio memoriae totale, sulla scorta delle deleterie incursioni del potere sovietico nel campo della cultura, in concomitanza con la vittoria dei piani quinquennali e con la compiuta edificazione del socialismo nel paese. Invero, la critica in esame non attacca apertamente l’intervento politico sull’arte e non è apparentemente questo il suo oggetto. Tuttavia, esaminando i documenti del partito bolscevico, emerge un quadro completamente differente da quello delineato nella critica.
Così, per esempio, nella risoluzione del Comitato Centrale Sulla politica del partito nella sfera della letteratura, votata il 18 giugno 1925, si legge: “L’egemonia degli scrittori proletari non c’è ancora, e il partito deve aiutare questi scrittori a guadagnarsi il diritto storico a questa egemonia”. Dunque, nel periodo di quella che il nostro autore definisce «l’espressione universale della cultura dei proletari e dei contadini», a detta del partito bolscevico, non esisteva ancora una egemonia culturale proletaria. Per ciò stesso, nella medesima risoluzione, il Comitato Centrale sosteneva che il partito “nel suo complesso non può affatto vincolarsi con l’adesione a una qualsiasi tendenza nel campo della forma letteraria”1. Certo, questo dev’essere un «fatto maggiormente sconcertante» per l’autore della critica. Ma andiamo avanti. Nella successiva risoluzione Sul riassetto delle organizzazioni letterarie ed artistiche, risalente al 23 aprile 1932, il CC così descrive la politica culturale degli anni precedenti:

“Alcuni anni fa, quando nella letteratura era ancora presente un notevole influsso di elemento estranei, rianimatisi soprattutto nei primi anni della NEP, mentre i quadri della letteratura proletaria erano ancora deboli, il partito in ogni modo aiutò la creazione e il consolidamento di particolari organizzazioni proletarie nel campo della letteratura e dell’arte, allo scopo di rafforzare le posizioni degli scrittori e degli artisti proletari.”

Non solo, durante l’«età dell’oro della cultura, dell’arte e della poesia sovietiche», il panorama culturale era ancora ammorbato di elementi estranei, ma, a detta del CC, nei primi anni Trenta, “i quadri della letteratura e dell’arte proletarie sono stati rinforzati e nuovi scrittori e attivisti sono emersi dalle fattorie e dai kolchozy”, tanto da rendere obsolete le vecchie associazioni letterarie (BOAPP, RAPP, RAMP, ecc.), di fronte a “questo momento di creazione artistica così importante”2. Ne consegue che, secondo l’autore della critica, il partito bolscevico, durante gli anni Venti, avrebbe detenuto l’egemonia culturale a propria insaputa e che l’avrebbe poi perduta negli anni Trenta, a dispetto di quanto attestano i documenti del CC.
Quale conclusione bisogna trarne? Evidentemente, il nostro autore ha un punto di vista radicalmente diverso e contrapposto a quello del potere sovietico nell’era staliniana. Ma non finisce qui: tanto più bizzarra si rivela essere la sua interpretazione della storia dell’arte sovietica, alla luce del legame con lo sviluppo della rivoluzione socialista, invocato dallo stesso autore. In altre parole, prestando fede allo schema interpretativo adottato dalla critica, risulterebbe che il fiore della cultura proletaria sia cresciuto rigogliosamente durante la Nep, in presenza di classi sociali reazionarie, per poi appassire in seguito alla vittoria del socialismo e alla liquidazione di queste classi. Ma l’autore della critica pensa che alla cultura autenticamente socialista degli anni Venti siano state artificialmente tarpate le ali, come si può facilmente dedurre dalla sua ipotesi sulla morte di Majakovskij, il quale, sotto questo rapporto, rientra a pieno titolo tra «le presunte vittime di un’altrettanta presunta “espressione culturale della dittatura stalinista”». Il suo accenno alla teoria «imposta» «da uno Zdanov che si erge spudoratamente a Partito», rappresenta il suggello del suo definitivo cedimento alla superstizione borghese inerente alla «politica zdanoviana... “oppressiva”».
Nonostante tutte le assicurazioni in contrario, l’autore «critica l’operato del compagno Stalin», in quanto questi, oltre a far parte del CC del partito e ad aver quindi avuto un ruolo di primaria importanza nell’elaborazione delle risoluzione citate, intervenne talvolta personalmente negli affari artistici. Per esempio, durante una riunione con gli scrittori a casa di Maksim Gorki, in data 26 ottobre 1932, Stalin pronunciò un breve ma significativo discorso, che merita d’esser riprodotto:

I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di quella dei carri armati […]. L’uomo è trasformato dalla vita e voi dovete aiutarlo nella trasformazione della sua anima […] per questo brindo a voi scrittori, perché siate ingegneri di anime.3

Il concetto staliniano degli scrittori come ingegneri di anime fu efficacemente citato e ulteriormente sviluppato da Andrei Zdanov nel 1934 e nel 1946. Inoltre, Stalin, in data 26 dicembre 1935, presenziò alla rappresentazione dell’opera di Šostakovič Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, successivamente stigmatizzata dal celebre articolo Caos anziché musica, pubblicato sulla Pravda nel gennaio dell’anno successivo, su indicazione del Comitato Centrale. Tale articolo venne poi citato da Zdanov nel suo discorso d’apertura alla Conferenza dei musicisti sovietici del gennaio-febbraio 1948. Durante questa Conferenza fu particolarmente criticata l’opera di Vano Muradeli La grande amicizia, alla cui rappresentazione il CC, inclusi Stalin e Zdanov, aveva assistito il 7 novembre 1947. Nell’aprile 1946, Stalin definì quelle di Leningrado come le peggiori riviste letterarie del paese4; nell’agosto dello stesso anno, esse furono il bersaglio della prima campagna ideologica zdanoviana. Analogamente, nel giugno 1947, Stalin incaricò Zdanov della critica del manuale di Storia della filosofia dell’Europa occidentale di Alexandrov.
Tutti questi fatti testimoniano un totale accordo tra Stalin e Zdanov su tutte le principali questioni della politica culturale sovietica. L’articolo di critica, oltre a porsi oggettivamente in contraddizione con il punto di vista di Stalin e di tutto il CC del partito bolscevico, ricalcando in pieno l’impostazione delle interpretazioni storiche borghesi, si rivela essere precisamente «una febbrile lagna sinistroide».

II.
L’autore della critica, oltre all’analisi dello sviluppo dell’arte sovietica, si diffonde in una critica estetica del realismo socialista, del quale, con ogni evidenza, ha un’opinione molto bassa. A suo dire, infatti, esso «potrebbe essere definito la “quinta colonna culturale” dell’arte e la filosofia mecenatistiche dei più riprovevoli ambienti monarchici dell’Europa del XVIII-XIX Secolo», ricolme di «meschine aspirazioni nazionalistiche grandi-russe» e, ovviamente, di «individualismo anti-proletario ultra-intellettualistico», ecc. ecc.
La chiave di volta dell’impianto accusatorio è la critica della «sovrapposizione di tendenze stilistiche appartenenti a sovrastrutture differenti dei rapporti sociali», messa in atto da Zdanov riconoscendo il valore dell’eredità classica in pittura e in musica. Il nostro autore non può assolutamente accettare che «le forme stilistiche maggiormente “illustri” (classificazione inesistente nella tradizione dialettica marxista) susseguitisi nella storia» siano utilizzate per forgiare la nuova cultura proletaria. Ponendosi dal suo punto di vista, dev’essere certamente stato un errore imperdonabile, da parte di Marx, l’essersi retoricamente chiesto: “Perché l’infanzia storica dell’umanità, laddove si è svolta nel modo più bello [cioè, nell’antica Grecia N.d.R.], non dovrebbe esercitare un eterno fascino, proprio come epoca destinata a non ritornar più?”5. Sulla scorta di questa chiara e limpida tesi del fondatore del socialismo scientifico, prendendo le distanze dal materialismo volgare di cui si fa sfoggio nella critica, Zdanov può affermare con sicurezza:

“Serov aveva profondamente ragione quando diceva: «Contro la vera bellezza in arte il tempo è impotente, altrimenti non si amerebbero più nè Omero, Dante o Shakespeare, nè Raffaello, Tiziano o Poussin, nè Palestrina, Haendel o Gluck».”6

La critica in esame si pone da un punto di vista radicalmente opposto: secondo l’autore, il sorgere della cultura proletaria dovrebbe rappresentare una netta rottura, un deciso cambiamento di binario rispetto alla cultura borghese. Nell’affermare ciò, egli si appoggia ad una tesi di Engels, a proposito... dell’energia. Difficilmente si potrebbe immaginare un riferimento meno opportuno, in quanto, come ogni marxista dovrebbe sapere, le leggi della dialettica materialistica, pur avendo un valore universale, si manifestano sempre in una forma particolare e determinata. Il nostro autore pare ignorare quest’ultimo postulato ed, anzi, paragona un fenomeno rientrante nel campo delle scienze positive, all’interazione tra struttura e sovrastruttura, di competenza del materialismo storico. Chiunque può comprendere l’assurdità di mettere sullo stesso piano una reazione chimica o fisica e il salto qualitativo dalla cultura borghese alla cultura proletaria.
Nella critica, la cultura borghese e quella proletaria appaiono unicamente opposte e non anche, come sono in realtà, compenetrate. Per l’autore, tra di esse non intercorre alcun legame. Eppure Lenin aveva acutamente sottolineato come la cultura proletaria fosse ben lungi dal rigettare le “conquiste più preziose dell’epoca borghese”, avendo, al contrario, “assimilato e rielaborato quanto vi era di più valido nello sviluppo più che bimillenario della cultura e del pensiero umani”. Secondo Lenin, soltanto “su questa base e in questa direzione”, è possibile la creazione di “una cultura effettivamente proletaria”7. Dal racconto di A.V. Lunaciarskij, apprendiamo inoltre quale fosse l’atteggiamento di Lenin nei confronti del Proletkult, movimento dalle idee affini a quelle del nostro autore:

“...Vladimir Ilic non negava affatto il significato dei circoli operai per l’educazione di scrittori e artisti d'origine proletaria, ma temeva molto che il Proletkult potesse slittare sul terreno della «scienza proletaria», della «cultura proletaria» in generale, che gli pareva innanzitutto un compito prematuro e insostenibile, e, in secondo luogo, pensava che le fantasie precoci potessero allontanare gli operai dallo studio, dalla scienza e dalla cultura esistenti;...”8

Anche negli anni Venti, così cari all’autore, il CC del partito bolscevico bollava come “pseudorivoluzione proletaria”9 le vedute simili alle sue.
La critica ci mette al corrente di una «palese influenza sciovinistica e nazionalista grande-russa» nelle opere del realismo socialista, principalmente addebitabile al riconoscimento, da parte zdanoviana, dell’importanza degli scrittori e dei critici democratici rivoluzionari russi del XIX secolo. Poco importa al nostro autore, se N.G. Cernyscevskij, descritto da Lenin come “il più grande e geniale interprete del socialismo prima di Marx”, fu incarcerato per ventisei anni dalle autorità zariste, a causa della sua attività rivoluzionaria. Ugualmente, egli tralascia l’autentica ragione del riconoscimento del valore suo e di altri intellettuali prerivoluzionari: il loro carattere di precursori della concezione marxista-leninista della cultura e dell’arte, che pure è chiaramente illustrato da Zdanov. Allo stesso modo, egli non è conoscenza del legame che i maestri della musica classica russa, a differenza delle proprie controparti occidentali, stabilirono con le masse popolari del loro paese, che costituisce la ragione profonda dell’apprezzamento zdanoviano. Nella critica, più in particolare, si tenta, per di più senza addurre esempi pratici, di mostrare i difetti degli artisti russi prerivoluzionari come se fossero stati meccanicamente incorporati nel realismo socialista, prodigandosi in una tanto lunga quanto inutile critica delle opere dei pittori russi del XIX secolo. Nel fare ciò, si ignora il persistente richiamo di Zdanov alla necessità di una rielaborazione critica dei vecchi modelli, e si fa sfoggio della propria completa misconoscenza della colossale opera di G.V. Plekhanov, semplicisticamente liquidato come «celebre rinnegato», il quale si adoperò in un’analisi critica dei democratici rivoluzionari e contribuì alla correzione dei loro errori10. Per concludere con questa questione, è opportuno riportare direttamente un brano dall’intervento di Zdanov alla Conferenza dei musicisti sovietici del gennaio 1948:

“Si sbagliano profondamente coloro che pensano che lo sbocciare della musica nazionale russa, come anche quella degli altri popoli sovietici, significa un indebolimento dell’internazionalismo nell’arte. L’internazionalismo non nasce sulla base di un indebolimento e di un impoverimento dell’arte nazionale. Al contrario, l’internazionalismo nasce là dove sboccia l’arte nazionale. Dimenticare questa verità significa perdere la linea direttiva, perdere l’obiettivo, divenire dei cosmopoliti senza legami. Può apprezzare la ricchezza musicale degli altri popoli solo quel popolo che possiede una cultura musicale molto sviluppata. Non si può essere un internazionalista in musica, come in tante altre cose, senza essere un autentico patriota. Se alla base dell’internazionalismo c’è il rispetto degli altri popoli, non si può essere un internazionalista senza rispettare e senza amare il proprio popolo.”11

Il rapporto dialettico che intercorre fra l’internazionalismo e il patriottismo, magistralmente delineato da Zdanov, è un tema ricorrente anche nelle opere di Lenin e di Stalin, nelle quali, per esempio, si mette in luce come la vittoria del socialismo in un solo paese agisca beneficamente sulla situazione internazionale della classe operaia. All’opposto, nella critica si rimane attaccati alla vecchia logica formale ed a una dialettica unicamente oppositiva e manichea, giungendo così a scorgere nell’enfatizzazione dell’eredità culturale di un popolo solamente delle «meschine aspirazioni nazionalistiche», senza nemmeno immaginarsi che tale evento possa rivestire un carattere internazionalista.
L’autore della critica ha, in generale, delle strane idee sul rapporto tra l’arte e le classi sociali. Egli, per esempio, rimprovera a Zdanov di avere «una concezione dell’arte che non tiene particolarmente conto della provenienza sociale dei suoi esponenti, nonché de loro passato professionale». Chissà che cosa avrebbe da dire, a quei comunisti che aderiscono alla dottrina elaborata dagli intellettuali borghesi Marx ed Engels... A guisa di conclusione, egli cita una frase di Trotskij, nel tentativo di assimilare le concezioni di Zdanov e Gorki a quelle di quest’ultimo. Negando implicitamente la validità della tesi di Trotskij (corretta, da un punto di vista marxista, e sostenuta anche da Lunaciarskij), rieccheggia la teoria di Bogdanov sull’identità di essere sociale e coscienza sociale, demolita da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo. Poco importa al nostro autore, se L. Trotskij e A. Breton scrissero, nel 1938, il loro manifesto Per un’arte rivoluzionaria e indipendente precisamente in polemica con lo “zdanovismo”, a cui si rimproverava il “peggiore convenzionalismo”12, in perfetto accordo con le concezioni esposte nell’articolo in esame. Ma non è tutto: spiegando l’analogia tra il passo di Trotskij e la concezione zdanoviana, l’autore parla di «testimonianza del ruolo di “quinta colonna culturale” rivestito dallo Zdanovismo», arrivando così ad un completo controsenso, in flagrante contraddizione con la storia del sabotaggio trotskista contro l'URSS. Riportiamo alcuni documenti dei processi di Mosca:

Massimo Gorki è molto vicino à Stalin. Egli ha una grandissima funzione nella conquista dei sentimenti di simpatia per l’U.R.S.S. nell’opinione pubblica democratica mondiale, e soprattutto in Europa Occidentale. Gorki è molto popolare come amico intimo di Stalin e perchè applica la linea generale del partito. I nostri partigiani di ieri, fra gli intellettuali, si allontanano da noi in gran parte per l’influenza di Gorki. In queste condizioni, io concludo che Gorki deve essere soppresso. Trasmettete da parte mia questa missione a Piatakov nella forma più categorica: «Sopprimete Gorki fisicamente, a qualsiasi costo».
(Direttive date da Trotski a Bessonov, in un colloquio avuto a Parigi nel 1934).

“...il 1° maggio 1936 lo stesso Nathan Lurié, su direttiva di Mosè Lurié, e in seguito a un precedente accordo con questi, ha tentato di compiere un attentato contro il compagno Zdanov durante la manifestazione del 1° maggio a Leningrado.”13

Quest’ultimo attentato fallì a causa dell’eccessiva lontananza della colonna di N. Lurié dalla posizione di Zdanov, che rese impossibile prendere la mira e sparare contro il dirigente di Leningrado. La soppressione di Maksim Gorki ebbe invece successo, e fu perpetrata dai medici Levin e Pletnev, su indicazione di Jagoda. Alla luce di questi fatti, perché mai Trotskij avrebbe dovuto desiderare la morte di coloro che vengono raffigurati come suoi spalleggiatori, almeno “teorici”? Trotskij avrebbe tentato, con parziale successo, di eliminare dei suoi complici: ecco a quale assurdo è giunto il nostro autore, assurdo che, d’altronde, non si differenzia molto dalle insinuazioni borghesi e trotskiste, che vedono in Stalin il responsabile della morte di Zdanov e Gorki.
Come finora si è visto, giungere a simili bizzarre conclusioni è un modo di fare molto caratteristico dell’autore della critica, il quale, di volta in volta, illumina solo singoli lati ed aspetti delle varie questioni storiche e teoriche, lasciandosi così sfuggire il nesso profondo di ciò che esamina. Tuttavia, ciò non toglie ch’egli possa inebriarsi dei propri risultati, come la sua recentissima scoperta secondo cui i trotskisti, fra tutti i bersagli disponibili, avrebbero colpito proprio dei loro seguaci così ben infiltrati come Zdanov e Gorki, oppure ch’egli possa compiacersi d’esser riuscito ad ideare tautologiche insalate di parole, come il famigerato «caratteristico conciliazionismo unitario inter-sovrastrutturale simil-nazionalistico zdanoviano» et similia.

III.
In luogo di concludere, occorre fare un ultimo accenno all’«individualismo anti-proletario ultra-intellettualistico». L’accusa d’individualismo apparirà scevra d’ogni senso a qualunque conoscitore, sia pure superficiale, dell’opera zdanoviana. Ciò in quanto Zdanov, specialmente nel suo Rapporto sulle riviste «Zviezdà» e «Leningrad», sottopose l’individualismo delle correnti artistiche e letterarie decadenti ad una critica demolitrice. Nel tesoro delle creazioni del realismo socialista in letteratura, non solo sono visibili opere dedicate soprattutto ed in primo luogo alle gesta collettive dei popoli sovietici, come, ad esempio, i libri di Makarenko, ma s’incontrano perfino dei libri collettivi, scritti dalla penna di più autori, come il celebre Belomor, dedicato alla costruzione del Canale Stalin, tra il Mar Bianco e il Mar Baltico. Nella prefazione al libro, così scrive Gorki dell’opera dei suoi trentaquattro autori: “Si sono aiutati uno con l’altro, e l’uno ha corretto il seguente […]. Ma i veri autori dell’intero libro sono i lavoratori che hanno collaborato alla costruzione dello storico canale Mar Bianco-Mar Baltico, dedicato a Stalin”14. Tutt’altro che sporadiche sono le canzoni dedicate alla grande guerra patria del popolo sovietico, oggetto anche di numerosi dipinti, e a tante altre imprese collettive degli operai e dei contadini dell’URSS. Questi ed una messe alquanto copiosa d’altri fatti dimostrano l’inconsistenza dell’accusa di individualismo.
Quanto all’intellettualismo, bisogna notare che quest’accusa è qualche cosa di completamente nuovo e mai visto, in quanto una delle particolarità caratteristiche di Zdanov fu l’esatto opposto dell’intellettualismo. Nei suoi discorsi sull’arte si scorge nitidamente la lotta contro la tendenza degli intellettuali ad isolarsi dai consumatori di cultura. Zdanov chiedeva agli scrittori di prestare attenzione alla vita, quotidiana ma eroica, del popolo sovietico, prima e dopo la grande guerra patria; chiedeva ai musicisti di comporre melodie orecchiabili e comprensibili per la popolazione, evitando di perdersi nell’inseguimento delle tendenze “di moda” della musica borghese. Anche sul fronte della filosofia, Zdanov vibrò notevoli colpi al distacco di Alexandrov dalla massa dei filosofici sovietici, al pericolo dell’accademismo e della fossilizzazione della filosofia. Zdanov disse:

“Con l’apparizione del marxismo, quale concezione scientifica del mondo propria del proletariato, finisce il vecchio periodo della storia della filosofia, il periodo in cui la filosofia era occupazione di singoli, patrimonio di scuole filosofiche composte da un piccolo numero di filosofi e dai loro discepoli, chiusi in se stessi, staccati dalla vita, dal popolo, estranei al popolo.
Il marxismo non è una scuola filosofica di questo genere. Al contrario, è il superamento della vecchia filosofia che era patrimonio di pochi eletti, dell’aristocrazia dello spirito, e segna l’inizio di un periodo completamente nuovo nella storia della filosofia, in cui questa diviene un’arme scientifica nelle mani delle masse proletarie, che lottano per la loro liberazione dal capitalismo.”15

Intendendo il marxismo come filosofia di massa, Zdanov difese gli sforzi atti rendere sempre più solida la penetrazione della filosofia marxista nelle file del popolo sovietico, sostenendo la necessità di pubblicare articoli di filosofia sulle principali riviste del paese, favorendo la diffusione delle opere filosofiche e chiamando i ranghi degli intellettuali sovietici a partecipare attivamente alla lotta ideologica contro i residui del passato nella mentalità popolare.
Emilio Sereni, nel suo necrologio per Zdanov, addita una funzione particolare della diffusione dell’opera zdanoviana in Italia, proprio nella lotta contro la “maledizione della divisione tra teoria e pratica, tra libro e lavoro, tra cultura e vita” e contro “le tracce di un praticismo limitato e di una attività teorica e culturale distaccata dai compiti concreti di lotta delle masse lavoratrici”. Questo tratto caratteristico dell’opera zdanoviana non è inerente solo alla attività teorica, ma compenetra tutta la vita di Zdanov, al quale il ruolo di “ideologo” del partito non impedì affatto di dirigere la rivoluzione bolscevica a Sciadrinsk, di essere in prima linea nella lotta per la vittoria del socialismo e contro i trotskisti e i bukhariniani, non gl’impedì di difendere Leningrado dall’assedio nazista. Dimitrij Sepilov, che conobbe personalmente Zdanov e vi lavorò assieme nei suoi ultimi anni, nelle sue memorie16, narrò di come Zdanov rifiutasse categoricamente di sottrarsi al lavoro, la cui gravezza lo rendeva perennemente pallido e stanco, incurante dei sempre più gravi problemi di salute che lo affliggevano.

Questa unità nella vita e nell’opera di Zdanov — scrive Sereni — non è d’altronde un prodotto casuale delle doti eccezionali di un dirigente bolscevico: è un’unità che nasce e si afferma dal contatto, dal legame indissolubile con le masse innumeri degli uomini semplici, dell’umanità lavoratrice. Da questo legame indissolubile nasceva quella fiducia incrollabile, che dava forza alla direzione di Zdanov quando egli, fra gli orrori della prima guerra imperialistica, organizzava nell’esercito zarista i primi nuclei bolscevichi. Zdanov aveva fiducia negli uomini del suo popolo, nelle masse lavoratrici del mondo intiero, anche quando l’umanità era ridotta, secondo l’espressione di Lenin, a un ammasso sanguinolento di carni maciullate e di fango, nelle trincee della Galizia e di Verdun. Aveva fiducia nelle masse, quando le orde hitleriane erano alle porte di Leningrado, come l’aveva avuta negli anni più duri della costruzione socialista, una fiducia non passivamente ottimistica, ma attiva e organizzatrice di quelle energie inesauribili, che solo il popolo, la classe d’avanguardia sanno sviluppare. E quando si è trovato a lottare sul fronte ideologico e culturale, quando ha recato un apporto nuovo allo sviluppo della dottrina filosofica del marxismo-leninismo, è ancora una volta da questo contatto, da questa fiducia nelle masse che egli ha tratto la sua geniale capacità di additare l’assoluta novità del marxismo come filosofia di massa, che spezza la tradizione della filosofia dei filosofi; la sua capacità di additare nella critica e nell’autocritica la forma di sviluppo dialettico della società socialista nel periodo storico del passaggio al comunismo.
In questa incrollabile, attiva, staliniana fiducia nelle masse dell’umanità lavoratrice, è la scaturigine profonda della forza dei bolscevichi, della capacità di un dirigente bolscevico quale è stato Andrei Zdanov di inserirsi nel processo storico dell’umanità.
17

In ogni fase della sua vita e della sua lotta, Zdanov prestò sempre costante attenzione all’indissolubile legame che intercorre fra teoria e prassi. Ogni sua relazione sui problemi ideologici tratta tanto delle questioni pratiche particolari, quanto dei problemi teorici più generali. Nella sua orazione al funerale di Zdanov, il 2 settembre 1948, sulla Piazza Rossa, Molotov disse:

“Zdanov ha fornito l’esempio del dirigente bolscevico che sa legare la partecipazione quotidiana alla costruzione del socialismo con l’indagine profonda sui problemi teorici del marxismo. Quale propagandista di grande talento delle idee di Lenin e di Stalin egli ha dato un grande contributo alla loro giusta comprensione per i nostri popoli e per quelli degli altri paesi.”18

Ma che cosa importa di tutto ciò al nostro autore? A lui basta che la corrente del realismo socialista venga «imposta» (in pieno accordo con il popolo sovietico e il suo partito, come abbiamo precedentemente illustrato) da «uno» Zdanov, per tacciare questo di un preteso intellettualismo e per farsi banditore di talune “tendenze arretrate, sostanzialmente antimarxiste e antileniniste, nei confronti dei nuovi intellettuali sovietici”18, e forse anche per mimetizzarsi più efficacemente e nascondere le proprie castronerie teoriche — l’identità di essere sociale e coscienza sociale, la logica formale applicata ai rapporti fra cultura borghese e cultura proletaria e tra patriottismo e internazionalismo, il meccanicismo insito nell’uso che egli fa della citazione di Engels, ecc. ecc. —, a fronte delle quali, se fosse ancora in vita, «uno» Zdanov sarebbe probabilmente scoppiato in una lunga e divertita risata.

IV.
Dopo aver preso di mira la politica culturale zdanoviana, le armi della critica vengono puntate in direzione del discorso di Zdanov sulla filosofia, pronunciato il 24 giugno 1947. Da questo lungo ed interessante intervento, viene estrapolata un’unica citazione, al fine di smascherare Zdanov come «“portavoce occulto”» delle tendenze burocratiche. Ecco la frase incriminata:

“Nella nostra società sovietica, in cui sono state liquidate le classi antagonistiche, la lotta fra il vecchio ed il nuovo, e, di conseguenza, lo sviluppo dall’inferiore al superiore, non avviene nella forma di una lotta di classi antagoniste, di cataclismi, come succede nel capitalismo, ma bensì nella forma della critica ed autocritica, che sono l’autentica forza motrice del nostro sviluppo, un potente strumento nelle mani del partito.”

Questo passaggio dell’intervento di Zdanov fu criticato19, a suo tempo, anche da Raya Dunayevskaya, nota esponente del trotskismo, la quale vi aveva scorto una negazione della dialettica, tralasciando le affermazioni immediatamente precedenti di Zdanov, che avrebbero confutato in anticipo la sua asserzione. Ma la critica attualmente in esame è di diverso tenore; essa verte sulla concezione zdanoviana della critica ed autocritica.

«...Zdanov — scrive l’autore — pur ammettendo apparentemente la necessità dell’autocritica per il consolidamento del Partito nel solco dell’efficienza, limita tale necessità soltanto al singolo contesto temporale del dopoguerra sovietico, alle immediate vicissitudini di carattere pratico del dopoguerra sovietico, senza prospettare un ulteriore aspetto dell’autocritica che invece è tralasciato, ovvero quello attinente alla sua connotazione prevalentemente preventiva...».

Dove egli abbia intravisto questa «astuta distorsione pressoché impercettibile del concetto di autocritica», resta un mistero, in quanto non v’è alcun accenno ad una pretesa limitazione dell’autocritica all’immediato dopoguerra, nel discorso di Zdanov. Per riuscire a distinguere nitidamente ciò che, come egli stesso dice, è «pressoché impercettibile», il nostro autore, nella sua «attenta analisi», ha taciuto a bella posta dell’intervento alla sessione plenaria del CC del febbraio-marzo 1937, in cui Zdanov metteva in guardia i compagni proprio a proposito della burocrazia che lo si accusa di sottovalutare:

“dobbiamo superare il pericoloso preconcetto, nutrito da alcuni quadri di partito e dei soviet, che possiamo conquistare facilmente la fiducia del popolo e dormire sonni tranquilli, in attesa ci vengano offerti incarichi a casa loro tra applausi scroscianti, per i servizi resi in precedenza. Con lo scrutinio segreto non sarà possibile dare per scontata la fiducia del popolo... Molti quadri di partito e dei soviet, pensano che il loro compito sia finito quando vengono eletti nei soviet. Questo è testimoniato dal gran numero di quadri che non partecipano alle sedute dei soviet, che non adempiono alle funzioni di base... molti dei nostri quadri nei soviet tendono ad acquisire caratteristiche burocratiche e hanno molti punti deboli nel loro lavoro; sono pronti a rispondere per il loro lavoro 10 volte davanti all’ambiente “familiare” del partito, piuttosto che presentarsi a una seduta del plenum sovietico ed esporsi a una critica o autocritica. Credo ne siate a conoscenza come lo sono io.”20

Esula dalla «attenta analisi» del nostro autore anche il rapporto di Zdanov al XVIII Congresso del partito bolscevico, inerente alle Modifiche allo statuto del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S., nel quale è menzionata una lunga serie di arbitri burocratici e vengono proposti i mezzi per combatterli. In particolare, Zdanov si prodigò a favore della formulazione statutaria del “diritto degli iscritti al partito di criticare, nelle assemblee di partito, qualsiasi funzionario del partito”, senza temere ritorsioni. Disse ancora Zdanov:

“Lenin e Stalin hanno ripetutamente rilevato che il burocrate con la tessera del partito è il peggior tipo di burocrate e il più pericoloso, perchè, possedendo la tessera del partito, immagina di poter passar sopra alle leggi di partito e sovietiche, ai bisogni e agli interessi dei lavoratori.
Il rafforzamento statutario dei diritti degli iscritti al partito mette nelle mani del partito l'arme più potente per lottare contro l’orgoglio, l’alterigia e la presunzione burocratica, per migliorare i legami dei dirigenti con i militanti e, per conseguenza, per migliorare tutto il lavoro di partito e statale.”21

Fu inoltre il famoso telegramma di Stalin e Zdanov del 25 settembre 1936 a dare inizio alle epurazioni contro gli agenti trotskisti ed i burocrati, alla realizzazione delle quali Zdanov concorse personalmente presso Leningrado e Orenburg. Nel 1939, egli fornì un quadro critico ed autocritico delle epurazioni, nel succitato rapporto al XVIII Congresso del partito. Tutti questi e molti altri fatti si verificarono prima della grande guerra patria, prima delle «immediate vicissitudini di carattere pratico del dopoguerra sovietico». Nel dopoguerra, come anche il nostro autore facilmente rammenterà, Zdanov proseguì la sua battaglia contro le tendenze burocratiche nei vari settori del fronte ideologico. Superfluo appare citare dai suoi interventi in quegli anni.
Come per quanto concerne la politica culturale, anche qui si critica sottobanco Stalin, il quale si interessò personalmente alla questione del manuale di Alexandrov criticato da Zdanov e, per conseguenza, anche al discorso di quest’ultimo, verso il quale non formulò alcuna critica.
Per concludere con questa questione, sarà ora mostrato il consueto assurdo storico a cui suole giungere il nostro autore. Nel mostrare come, a suo dire, Zdanov facesse l’apologia della «linea generale della burocrazia carrierista del dopoguerra sovietico», all’autore della critica deve risultare assolutamente incomprensibile perché questa stessa burocrazia spalleggiò l’assassinio di Zdanov, compiuto da membri dell’organizzazione sionista Joint. All’inizio del 1953, annunciando la scoperta del complotto dei medici, la stampa sovietica così scriveva, tra l’altro:

“I criminali hanno confessato che, approfittando della malattia del compagno A. A. Zhdanov, essi ne diedero una diagnosi sbagliata e, nascondendo l’affezione al miocardio di cui egli soffriva, gli prescrissero un regime assolutamente contrario a quella grave malattia, e che abbreviarono la vita del compagno A. S. Scerbakov, prescrivendogli un regime nocivo che ne provocò la morte.”22

Dopo la morte di Stalin, il caso fu improvvisamente messo a tacere, mentre un Commissione designata da Beria scagionava gli assassini, forse con l’intento di nascondere la propria complicità. Krusciov, al XX Congresso del partito, etichettò la scoperta del complotto come una macchinazione addebitabile alla “paranoia staliniana”.
In accordo con l’autore, i futuri kruscioviani avrebbero favorito l’uccisione di una «pecora nera tinta di bianco», così profondamente infiltrata e nascosta, pronta a foraggiare le loro ambizioni, quale viene raffigurato Zdanov. Ecco a quali conclusioni è condotto l’autore dalla propria «attenta analisi». Se le critiche di Zdanov erano orientate al «consolidamento del Partito nel solco dell’efficienza», quelle dell’autore appaiono maldestramente mirate alla disinformazione del pubblico, nel solco della propria ignoranza.

V.
Sperando di non incappare nelle medesime enormità riscontrate nei precedenti paragrafi dell’articolo, mi accingo ora ad esaminarne l’ultima parte, dedicata al celebre rapporto di Zdanov al Kominform.
Tali speranze vengono immediatamente infrante da una immediata e perentoria sentenza dell’autore sulle motivazioni addotte da Stalin nella sua lettera Sullo scioglimento dell’Internazionale Comunista (28 maggio 1943)23: «l’esempio del più meschino condizionamento e di soggezione alla borghesia imperialista, atteggiamento deleterio in quanto forma primordiale dell’accondiscendenza revisionista nei confronti dell’imperialismo e dei suoi ricatti», così egli giudica le ragioni staliniane dello scioglimento dell’Internazionale Comunista, ripetute da Zdanov nel suo rapporto al Kominform. Anche qui, come a proposito della politica culturale, il nostro autore, di fatto, «critica l’operato del compagno Stalin», pur astenendosi dall’asserirlo apertamente e preferendo fingere di criticare solamente Zdanov.
In realtà, l’interpretazione che viene data delle parole di Zdanov e di Stalin, è alquanto distorta. Si mette infatti in bocca a Zdanov «uno spregiudicato timore delle reazioni della borghesia» e delle sue calunnie a proposito del controllo sovietico sui partiti comunisti stranieri, quando è invece proprio Zdanov a criticare le esagerazioni a cui tale timore condusse alcuni:

“Si è in presenza di un quadro abbastanza strano: i socialisti, i quali si sono fatti in quattro per dimostrare che l’Internazionale Comunista avrebbe imposto le direttive di Mosca ai comunisti di tutti i paesi, hanno ricostituito la loro Internazionale, mentre i comunisti si astengono perfino dall’incontrarsi tra loro e, ancor più, dal consultarsi sulle questioni che li interessano reciprocamente, per timore della calunnia dei nemici circa la «mano di Mosca».”24

Non più fondata è la proditoria asserzione secondo cui Zdanov avrebbe ridotto la funzione dell’Internazionale Comunista «al consolidamento dei partiti comunisti dell’Europa Orientale (in pratica quelli delle cosiddette [!] democrazie popolari) e, in tal modo, esclude conseguentemente, seppur in maniera implicita, l’eventualità di una futura degenerazione revisionista dei suddetti partiti». Con tutta evidenza, questa non è un’interpretazione, ma una parodia d’interpretazione.
Innanzi tutto, il nostro autore «mistifica e stravolge completamente» le parole di Zdanov, il quale si limita a constatare l’accresciuta influenza dei partiti comunisti — sviluppatasi, per di più, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Internazionale Comunista —, ben lungi dal restringere la funzione dell’Internazionale Comunista a ciò soltanto.
Occorre inoltre rilevare che la «la motivazione inerente il [questo «inerente il» è veramente una perla! N.d.R.] mutamento delle condizioni storiche» va ben oltre quello che l’autore della critica s’immagina. Il ruolo dell’I.C. fu fondamentale per il consolidamento dei partiti comunisti, soprattutto nei primi anni della loro esistenza, quando essi “erano ancora deboli, quando il legame tra la classe operaia dei diversi paesi mancava quasi completamente e i partiti comunisti non avevano ancora dei dirigenti del movimento operaio universalmente riconosciuti”25.
Tuttavia, in seguito al consolidamento di questi partiti, alla crescente diversificazione dei quadri d’azione nazionali, all’accresciuta velocità dei mutamenti nella situazione dei vari paesi, all’acutizzazione delle contraddizioni interne ed esterne, una direzione centralizzata come quella dell’I.C. aveva sempre maggiori difficoltà nel coordinare le proprie sezioni e nello stabilire una linea d’azione fondata sull’analisi concreta della situazione concreta dei singoli paesi. Queste difficoltà si sarebbero trasformate in veri e propri fattori penalizzanti, qualora la linea dell’I.C. fosse stata interpretata dogmaticamente. Ma gli stessi dirigenti dell’I.C. evitarono di prendere simili abbagli; così, per esempio, nel 1932, quando ancora la linea generale dell’I.C. era quella del terzo periodo, Giorgio Dimitrov propose ai socialdemocratici tedeschi la creazione di un fronte comune contro gli hitleriani; i socialdemocratici rifiutarono, favorendo così l’ascesa del nazismo. A seguito di simili fatti, l’I.C. allentò progressivamente la centralizzazione delle sue decisioni. Tuttavia, la forma di organizzazione diveniva sempre più inadeguata, specie nelle condizioni delle repentine svolte nella politica internazionale del 1939-1941. Cogliendo appieno l’importanza del problema, il 27 febbraio 1941, Zdanov disse: “Noi ci siamo smarriti sulla questione nazionale. Non abbiamo rivolto sufficiente attenzione agli aspetti nazionali”. Con queste parole, egli sottolineava la precedentemente illustrata inadeguatezza della direzione centralizzata dell’I.C. rispetto alle nuove condizioni storiche; anticipando uno dei motivi fondamentali della linea generale del futuro Kominform, aggiunse che occorreva “combinare l’internazionalismo proletario con i sani sentimenti nazionali di ogni determinato popolo e preparare i nostri nazionalisti”. Analoghi punti di vista furono espressi da Stalin nell’aprile dello stesso anno26. L’enfatizzazione del patriottismo consentì ai partiti comunisti una crescita senza precedenti e pose le basi per la formazione del campo socialista nel dopoguerra.
Tuttavia, l’assenza di un organismo internazionale di controllo provocò anche dei danni, resi particolarmente evidenti dall’emergere del revisionismo di Browder negli Stati Uniti. Proprio per porre rimedio a questi effetti collaterali, Zdanov affermò con forza la necessità di creare una nuova organizzazione internazionale, quale fu, per l’appunto, il Kominform; viene così a cadere anche la supposizione secondo cui Zdanov abbia implicitamente escluso la possibilità di una degenerazione revisionista dei partiti comunisti. Invero, egli criticò pesantemente le tendenze parlamentariste del PCI e del PCF e stigmatizzò severamente la linea togliattiana: “Voi siete più parlamentari degli stessi parlamentari.”, disse, rivolgendosi a Luigi Longo. Zdanov concluse la sua requisitoria sugli errori dei due partiti dicendo: “Quando si parla degli errori tattici del Partito Comunista Francese e di quello italiano non si tratta di piccole deficienze, della necessità di piccole correzioni, ma intendiamo accennare alla necessità di un deciso cambiamento della strategia e della tattica, di un radicale cambiamento di rotta rispetto al passato”27. Zdanov fu infine tra i principali responsabili dell’elaborazione della Risoluzione del Kominform contro il titoismo e contro la degenerazione del Partito Comunista Jugoslavo. Tutti questi fatti stanno a testimoniare la lotta di Zdanov contro il pericolo della degenerazione revisionista, pericolo del quale egli era ben conscio.
Il nostro autore ha infine scoperto un’altra colossale cantonata, un «ennesimo tranello» nella «organizzazione militare desiderata da Zdanov», che, a suo dire, avrebbe anticipato il socialimperialismo sovietico. Dove egli abbia visto un riferimento a tale «organizzazione militare», non è dato sapere. Ad aver provocato la sua ira, dev’esser stato l’appoggio reciproco dei paesi di nuova democrazia, dell’URSS, dei Partiti Comunisti e Operai e del movimento per la pace, preconizzato da Zdanov. A meno che, al pari dei seguaci di Berlusconi, il nostro autore non consideri il Movimento dei Partigiani della Pace come una quinta colonna militare, dalla cui riserva attingere in caso di guerra, qui non si vede traccia di un’organizzazione militare. Il Kominform si trattava infatti di un’organizzazione prettamente politica, la cui differenza con l’I.C. — ignorata dall’autore della critica — è già stata precedentemente spiegata.
Ovviamente, anche qui, non poteva mancare il solito assurdo storico, a cui siamo già preparati, visti i precedenti. L’autore vede nel Kominform zdanoviano un precursore del krusciovismo, senza prestare attenzione a significativi fatti come la cessazione della pubblicazione di Per una pace stabile, per una democrazia popolare!, organo del Kominform, pochi mesi dopo la morte di Stalin. Inoltre, è assai significativo che il Kominform sia stato liquidato proprio pochi mesi dopo la deleteria svolta del XX Congresso del PCUS, in modo da evitare una discussione internazionale della “nuova linea” kruscioviana, gradualmente importata nelle democrazie popolari attraverso l’arme dell’intrigo e delle macchinazioni contro i gruppi dirigenti fedeli al marxismo-leninismo.
Da ultimo, come in tutte le altre questioni, il nostro autore, di fatto, «critica l’operato del compagno Stalin», in quanto questi si tenne quotidianamente in contatto telefonico con Zdanov, durante la I Conferenza del Kominform ed approvò la sua relazione su La situazione internazionale, non avendo mosso critica alcuna ad un documento così importante.
L’unica circostanza per la quale il lettore critico potrà tirare un sospiro di sollievo, è che qui, diversamente che nel primo paragrafo del suo articolo, l’autore critica Zdanov principalmente per travisamento delle sue dichiarazioni o, come nel caso della lotta antiburocratica, per ignoranza della sua attività e di talune sue opere. Al contrario, a proposito della politica culturale, l’autore si fa trascinare dalla propria fanciullesca infautazione per il futurismo e giunge a trovarsi, forse inconsapevolmente, in contraddizione con tutto il pensiero marxista-leninista a proposito della storia dell’arte sovietica. Uno dei motivi di siffatto attaccamento al futurismo è, senza dubbio, l’importanza attribuita all’esaltazione dei trionfi della tecnica. Anche nel realismo socialista questo è un tema molto ricorrente, soprattutto nel caso delle opere d’ingegneria idraulica nell’URSS, descritte, per esempio nel già citato libro collettivo Belomor e ne Il Volga si getta nel Caspio di Boris Pil’njak, racconti che il nostro autore lascia volentieri soggiacere negli abissi profondi, al peso della propria condanna, accanto a film come Il giuramento, La caduta di Berlino, L’indimenticabile 1919 e a tutte le altre «opere la natura dei cui soggetti risulta contraddittoria persino con le intenzioni apparentemente [sic!] intransigenti di Zdanov in merito al carattere di classe dell’arte»
Anche sul fronte della teoria, la situazione è la stessa. Nel suo articolo A lavoro!, così scrive V. Kirpotin, capo del Dipartimento Letterario del Comitato Centrale:

“La veridicità nella raffigurazione della rivoluzione: ecco l’esigenza che noi abbiamo il diritto di porre a tutti gli scrittori sovietici, senza eccezione. Lo scrittore, nei suoi lavori, ha bisogno di ritrarre un quadro veridico e realistico del processo rivoluzionario nella società, le sue fatiche e le sue vittorie nella società, e la realizzazione in atto di tale formazione sociale nella quale non vi sarà più sfruttamento tra uomo e uomo. La verità è una minaccia per i nostri nemici [e, lapallissianamente, anche per l’autore della critica N.d.R.]. Una disamina veridica della nostra realtà e la sua fedele riflessione nei suoi lavori artistici è la via migliore per intendere la giusta causa e la forza della classe lavoratrice, e per creare opere d’arte di cui il popolo ha bisogno per edificare il socialismo e lottare per la vittoria della rivoluzione socialista nel mondo intero. Le masse chiedono agli scrittori – sincerità e verità sul processo rivoluzionario di realismo socialista nella raffigurazione della rivoluzione proletaria.”

In una delle prime teorizzazioni del realismo socialista, nella quale si affermava la necessità di rappresentare “la realtà complessiva alla luce della lotta per il socialismo”, osservata attraverso il prisma di una “mentalità proletaria di partito”, Kirpotin aveva altresì inneggiato, nelle righe precedenti, al progresso tecnologico, paragonando ogni grande opera pubblica dello Stato sovietico ad “un nuovo capitolo della storia”28. Disgraziatamente, l’articolo Per una critica dello Zdanovismo, or ora esaminato, non può invece dirsi un nuovo capitolo della storia del marxismo-leninismo, mancando di tutti i requisiti necessari. Certo è che, per la gioia dell’autore, esso si è rivelato essere «un utile contributo» alla diffusione della disinformazione borghese sul tema dello “zdanovismo”, potenzialmente in grado, in contrasto con la teoria perfettamente chiara e limpida delineata negli scritti di Zdanov, di ricacciare i propri lettori tra le nebbie della più fitta oscurità, in quella medesima confusione alla quale perviene il nostro autore immaginando «uno Stato Socialista che sia contemporaneamente Repubblica borghese, monarchia costituzionale ottocentesca di carattere imperiale, monarchia assoluta medievale e aggregazione tribalistica».

(Un allievo di) Andrej Zdanov


Note:
1 Pravda, 1° luglio 1925.
2 Risoluzione del CC del PCUS (b) – 23 aprile 1932.
3 Citato in Frank Westerman, Ingegneri di anime.
4 Cfr. Maria Zalambani, Censura, istituzioni e politica letteraria in URSS (1964-1985), p. 88.
5 K. Marx, Introduzione ai «Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica».
6 A. Zdanov, Sulla musica, in Arte e socialismo.
7 V.I. Lenin, Sulla cultura proletaria, in Opere scelte in sei volumi, vol. VI, pp. 187-188.
8 A. Lunaciarski, Lenin e l’arte.
9 Pravda, cit.
10 Cfr. G.V. Plekhanov, Scritti di estetica, edizioni La nuova sinistra Samonà e Savelli, 1972.
11 A. Zdanov, Op. cit.
12 L. Trotskij e A. Breton, Per un’arte rivoluzionaria e indipendente, 25 luglio 1938.
13 Dalla Sentenza del Processo al Centro Trotzkista-Zinovievista davanti al Tribunale Militare della Corte Suprema dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
14 M. Gorki e altri, Belomor.
15 A. Zdanov, Intervento nella discussione sulla storia della filosofia dell’Europa occidentale di G. F. Alexandrov, in Politica e ideologia.
16 Cfr. Dmitrij Shepilov, The Kremlin’s Scholar: A Memoir of Soviet Politics Under Stalin and Khrushchev, p. 91.
17 E. Sereni, Andrea Zdanov, modello di combattente per il trionfo del comunismo, in Rinascita, V (1948), 9-10, pp. 333-34.
18 Citato in A. Zdanov, Arte e socialismo.
19 Cfr. Raya Dunayevskaya, Stalinists Falsify Marxism Anew, in Fourth International, vol. 9, n.7, settembre 1948, pp. 204-209.
20 A. Zdanov, Organizational Problems of the Communist Party, p. 9.
21 A. Zdanov, Modifiche allo statuto del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S., in Politica e ideologia.
22 Tass, 13 gennaio 1953.
23 In G. Stalin, Discorsi di guerra (1941-1944), Napoli, Gaetano Macchiaroli Editore, 1944.
24 A. Zdanov, La situazione internazionale, in Politica e ideologia.
25 A. Zdanov, Op. cit.
26 Citato in G. Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), a cura di S. Pons, Einaudi, Torino, 2002, p. 278.
27 Citato in G. Procacci (a cura di), The COMINFORM. Minutes of three conference 1947/1948/1949, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli “, XXX (1994), Feltrinelli, Milano, 1994, pp. 253-350.
28 Literaturnaja gazeta, 29 maggio 1932.


Edited by Andrej Zdanov - 18/11/2012, 12:06
 
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